In carcere si coltiva il cambiamento, servono più occasioni di lavoro per i detenuti di Alfonso Bonafede* facebook.com, 16 novembre 2018 Il detenuto è una persona che ha sbagliato, che ha commesso errori ma che merita una seconda opportunità. Ed è lo Stato a dovergli garantire questa seconda opportunità, prendendolo per mano, stimolandolo, e creando le condizioni per metterlo di fronte a una scelta appena messo piede fuori dal carcere. È questo il senso del protocollo “Mi Riscatto per Palermo”, che ho firmato insieme a Francesco Basentini (capo del Dipartimento dell’amministrazione Penitenziaria), Leoluca Orlando (sindaco di Palermo), Giancarlo Trizzino (presidente del Tribunale di Sorveglianza), Gianfranco De Gesu (provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria) e Rita Barbera (direttore della Casa di reclusione di Palermo Ucciardone). Un protocollo, dal grande significato sociale e culturale, che consentirà ad alcuni detenuti del carcere Ucciardone di seguire corsi di formazione professionale e svolgere attività di pubblica utilità a beneficio di tutti. In questo modo, il detenuto che ha tolto qualcosa alla società con il suo comportamento illegale si impegna per restituire quanto sottratto alla collettività e per questo viene sostenuto, incoraggiato, aiutato concretamente dallo Stato. Nulla infatti, contribuisce a restituire dignità a una persona più del lavoro, dell’impegno onesto al servizio dei cittadini. Grazie a iniziative come queste, rese possibili dalla collaborazione tra le varie istituzioni, realizziamo nei fatti quanto sancisce solennemente la nostra Costituzione, all’articolo 27: la funzione rieducativa della pena. Il carcere non va visto, come invece avvenuto troppo spesso in passato, come una realtà isolata, a sé stante, sconnessa dal resto della società. In carcere, al contrario, si coltiva il cambiamento, si prepara il riscatto delle persone e si rende possibile la loro reintegrazione nella comunità d’appartenenza. In questo modo otteniamo un altro risultato fondamentale. Permettendo al detenuto di acquisire un saper fare, gli diamo infatti, l’opportunità, una volta tornato in libertà, di avere accesso a nuove occasioni di lavoro. Realizziamo, insomma, un vero e proprio investimento in prevenzione, contrastiamo il rischio di recidiva e garantiamo così un beneficio in termini di sicurezza a tutti i cittadini. A Roma, a Milano, dove questi progetti sono già partiti, i cittadini hanno dimostrato di apprezzare molto questo modo di declinare la pena. Per questo chiedo ai sindaci di tante altre città italiane di pensare a questa opportunità. Il sostegno del ministero della Giustizia di certo non mancherà. Perché in questo modo lo Stato compie fino in fondo il suo dovere di ri-educatore, restituendo alla collettività una persona arricchita, rinnovata, ri-motivata, pronta a dare il suo contributo nell’interesse dell’intera società. *Ministro della Giustizia I suicidi e la polveriera carceri di Giovanni Fiandaca* La Repubblica, 16 novembre 2018 Due suicidi di detenuti, verificatisi di recente al Pagliarelli a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, hanno riproposto all’attenzione il grave problema del rischio suicidario nelle carceri. Al di là di eventuali responsabilità individuali per omesso o insufficiente controllo (che comunque è difficile accertare, essendo la previsione della possibilità concreta di un suicidio spesso soggetta a coefficienti ampi di incertezza), il vero problema è piuttosto di ordine sistemico e riguarda l’esistenza di un efficace sistema di prevenzione non in un singolo istituto, ma in tutto l’universo penitenziario (siciliano e nazionale). Un dato di partenza, che non va assolutamente trascurato, è questo: negli ultimi anni si è registrata una crescente diffusione, nella popolazione carceraria anche siciliana, di patologie psichiatricamente rilevanti, di disturbi della personalità, di condizioni borderline e di disagi psichici di varia natura; e forme di malessere psicologico si sono anche manifestate nel personale della polizia penitenziaria, sottoposto a carichi e condizioni di lavoro molto stressanti. Com’è facile comprendere, questa complessiva situazione di accresciuta sofferenza mentale e psichica contribuisce a spiegare l’aumento statistico delle azioni aggressive, degli atti autolesionistici e dei gesti estremi compiuti all’interno degli istituti penitenziari. E questo aumento, a sua volta, rende oggettivamente più difficile la gestione della vita carceraria da parte dei direttori e degli operatori ai vari livelli, anche perché la presenza di reclusi con problematiche psichiatriche complica la convivenza con il resto dei detenuti. Ma ne subiscono effetti negativi gli stessi soggetti affetti da patologie, e ciò per l’intuibile ragione che l’ambiente carcerario diventa sempre meno adatto alle loro specifiche necessità. Ora, per cercare di ridurre i riflessi psichici negativi dello stato detentivo, è indispensabile innanzitutto garantire un servizio specialistico di tipo psichiatrico-psicologico adeguato, per quantità e qualità, alle esigenze di ogni istituto penitenziario. Come garante siciliano dei diritti dei detenuti, mi capita di constatare che le aziende sanitarie territorialmente competenti (da qualche tempo responsabili anche della sanità penitenziaria) non sempre riescono ad assicurare nelle carceri un’assistenza psichiatrica efficace sul duplice versante della cura e della prevenzione. Emblematica la situazione che si è venuta a determinare proprio al Pagliarelli, che, essendo l’istituto col maggior numero di detenuti (oltre 1.200), è quello che per forza di cose maggiormente si imbatte in problematiche psichiatriche e disturbi psicologici delle persone recluse. Per un insieme di fattori contingenti, esso negli ultimi tempi ha infatti finito col potere disporre della presenza giornaliera soltanto di 2 psichiatri (a fronte dei 5 o 6 previsti sulla carta) e per archi orari poco adeguati: si consideri che - in base a stime approssimative ma di fonte attendibile - questi due soli professionisti dovrebbero far fronte alle esigenze di (circa) 150 soggetti con problematiche psichiatriche gravi da tenere sotto costante controllo, di altri (circa) 250 con disturbi che richiedono controlli ripetuti e di non pochi appartenenti alla restante popolazione carceraria che, sia pure occasionalmente, necessitano di forme di sostegno specialistico. Prendere atto che un’assistenza psichiatrica ridotta ai minimi termini non equivale per nulla a un servizio efficace, è riconoscere una cosa ovvia. Ma l’esigenza di garantire presidi psichiatrici adeguati alle esigenze della realtà penitenziaria siciliana induce ad allargare il discorso. Al di là del numero dei professionisti impiegabili per provvedere al mutevole fabbisogno diagnostico e terapeutico giornaliero, occorre infatti anche dotare il sistema carcerario di strutture psichiatriche apposite, dotate di proprio personale (medico e infermieristico) e specificamente destinate alla gestione di quei detenuti che, a causa di infermità psichiche di rilevante entità comparse o aggrevatesi in carcere, necessitano appunto in modo continuativo di trattamenti riabilitativi impossibili da eseguire nelle sezioni detentive ordinarie. Strutture di questo tipo, che oggi portano l’etichetta di “Articolazioni per la tutela della salute mentale” (e dipendono dai Dipartimenti di salute mentale territoriali), ne sono state finora istituite poche: una di queste esiste presso la sede penitenziaria (ex ospedale psichiatrico giudiziario) di Barcellona Pozzo di Gotto, ed è l’unica funzionante in tutta la Sicilia. Ma, non potendo questa sola Articolazione soddisfare tutte le richieste di trasferimento di detenuti infermi psichici provenienti dai vari istituti di pena siciliani (un numero eccessivo di ospiti rischierebbe infatti di snaturare questo tipo di struttura, contraddicendo la sua finalizzazione terapeutica e degradandola a contenitore custodiale di stampo vetero-manicomiale), è già stata in via programmatica sin dal 2016 prevista l’istituzione di una struttura psichiatrica analoga nella Sicilia occidentale e, non a caso, presso l’istituto Pagliarelli. Perché non si passa al più presto dalla programmazione astratta alla realizzazione concreta di questa nuova struttura? Collocare i detenuti con problematiche psichiatriche in ambienti adatti a coniugare vigilanza e terapia può, senz’altro, contribuire a una più efficace prevenzione anche del rischio-suicidi. *Garante dei detenuti della Regione Sicilia Permessi premio al 4bis, quando la collaborazione è impossibile di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 novembre 2018 Due sentenze della Cassazione chiariscono le modalità della concessione dei benefici. La Suprema Corte definisce la differenza con i “collaboratori di giustizia” e ribadisce la finalità rieducativa che vale per tutte le forme di esecuzione, incluse quelle ostative. Due sentenze della Cassazione accolgono i ricorsi sulla mancata concessione del permesso premio ai detenuti condannati per mafia che è subordinata alla collaborazione. Entrambe le decisioni hanno dovuto stabilire se i detenuti ne possano beneficiare pur non avendo collaborato laddove la collaborazione sia impossibile. Interessante la distinzione che la Cassazione fa tra la collaborazione in senso più ampio con i collaboratori di giustizia che sono una cosa ben specifica. Una misura che viene cristallizzata nella sentenza recentemente depositata n. 3278/ 2018 del 18.7.2018, che Il Dubbio ha potuto visionare grazie alla gentile concessione di Yairaiha Onlus associazione che porta avanti da anni la lotta per l’abolizione dell’ergastolo - e che segue il detenuto ricorrente G. A. Questa sentenza, entrando nel dettaglio dei limiti del perimetro della collaborazione impossibile, annulla con rinvio al Tribunale di Sorveglianza di Milano il provvedimento che dichiarava inammissibile il reclamo proposto dal detenuto contro la stessa decisione del magistrato di Sorveglianza, a proposito del permesso premio perché si trattava di condannato per reati ostativi del 4bis. La Cassazione affronta la questione dei limiti della collaborazione impossibile e riconosce in buona sostanza l’errore di diritto di una sovrapposizione tra la collaborazione richiesta dal 4 bis in relazione all’art 58 ter (articolo che la riforma originaria dell’ordinamento avrebbe modificato agganciando la collaborazione con le condotte riparative), e quella cosiddetta totale, che sarebbe riservata alla disciplina dei benefici per i “collaboratori di giustizia”. Il rischio per la Corte di una simile sovrapposizione, sarebbe quello di finire per ammettere il beneficio nei soli casi di collaborazione totale dove, al contrario, il permesso premio ha finalità rieducativa e vale per tutte le forme di esecuzione, inclusi i reati ostativi. Secondo la Cassazione si rischierebbe di aprire alle forme della collaborazione totale non richieste per la verifica della concessione dei benefici dell’art 4 bis. Critica è dunque la decisione degli ermellini anche nel riferire che mancano, nel provvedimento impugnato, i richiami in concreto alla possibilità della collaborazione citando solamente la nota della Dda che richiamava in astratto il possibile contributo collaborativo in ordine al sodalizio ancora esistente, ma che non teneva conto dell’ammissione di responsabilità del ricorrente e della condotta di scissione dal passato delinquenziale, omettendo di verificare il nucleo centrale, cioè l’esistenza in concreto di uno spazio collaborativo. Disattendere questo percorso valutativo, significherebbe per la Cassazione disapplicare le decisioni della Consulta che hanno indicato il canone di collaborazione, sul reato per cui vi è condanna, alla stregua dell’indice legale del ravvedimento. Nell’altra sentenza, numero 36457/ 2028 del 9.4.2018 depositata qualche giorno fa, si chiede che il tribunale di sorveglianza attesti, tramite la nota della Dda, la perdita dei legami del ricorrente con il contesto della criminalità organizzata. Gli ermellini hanno accolto il ricorso della procura generale contro il provvedimento del tribunale di sorveglianza, che dichiarava la collaborazione impossibile e accoglieva il reclamo, ritenendo concepibile il permesso premio. Il punto della sentenza è che “la vastità del contributo collaborativo non si concilia con una obbligatoria iniziativa dell’autorità inquirente, alla quale non può chiedersi di ipotizzare gli apporti informativi possibili che possano chiedersi al condannato”. Come osserva la Cassazione il tribunale aveva ritenuto impossibile la collaborazione a fronte di un mancato sollecito della Dda: sul punto ha invece ribadito che la collaborazione non possa ritenersi impossibile per il solo fatto che non sia stata sollecitata dagli inquirenti, ma che invece rimanga, nel caso dei reati ostativi, assieme alla perdita dei legami con il contesto della criminalità organizzata, l’indice di ravvedimento. Anzi, sempre secondo la Cassazione, proprio perché è il sintomo legale del ravvedimento del condannato, la collaborazione si muove in linea con la funzione rieducativa della pena. Sempre in tema di collaborazione e ravvedimento, a proposito del provvedimento impugnato, la Corte trova l’occasione per ribadire - viste le osservazioni del Tribunale a sostegno della decisione in merito alla mancata valutazione della lunga detenzione del condannato come circostanza dimostrativa dello scioglimento del vincolo - che la presunzione di permanenza del vincolo debba restare una massima di esperienza per il giudice che ha respinto il permesso premio. Per la Cassazione, a fronte della presunzione, solo la collaborazione, intesa come ravvedimento, può essere la prova di questa scissione. Il tutto detto, anche non mancando di richiamare che comunque per collaborazione si debba intendere, ogni contributo informativo che possa configurare un “aiuto concreto” per la ricostruzione di fatti e per l’accertamento di responsabilità, anche non direttamente collegato coi fatti di reato della condanna. L’occasione persa. Le condotte riparative nella “vecchia” riforma L’art. 58ter dell’ordinamento individua la categoria delle persone che collaborano con la giustizia nelle “persone condannate per taluno dei delitti indicati nei commi 1, 1ter e 1quater dell’art. 4bis che, anche dopo la condanna, si sono adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta degli elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati”. L’art. 4bis comma 1bis, dopo aver disposto che i condannati per una serie di delitti ostativi possono essere ammessi ai benefici penitenziari solo nei casi in cui collaborino con la giustizia a norma dell’art. 58ter, stabilisce che i benefici possono essere ugualmente concessi a quei detenuti, “purché siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, altresì nei casi in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza di condanna, ovvero l’integrale accertamento dei fatti o delle responsabilità, operata con sentenza irrevocabile, rendono comunque impossibile un’utile collaborazione con la giustizia”. La riforma originaria dell’ordinamento penitenziario prevedeva una modifica interessante. Si era, precisamente, suggerito di introdurre - accanto alle attuali ipotesi di collaborazione “impossibile” o “irrilevante”, il cui accertamento consente appunto il superamento delle preclusioni all’accesso ai benefici penitenziari - una fattispecie in cui la mancata collaborazione comunque motivata, sia stata tuttavia accompagnata da concrete condotte riparative: ipotesi, beninteso, che non prescinde dalla sussistenza degli altri presupposti richiesti dalla legge per la concessione dei benefici penitenziari e delle misure alternative. La proposta della riforma originaria eliminava il carattere di rigida preclusione della assenza di collaborazione con la giustizia e la rendeva bilanciabile con altri elementi evidenziati dai percorsi individuali dei detenuti come la dissociazione esplicita, prese di posizione pubbliche, adesione a modelli di legalità, interesse per le vittime dei reati, radicamento del nucleo familiare in diverso contesto territoriale, l’impegno profuso per l’adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato e, quindi, il concreto interesse dimostrato per attività di risarcimento o, più in generale, riparatorie in favore delle vittime del reato. In sintesi, ravvedimento e riparazione La “prescrizione lunga” e l’eternità dei processi che ferisce la giustizia di Carlo Nordio Il Messaggero, 16 novembre 2018 Sorde ai lamenti che da ogni parte si son levati contro questa mostruosità giuridica, le Commissioni Giustizia e Affari Costituzionali della Camera hanno approvato l’emendamento che sospende la prescrizione dopo il giudizio di primo grado. Un comma breve nel testo ma eterno nelle conseguenze. Perché di fatto introduce il principio dell’eternità dei processi penali. Abbiamo già detto che la riforma è incostituzionale, perché confligge con l’art. 111 che afferma il principio della durata ragionevole del processo. È dannosa per l’economia, perché questa lunghezza esasperata ci costa una perdita pari quasi al 2 per cento del Pil. È funesta per le vittime, perché rinviando “sine die” la conclusione del processo, ritarderà il risarcimento dei danneggiati. Ed è infine irragiovevole, perché entrando in vigore nel gennaio 2020 smentisce sé stessa. Se infatti la proposta è buona e giusta, perché rimandarne l’applicabilità? Ed è proprio qui che si aggiunge, oggi, problema a problema, insensatezza a insensatezza, scandalo a scandalo. Nei giorni scorsi, infatti, il ministro Salvini aveva annunciato la simultanea approvazione della riforma del processo penale, volta a snellire le procedure e ridurre i tempi. Vasto programma, perché l’esperienza dimostra che una simile impresa richiederebbe tempi di preparazione e di discussione parlamentare incompatibili con quelli ipotizzati. Ma comunque programma coerente, perché in effetti, se davvero la sospensione della prescrizione fosse subordinata ad un effettiva velocizzazione dei processi e a una radicale depenalizzazione, il problema sarebbe risolto da sé: i reati non si prescriverebbero più per la semplice ragione che verrebbero accertati e puniti in tempi brevi. Oggi però la novità ci presenta una situazione opposta e allarmante. La Commissione ha infatti respinto l’emendamento dell’opposizione volto a collegare l’eventuale approvazione della riforma sulla prescrizione con quella del processo penale, cioè proprio quello che aveva detto il ministro Salvini. Senza questo collegamento infatti, la riforma sulla prescrizione entrerebbe in vigore tra un anno, mentre il nuovo processo sarebbe “incertus an, incertus quando”. Come il ministro Salvini possa accettare una simile corbellatura è un mistero. L’opposizione di sinistra ha ventilato - o addirittura affermato - l’esistenza di un patto scellerato, uno scambio tra questa norma incivile e una modifica del peculato che costituirebbe un salvacondotto per un paio di parlamentari. Ci rifiutiamo di credere a questa interpretazione. Non perché sia immorale: nella baratteria tra politica e giustizia ne abbiamo viste di tutti i colori. Ma perché più che un crimine sarebbe un errore, che la Lega per prima pagherebbe assai caro. Parte dell’opposizione ha abbandonato l’aula in segno di protesta. In un certo senso si è presa la rivincita. Nemmeno ai tempi delle cosiddette leggi “ad personam” si era caduti così in basso. Bonafede: “Togliere la giustizia dal pantano del dibattito politico” di Roberto Ruvolo rainews.it, 16 novembre 2018 Il ministro della Giustizia al carcere Ucciardone di Palermo per la firma di un protocollo d’intesa “Mi riscatto per Palermo” che prevede il reinserimento di 12 detenuti come lavoratori socialmente utili. Ieri mattina nel carcere Ucciardone a Palermo, alla presenza del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, è stato firmato il protocollo d’intesa “Mi riscatto per Palermo”. L’accordo, promosso dal ministero della Giustizia-Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, coinvolge il Comune di Palermo, la direzione dell’istituto penitenziario siciliano e il Tribunale di Sorveglianza ed è finalizzato a valorizzare l’inclusione sociale dei detenuti ammessi a svolgere all’esterno lavori di pubblica utilità. Prevede il reinserimento di 12 detenuti come lavoratori socialmente utili. La firma nel polo didattico Pio La Torre della struttua penitenziaria. Insieme al Guardasigilli, il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, il capo del DAP Francesco Basentini, il presidente del Tribunale di Sorveglianza Giancarlo Trizzino, il provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Gianfranco De Gesu e il direttore della casa di reclusione Rita Barbera. “L’ho detto fin dal primo momento: il mio obiettivo principale sarà quello di togliere la giustizia dal pantano del dibattito politico che prima interessava poche persone e non i cittadini”, ha detto Bonafede a margine della firma del protocollo. “Ci sono tanti settori della giustizia che non possono e non devono avere colore politico - ha proseguito - e quello che sto facendo oggi è un appello ai sindaci di parlare con altri loro colleghi e di dire che c’è questo strumento e di provare a far girare la voce su questo protocollo: io andrò sempre. Così lanciamo una nuova forma di rieducazione che significa integrazione nella società per i detenuti. Su questo punto per tanto tempo c’è stata indifferenza e trascuratezza ma la pena, così, perde di fatto la sua efficacia rieducativa. Nel progetto che noi portiamo avanti - ha concluso - si investe sul lavoro come via per il recupero della dignità del detenuto”. Si tratta della terza sperimentazione dopo Roma e Milano e il progetto prevede in un primo momento l’impiego di 12 detenuti selezionati dopo un’attenta valutazione da parte di psicologi e polizia penitenziaria dell’istituto palermitano. Inizialmente saranno destinati alla pulizia di Monte Pellegrino, supportati dal personale de Comune e, successivamente, si occuperanno della bonifica del fiume Oreto. “Finora l’Italia - ha spiegato il Ministro - cercava di intervenire nelle carceri al solo fine di sottrarsi alle sanzioni europee e il problema veniva avvertito tutte le volte in cui il numero dei detenuti andava troppo oltre. Le ultime riforme svuota-carceri non hanno mai portato a focalizzare l’attenzione sulla rieducazione della pena”. “Aprire una cella e dire al detenuto “siete troppi, ora è il momento di uscire”, rispondeva a un clima emergenziale che ormai dura da anni - ha aggiunto Bonafede - non dando nessun beneficio a nessuna delle persone coinvolte. Il detenuto si trova fuori senza un percorso di rieducazione ed è molto probabile che torni a delinquere”. “La Lega ha tradito”. Riforma della prescrizione, Forza Italia sulle barricate di Giulia Merlo Il Dubbio, 16 novembre 2018 Forza Italia alza le barricate in difesa della prescrizione. Nelle commissioni congiunte Affari costituzionali e Giustizia alla Camera - dove i lavori procedono a ritmi serrati fino a notte fonda - i forzisti protestano contro la scure d’inammissibilità calata dai presidenti pentastellati Giuseppe Brescia e Giulia Sarti su tutti gli emendamenti “per mancanza di riferimento temporale ed estraneità alla materia” ed escono dall’aula rifiutandosi di partecipare oltre ai lavori, denunciando il mancato ascolto da parte della maggioranza. “A questo punto meglio rimandare la guerra, quando il testo arriverà in aula”, ragionano i membri delle commissioni. Contemporaneamente, nella sala del Mappamondo, la capogruppo alla Camera, Mariastella Gelmini, ha tenuto una conferenza stampa “in cui Forza Italia condivide la battaglia con soggetti non politici ma figure chiave nel mondo del diritto” : il professore emerito di procedura penale, Giorgio Spangher; l’ex magistrato, Carlo Nordio e il presidente dell’Unione camere penali italiane, Gian Domenico Caiazza, cui si è unita anche l’esponente del partito Radicale, Rita Bernardini. “La maggioranza sta smontando pezzo per pezzo le garanzie del sistema penale, costruendo la cultura del sospetto, dell’incertezza e della paura, in perfetto stile da giustizialismo manettaro”, ha accusato Gelmini. Poi, insieme a Francesco Paolo Sisto ed Enrico Costa, i ranghi di Forza Italia hanno puntato il dito verso l’ex alleato in campagna elettorale: “Speravamo ci fosse qualcuno, in questa maggioranza, che fermasse la mano dei 5 Stelle, invece nessuno l’ha fatto”, ha esordito Costa, riferendosi ai leghisti: “Sappiano che sono complici di questo scempio attraverso i loro silenzi e le loro omissioni”. Proprio come era avvenuto qualche giorno fa durante le audizioni nelle Commissioni, anche ieri tutti e tre gli esponenti delle categorie che operano nel mondo del diritto si sono schierate contro l’emendamento Bonafede. “È in atto un’aggressione ai principi fondativi processo penale, con una inversione di lettura della funzione sociale del processo. Per la maggioranza, è un luogo popolato da colpevoli, il cui esito deve intervenire senza ostacoli “perché altrimenti il furbo la fa franca”, senza rispetto della complessità e con un comportamento da censurare prima nel metodo che nel merito”, ha detto Caiazza, che è invitato martedì prossimo in via Arenula dal Guardasigilli. “Ci ha chiesto proposte in materia di riforma del processo penale: una richiesta surreale. Diremo che è una pretesa incomprensibile e che serve commissione che ci lavori, perché non si tratta di un concorso a premi”. Poi, ha ribadito l’astensione dei penalisti italiani per quattro giorni della prossima settimana, che si chiuderà con una manifestazione nazionale al teatro Manzoni di Roma il 23 novembre. Sulla stessa linea anche Nordio. “Questo sciagurato emendamento è incostituzionale, perché confligge in modo palese con l’articolo 111 della Costituzione, di fatto lasciando la durata del processo nelle mani arbitrarie della magistratura. Non reggerebbe al vaglio della Corte costituzionale”, ha esordito l’ex magistrato. Nel merito, poi, ha ragionato sul fatto che l’iniziativa è dannosa: “Siamo davanti a un caso di eterogenesi dei fini. L’obiettivo sembra essere quello di salvaguardare le vittime, che però sarebbero vittime due volte, poiché l’eventuale risarcimento alle parti civili interviene a sentenza definitiva, dunque sarebbe anch’esso rinviato a un futuro incerto”. Dal punto di vista tecnico, ha sottolineato una “contraddizione di dilettantismo”, perché l’emendamento incide solo sulla prescrizione del reato e non su quella della pena. “Il codice prevede che la pena si estingue in media in dieci anni, per chi si sottrae volontariamente alla sua esecuzione. la norma, dunque, prevede che l’imputato assolto che subisce l’impugnazione del pm rimane sotto processo potenzialmente sine die, mentre il condannato che scappa si vede estinguere la pena dopo un tempo determinato. Sembra un invito all’evasione e alla latitanza”. Infine, ha lanciato una provocazione: posto che la direzione di questa riforma sia di attuare il processo accusatorio in stile anglosassone, allora “si importino anche gli altri principi di common law, che sono la garanzia di quelle democrazie liberali: la separazione carriere, la discrezionalità dell’azione penale, il divieto di reformatio in peius, la giuria popolare ricusabile, la ritrattabilità dell’azione e l’elettività dei pm”. Infausti presagi per il futuro della riforma del processo penale sono stati, invece, evocati da Spangher. “La prescrizione è il primo passo di un fenomeno che però è maturato nel tempo: oggi sono saltati i corpi intermedi tra i quali anche avvocati e giuristi - è c’è un passaggio diretto tra le istanze del popolo e la classe politica”, ha ragionato. Sull’onda di questo, “la maggioranza ha fatto diventare soggetto del processo anche pretesa punitiva della persona offesa, che non si accontenta più del risarcimento ma chiede anche punizione”. Dunque, ha sottolineato il professore, l’unico modo per far comprendere all’opinione pubblica che danno sia questa riforma è quello di “puntare solo sul diritto alla ragionevole durata del processo, perché è un principio che garantisce sia l’imputato che la persona offesa, che così ha un elemento di certezza in termini di tempo” Processi, ora la Lega accelera sulla riforma di Marco Conti Il Messaggero, 16 novembre 2018 “Approvata in Commissione la prescrizione secondo la ricetta 5Stelle. Una bomba atomica secondo il ministro Bongiorno sul sistema delle garanzie nella giustizia del nostro Paese. La Lega, ovviamente, come alleato fedele, vota senza problema”. In Commissione Giustizia di Montecitorio tiene l’accordo siglato a palazzo Chigi una settimana fa e Emanuele Fiano, capogruppo Pd in commissione Giustizia, lo racconta così in un tweet. Grillini e leghisti cambiano le norme sulla prescrizione in attesa che muti il processo penale la cui riforma verrà avviata martedì la riunioni convocata dal ministro Bonafede al ministero dove dice di voler raccogliere “idee” per scrivere la riforma del processo penale che di fatto rischia di diventare una semplice legge delega che affida al ministro Bonafede la scrittura del testo. Sulla prescrizione per la prima volta il Parlamento vota, seppur ancora solo in Commissione, una riforma a “rilascio nel tempo”. Nel testo si legge infatti che le misure entreranno in vigore nel 2020, senza che ci sia un riferimento alla riforma del processo penale. L’emendamento dei relatori, Businarolo e Forciniti, stabilisce al secondo comma ciò che per molti giuristi significa un “fine processo mai”. Ovvero, “il corso della prescrizione rimane altresì sospeso dalla pronunzia della sentenza di primo grado o del decreto di condanna fino alla data di esecutività della sentenza”. Con i noti tempi della giustizia italiana il rischio è di avere processi ancor più lumaca degli attuali visto che i magistrati potrebbero prendersi tutto il tempo che vogliono dopo la sentenza di primo grado. Via libera anche all’arresto in flagranza per i corrotti e all’agente provocatore con una curiosa norma molto “manettara” che prevede la non punibilità per chi denuncia una corruzione anche se è lui stesso ad averla promossa e senza che si sia realizzata. La seduta di ieri delle commissioni riunite Giustizia e Affari Costituzionali era cominciata con una dura polemica tra i rappresentanti di Forza Italia e il presidente Giuseppe Brescia. Gli azzurri, guidati da Enrico Costa, hanno abbandonato i lavori dopo che lo stesso Brescia aveva spiegato che non erano ancora pronti i pareri sui ricorsi di Forza Italia dopo che i propri emendamenti alla prescrizione erano stati dichiarati inammissibili. Continuare i lavori senza che nulla fosse è per Costa “una violazione pesantissima dei diritti e delle prerogative delle minoranze”. In aula resta il Pd con i rappresentanti di M5S e Lega. Questi ultimi provano a far passare un emendamento sul peculato che modifica il reato svuotandolo qualora “la distrazione si verifichi nell’ambito di procedimento normato da legge o regolamento”. “Una legge ad personam - sottolinea Alessia Morani del Pd - su misura per i leghisti Rixi e Molinari” e per tutti coloro imputati nelle varie rimborsopoli regionali. Sulla norma c’era anche il parere favorevole del governo, ma sui temi della giustizia i grillini non possono fare troppe concessioni all’alleato perché Piercamillo Davigo vigila dall’alto con il suo ultimo libro che i grillini in commissione si portano dietro. E così la norma viene prima accantonata e poi ritirata. Resta il fatto che tutto il pacchetto continua a procedere con estrema lentezza con la Lega in forte imbarazzo nei confronti dell’ex alleato. Maria Stella Gelmini, Francesco Paolo Sisto, il presidente dell’Unione Camere Penali Gian Domenico Caiazza, il professore Giorgio Spangher e Carlo Nordio hanno attaccato duramente la riforma della prescrizione perché “mortifica la Costituzione all’articolo 111” sulla ragionevole durata del processo. Una chiamata, seppur indiretta, al vaglio che il Quirinale dovrà fare dell’intera normativa. Procuratore europeo, politica e magistratura divisi sulla nomina di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 16 novembre 2018 A chi spetta designare i nomi dei candidati per il posto di procuratore europeo? Il Parlamento, dopo aver recepito la scorsa settimana la legge di delegazione europea 2018, ha affidato questa competenza al ministro della Giustizia. Di parere opposto, invece, il Consiglio superiore della magistratura che continua a rivendicare il potere di scelta degli incarichi delle toghe anche fuori dei confini nazionali. La questione rischia di finire davanti alla Corte costituzionale. Magistratura indipendente, tramite la consigliera Paola Maria Braggion, ha chiesto nell’ultimo Plenum l’apertura di una pratica “per consentire una riflessione sulla sussistenza dei presupposti per proporre un conflitto di attribuzione tra Csm e Ministero della giustizia”. Il regolamento che disciplina la Procura europea è stato adottato il 12 ottobre dello scorso anno. Il definitivo via libera verrà dato dalla Commissione a partire dal novembre del 2020. Il procuratore europeo avrà inizialmente il compito di indagare sui reati che ledono gli interessi finanziari della UE. Una volta superati alcuni problemi procedurali, fra cui ad esempio quelli relativi all’obbligo di informazione da parte delle Autorità nazionali, allargherà il novero delle competenze. Verosimilmente dal 2025, si occuperà anche di criminalità organizzata e terrorismo transnazionale. Creato l’Ufficio, la sede sarà a Lussemburgo, il primo appuntamento da affrontare è dunque quello di selezionare il procuratore capo europeo e i procuratori europei dei vari Stati membri. Le selezioni dovranno avvenire tassativamente entro l’estate del prossimo anno. Ed è su questo punto che l’Italia rischia di essere un “caso” in Europa. La nomina del procuratore capo europeo sarà infatti una “rivoluzione”, togliendo il potere di nomina delle toghe al Csm. mIl capo della Procura europea verrà infatti scelto dal Parlamento europeo e dal Consiglio di comune accordo. I magistrati interessati a ricoprire questa posizione dovranno presentare direttamente la propria candidatura senza alcuna designazione preventiva da parte degli Stati membri. Gli Stati, per la nomina del loro procuratore europeo, forniranno tramite il ministro della Giustizia una terna di nomi al Consiglio, che provvederà alla sua successiva designazione. Uno “smacco” che il Csm non pare voglia accettare. Ogni Stato, infine, nominerà i propri procuratori europei delegati i quali saranno assunti dall’Unione europea come consiglieri speciali. Non è ancora stato fissato, per l’Italia, il numero dei procuratori europei delegati. Sulla scelta peseranno molto i futuri equilibri di bilancio. Oltre a questioni di principio sulla scelta del nome, l’attenzione del Csm sulla Procura europea ha anche altri risvolti. L’Ufficio di Lussemburgo è destinato ad avere un forte impatto sul sistema giudiziario italiano. Per diversi motivi. Il primo, come detto, riguarda il criterio di selezione dei magistrati che vi faranno parte. Non più nomine da parte del Csm ma nomine “politiche”. Un’eresia per le toghe italiane, da sempre gelose della propria autonomia e indipendenza. Il secondo, non meno importante, è relativo al coordinamento investigativo con le Procure italiane e, soprattutto, con la Direzione nazionale antimafia ed antiterrorismo. Inoltre andranno definiti i rapporti con Eurojust, l’organismo europeo che già adesso aiuta le amministrazioni nazionali nel contrasto al terrorismo e alle gravi forme di criminalità organizzata, mettendo in contatto le autorità giudiziarie e quelle di polizia. Il rischio è quello di creare sovrapposizioni e duplicazioni di funzioni. Il vice presidente David Ermini ha già annunciato che affronterà la questione nei prossimi giorni con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Violenza sulle donne: nel 2017 ventimila hanno chiesto aiuto. “Ma il governo taglia i fondi” di Simona Musco Il Dubbio, 16 novembre 2018 Sono 20.137 le donne che nel 2017 hanno chiesto aiuto ai centri antiviolenza. Quasi tutte italiane e quasi tutte costrette a subire violenza - psicologica o fisica - da uomini italiani, compagni o ex partner, spesso davanti ai propri figli. E di fronte ad un fenomeno drammatico, che non accenna a diminuire, i fondi, anziché aumentare, diminuiscono. È questo il quadro drammatico delineato ieri nel corso della conferenza stampa di presentazione dei dati della rete dei centri antiviolenza D.i.Re., ospitata nella sala “Caduti di Nassirya” del Senato. Dati presentati e commentati dalla vicepresidente del Senato Anna Rossomando, dall’ex presidente della Camera Laura Boldrini, da Paola Bianchi, del dipartimento Pari opportunità, Raffaella Palladino, presidente D. i. Re., Maura Misiti, dell’Istituto ricerche sulla popolazione e le politiche sociali, Paola Sdao, referente della ricerca e della rilevazioni dati D.i.Re., con il video-intervento di Linda Laura Sabbadini, editorialista de La Stampa, moderate dalla giornalista Roberta Balzotti, della commissione Pari opportunità Usigrai. “Dai dati - ha evidenziato Rossomando - è emerso un fatto positivo: sono aumentate le richieste d’aiuto ai centri”. Ma sono importanti anche i fondi, ha evidenziato, sui quali nella scorsa legislatura “ci siamo impegnati a sostegno dei centri e per una politica a tutto campo nel contrasto alla violenza, a difesa della dignità della persona”. Una dignità che si configura in primo luogo come parità e contrastando la violenza, “non solo materiale, ma anche verbale. La violenza - ha aggiunto - è una questione sociale e il quadro si completa con la collaborazione di tutti i servizi e delle strutture locali. Dobbiamo tenerci care le leggi che abbiamo approvato, soprattutto la Convenzione di Istanbul”, primo strumento internazionale giuridicamente vincolante volto a creare un quadro normativo completo a tutela delle donne contro qualsiasi forma di violenza. Ma le cose sono cambiate, ha spiegato Boldrini, e in male. Così ha lanciato l’allarme sulle politiche di governo, “un attacco ai diritti civili mai visto dal 1946 ad oggi”. I dati, afferma, non sono confortanti e ancor meno il clima culturale. “C’è ancora chi si permette di dire che il femminicidio non esiste - ha protestato - rifiutando l’idea che la violenza verso le donne spesso avvenga proprio in quanto donne”. E su tutte le iniziative intraprese nel recente passato, ha denunciato, “è sceso il sipario”. Si dice preoccupata per gli stanziamenti nella legge di bilancio, che prevede tagli al settore dei diritti e delle pari opportunità, nonché ai fondi per le vittime di reati violenti e per i figli di donne vittime di femminicidio. “Andiamo indietro”, ha detto facendo riferimento al disegno di legge Pillon, criticato da tutti i relatori nel corso della conferenza stampa. “I bambini non sono pacchi postali - ha concluso - la violenza non merita mediazione. È tempo di una nuova rivoluzione femminista”. Qualcosa, comunque, si muove, promette Laura Bianchi: il sottosegretario con delega alle Pari opportunità, Vincenzo Spadafora, ha infatti “preso impegni per il piano nazionale strategico contro la violenza”, ha garantito, con risorse per 20 milioni di euro. Ma rimane ancora molto da fare per valorizzare la rete dei centri antiviolenza, “che hanno un grandissimo ruolo - ha evidenziato Palladino - ma scarso riconoscimento”. I centri sono il posto giusto al momento giusto, ha aggiunto, evidenziando le storie di donne e bambini che hanno ricominciato a vivere grazie ai volontari degli 85 centri in tutta Italia. “Il momento è terribile - ha sottolineato - è caduto un velo, sta succedendo qualcosa che ci preoccupa molto con alcuni disegni di legge, soprattutto quello del senatore Pillon”. I dati. “Un rapporto è sempre una buona notizia, perché c’è sempre il problema dell’emersione del fenomeno”, ha anticipato Misiti prima dell’analisi dei numeri. Che hanno richiesto un duro lavoro di raccolta e analisi, con lo scopo di mappare un universo e alimentare una discussione sul tema dei finanziamenti e dei criteri. Numeri dietro i quali ci sono donne e storie, ha spiegato Sdao, ma che raccontano soltanto una piccola parte della faccenda: “sono i dati riferiti a quelle donne che si sono rivolte ai centri - ha spiegato - mancano, dunque, tutte quelle che ancora non lo hanno fatto”. Non si tratta di un dato probabilistico, perciò, ma di un ottimo punto di partenza per analizzare il fenomeno. E il suo principale nervo scoperto: i fondi concessi ai centri. “Il finanziamento pubblico viene, nel 25 per cento dei casi, dai Comuni, nel 27,28 per cento dei casi dalle Regioni. Mentre solo il 13 per cento viene dal dipartimento per le Pari opportunità e meno dell’uno per cento dall’Unione europea”, ha spiegato. Un dato pressoché costante nel tempo e che trova il suo picco più basso nella Calabria e nel Lazio, con zero euro di fondi pubblici. Ma non solo: è zero anche il numero di case rifugio in Calabria, Marche e Puglia, a fronte di 55 strutture in tutta Italia. Ma chi sono le donne che si rivolgono ai centri? “Nel 68 per cento dei casi sono italiane, prevalentemente tra i 30 e i 49 anni - ha evidenziato. Nel 35 per cento dei casi hanno un reddito pari a zero, quasi sempre senza situazioni di disagio”. I numeri più alti sono quelli che fanno riferimento alla violenza psicologica, che rappresenta il 73,6 per cento dei casi. E il maltrattante? “Nel 65 per cento dei casi è un italiano”, quasi sempre il partner (56,1 per cento) o l’ex (19,6), mentre si tratta di un familiare in 8,7 casi su 100. “Ma è un dato più difficile da rilevare, fatta eccezione per la nazionalità”. La violenza, dunque, avviene principalmente in famiglia e parla l’italiano. “Questi numeri - ha concluso Sdao - non raccontano il sommerso, ma delineano una tendenza, un’idea”. Mancano, poi, i grossi dati sulle donne di nazionalità straniera, “che però tendono a denunciare di più alla polizia - ha evidenziato Sabadini, perché hanno una rete sociale più limitata, meno amici e meno parenti a cui rivolgersi” Caso Magherini, tutti assolti. La Cassazione: nessun reato da parte dei carabinieri di Eleonora Martini Il Manifesto, 16 novembre 2018 Con una clamorosa sentenza, dopo sei ore di camera di consiglio la Suprema corte annulla la condanna per omicidio colposo. Il padre, Guido: “Mi cade il mondo addosso”. La difesa: “È stata fatta giustizia”. “Il fatto non costituisce reato”. Dopo quasi sei ore di camera di consiglio, la Corte di Cassazione ribalta la sentenza d’Appello del 19 ottobre 2017 che aveva confermato la condanna di primo grado per omicidio colposo dei tre carabinieri che nella notte tra il 2 e il 3 marzo 2014 arrestarono Riccardo Magherini. Rigettata dunque anche la richiesta del Procuratore generale della Cassazione, Felicetta Marinelli, che nella sua requisitoria aveva sostenuto la possibilità di salvarsi, per l’ex calciatore delle giovanili della Fiorentina morto a 40 anni durante l’arresto nel centro storico di Firenze, se solo i tre militari che lo hanno schiacciato sul selciato, prono, a torso nudo, con i polsi ammanettati dietro la schiena, e lo hanno anche colpito, “lo avessero messo in posizione eretta”. Così, aveva ripetuto la pm, “avrebbero permesso i soccorsi e con elevata probabilità la morte non si sarebbe verificata”. Ma i giudici della Cassazione, con un pronunciamento tanto clamoroso quanto inaspettato, hanno dato invece ragione alla difesa dei tre carabinieri Vincenzo Corni, Stefano Castellano e Agostino della Porta, annullando le condanne a 8 mesi di reclusione per il primo e 7 mesi per gli altri due. “Non so che dire, mi casca il mondo addosso”, sono le prime parole che il padre di Riccardo, Guido Magherini, è riuscito a pronunciare appena appresa la notizia. Bisognerà leggere le motivazioni della sentenza ma a caldo sembra comunque che i giudici abbiano ritenuto valida la linea di difesa dei tre militari - che sono ancora in servizio anche se trasferiti ad altra sede - fondata sostanzialmente sull’affermazione che i tre uomini dell’Arma non potevano essere accusati di omicidio colposo perché privi di conoscenze mediche. “Non avevano elementi per capire quello che stava accadendo a Magherini a causa dello stupefacente - aveva spiegato l’avvocato Francesco Maresca, uno dei legali della difesa - Magherini è morto per una serie di concause, tra cui anche la sofferenza per la posizione prona, ma era necessario bloccarlo, e i carabinieri non potevano capire se era il momento di metterlo a sedere”. L’avv. Maresca si è detto infine soddisfatto e felice “che la Suprema Corte avvia fatto giustizia di tante contestazioni prive di giustificazioni”. I giudici infatti hanno respinto il punto di vista della procura generale secondo la quale il decesso “è stato determinato dall’elevato tasso di cocaina, da asfissia e dallo stress dovuto all’assunzione di cocaina e al tentativo di liberarsi dalla posizione prona in cui lo tenevano i carabinieri”. In questo contesto, secondo la magistrata, i carabinieri, che “avevano una posizione di garanzia perché lo stavano arrestando”, “avevano l’obbligo di tutelarlo”. Anche se “non sapevano che Magherini avesse assunto cocaina”, i militari erano comunque “ben consapevoli dell’alterazione psico-fisica, e se l’avessero liberato dalla posizione prona quando aveva dato i primi segnali di calma e manifestato affanno, l’uomo avrebbe potuto essere soccorso”, e salvato. E invece quella notte Riccardo Magherini - che era “alterato gravemente e soprattutto palesemente”, come avevano scritto nelle motivazioni i giudici dell’Appello - chiedeva aiuto e ripeteva “vi prego, ho un figlio”, e “sto morendo”. La scena era stata filmata da alcuni residenti di Borgo San Frediano, ma secondo la difesa ai carabinieri era sembrato uno stratagemma dell’uomo per liberarsi. L’avvocato Fabio Anselmo, legale dei familiari di Magherini, aveva invece chiesto di annullare la sentenza sì, ma per celebrare un nuovo processo per il reato di omicidio preterintenzionale a carico dei carabinieri, affinché venisse contemplato “l’evento morte come conseguenza del reato di percosse”. Già la procura generale però aveva chiesto di rigettare la richiesta, considerando invece che i colpi e i calci ricevuti da Magherini “non hanno avuto rilevanza nella morte”. In aula, accanto agli amici di Riccardo e alla famiglia Magherini, era presente anche Ilaria Cucchi, in rappresentanza dell’associazione Stefano Cucchi onlus che si occupa dei soprusi delle forze dell’ordine. “Vogliamo che il suo nome sia rivalutato - aveva sperato il padre di Riccardo - Hanno fatto di tutto per farlo apparire come un delinquente”. Isis, carcere preventivo anche per chi ospita un terrorista islamico di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 16 novembre 2018 Corte di cassazione - Sentenza 15 novembre 2018 n. 51654. Legittima la misura cautelare del carcere, per presunta partecipazione all’associazione terroristica di matrice islamica Isis, per chi abbia offerto ospitalità ad un membro dell’organizzazione, nel caso un terrorista ceceno poi arrestato. Mettendogli a disposizione anche la propria associazione culturale (“Al Dawa”) in cui si svolgeva attività di “propaganda e proselitismo”, e ponendo in essere, attraverso Twitter, “attività di apologia dell’organizzazione”. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza n. 51654 del 15 novembre 2018, respingendo il ricorso di un uomo nato al Cairo nel 1958 contro la decisione del Tribunale di Bari che aveva confermato la custodia cautelare disposta dal Gip. Per la Suprema corte l’effettiva partecipazione ad una associazione criminale non deve desumersi da regole “rigide” ed uguali per i diversi consessi ma deve considerare la “particolare natura del gruppo criminale”. E, prosegue la decisione, “la spiccata pericolosità dell’Isis trova causa nella fluidità della sua struttura” che “non richiede forme particolari per l’assunzione del ruolo partecipativo” e “non si qualifica per articolazioni organizzative statiche ma, facendo leva sull’intensità della cifra ideologica, può reclutare adepti anche soltanto incitando alla jihad”. Che, del resto, non si realizza “attraverso una pianificazione centralizzata di atti violenti ma per mezzo di scelte autonome del singolo quanto all’individuazione del luogo e degli strumenti”. In questo senso, continua la Corte, il Tribunale ha dato una adeguata motivazione “indicando la condivisione ideologica delle finalità dell’Isis nell’aver fornito assistenza ad uno degli associati, nell’aver svolto attività di apologia del terrorismo tramite profilo Twitter, aperto e seguito da 13 followers, nell’aver fatto attività di propaganda e proselitismo tramite Whatsapp e lezioni tenute nel centro culturale “Al Dawa”. A ciò deve aggiungersi l’essere in possesso di materiale reperibile soltanto nel dark web, fatto che di per sé - necessitando di chiavi di accesso criptate - fornisce la prova di un legame col gruppo associativo. Non è invece necessario verificare “se all’adesione abbia corrisposto un’accettazione ad opera dei vertici associativi”, in quanto il presunto terrorista “ha aderito a una sorta di offerta pubblica lanciata dall’Isis attraverso canali mediatici di propaganda”. Quanto poi all’attività di proselitismo e indottrinamento tramite l’associazione culturale, “non è meritevole di considerazione la tesi difensiva secondo cui la condivisione di idee integraliste, in assenza di propositi di violenza, è libera manifestazione del pensiero”. Infatti, “l’invio di link e video relativi a Daesh sono atti che inequivocamente attestano la volontà di fare adepti in favore di un gruppo che ha tra suoi obiettivi quello di praticare atti di inaudita ed efferata violenza”. Infine, non gioca a favore del ricorrente neppure il basso numero di followers atteso che il profilo era “aperto” e dunque “accessibile da chiunque”. E che, comunque, “l’attività di esaltazione della violenza” ha per lo meno raggiunto tredici persone, in tal modo “concretizzando il profilo offensivo”. Reato di produzione di materiale pedopornografico anche senza pericolo di diffusione di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 16 novembre 2018 Corte di cassazione - Sezioni unite - Sentenza 15 novembre 2018 n. 51815. Il reato di produzione di materiale pedopornografico scatta a prescindere dal pericolo che i video o le immagini siano diffuse. Le Sezioni unite, con la sentenza 51815, superano il vecchio orientamento, sempre affermato dal Supremo consesso (13/2000) che prevedeva, ai fini della sussistenza della condotta, il pericolo concreto di diffusione del materiale prodotto. Un cambio di rotta, sollecitato anche dalla sezione remittente, che le Sezioni unite eseguono prendendo atto dell’evoluzione legislativa e giurisprudenziale sul tema. Il principio “tradizionale” abbandonato forniva, spiegano i giudici, una soluzione del tutto parziale del problema escludendo il fatto che la pornografia “domestica” potesse rientrare nel concetto di produzione previsto dall’articolo 600-ter del Codice penale, per la mancanza del pericolo di diffusione. Una condotta che, anche nel “vecchio” corso, era considerata penalmente rilevante ma collocata all’interno del “residuale” reato della pedopornografia virtuale (articolo 600-quater). Il nuovo inquadramento cambia prospettiva, chiarendo che la valutazione della rilevanza penale deve ruotare attorno al concetto cardine dell’“utilizzazione del minore”, per capire quando questa sfocia nella “strumentalizzazione” del minore, trasformato da soggetto dotato di libertà e dignità sessuali, in uno strumento di soddisfacimento del desiderio. Va esclusa “l’utilizzazione” quando le immagini o i video, destinati ad uso strettamente privato, sono il risultato di una relazione paritaria tra minorenni over 14, priva di un condizionamento che deriva da una posizione di “supremazia” dell’autore. Il discrimine non è dunque il consenso del minore in quanto tale, ma la configurabilità dell’utilizzazione che può essere esclusa solo dopo un attento apprezzamento di fatto affidato al giudice di merito. Toscana: il Garante dei detenuti “dobbiamo restituire speranza al mondo del carcere” luccaindiretta.it, 16 novembre 2018 “Nel momento in cui la stagione della promessa della grande riforma sulle carceri si chiude in negativo, in seguito alle decisioni di Parlamento e Governo di non investire sulle misure alternative alla pena, ma di concentrarsi sulla detenzione negli istituti, vogliamo restituire speranza al mondo del carcere”. Così ha esordito il Garante regionale dei detenuti, Franco Corleone, incontrando i giornalisti a palazzo del Pegaso, per fare il punto sullo stato di attuazione del Patto per la riforma del carcere in Toscana. Il garante ha elencato una serie di interventi, spaziando dai lavori al carcere di Arezzo per la riapertura, ai nuovi spazi da utilizzare a Lucca; dai lavori per la messa in sicurezza della cucina a Livorno al progetto del teatro stabile a Volterra; e ancora: dagli interventi a Pisa per garantire riservatezza nei bagni delle donne all’annuncio della trasformazione del Gozzini in femminile. “In tutto, i progetti di ristrutturazione edilizia per la nostra regione sono diciotto - ha ricordato Corleone - la maggior parte verranno ultimati nel 2019 e i più complessi nel 2020; la loro realizzazione mira a rendere la vita quotidiana più dignitosa”. In tema di valutazione dei decreti di riforma dell’ordinamento penitenziario, “è molto preoccupante che la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari non sia seguita da interventi di tutela della salute mentale in carcere e di modifica di alcuni articoli del codice penale come era previsto nel decreto originario” ha sottolineato Corleone, che ha anche riconosciuto alcuni elementi positivi: “non dovrebbero esserci più apolidi nelle carceri; l’amministrazione penitenziaria, sui trasferimenti, risponderà al detenuto entro 60 giorni; i garanti sono riconosciuti punti di riferimento significativo. Vigileremo sul rispetto di queste norme e con spirito di collaborazione continueremo il nostro impegno”. Campania: il Garante “negli ospedali servono più posti per i detenuti malati” di Valentina Ersilia Matrascia unisob.na.it, 16 novembre 2018 “Perché non aprire all’Ospedale del Mare un reparto con almeno 10 posti letto riservati alla popolazione carceraria?”, si chiede il Garante dei detenuti della Regione Campania, Samuele Ciambriello, riflettendo sullo stato del trattamento di chi ha problemi di salute ed è in carcere. La decisione della Corte europea dei diritti dell’Uomo, che ha condannato il ministero della Giustizia per aver sottoposto al 41bis Bernardo Provenzano anche negli ultimi mesi di vita, ha riacceso i riflettori sul regime del carcere duro. Il boss morì, dopo una lunga malattia, il 13 luglio 2016 mentre era detenuto al regime di 41bis nell’ospedale San Paolo di Milano. Molte le polemiche già all’epoca sulla sua detenzione dopo la perizia medica che lo dichiarava “incompatibile con il regime carcerario”. Le stesse che accolgono la sentenza della corte di Strasburgo. “Occorre equilibrare le esigenze di giustizia con la tutela dei diritti personali. Non possiamo usare il 41bis per soffocare umanità e dignità delle persone. Questa è la differenza tra il diritto e il crimine, altrimenti saremmo come loro”, commenta Ciambriello. Cosa pensa della sentenza della corte europea sul regime carcerario del 41bis a Provenzano? La decisione non mira a smantellare la normativa in sé, ma, semplicemente, pone l’accento su tutti quei meccanismi che portano al mantenimento del regime ex art. 41 bis anche nel caso in cui, secondo la legge, mancherebbero i presupposti per una sua applicazione. Anche nel caso di Bernardo Provenzano il 41bis non può essere applicato indipendentemente dalle condizioni di salute o comunque in condizioni tali da soffocare umanità e dignità. È bene ricordare quanto stabilito dalla Costituzione all’art. 27, nella parte in cui dispone, al comma 3, che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Anche quando si è detenuti resta valido l’art. 32 della Costituzione che tutela il diritto alla salute. Si tratta di un diritto assoluto dell’individuo - libero o detenuto che sia - e, in quanto tale, è alla base di qualsiasi comunità sociale pertanto la sua negazione equivarrebbe quasi alla negazione dell’uomo quale esponente di un consorzio civile. È venuto a mancare alcune settimane fa Ciro Rigotti, detenuto nel carcere di Poggioreale e malato di cancro in stadio terminale che aveva chiesto (e ottenuto solo in extremis) di poter passare gli ultimi giorni agli arresti domiciliari con i suoi cari. In un primo momento la sua richiesta non venne accolta. Quali sono le sue valutazioni sulla gestione del caso? Ciro Rigotti è stato ucciso da un tumore che non gli ha lasciato scampo. Prima di morire ha dovuto affrontare un pellegrinaggio continuo tra l’ospedale Cardarelli di Napoli e il carcere di Poggioreale, dove stava scontando nove anni per spaccio. La sua vicenda ha fatto discutere perché quando ormai non c’è più speranza, un detenuto ha il diritto di andare a casa e di morire nel proprio letto, accanto ai suoi familiari. Più volte nel corso degli ultimi mesi di vita di Rigotti ho sottolineato che si trovava illegittimamente in quelle condizioni agli arresti domiciliari ospedalieri. Sicuramente un passo avanti, ma bisogna ricordare tre cose fondamentali. In carcere si va perché si possono inquinare delle prove, che potrebbero invece risultare poi fondamentali per inchiodare un colpevole. Perché si può scappare o reiterare il reato. Ma, soprattutto, il carcere deve avere una funzione rieducativa. Nel caso di Ciro Rigotti, non si vedeva né la funzione riabilitativa della pena, né l’inquinamento di prove, la possibilità di scappare né quella di reiterare il reato. Eppure Rigotti per tornare a casa, da quel 13 settembre quando la situazione era ormai palese e critica, ha impiegato più di un mese riuscendo ad arrivare solo 12 ore prima di morire. Qual è lo stato della sanità nelle carceri in Campania? I dati che riguardano le carceri della regione Campania sono purtroppo sconcertanti. Con oltre 7400 detenuti, sono solo 34 i posti letto disponibili all’interno degli ospedali. I posti nelle aziende ospedaliere vanno incrementati e bisogna garantire nelle strutture sanitarie delle carceri macchinari essenziali, come la Tac e la risonanza magnetica, e la presenza stabile del personale medico ed infermieristico perché a chi è diversamente libero va pienamente garantito il diritto alla salute ed un’organizzazione che consenta di dare una risposta sanitaria di qualità. Calabria: l’Osservatorio sulla violenza alle donne approva documento programmatico strill.it, 16 novembre 2018 Centri anti violenza, Case - rifugio e Prevenzione e formazione. Ecco le tre questioni al centro del documento approvato ieri, dopo un’ampia e partecipata discussione, dall’Osservatorio regionale coordinato da Mario Nasone, a seguito dei lavori della prima Conferenza regionale sulla violenza di genere che si è tenuta il 26 ottobre e alla quale hanno partecipato tutti i soggetti che sulla violenza contro le donne hanno voce in capitolo. Il documento è stato inviato sia al Consiglio che alla Giunta regionale, perché lo esaminino in prossimità dell’approvazione del bilancio di previsione 2019. Per quanto concerne i Centri anti violenza e le Case rifugio, il documento chiede “di intervenire per garantire la copertura di questi servizi essenziali in tutto il territorio regionale. In atto, i centri autorizzati sono solo sette e le case rifugio due. Si chiede, pertanto, una modifica della legge regionale 20/2017 sui Centri anti violenza, con un abbassamento del bacino d’utenza a 80.000 abitanti (a fronte degli attuali 140.00) ed, in particolare, l’attivazione dei servizi nei territori della Locride, della Piana di Gioia Tauro, dell’ Area Ionica, delle province di Cosenza e Crotone in atto sprovvisti di questi importanti presidi”. Nello specifico delle Case rifugio, a fronte della presenza, al momento in Calabria, di solo due strutture del genere (Reggio e Catanzaro), il documento propone l’apertura di almeno altre tre Case rifugio nelle province di Cosenza, Crotone e Vibo Valentia. Sul piano normativo, ad avviso dell’Osservatorio, sono necessari: a) un Regolamento per l’accreditamento delle Case rifugio; b) una procedura di pubblicazione del Regolamento con linee guida chiare; c) finanziamenti certi per permettere una programmazione a lungo termine”. Sulla terza questione, la prevenzione e la formazione del personale, altrettanto cruciale nel contrasto alla violenza di genere, il documento, constata (e chiede che si intervenga per superare le criticità) “che al momento il binomio prevenzione - formazione è a carico dei Centri anti violenza e che i relativi finanziamenti regionali sono inadeguati. La formazione, in atto ridotta - è scritto nel testo varato dall’Osservatorio - va garantita a tutti gli attori coinvolti, prevedendo un aumento dei momenti formativi per ogni soggetto che opera nei servizi di pronta accoglienza per le donne che subiscono violenza (forze dell’ordine, pronto soccorso, servizi sociali, associazioni e parrocchie)”. Infine, il documento chiede che si preveda “nel bilancio regionale una voce specifica sulla violenza di genere, implementando in modo consistente i relativi finanziamenti, dato che al momento sono previsti soltanto 400.000 euro per tutti gli interventi. Inoltre, si chiede che siano utilizzati anche per questa materia i fondi comunitari”. L’Osservatorio regionale sulla violenza di genere, frattanto, “si è attivato per un lavoro di monitoraggio per ottenere un sistema di rilevazione dei casi di violenza standardizzato, coordinato e condiviso fra tutte le organizzazioni, in grado di generare flussi strutturati di informazione che potranno essere fruibili a livello nazionale e locale per le finalità proprie degli attori politici e sociali coinvolti”. Palermo: al carcere Pagliarelli l’isolamento uccide di Katya Maugeri sicilianetwork.info, 16 novembre 2018 Ormai sembra diventata una routine, di quelle che è inutile riportare per l’ennesima volta sui giornali. I suicidi all’interno delle carceri non si fermano, e il detenuto è ritenuto un rifiuto sociale. Uno in meno del quale occuparsi, dicono in molti. Una delle cause scatenanti può essere il trasferimento nel reparto isolamento, la cosiddetta cella “liscia” così chiamata per le caratteristiche stesse: mancanza di suppellettili e di ogni possibilità di contatto umano, senza finestre e con il “blindato” chiuso dietro le sbarre. Una condizione disumana a cui nemmeno il più incallito detenuto sa resistere, figurarsi un ragazzo che si trova in carcere per avere fatto uso di stupefacenti o per avere spacciato. La storia si ripete e giorni fa, al carcere Pagliarelli di Palermo un giovane ventinovenne si è ucciso. Sempre con la stessa modalità e con le stesse caratteristiche: in isolamento e con disturbi psichici. “Una storia agghiacciante quella del giovane ventinovenne, Samuele Bua, suicidatosi in maniera quasi inspiegabile in una cella d’isolamento, dove è stato chiuso oltre ogni ragionevole tempo”, spiega Pino Apprendi, presidente dell’associazione Antigone Sicilia. “Il paradosso è che quello Stato a cui si è rivolta la madre, denunciando il proprio figlio per evitare che potesse fare e farsi del male, ha restituito non una persona ma un corpo in una bara senza una spiegazione. Quello Stato a cui si era affidata fiduciosa una madre che ha creduto che il carcere potesse rieducare e guarire il povero Samuele che non aveva ricevuto nessun aiuto dalle Istituzioni locali. Mi chiedo: questo ragazzo ha ricevuto tutte le cure necessarie? I psicologi e gli educatori lo hanno incontrato? Ci sono le relazioni quotidiane dei medici che avevano l’obbligo di visitarlo? Quanti giorni è stato in isolamento e perché non era nel reparto di psichiatria? L’isolamento è una pratica di tortura che va abolita, soprattutto per i soggetti con problemi mentali o tossicodipendenti”. È ormai risaputo che uno dei problemi più importanti nel carcere è quello legato alla salute mentale. Un problema che è in continua crescita e che non trova risposta. Ormai sono centinaia i casi a cui deve fare fronte il personale, spesso sotto dimensionato e insufficiente. Alcuni detenuti, arrivano già con problemi psichiatrici, spesso legati al consumo di droghe, ma tanti, pur non assumendo droghe avvertono disturbi legati al nuovo tipo di vita a cui sono sottoposti, i cosiddetti “sopravvenuti”. “Lo Stato si è trovato impreparato all’indomani della chiusura degli Opg e molti, volutamente, dicono che la situazione attuale è stata determinata dalla chiusura di quelle strutture, sottovalutando le assurde condizioni di vita che esistevano al loro interno”, spiega Apprendi, “in carcere si trova perfino qualche detenuto che al processo è stato dichiarato “incapace di intendere e di volere”. Non può essere il carcere né l’isolamento la risposta a queste persone, una possibile risposta è la loro accoglienza in comunità, un percorso riabilitativo e rieducativo. Gli ultimi tre casi di suicidio al carcere Pagliarelli sono avvenuti dopo che i detenuti hanno avuto un trasferimento e tutti avevano manifestato volontà di suicidarsi. Chi di dovere era al corrente, perché informato. “Perché non sono state messe in atto misure per scongiurare questi atti estremi di togliersi la vita? - spiega Apprendi - Uno di questi aveva parlato con le figlie e con il proprio avvocato di questa volontà e un altro lo aveva confidato alla propria madre, avvisando i responsabili del carcere. Potrebbe esserci un buco inspiegabile nel sistema penitenziario che non comunica o che non controlla, noi abbiamo il dovere di denunciare, il sistema carcerario non è zona franca rispetto alla Costituzione, ogni uomo deve avere diritto alla vita. Se condannati va tolta la libertà e non la dignità”. Possibile che non ci siano responsabili della vita di un uomo o di una donna che entra in carcere? “Non mi rassegnerò mai al silenzio - conclude Apprendi - di fronte all’indifferenza per la morte di una persona che lo Stato avrebbe dovuto tutelare e rieducare”. Milano: polveriera Beccaria, ma il direttore è e part-time di Franco Vanni Venerdì di Repubblica, 16 novembre 2018 Nel carcere per minori di Milano la vita è sempre più difficile e le violenze più frequenti. Perché gli spazi sono pochi. E i maggiorenni, invece, sono tanti. Al carcere minorile Beccaria di Milano, nell’ultimo anno e mezzo le rivolte sono state sette. La più recente, solo poche settimane fa, quando dopo essere rimasti per giorni senza acqua calda nei bagni, alcuni detenuti hanno picchiato due agenti. La più grave risale invece allo scorso luglio: in sette rimasero intossicati in un incendio, appiccato nel Reparto avanzato, quello che dovrebbe ospitare i carcerati più tranquilli. Pochi giorni prima, un poliziotto era stato rinchiuso in uno sgabuzzino. Il disagio dei 37 detenuti alimenta una rabbia non più contenibile. La capienza è stata ridotta a causa di guasti, pericolo di crollo e dichiarazioni di inagibilità. Per ogni settore ristrutturato, un altro chiude, i posti non bastano e ci sono ragazzi costretti a vivere perfino in infermeria. “Il Beccaria rischia di diventare una pattumiera sociale. È grave che per i detenuti con problemi psichici non ci siano spazi adeguati”, denuncia Simone Postorino, da 14 anni educatore di Comunità Nuova. Nella struttura lavorano tredici educatori, trenta fra psicologi, insegnanti, tecnici e cinquantuno agenti, ma sono più giovani e meno esperti che altrove. A lanciare l’allarme, per primo, è stato don Gino Rigoldi. “Qui rischia di scapparci il morto”, disse a luglio il giorno dopo l’incendio. Due mesi più tardi, gli agenti manifestarono di fronte al Tribunale per i minorenni, chiedendo “un direttore a tempo pieno”. Dal 2008 i vertici del Beccaria sono cambiati otto volte. Oggi, a capo della struttura, c’è Cosima Buccoliero, una delle più stimate dirigenti penitenziarie d’Italia. Ma è a mezzo servizio, contesa con il carcere di Bollate, considerato un modello per i progetti di reinserimento dei detenuti. “Come sindacati della polizia penitenziaria abbiamo scritto al ministro della Giustizia” dice Giuseppe Merola, segretario regionale del Sinappe. “Qui serve un direttore fisso”. Che non si trova anche perché, chi guida un carcere minorile guadagna meno rispetto chi dirige uno per maggiorenni. Un paradosso, visto che al Beccaria gli under 18, in realtà, sono una minoranza. Un decreto legge del 2014 dispone infatti che chi viene condannato per reati commessi prima della maggiore età venga recluso con i minorenni, anche se nel frattempo è cresciuto. “Inevitabile che i detenuti più giovani prendano i più grandi come esempio” spiega l’avvocato Robert Ranieli. Con esiti immaginabili. Palermo: sottoscritto protocollo d’intesa, i detenuti diventano giardinieri La Sicilia, 16 novembre 2018 Il protocollo firmato ieri mattina dal ministro della Giustizia Alfono Boanfede e dal sindaco Leoluca Orlando. Venti detenuti del carcere Ucciardone dai primi di dicembre, dopo un corso sulla sicurezza nel lavoro messo a punto dal comune di Palermo, saranno impiegati in lavori socialmente utili come giardinieri e pulizieri dall’amministrazione comunale. È il risultato di “Mi riscatto per Palermo” il protocollo d’intesa, firmato in mattinata, nel carcere denominato “Calogero di Bona” di Palermo, alla presenza del ministro per la Giustizia Alfonso Bonafede. L’accordo, promosso dal Ministero della Giustizia-Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, coinvolge direttamente il Comune di Palermo, la Direzione dell’istituto penitenziario siciliano e il Tribunale di Sorveglianza ed è “finalizzato a valorizzare l’inclusione sociale dei detenuti ammessi a svolgere all’esterno lavori di pubblica utilità”. In particolare, i detenuti saranno impegnati nella pulizia all’interno dell’ex ospedale militare, acquisito dai carabinieri, dove saranno prossimamente trasferiti alcuni reparti, a Monte Pellegrino e per la bonifica della foce del fiume Oreto. Presenti assieme al Guardasigilli, il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, il capo del Dap Francesco Basentini, il presidente del Tribunale di Sorveglianza Giancarlo Trizzino, il procuratore generale Roberto Scarpinato, il garante dei detenuti in Sicilia Giovanni Fiandaca, il provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria Gianfranco De Gesu e il direttore della casa di reclusione Ucciardone-Calogero Di Bona, Rita Barbera, il dirigente dell’assesorato comunale Ambiente Domenico Musacchia. “Quello di oggi è un importante segnale di istituzioni diverse che decidono di lavorare insieme nell’interesse dei cittadini - ha detto il ministro per la Giustizia Alfonso Bonafede -. Questi protocolli che abbiamo avviato e stiamo portando avanti a Milano, Roma e Palermo dimostrano che le istituzioni possono collaborare insieme con tutti gli addetti ai lavori per realizzare una nuova idea, e attuare il principio della costituzione che prevede il valore della rieducazione della pena”. “Dobbiamo offrire ai cittadini qualità della giustizia - ha proseguito Bonafede - e ci sono settori della giustizia che non devono avere colore politico, anzi faccio appello ai sindaci affinché si passino la voce per allargare questi progetti ad altre città”. “La rieducazione - ha spiegato ancora il ministro - deve avere necessariamente come obiettivo la reintegrazione nella società e questo è un argomento che per tanto tempo è stato trascurato”. “Io come Stato - ha continuato Bonafede - ho il dovere di accompagnare il detenuto nella sua uscita dal carcere, dobbiamo fornire loro gli strumenti per scegliere. Lo Stato realizza il suo compito principale intervenendo nelle periferie dove c’è maggiore bisogno di attenzione e di presenza dello Stato”. “La certezza della pena non è infatti in antitesi con la rieducazione, - ha osservato - che si può realizzare con l’arte, con la cultura e un polo didattico come questo dedicato a “Pio La Torre” all’interno del carcere è un esempio. Il detenuto che lavora restituisce alla società il maltolto e così si forma e cresce e l’auspicio è quello che cambi”. Busto Arsizio: il carcere sta cambiando “più umanità conviene a tutti” di Marco Corso varesenews.it, 16 novembre 2018 Tante novità si stanno realizzando sia per i detenuti che per gli agenti. Oggi ha aperto anche l’ufficio del Garante regionale dei detenuti. Tavoli e ombrelloni in giardino per i colloqui durante l’estate, docce con acqua calda nelle celle, arredi rinnovati e pareti tinte di fresco. Sta cambiando il volto del carcere di Busto per allontanarsi sempre di più dall’incubo tratteggiato dalla sentenza Torreggiani del 2013, quello che condannò l’Italia per trattamento inumano. “Stiamo dando un segnale chiaro - spiega il Comandante della Polizia Penitenziaria Rossella Panaro - perché con un ambiente migliore e più vivibile possiamo pretendere cose migliori dai detenuti”. La struttura sta quindi cambiando profondamente sia nelle aree per i reclusi che in quelle per il personale perché “se il clima è buono e più rilassato per gli agenti ne beneficiano anche i detenuti”. Per quanto riguarda questi ultimi i cambiamenti ci sono stati sia nelle celle con il rifacimento dei bagni e degli impianti sia nelle aree dei colloqui che adesso nella bella stagione possono essere fatti all’aperto. Per gli agenti invece “abbiamo realizzato diversi interventi tecnologici per liberare personale da inserire nelle sezioni, dove succedono le cose”. Ma perché bisogna investire in carceri più umane? “Perché è utile per la società” dice il Prefetto di Varese, Enrico Ricci. Secondo Ricci infatti “la rieducazione non è soltanto un’esigenza umanitaria ma è anche utile per l’intera comunità per non andare a rimettere in società un delinquente che tornerà a fare quello che ha sempre fatto”. Ed è anche per questo che da oggi ha ufficialmente aperto nella struttura bustocca un ufficio del garante regionale dei detenuti, Carlo Lio. “Io e i miei collaboratori saremo qui una volta al mese -dice- e abbiamo deciso di venire qui perché in questi ultimi temi la struttura di Busto è tornata agli onori della cronaca”. Certo è che tutti gli interventi che si stanno realizzando nella struttura vanno a cozzare con il grave problema del sovraffollamento. “In questo momento abbiamo 445 detenuti - dice il direttore Orazio Sorrentini - e il mio grazie va al personale che quotidianamente si spende per gestire questa struttura”. Un compito non certo facile dal momento che anche ieri, alla vigilia dell’inaugurazione dello sportello, un detenuto ha dato fuoco al materasso della sua cella intossicando leggermente 5 agenti. Parma: il Garante “il mio impegno per i detenuti nei prossimi cinque anni” di Michele Ceparano Gazzetta di Parma, 16 novembre 2018 Saranno cinque anni difficili quelli che attendono Roberto Cavalieri, appena eletto garante dei detenuti del carcere di Parma. Lo attendono cinque anni difficili. È appena stato eletto garante dei detenuti per il Comune di Parma con una maggioranza schiacciante, 25 voti su 29 consiglieri, di maggioranza e opposizione. Ma il parmigiano Roberto Cavalieri il garante lo ha fatto anche negli ultimi tre anni e mezzo, con nomina da parte della Giunta. Ora, però, lo aspettano cinque anni in cui programmare. O cercare di farlo. Saranno anni non facili visti i problemi sul tappeto per quanto riguarda il carcere di Parma. “Prima di tutto - spiega Cavalieri - voglio ringraziare il sindaco Pizzarotti e il consiglio comunale che mi ha votato con una maggioranza così ampia”. Subito una speranza: “Tra cinque anni, quando il mio mandato scadrà, vorrei che non ci fossero, com’è accaduto stavolta, solo due candidati, ma dieci”. Cavalieri ha una lunga esperienza di attività in carcere. “È da 25 anni che ci lavoro - ricorda -. Ho fatto il docente, ho collaborato, ai tempi del direttore Silvio Di Gregorio, a progetti su tossicodipendenze e lavoro. Ho collaborato con enti di formazione professionale, ho coordinato nel 2002 un progetto regionale sul volontariato in carcere, mi sono occupato dello sportello informativo del Comune di Parma cioè dei servizi che i detenuti potevano chiedere, in particolare per i permessi di soggiorno, la residenza e così via. Va anche ricordato che la figura del garante non è obbligatoria. L’amministrazione Pizzarotti ha voluto però sperimentare questa figura e, dopo un bilancio giudicato positivo, ha proseguito”. Cavalieri, che in passato si è occupato di carcere anche in alcuni tra i Paesi più problematici dell’Africa, tra cinque anni, quando scadrà il mandato, avrà totalizzato trent’anni di servizio. “Equivale a un ergastolo” si concede una battuta. Torna, però, immediatamente a concentrarsi sui tanti problemi che incombono sul carcere di Parma. “In questi cinque anni - riprende -, al di là dei casi singoli (Cavalieri è stato anche tutore legale di Totò Riina, il boss morto a Parma un anno fa, ndr), quello che per me va fatto a Parma è misurare l’effettivo servizio di tutela dei detenuti. Mi spiego meglio: a quale punto i servizi sanitari, educativi, formativi e tutto quello che fa parte della loro vita vengono effettivamente soddisfatti?”. La grande problematica che vive il carcere di Parma è di sistema. “Negli ultimi sei anni - dichiara - certe emergenze si sono cristallizzate. Ad esempio, la mancanza storica, oggi un po’ migliorata, di agenti di polizia penitenziaria, ha totalmente inibito qualunque effettivo cambiamento strutturale in questo carcere”. Che, da un certo orario, diventa un “parcheggio”. “Dalle tre del pomeriggio - rivela Cavalieri, a parte avvenimenti eccezionali come possono essere il teatro o il cinema, non si fa più nulla. Gli stessi lavori cosiddetti domestici, pulizie e quant’altro, terminano tutti molto presto”. Tra i punti dolenti, c’è inoltre il fatto che il “repartino” detentivo per i malati “abbia cinque posti letto e quando un detenuto del 41 bis deve andarci, i posti diminuiscono perché quel detenuto deve stare solo”. Presto verrà inaugurato in via Burla, il nuovo padiglione che, praticamente già pronto, vedrà arrivare duecento detenuti in più a Parma, portando il numero complessivo a circa ottocento. “Ma non aumenteranno i posti del reparto detentivo” sospira. Inoltre, “il novo padiglione presenterà problemi simili a quello vecchio. Ci sono alcune variazioni (celle da tre persone, bagni migliori, alcune celle per i disabili, mensa e cucina più moderne), ma questo non basta. Mancano gli spazi per l’attività di recupero, inferiori addirittura alla vecchia struttura”. Parma diventerà così “il carcere più importante dell’Emilia-Romagna. Ma resterà una struttura con grandi problemi come, ad esempio, quello di non avere un direttore fisso. Quello attuale, infatti, sarà, su sua richiesta, ricollocato a Roma. E pare che nessuno si sia candidato per venire a dirigere via Burla”. Accanto a queste emergenze, sanità in testa, come specifica il garante, “c’è quella del lavoro. A Parma, a parte il lavoro penitenziario, il lavoro non esiste. La Fondazione Cariparma ha finanziato una lavanderia. Dopo due anni siamo forse vicini alla pubblicazione della gara. Ma tanto tempo è passato da quando questi fondi sono stati messi a disposizione. Le procedure restano sempre troppo farraginose”. Tornando al nuovo padiglione, “sarà popolato da detenuti dell’alta sicurezza. Parma diventerà così un carcere da circa 400-450 detenuti di alta sicurezza e 41 bis, una “cittadella” della grande criminalità reclusa. Non sarà facile gestire via Burla, in cui già oggi ci sono più di cento ergastolani. Inoltre, Parma non è attrattiva. Qui i direttori hanno meno fondi e uomini di quelli che dovrebbero avere. Qui, dunque, non ci sono onori, ma solo oneri”. Alla fine di questo mandato, la speranza di Cavalieri è che “Parma diventi un carcere con un direttore a incarico fisso” e che “questo non venga più considerato un carcere ordinario. Poi, vorrei veder migliorare la sanità. Nel mio ruolo mi aspetto anche la massima collaborazione da parte delle autorità penitenziarie e sanitarie. Insomma, meno celebrazioni e più fatti. Troppi progetti sono rimasti solo sulla carta”. E il Comune? “Spero di avere un rapporto costante con tutti i consiglieri - conclude. Dobbiamo sempre ricordare che il carcere fa parte della città. Tra i detenuti e chi ci lavora ci sono un migliaio di persone. Ogni anno, inoltre, cinquemila parenti vengono qui per i colloqui. Si trova su una strada molto trafficata che porta all’Ikea e a Parma Retail. Perciò è impossibile non vederlo. A meno che non si vogliano chiudere gli occhi”. Vasto (Ch): sartoria alla Casa circondariale, una grossa opportunità per i detenuti di Maria Napolitano sansalvo.net, 16 novembre 2018 Nella struttura della Casa Lavoro con annessa Sezione circondariale di Vasto, lunedì 3 settembre è stato avviato il laboratorio di sartoria guidato da Rossana Priori. All’inizio erano coinvolti 6 detenuti, oggi ce ne sono 12 che realizzano lenzuola, federe e asciugamani per l’Amministrazione Penitenziaria. Come riferisce l’insegnante del laboratorio si è creato sin da subito un bel gruppo di lavoro fondato sul rispetto reciproco, la voglia di imparare un mestiere e avere una opportunità di lavoro nella vita di “fuori”. “È una esperienza straordinaria, che ho intrapreso per caso - racconta la docente. Pensavo di trovarmi in difficoltà a rapportarmi con persone detenute, ma ogni mattina vado con entusiasmo a chiudermi con loro, dietro quei cancelli; vederli arrivare sempre con un sorriso e il loro buongiorno sempre accompagnato da una stretta di mano, i volti contenti di trovarmi in laboratorio, la voglia di sedersi subito alla macchina, perché a loro quel lavoro piace. Sono contenta di aver avuto questa opportunità e spero che con il mio lavoro in sartoria posso contribuire a migliorare la vita di qualcuno, ma soprattutto di dare loro speranza. Un’esperienza unica quindi sia per chi gestisce il lavoro, sia per i detenuti che hanno incontrato una grande opportunità”. “Sarebbe bello che questo fosse solo l’inizio e che presto, oltre a produrre per le esigenze dell’Amministrazione Penitenziaria, si potessero realizzare oggetti da offrire all’esterno, in modo da costruire opportunità di effettivo reinserimento sociale per gli internati e una visibilità ancora più positiva per l’ istituto penale”, questo il commento della dr.ssa Giuseppina Rossi, Funzionario giuridico-pedagogico presso la Casa di lavoro. Lecce: detenuto morto in carcere, tre medici finiscono sotto processo corrieresalentino.it, 16 novembre 2018 Tre medici del carcere di Lecce a processo per la morte di un detenuto. Il gup Antonia Martalò ha accolto la richiesta di abbreviato per i tre camici bianchi residenti tra Lecce, Nardò e Casarano. Il processo è fissato per il 21 febbraio. La vicenda giudiziaria, lunga e complessa, si riferisce alla morte del detenuto Donato Cartelli, 59enne originario di Uggiano La Chiesa deceduto il 18 febbraio del 2016. A dare avvio all’inchiesta era stata una denuncia dei familiari del detenuto che, assistiti dall’avvocato Andrea Conte, si sono costituiti parte civile. Dietro le sbarre Cartelli stava scontando una condanna a nove anni di reclusione per reati contro la persona. Il detenuto non aveva mai lamentato alcun problema di salute. E ai familiari non aveva riferito di alcun malanno. Anzi, nel corso dei colloqui, avrebbe sempre rassicurato i propri familiari augurandosi di poter beneficiare della liberazione anticipata alla luce della buona condotta tenuta dietro le sbarre. Il decesso si concretizzò nel rapido volgere di poche settimane dopo alcuni problemi di stomaco e cali di pressione. Il pubblico ministero Francesca Miglietta, sulla scorta degli esiti della perizia medica della dottoressa Gabriella Cretì nominata in sede di incidente probatorio, chiese l’archiviazione del procedimento. Dopo l’udienza camerale in cui venne discussa l’opposizione alla richiesta di archiviazione avanzata dal legale dei familiari di Cartelli, l’avvocato Andrea Conte, il gip Edoardo D’Ambrosio dispose l’imputazione coatta dei tre medici. Secondo il giudice, nel corso della prima visita medica del 20 gennaio 2016, non sarebbe stata disposta un’ecografia nonostante nei giorni successivi i dolori addominali persistessero. E nonostante tale esame sarebbe stato rifiutato dal detenuto per il gip i tre medici (che hanno tenuta in cura Cartelli) avrebbero avuto l’obbligo di fornire un’adeguata informazione sulle conseguenze delle proprie scelte al detenuto “soggetto in tutto e per tutto alle cure dello Stato”. I medici si sarebbero limitati nelle visite del 13 e 19 febbraio a prescrivere terapie generiche (un antidolorifico e un lassativo e un vasopressore pur di a fronte di un quadro cardiocircolatorio estremamente grave (pressione arteriosa pari a 80/60). I tre imputati sono assistiti dagli avvocati Vincenzo e Antonio Venneri, Vincenzo Perrone e Mario Ingrosso. Milano: “Ritratti in carcere”, l’importante è saper guardare oltre di Rossana Cavallari Vita, 16 novembre 2018 Detenuti e volontari del carcere di Opera sono protagonisti di un intenso e profondo libro fotografico di Margherita Lazzati. La presentazione venerdì 16 novembre a Milano a cura dell’associazione “Il Girasole onlus” da anni impegnata nel sostegno e nel supporto a detenuti e familiari. Per la prima volta l’Associazione “Il Girasole” Onlus, da anni impegnata nel sostegno e nel supporto a detenuti e familiari, partecipa a Bookcity Milano con un appuntamento davvero particolare. Venerdì 16 novembre, infatti, alle ore 18 (in via San Vittore, 49 a Milano) sarà presentato il libro fotografico di Margherita Lazzati “Ritratti in carcere” curato da Galleria L’Affiche. Un libro intenso e profondo che raccoglie, attraverso 32 scatti in bianco e nero, i volti e gli sguardi di detenuti e volontari del carcere di Opera. Un racconto per immagini che si fa mezzo di indagine sociale con la volontà di fissare momenti nati, in origine, attorno al tavolo sul quale sono state raccolte le storie e le parole delle persone che hanno vissuto l’esperienza di un laboratorio di scrittura organizzato, all’interno del carcere stesso, da Silvana Ceruti. Margherita Lazzati che frequenta questo luogo da anni come volontaria ha sentito forte la necessità di portare all’esterno una testimonianza diversa dando, allo stesso tempo, valore e riconoscimento all’essere umano. Un libro importante attraverso il quale viene indagato il tema profondo dello sguardo strettamente legato alla percezione che si ha di sé, dell’altro e dell’ambiente nel quale si vive o si è costretti a vivere. Il carcere, in fondo, è luogo atipico, ai più sconosciuto e governato da regole proprie nel quale indagare la persona risulta complesso oltre che emotivamente coinvolgente. Serve empatia e, non di meno, quella particolare sensibilità che sia in grado di farsi spazio tra delicate situazioni ed equilibri molte volte precari. Alla presentazione interverranno: il direttore della Casa Circondariale di San Vittore e già della Casa di Reclusione di Opera Giacinto Siciliano, Jacqueline Ceresoli, storica e critica dell’arte contemporanea, Sara Santi, pedagogista impegnata in percorsi di reinserimento sociale e nella mediazione familiare dei detenuti. L’incontro sarà moderato da Luisa Bove presidente Associazione “Il Girasole”. L’era della globalizzazione e le sue illusioni pericolose di Mauro Magatti Corriere della Sera, 16 novembre 2018 Nella redistribuzione della ricchezza mondiale il gruppo sociale che ha perso di più (in termini di sicurezza e prospettive) è stato il ceto medio dei paesi Ocse. La lezione della crisi del 2008 è che le condizioni per una crescita planetaria e illimitata non ci sono più. E ciò cambia completamente lo scenario storico. Tra il 1985 e il 2008 il Pil mondiale è cresciuto a una velocità senza precedenti. Tuttavia questa fase ha prodotto almeno quattro effetti, che adesso premono chiedendo con urgenza nuove idee e soluzioni. In primo luogo, la crescita mondiale si è accompagnata a una gigantesca redistribuzione della ricchezza che ha avvantaggiato una quota modesta degli abitanti dei paesi ricchi (meno del 20%) e una parte (consistente ma comunque minoritaria) della popolazione del resto del mondo. Il gruppo sociale che ha perso di più (in termini di sicurezza e prospettive) è stato il ceto medio dei paesi Ocse. In secondo luogo, la globalizzazione si è associata a un forte peggioramento degli equilibri della biosfera planetaria. Come ha ricordato anche l’ultimo rapporto Onu, il nostro modello di crescita è semplicemente insostenibile se esportato su scala globale. In terzo luogo, col tempo sono diventate sempre più forti le pressioni culturali associate allo sconvolgimento demografico e ai processi migratori prodotti dalla crescente integrazione economica. La convivenza tra civiltà, di cui aveva scritto Huntington, è questione quanto mai attuale. Da ultimo, la fine dell’espansione lascia spazio a una cronica instabilità finanziaria, causata anche dagli scompensi di cui è costellato il pianeta. La reazione politica che si sta verificando in questi anni poggia dunque su buone ragioni: continuare a pensare come si è fatto a partire dalla metà degli anni 80 è sbagliato. Ma, detto questo, che cosa ci aspetta? In un esercizio proposto di recente, Branko Milanovic ha definito i termini del problema che abbiamo davanti. Al livello attuale del Pil, un quarto della popolazione mondiale vive con meno di 2,5 dollari al giorno. Il che è evidentemente inaccettabile. Per correggere la situazione, il Pil dovrebbe aumentare di 2,7 volte. Ma, oltre al tempo richiesto, tale crescita non è realistica per almeno due ragioni: le tensioni politiche che si produrrebbero nei paesi avanzati, dove non si è disposti a continuare sulla china declinante degli ultimi decenni; e l’ulteriore aggravamento della crisi ambientale, con le conseguenze associate. Se, invece, vincessero le preoccupazioni ecologiche (o l’instabilità politico-finanziaria) e smettessimo di crescere (immaginando di entrare in una sorta di stato stazionario) saremmo costretti tra due alternative entrambe problematiche: gestire politicamente — e quindi anche militarmente — la disuguaglianza tra le diverse parti del mondo; oppure procedere con la progressiva redistribuzione di risorse dai paesi ricchi a quelli più poveri, con conseguenze incalcolabili su quel ceto medio che già oggi rifiuta la globalizzazione. È chiaro perché, in questo contesto, la spinta a focalizzarsi sull’economia domestica e sul benessere dei propri cittadini appaia come una strada possibile. Dovrebbe però essere chiaro che si tratta di una pezza che col tempo metterà in luce tutte le sue contraddizioni. Da un lato, la pressione politica legata allo scontro interno/esterno è destinata ad aumentare. Ma come questa chiusura si coniugherà con l’esigenza della crescita economica non ci è dato sapere. Dall’altro lato, i costi del danno ambientale non potranno che crescere (essendo per definizione questioni globali e come tali fuori dalle agende nazionali). Come se ne esce? Difficile dirlo. In un certo penso, lo “scopriremo solo vivendo”, per citare Lucio Battisti. Ma una cosa almeno è chiara: con il 2008 torna all’ordine del giorno il problema delle compatibilità. Che cosa significa? Alla fine degli anni 70, abbiamo imparato che l’affermazione “il salario è una variabile indipendente” non reggeva. Allo stesso modo, oggi dobbiamo capire che anche l’affermazione “la finanza/economia è una variabile indipendente” non regge. Semplicemente perché al mondo di indipendente, cioè di assoluto, non c’è niente. Tutto è in relazione con tutto. Eccoci così al nodo culturale di questi anni: il XXI secolo si è inaugurato raccogliendo l’eredità (ambivalente) della seconda metà del 900, quando un pensiero astratto (anche rispetto all’idea di individuo) è diventato prevalente tanto a destra quanto a sinistra. Oggi occorre tornare a pensare e a praticare la concreta relazionalità della vita di cui parlava un secolo fa Georg Simmel: ricostituendo comunità politiche limitate, basate su limiti (confini) dotate di identità e istituzioni e però allo stesso tempo capaci di non dimenticare ciò che lega a ciò che le circonda, ad altre organizzazioni politiche, al sistema tecnico mondiale, alla biosfera. Nelle quali ogni cittadino sia chiamato a dare il proprio contributo. Se non impareremo (in fretta) la lezione, finiremo per oscillare tra due pericolose illusioni: pensare che scienza, tecnica e innovazione (che pure sono necessarie!) possano da sole risolvere il problema; oppure credere che sia possibile separarsi dal mondo che ci circonda, costruendo muri, odiando lo straniero, facendosi guerre commerciali (e Dio non voglia) militari. In mezzo sta la faticosa concretezza della politica, che comporta la nostra capacità culturale di superare l’ideologia dell’homo deus. Si dirà che è difficile. E infatti lo è. Ma chi lo ha detto la storia è una cosa facile? Migranti. Decreto sicurezza, l’Anci spera che il governo non cancelli la rete Sprar di Martina Cecchi de Rossi La Stampa, 16 novembre 2018 Il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati gestito dai Comuni potrebbe subire un taglio drastico a vantaggio dei centri di accoglienza straordinaria. L’ultima fermata prima dello “smantellamento” della rete Sprar sull’accoglienza dei migranti regolari è alla Camera, dove il decreto sicurezza è all’esame dell’Aula dopo il via libera dato dal Senato il 7 novembre. La speranza, per l’Anci, è che almeno parte degli emendamenti, respinti a Palazzo Madama, possano questa volta essere accolti. I dati, per l’Associazione dei comuni, sono la prova di un sistema che andrebbe mantenuto intatto, mentre il decreto taglia drasticamente questa forma di accoglienza (ai minori non accompagnati e ai rifugiati e non più anche ai richiedenti asilo) a vantaggio dei Cas (centri di accoglienza straordinaria): nel 2017, nei 31.340 posti disponibili, sono stati accolti 36.995 beneficiari e il 70% delle persone uscite dalla rete delle strutture Sprar (oltre 9 mila) ha terminato il percorso di accoglienza avendo gli strumenti per una propria autonomia. E ancora, 25.480 adulti hanno frequentato almeno un corso di lingua, quasi 16 mila un corso di formazione professionale e svolto un tirocinio formativo, e 4.265 hanno trovato un lavoro. La conferma, secondo il sindaco di Prato Matteo Biffoni, delegato Anci per l’immigrazione, che la rete dei Comuni è di gran lunga l’esperienza migliore che l’Italia abbia prodotto, in termini di servizi, capacità di integrare e sostenibilità per i residenti”. Gli emendamenti puntano, tra l’altro, a consentire l’ingresso nelle strutture Sprar, persone con disabilità e con situazioni di vulnerabilità, anche per ottimizzare i costi della spesa pubblica e ottimizzare la gestione dei servizi locali. Un segnale di apertura, dice Antonio Decaro, Presidente Anci, è arrivato proprio dalla Lega, ‘madrina’ del decreto sicurezza: “stiamo registrando un’apertura e disponibilità al dialogo da parte del Governo, a partire dall’incontro con il sottosegretario Molteni”. Il responso nei prossimi giorni, in Aula alla Camera, durante le votazioni sugli emendamenti. Egitto. “L’Italia onora al-Sisi. Ma chi cerca la verità per Giulio Regeni va in prigione” di Giuliano Foschini La Repubblica, 16 novembre 2018 Ahmed Abdallah, presidente del consiglio di amministrazione della Commissione per i diritti e le libertà, critica il nostro governo per aver invitato il dittatore al vertice di Palermo sulla Libia. Le luci del vertice di Palermo sulla Libia si sono spente. Il presidente Abd al-Fattah al-Sisi è tornato nei suoi palazzi egiziani. Il governo italiano, come ha spiegato il ministro degli Esteri, Enzo Moavero, ha assicurato che “la questione di Giulio Regeni è stata tra gli oggetti dell’incontro bilaterale”. Eppure in tanti si chiedono come sia stato possibile invitare con tutti gli onori della cronaca il capo di un regime che ancora nasconde, quasi tre anni dopo, verità sul sequestro, la tortura e l’assassinio di Giulio Regeni. E che ha in carcere la moglie di uno dei consulenti legali della famiglia Regeni, Amal Fathy, senza nessuna colpa apparente. Eppure nei tempi passati le dichiarazioni del vice premier Luigi Di Maio erano state molto chiare sul rapporto da tenere con l’Egitto di Sisi. “Chiediamo di sospendere subito l’export di armi verso il Cairo se non ci si vuole rendere complici del regime di al-Sisi, accusato di una repressione interna e di numerose violazioni dei diritti umani. L’Italia alzi la testa!”, diceva il 14 febbraio del 2016, ben prima di arrivare al governo. Per poi aggiungere: “A giudicare dalle passerelle dei nostri ministri e dalle timide dichiarazioni del premier, anche in questa vicenda, ancora una volta si rischia di preferire gli interessi economici. In Egitto l’Eni ha interessi stratosferici ed Edison, Intesa Sanpaolo, Pirelli, Italcementi, Ansaldo, Tecnimont, Danieli, Techint, Cementir stanno piantando tende. Alcuni di questi gruppi hanno Renzi al guinzaglio e non gli permetteranno mai di fare la voce grossa con il dittatore al-Sisi per ottenere la verità sui responsabili della morte di Giulio. L’Egitto ci prende in giro. Ora come ora, se al-Sisi si ostinerà a nascondere la verità, il governo dovrebbe minacciare ed eventualmente avviare ritorsioni economiche verso l’Egitto”. “Ora cosa è successo?”, si chiede Ahmed Abdallah, presidente del consiglio di amministrazione della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, che affianca la famiglia Regeni. Abdallah, probabilmente proprio per il suo lavoro nella ricerca della verità sull’assassinio del ricercatore italiano, nel 2016 è rimasto in carcere per sei mesi. La stessa sorte capitata ora ad Amal. “Vedere il tappeto rosso per Sisi mentre quelli che cercano la verità per Giulio sono in prigione è molto deludente”, dice dal Cairo Abdallah. “Per quasi 3 anni fino ad ora non abbiamo sentito altro che parole. E invece abbiamo bisogno di azioni, vogliamo una cooperazione assoluta, vogliamo sapere chi sono i responsabili della tortura e della morte di Giulio”. In Egitto sono rimasti molto sorpresi dalla visita di Sisi. Il lavoro del presidente della Camera, Roberto Fico, che era andato anche al Cairo, sembrava andare in una direzione opposta, quella della verità e della giustizia. E invece, dice Abdallah, “questa visita concede nei fatti il via libera al regime egiziano. Ora sanno che possono farla franca e dimostra che con o senza cooperazione nel caso di Giulio avranno normali relazioni con l’Italia”. Come sta Amal? “È lontana da suo figlio di tre anni. Non potrebbe esistere punizione peggiore. L’unica colpa di Amal è che suo marito sta cercando la verità per Giulio e per questo paga il prezzo. Il regime egiziano dovrebbe liberarla immediatamente e invece tutto quello che abbiamo sono minaccia e carcere. Così come nelle indagini sull’omicidio di Giulio abbiamo finora dalla parte egiziana soltanto un mucchio di menzogne. Noi però non ci fermeremo. È un nostro dovere ottenere la verità per un crimine di tortura e per l’uccisione di un cittadino italiano, nei confronti di Giulio e della sua famiglia. E del vostro Paese”. Arabia Saudita. Caso Khashoggi, la procura chiede pena di morte per i presunti colpevoli di Guido Olimpo Corriere della Sera, 16 novembre 2018 Undici persone incriminate, per cinque di queste l’accusa ha chiesto la pena capitale. Scagionato il principe Mohamed Bin Salman. Secondo copione. La procura saudita ha diffuso i risultati della sua inchiesta sul mistero Khashoggi ed ha indicato i presunti colpevoli: 11 persone incriminate, richiesta di pena di morte per 5. Responsabili il vice capo dell’intelligence, Ahmed al Assiri, e il consigliere per i media Saud al Qahtani. Scagionato il principe Mohammed bin Salman, anche se i due alti funzionari sono stati sempre stati i suoi uomini di fiducia. La ricostruzione indica le tappe. Il 29 settembre si svolge la riunione per preparare la missione e selezionare un team di 15 elementi divisi in tre nuclei: negoziatori, intelligence e logistica. Del gruppo fa parte anche un medico legale che deve occuparsi di far sparire eventuali tracce se sarà necessario usare la forza. L’ordine per gli agenti è di convincere Jamal Khashoggi a rientrare in patria, se si oppone dovranno immobilizzarlo e portarlo via. Tutto si svolge con contatti diretti di al Assiri, al Qahtani e dell’ufficiale che dovrà guidare la missione. Il 2 ottobre il giornalista oppositore entra nel consolato di Istanbul ed è affrontato dagli uomini dei servizi. Il colloquio degenera, c’è una colluttazione, la vittima è drogata in modo pesante e muore. Sono cinque - sostiene la procura - i responsabili dell’omicidio, tutti identificati. Il cadavere di Jamal è fatto a pezzi, quindi consegnato ad un complice locale, del quale Riad è pronta a fornire un identikit. Uno degli agenti indossa abiti identici all’esule ed esce per far credere che Khashoggi si sia allontanato di sua volontà. A Riad viene inviato un falso rapporto per sostenere proprio questa tesi. Le autorità giudiziarie aggiungono che le telecamere all’interno della sede diplomatica sono state manipolate per proteggere l’azione. È chiaro il tentativo del regno di ribadire la versione - peraltro mutata più volte - che il delitto è da attribuire a funzionari che hanno disobbedito alle disposizioni ed hanno diffuso un report che avrebbe ingannato Riad. Tesi difensiva poco credibile visti i ben noti legami tra il principe Mohammed e molti dei protagonisti dell’inchiesta: al Assiri, al Qahtani e uno degli “operatori”, apparso spesso al fianco del leader durante le visite all’estero. Per molti analisti il trio ha rappresentato, in questi mesi, una cellula riservata per contrastare oppositori e critici. E certamente, scaricando le responsabilità sui collaboratori si avranno ripercussioni sui rapporti di fiducia all’interno della nomenklatura. Chi dovrà eseguire un ordine scomodo magari cercherà di crearsi una polizza di sicurezza. Sul piano diplomatico le spiegazioni ufficiali hanno cambiato poco il quadro. La Turchia le ha definite insoddisfacenti, Ankara continua a chiedere l’estradizione dei colpevoli così come un’inchiesta a livello internazionale. Condizioni alle quali si aggiunge la necessità di trovare i resti dell’oppositore. Gli Usa, da parte loro, hanno annunciato sanzioni contro 17 sauditi, misura in apparenza simbolica per lanciare un segnale. Nella lista ci sono tra gli altri al Qahtani, Maher al Mutreb e il console al Otaibi che era in servizio a Istanbul, ma non il numero due dell’intelligence al Assiri. Nei giorni scorsi Washington ha comunicato che i suoi aerei-cisterna non riforniranno più i caccia dell’alleato impegnati nella guerra nello Yemen. Libia. Tregua a Tripoli con la mediazione Onu, ma Serraj resta sotto assedio di Vincenzo Nigro La Repubblica, 16 novembre 2018 La settima Brigata ha dato il suo segnale. L’operazione militare ricorda che bisogna fare i conti con il gruppo che sfida le milizie Tajuri e Kara, padrone di Tripoli. Il ruolo della Turchia. Un cessate-il-fuoco raggiunto anche con la mediazione dell’Onu ha bloccato per il momento il confronto militare esploso ieri sera a Tripoli attorno all’aeroporto internazionale. L’avanzata dei miliziani della “Settima Brigata” basata a Tarhuna, una città a circa 200 chilometri a sud di Tripoli, viene letta in Libia da molti come un “segnale politico” più che militare. Esclusa da Tripoli e convinta a ritirarsi dopo gli scontri di agosto-settembre, esclusa dalla conferenza di Palermo in cui sembra che il presidente Fajez Serraj si sia potuto avvicinare al generale Khalifa Haftar, la settima Brigata ha dato il suo segnale. L’operazione militare ricorda che bisogna fare i conti anche con questo gruppo. A settembre gli scontri alla periferia sud di Tripoli avevano causato quasi 120 morti ed oltre 400 feriti. Non è del tutto confermato che in questa fase i miliziani della Settima siano stati appoggiati dalla brigata di Salah Badi, un deputato di Misurata diventato capo milizia, considerato da mesi un “cane sciolto” ma molto vicino agli islamisti armati e soprattutto vicinissimo alla Turchia. Se così fosse, se Salah Badi fosse davvero coinvolto questo potrebbe essere letto come una ulteriore conferma di un ruolo della Turchia esclusa dal vertice di martedì mattina fra Haftar e Serraj, con il vice-presidente turco che aveva abbandonato la conferenza di Palermo diffondendo un comunicato di critica alla riunione ristretta. Un diplomatico arabo che ha partecipato ai negoziati ricorda che “anche dopo l’incontro di maggio in Francia fra Haftar e Serraj ci furono degli scontri militari a Tripoli: gli esclusi o gli scontenti segnalano in questo modo la loro insoddisfazione”. L’avanzata degli ex gheddafiani - Mercoledì sera i miliziani della Brigata erano avanzati velocemente verso l’aeroporto internazionale, creando dei posti di blocco sulla “aeroport road”; questa mattina si sarebbero ritirati verso le loro postazioni, mantenendo attivi soltanto alcuni check point. Secondo un analista “questa è la vera protesta della Turchia: hanno visto che Haftar stava guadagnando terreno politicamente, sostenuto dai loro avversari egiziani e con la copertura della Russia e dell’Italia. I turchi possono tranquillamente aver favorito chi ha voluto lanciare un segnale militare sul terreno”. L’aeroporto attorno a cui si è svolta l’operazione (non ci sarebbero stati morti o danni ingenti alle cose) non è quello “urbano” di Mitiga, che in questi ultimi mesi ha funzionato anche come hub per i collegamenti internazionali. Mitiga è praticamente dentro Tripoli ed è difeso massicciamente da due delle milizie più potenti di Tripoli, quella del salafita Abdelrauf Kara e quella dell’ex capitano di polizia Hajtam Tajuri. Sia Tajuri che Kara hanno nei loro arsenali carri armati e “tecniche” con armi controcarro montate sui cassoni, per cui un loro intervento avrebbe significato riportare la guerra nelle strade di Tripoli. Il ruolo della Turchia - Ieri sera l’Ansa ha chiesto un parere a Jamal Zubia, un ex capo ufficio stampa del governo libico quando il premier era il filo-islamista Khalifa al Ghweil. Zubia (che è stato in carcere per alcuni mesi con nuovo governo di Serraj) dice che questo attacco “era ampiamente atteso dopo che la conferenza per la Libia di Palermo ha scioccato le forze anti-corruzione”. La Settima brigata quando alla fine di agosto aveva attaccato Tripoli lo aveva fatto lanciando lo slogan “contro le milizie della corruzione”: nel mirino della Settima c’erano proprio Tajuri e Kara, assieme alle altre 2 milizie più importanti che controllano Tripoli e quindi controllano i finanziamenti del governo Serraj. Per Zubia “la conferenza di Palermo ha deluso le forze del 17 Febbraio”, ovvero i miliziani ispirati dalla data della rivoluzione anti-Gheddafi del 2011. Per Zubia è stato un errore “non aver mai menzionato il disarmo dei criminali della corruzione nella capitale”. Stati Uniti. Arriva la carovana dei migranti, Trump blinda la frontiere e schiera i soldati di Claudia Fanti Il Manifesto, 16 novembre 2018 Ad un mese dalla partenza dall’Honduras. Mentre la marcia si avvicina alla frontiera con gli Stati Uniti, la Casa Bianca schiera migliaia di soldati e sospende il diritto d’asilo per novanta giorni. Il sogno americano è lì, a un passo, davanti a loro. Eppure ancora tremendamente lontano. A un mese dalla partenza della prima carovana da San Pedro Sula, i primi 400 migranti sono arrivati martedì a Tijuana, al confine con gli Usa, dove aspetteranno gli oltre 5.000 che arriveranno nei prossimi giorni, per poi cercare di entrare tutti insieme negli Usa dal posto di frontiera che collega la città a San Diego, in California. In più di 25 sono persino saliti in cima alla barriera di metallo che separa i due Paesi, gridando verso gli agenti schierati dall’altra parte, sotto gli occhi della polizia municipale messicana. Per arrivare fin qui hanno affrontato la fatica, il caldo asfissiante, il freddo via via più intenso, la fame, le infezioni gastrointestinali, le malattie respiratorie, oltre a pericoli di ogni tipo. E, prima ancora, hanno sofferto la miseria e la violenza nei rispettivi paesi, di cui è in gran parte responsabile proprio la potenza alle cui porte stanno disperatamente bussando. A separarli dal loro sogno, si trovano centinaia e centinaia di soldati dispiegati lungo la frontiera: al momento 4800 (1100 in California, altrettanti in Arizona e 2600 in Texas), ma ne arriveranno, si dice, almeno altri 7000. E per sbarrare loro il passo il presidente Trump ha firmato l’ordine esecutivo che sospende per 90 giorni il diritto d’asilo per chiunque faccia ingresso illegalmente negli Stati Uniti attraverso il confine sud, con l’unica eccezione dei minori non accompagnati. Cosicché, fino al prossimo 9 febbraio, l’unica via a loro disposizione sarà quella di presentarsi a uno dei 48 varchi legali per l’entrata nel paese, già ingolfati. Di una tragica farsa ha parlato non a caso il linguista, filosofo e politologo Noam Chomsky: “madri, bambini, poveri, miserabili - ha dichiarato a Democracy Now, fuggono dal terrore e dalla repressione di cui siamo noi i responsabili e per tutta risposta mandiamo loro contro migliaia di soldati”. Cercando con ciò di far credere al paese che “siamo alle soglie di un’invasione”, con tanto di terroristi del Medio Oriente mescolati a centroamericani ugualmente violenti. La “pericolosa minaccia”, costituita tra l’altro da 1726 bambini e da 24 donne incinte, si trova, nel frattempo, a meno di metà strada, a circa 2000 chilometri di distanza, avendo i migranti scelto il percorso più lungo - più del doppio rispetto a quello per McAllen, in Texas - ma meno insicuro. Dopo averne percorsi già più di 2.000 in 30 giorni di estenuante cammino - per lo più a piedi e in alcuni tratti in autostop -, la prima carovana è infatti ripartita da Guadalajara in direzione di Sinaloa, potendo contare su decine di pullman messi a disposizione dalle autorità locali. Dietro, segue un numero ormai imprecisato di altre carovane, frammentate in gruppi più piccoli e quindi più esposti a violenze e pericoli. Come pare sia successo il 3 novembre scorso a Veracruz, dove, stando alla testimonianza di due persone che sarebbero riuscite a scappare, un gruppo di 100 migranti, tra cui 65 bambini e 7 donne, sarebbero stati sequestrati e venduti a un gruppo del crimine organizzato. Un caso su cui è stata aperta un’indagine da parte della Procura generale di Puebla. E mentre le diverse carovane proseguono il loro estenuante viaggio verso nord, sono circa 1200 i migranti honduregni che hanno deciso di chiedere asilo in Messico, mossi dalla speranza che, con l’avvento alla presidenza, il primo dicembre prossimo, di Andrés Manuel López Obrador, le cose possano andare meglio anche per loro. Myanmar. Il no del Bangladesh al rimpatrio forzato dei rohingya di Emanuele Giordana Il Manifesto, 16 novembre 2018 Dopo gli appelli dell’Onu e di Amnesty International, le autorità bangladesi fermano il rientro di 150 rifugiati. Nessuna sicurezza né protezione con il regime birmano responsabile del loro genocidio. I manufatti sui fiumi che separano due Paesi molto spesso li chiamano ponti dell’amicizia. Non fa eccezione quello che congiunge a Ghumdhum il distretto bangladese di Bandarban allo Stato birmano del Rakhine dove ieri 150 Rohingya, ossia una trentina di famiglie, avrebbero dovuto iniziare un rimpatrio che in teoria dovrebbe segnare l’inizio del ritorno a casa di quasi un milione di persone scappate negli anni dalle maglie della repressione birmana. Ma ieri, a sorpresa ma non senza forti pressioni internazionali, il rimpatrio è stato cancellato. Quel ponte è del resto un posto davvero sinistro se solo otto mesi fa i poliziotti birmani spararono a un gruppo di rohingya che protestavano per i parenti intrappolati nella terra di nessuno tra Myanmar e Bangladesh. Quei colpi di mitraglia segnalavano quanto è certo: il rimpatrio non è sicuro. Non ci sono le condizioni di sicurezza: le famiglie rohingya, che hanno per altro espresso a più riprese i loro timori, possano tornare senza paura. E dove poi, se almeno 1.500 villaggi rohingya sono stati dati alle fiamme quando 700mila persone, un anno e mezzo fa, furono costrette a chiedere rifugio a Dacca? La notizia della cancellazione è stata data ieri pomeriggio dal capo della diplomazia bangladese Mahmood Ali perché Dacca è contraria a rimpatri forzati. Ali ha spiegato, tra l’altro, chi invece spalleggia Naypydaw facendo così capire il destino dei rimpatriandi: India e Cina stanno costruendo rispettivamente 250 e 100 abitazioni per chi torna ma senza servizi, scuole, garanzie. Ecco dove dovrebbe andare chi torna a casa. A casa si, ma non nella “sua”. A mettere in guardia sui rischi di un rimpatrio non sicuro era stata martedì l’Alto commissario Onu per i diritti umani Michelle Bachelet, che aveva chiesto al Bangladesh di sospendere i piani per il rientro di 2.260 rifugiati considerati dall’Unhcr i possibili soggetti dei primi rimpatri. Bachelet ha detto di continuare a ricevere segnalazioni di violazioni dei diritti dei rohingya rimasti nel Nord del Rakhine, loro territorio d’origine: “Circa 130mila sfollati interni, molti dei quali sono rohingya, rimangono nei campi del centro del Rakhine. Altri 5mila sfollati restano nella terra di nessuno tra Myanmar e Bangladesh, mentre oltre 4mila si trovano a Sittwe (Myanmar), dove sono soggetti a una vasta gamma di restrizioni. Centinaia di migliaia di persone in altre parti del Rakhine sono private dei diritti alla libertà di movimento, all’accesso ai servizi di base e ai mezzi di sostentamento - conclude l’Alto commissario - così come sono private del loro diritto a una nazionalità”. Ieri mattina Amnesty ha rincarato la dose definendo i rientri organizzati, in attuazione dell’accordo del 30 ottobre tra Dacca e Naypyidaw, “un piano sconsiderato che mette vite a rischio. Donne, uomini e bambini verrebbero ricacciati nelle mani delle forze armate birmane, privi di garanzie sulla loro protezione, per vivere con chi bruciò le loro case e alle cui pallottole riuscirono a scampare”.