A scuola di libertà. Le scuole imparano a conoscere il carcere Ristretti Orizzonti, 15 novembre 2018 Sesta Giornata Nazionale dedicata a un progetto che fa incontrare il Carcere e la Scuola. Oltre 12.000 studenti coinvolti. Oltre 1.000 volontari impegnati. Molte scuole e molte associazioni che già sono passate da un giorno all’anno di impegno su questi temi a un numero sempre maggiore di giorni e di risorse impegnati. Iniziativa promossa dalla Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia. La Scuola e il Carcere, due mondi che a partire dal 15 novembre 2018, e poi molti altri giorni dell’anno scolastico in corso, avranno l’occasione, per il terzo anno, di conoscersi e confrontarsi per riflettere insieme sul sottile confine fra trasgressione e illegalità, sui comportamenti a rischio, sulla violenza che si nasconde dentro ognuno di noi. Quest’anno rifletteremo assieme ancora sul diritto agli affetti delle persone private della libertà personale, che non sono sufficientemente tutelati, e poi ci occuperemo di minori, dei loro comportamenti a rischio, dei reati che commettono più di frequente, di carceri minorili, di pene alternative al carcere. Ma che cosa ci può raccontare sulla libertà chi ne è stato privato perché ha commesso un reato? E che cosa ci possono insegnare tutti quei volontari, che entrano ogni giorno nelle carceri italiane per contribuire a renderle più “civili” e meno “lontane” dalle città? Ci possono insegnare: Che per apprezzare davvero la libertà è importante capire che può capitare di perderla per errori, per leggerezza, per scarso rispetto degli altri. Ma chi l’ha persa deve avere la possibilità di riconquistarla scontando una pena rispettosa della dignità delle persone. Che in carcere ci sono persone, e non “reati che camminano”. Che il carcere è meno lontano dalle nostre vite di quello che immaginiamo, perché il reato non è sempre frutto di una scelta, e noi esseri umani, tutti, possiamo scivolare in comportamenti aggressivi e violenti e finire per “passare dall’altra parte” Che le pene non devono essere necessariamente carcere, perché la certezza della pena significa scontare una pena che può essere anche fatta non “di galera”, ma che, come dice la nostra Costituzione, deve “tendere alla rieducazione”. Una pena costruttiva, che accompagni le persone in un percorso di responsabilizzazione rispetto al loro reato. Che parlare di pene umane, che abbiano un senso e che non abbiano come scopo di “rispondere al male con altrettanto male” significa rispettare di più anche le vittime. Perché per chi subisce un reato e per la società è più importante che l’autore di quel reato sia consapevole del male fatto e cerchi di riparare il danno creato, piuttosto che “marcisca in galera” senza neppure rendersi conto delle sofferenze provocate. Che investire sul reinserimento delle persone detenute significa investire sulla sicurezza della società. Dal 15 novembre, nelle scuole di tante città italiane, si parlerà in modo nuovo di carcere, di pene, di giustizia, cercando di sconfiggere luoghi comuni e pregiudizi. Con il riconoscimento del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Per info: ornif@iol.it, progetti@ristretti.it In carcere quasi 60 mila detenuti. È boom di suicidi di Giovanni Augello Redattore Sociale, 15 novembre 2018 Dall’ottobre 2015 ad oggi il numero dei detenuti è passato da 52 mila a 59,8 mila, mentre la capienza regolamentare da 49,6 a 50,6 mila al 31 ottobre scorso. I suicidi sono 55 nel 2018, mai così tanti negli ultimi 5 anni. Scandurra (Antigone): “Si va verso un’accelerazione della crescita dei detenuti. Non si può non essere preoccupati”. Non è ancora scattato l’allarme rosso, ma se continua così, ad una nuova situazione d’emergenza ci arriveremo molto presto: secondo gli ultimi dati dell’Amministrazione penitenziaria (Dap), la popolazione carceraria in Italia ha recentemente sfiorato quota 60 mila detenuti. Al 31 ottobre 2018, nelle carceri italiane ci sono 59,8 mila persone, con un affollamento del 118 per cento rispetto alla capienza regolamentare. Sebbene siamo lontani dal picco storico della popolazione penitenziaria raggiunto nel 2010, quando gli oltre 69 mila detenuti portarono l’Italia alla condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo, a destare qualche preoccupazione è il trend di crescita che negli ultimi anni non ha mai visto una battuta d’arresto. Dopo il netto calo avuto tra il 2010 e il 2015, il numero dei detenuti è ricominciato a salire. Prendendo in considerazione gli stessi dati ufficiali del Dap la progressione è evidente: al 31 ottobre del 2015 la popolazione detenuta si attestava a circa 52 mila; l’anno successivo, al 31 ottobre 2016 si è passati a 54 mila; al 31 ottobre 2017 la popolazione carceraria raggiungeva quota 57 mila per finire ai 59,8 mila detenuti dei giorni nostri. Tutto questo a fronte di una capienza regolamentare che negli ultimi quattro anni è cresciuta di soli mille posti, passando dai 49,6 mila del 2015 ai 50,6 del 2018. Un cammino segnato. Sebbene i numeri parlino da soli, non ci sono segnali che facciano pensare ad una inversione di tendenza, almeno nel breve periodo. “È un cammino segnato - spiega Alessio Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione a Redattore Sociale -. La normativa è invariata, è stata tolta la liberazione anticipata speciale perché era un provvedimento a tempo ed è cambiato essenzialmente e soprattutto il tema. Verosimilmente la popolazione continuerà a crescere”. Non c’è bisogno, inoltre, di raggiungere o superare il picco del 2010 per dire che la situazione è insostenibile. “Alcuni vivono già in condizioni analoghe al 2010 - spiega Scandurra. È il totale della popolazione detenuta che ancora non è a quei livelli lì”. Tra gli istituti penitenziari sparsi lungo lo Stivale, ce ne sono già diversi in condizioni critiche. “C’è Taranto con il 200 per cento rispetto alla capienza regolamentare e nel 2010 c’erano 20 persone in meno - spiega Scandurra -. A Como, invece, oggi ci sono più persone di quante non ce n’erano nel 2010. Mi sembra inesorabile che la situazione diventerà intollerabile per tutti, ma per alcuni lo è già”. La situazione, tuttavia, non sembra preoccupare più di tanto la politica. “Quando ci fu l’indulto del 2006, la soglia dell’intollerabile fu molto più bassa dei 69 mila del 2010 - racconta Scandurra. L’indulto si fece a circa 60 mila detenuti. È come se ogni volta la soglia si spostasse in avanti. Quindi, questa volta non sappiamo quand’è che la situazione verrà giudicata intollerabile. La capienza non è cambiata più di tanto, anche se la capacità di reggere del sistema non si basa solo sulla capienza, ma anche sul personale, sulle risorse sanitarie e altro ancora. Non si può ridurre tutto ai metri quadrati. Tuttavia, anche queste sono variabili che non si sono mosse più di tanto. La soglia dell’intollerabile la deciderà la politica”. Il clima è cambiato. Gli unici segnali che si possono cogliere al momento non sembrano andare nella direzione contraria a quella che porta ad un ulteriore sovraffollamento. “È la fine di un clima positivo e di riforma. È la fine di un clima di allarme che era seguito alla sentenza Torreggiani, di emergenza sovraffollamento che prima c’era e ora non c’è più - racconta Scandurra. Più di recente, inoltre, si è aggiunto anche un inasprimento delle politiche di sicurezza e dell’atteggiamento dell’opinione pubblica. Nel 2010, prima della dichiarazione dello stato d’emergenza, il numero dei detenuti comunque iniziò a scendere perché ci si rese conto che c’era una situazione intollerabile”. Oggi, invece, non così, continua Scandurra. “Penso al decreto sicurezza, ma anche all’idea del cambio della legislazione sulla legittima difesa. È assurdo pensare che non avranno ricadute, a meno che tutto questo non venga contrastato da misure penetranti di segno opposto, altrimenti è inevitabile andare verso una crescita e probabilmente un’accelerazione della crescita della popolazione detenuta”. Mai così tanti suicidi da cinque anni ad oggi. Il numero dei suicidi in carcere nel 2018 è un ulteriore segnale d’allarme che non va sottovalutato. Dall’inizio dell’anno, infatti, sono 55 i suicidi avvenuti in diversi penitenziari. Secondo Antigone, si tratta del dato più alto mai registrato in Italia negli ultimi cinque anni. “Non sono numeri semplici da leggere, ma non si possono ignorare - aggiunge Scandurra. A tutto questo bisogna aggiungere anche una contrazione del lavoro. Il budget a disposizione è rimasto lo stesso e in questo momento stanno lavorando meno detenuti”. Inoltre, non mancano “tensioni e conflitti” all’interno degli istituti di pena di tutta Italia. “Fino a ieri, in fondo, detenuti e operatori aspettavano una riforma, aspettavano dei cambiamenti - continua Scandurra. Ora all’improvviso non c’è più questa speranza, ma ci si trova con un clima di senso contrario. È un momento molto difficile. Ce l’abbiamo fresco nella memoria il passato recente. È chiara la direzione verso cui stiamo andando e non si può non essere preoccupati”. Difficilmente, però, l’Italia finirà nuovamente sul banco degli imputati della Corte di Strasburgo. Con la precedente condanna, infatti, l’Italia ha dovuto provvedere ad un “rimedio interno”. “La corte condannò l’Italia per il sovraffollamento, perché il detenuto italiano non aveva una possibilità di reclamo ad una autorità che consentiva l’interruzione della violazione - specifica Scandurra. Si faceva reclamo al magistrato di sorveglianza e se quest’ultimo dava ragione ai detenuti la situazione tuttavia non cambiava perché la direzione del carcere non aveva altro posto dove spostare i detenuti. La Corte disse all’Italia di istituire un rimedio interno per far cessare le violazioni. Oggi a Strasburgo non ci andiamo più, ma si va davanti al giudice nazionale il quale dovrà prendere misure adeguate”. Difficile, tuttavia, fare delle previsioni su possibili risposte istituzionali rispetto al sovraffollamento, ma per Scandurra non è da escludere che ci possano essere delle sorprese. “Arriveremo a sbattere la faccia contro il muro per scoprire che bisognerà cambiare direzione - chiosa Scandurra. In passato si facevano indulti e amnistie con molta più facilità. Avremmo detto che oggi sarebbe stato difficile fare lo stesso, ma poi ci ritroviamo in una stagione di condoni e sanatorie, quindi chissà che non si torni anche alle amnistie”. Coinvolta nel caso degli 007, avrà l’Ufficio ispettivo e di controllo del Dap di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 15 novembre 2018 Al Dap la dirigente Burrafatto è in corsa per l’incarico, fin qui assegnato ai magistrati: fu salvata dalla prescrizione sul Protocollo Farfalla. C’è un giro di nomine di responsabili di uffici all’interno del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Una è più delicata delle altre, quella all’ufficio ispettivo e di controllo: tra le altre cose sovrintende il Nic (Nucleo centrale investigativo) che segue indagini su delega dei pubblici ministeri. Secondo quanto risulta al Fatto Quotidiano, per la prima volta, almeno nella storia degli ultimi vent’anni, il capo di questo ufficio potrebbe diventare non un magistrato, ma un funzionario interno: Anna Rita Burrafatto, attualmente dirigente della segreteria generale dell’ufficio del direttore del Dap. Il nome è sconosciuto al grande pubblico ma chi ha seguito una brutta storia di accordi con i Servizi segreti lo ricorderà. Burrafatto fu coinvolta in un’indagine della Procura di Roma che si era imbattuta nel “Protocollo Farfalla” (2003-2004, che poi sarà seguito da una “Convenzione”, del 2010), un accordo riservato tra l’amministrazione penitenziaria e il Sisde prima e l’Aisi dopo, il Servizio segreto interno, senza che la magistratura ne sapesse nulla, per scambi di informazioni e ingressi di 007 nelle carceri per colloqui con boss detenuti. Burrafatto finì sotto processo per rivelazione del segreto d’ufficio per aver raccontato, nel giugno 2007, al suo superiore di allora Salvatore Leopardi, il contenuto dell’interrogatorio segreto a cui era stata sottoposta dai pm di Roma Erminio Amelio e Maria Monteleone che stavano indagando su colloqui in carcere, ritenuti illegali, con boss mafiosi. Leopardi, come direttore dell’ufficio attività ispettive, quello che adesso dovrebbe dirigere proprio Burrafatto, fu accusato, processato e prescritto per falso in atto pubblico, falso per soppressione e omessa denuncia per episodi che risalivano al 2005-2006. Quando Burrafatto viene chiamata dai pm per essere ascoltata come persona informata sui fatti, non solo ha l’obbligo di dire la verità, ma anche quello di non rivelare quanto emerso d a l l’interrogatorio, soprattutto in merito a un ordine di esibizione degli inquirenti. Invece, la funzionaria del Dap chiama immediatamente Leopardi, che però è intercettato. Era il 27 giugno 2007 e Burrafatto, tra l’altro, gli disse: “Ciao Salvatore non sapevo dove chiamarti. Mi hanno dato un altro ordine di esibizione di documenti riservati dove c’è scritto soltanto “Riservato” e “Operazione Farfalla-Pianificazione”. L’intercettazione costa a Burrafatto un’accusa di rivelazione di segreto d’ufficio. Al processo, però, se la caverà con la prescrizione in primo grado, il 15 febbraio 2016. Ma nella sentenza i giudici scrivono nero su bianco che il reato c’è stato, facendo riferimento al colloquio registrato con Leopardi. “Dall’intercettazione emerge in maniera chiara la propalazione da parte dell’imputata all’interlocutore (Leopardi, ndr) dell’integrale contenuto delle dichiarazioni rese al pm in cui si fa tra l’altro riferimento a un riservato ordine di esibizione dell’Autorità giudiziaria di specifici documenti a lei trasmesso per l’esecuzione, quale responsabile della segreteria amministrativa. La predetta condotta consente pertanto di ravvisare la sussistenza degli elementi del reato contestato. Deve essere conseguentemente pronunciata nei confronti della Burrafatto sentenza di non doversi procedere per essere il reato a lei contestato estinto per prescrizione non sussistendo l’evidenza di altra e più favorevole formula di proscioglimento (ex articolo 129 c.p.)”. Insomma, essendo passati oltre 7 anni e mezzo dall’aver compiuto la rivelazione di segreto d’ufficio non poteva esserci la condanna. Una partita a calcio con papà, in carcere di Monica Coviello vanityfair.it, 15 novembre 2018 Anche quest’anno, l’1 dicembre, in una cinquantina di istituti di pena, i figli potranno giocare con i padri detenuti. Un progetto della onlus Bambinisenzasbarre, che combatte per i diritti di questi bambini, ancora troppo spesso stigmatizzati. “Mi piace giocare con il mio papà, lui è il più forte di tutti. E poi qui non è al parchetto, qui ci sono le porte vere e sembriamo dei campioni”. Una volta all’anno Michele, 5 anni, fa quello che agli altri bambini è concesso ogni settimana, ogni giorno, quando vogliono: gioca a calcio con il padre, che è un detenuto. Questa volta la partita si gioca il primo dicembre, e Michele si sta già preparando all’evento: questi momenti di incontro negli istituti penitenziari, un progetto di solidarietà unico in Italia e in Europa, per il quarto anno consecutivo, sono organizzati da una onlus, Bambinisenzasbarre, in collaborazione con il ministero di Giustizia-Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Sono momenti che rimarranno impressi nella memoria dei bambini, ricordi preziosi che li aiuteranno ad affrontare la distanza dai genitori. A vivere una giornata in famiglia, dimenticandosi per qualche ora delle sbarre e della distanza. “Forse noi detenuti non sappiamo nemmeno come sia davvero il carcere”, ha spiegato Maurizio, 39 anni, detenuto ad Opera. “La vera punizione del carcere non è per noi. È per le persone che amiamo”. Quest’anno si giocheranno 50 “partite con papà” in altrettante carceri e città, da Milano a Palermo, e parteciperanno 1200 bambini e 900 papà detenuti. Ma i bambini che hanno un genitore in carcere, oggi, sono molti di più: 100 mila in Italia e 2,1 milioni in Europa. Bambinisenzasbarre vuole che la “partita con papà” sia anche un momento di sensibilizzazione, perché questi piccoli, spesso, cercano di nascondere la loro situazione per non essere stigmatizzati ed esclusi. Per sostenere l’iniziativa, da quest’anno si può anche sottoscrivere la “Tessera del tifoso”: con una donazione online si aiuta la onlus a difendere questi momenti così speciali e importanti per i bambini. Ma i “nodi” da risolvere sono ancora tanti. Uno dei problemi maggiori riguarda il tempo che i figli possono trascorrere con i padri detenuti: le ore di colloquio concesse sono solo sei al mese, e deve essere presente anche la mamma. Bambinisenzasbarre sta cercando di affrontare anche questo problema: il proposito è quello di aumentare il numero di ore di colloquio, in modo da poter garantire a padri e figli di incontrarsi anche senza la mediazione della madre, e stabilire un rapporto più stretto e autentico. Bambinisenzasbarre ha ispirato il Protocollo-Carta Dei diritti dei figli di genitori detenuti, che quest’anno è stato adottato dal Consiglio d’Europa come raccomandazione. È un documento con le linee guida per preservare i diritti e gli interessi dei minori che hanno un genitore in carcere. “Questi bambini possono subire il trauma, lo stigma, l’ansia e la perdita delle cure parentali e della situazione materiale, il che può essere dannoso per il loro benessere e sviluppo personale, a volte la loro vita stessa”, spiega l’associazione. Invece “devono godere degli stessi diritti degli altri bambini, compresi contatti regolari con i loro genitori, tranne quando ciò viene considerato contrario al migliore interesse del bambino”. Per ridurre al minimo l’impatto della detenzione di un genitore, “i bambini dovrebbero essere normalmente autorizzati a visitare il genitore detenuto entro una settimana dal suo arresto, e poi su base regolare, senza interferire con la vita del bambino, come per esempio la frequenza scolastica”. Prescrizione & processo: solo l’etica ci salverà di Donatella Stasio questionegiustizia.it, 15 novembre 2018 Avvocati e Anm, divisi sulle proposte di riforma del processo penale e della prescrizione, concordano invece (ed è una novità) sulla pregiudizialità della prima rispetto alla seconda. Ma la diversa “visione” del processo rende la riforma impossibile. Oltre che inutile senza un cambio di passo dell’etica di tutti gli attori del processo “Quale rieducazione è di fatto realizzabile se i tempi di accertamento dei reati e quelli dell’esecuzione della pena sono così lunghi e distanti dalla condotta illecita?”, chiede Bruno, detenuto nel carcere di Marassi a Genova. E poi chiosa: “La rapidità del processo non garantisce soltanto l’innocente ma anche il colpevole, per il quale è una necessità espiare velocemente la pena per saldare il conto con la giustizia. Che ne pensa?”. La domanda ricorre puntualmente durante il Viaggio nelle carceri della Corte costituzionale, partito il 4 ottobre da Rebibbia. Quasi un refrain, quello dell’eccessiva durata dei processi. Tema che proprio in queste settimane è tornato anche alla ribalta politico-parlamentare, sia pure per controbilanciare (se non per vanificare) la proposta di una riforma strutturale (e radicale) della prescrizione (stop dopo la sentenza di primo grado). Nelle domande dei detenuti e delle detenute, però, questo “collegamento” tra tempi del processo e prescrizione non c’è proprio. Anzi, la parola prescrizione non viene mai pronunciata. E forse se ne capisce la ragione, visto che a parlare sono persone che della prescrizione, evidentemente, non hanno beneficiato, altrimenti non sarebbero in carcere. Dunque, la loro testimonianza sui tempi lunghi vale “a prescindere”: sta lì a significare che, anche quando la condanna arriva nei tempi “regolamentari”, spesso arriva così lontano dalla commissione del fatto che il condannato è già “altro” rispetto al reato commesso, per cui la pena (soprattutto se trattasi di carcere) ha per lui un’afflittività ancora maggiore e la rieducazione suona come una beffa. Peraltro, sui tempi dei processi ricordo sempre una famosa metafora del pm Paolo Ielo, quando ancora lavorava alla Procura di Milano (2009). “Il Palazzo di giustizia di Milano rappresenta alla perfezione le diverse velocità del processo penale, che viaggia su un doppio binario a seconda dei reati: al piano terra si trattano gli arresti in flagranza, i “reati di strada”, droga, rapine, violazione della Bossi-Fini. Il processo è rapido e ogni giorno vengono comminati svariati anni di galera. La prescrizione, in questo piano, non esiste. Una delle principali ragioni della rapidità è la condizione di povertà degli imputati, che non possono permettersi un avvocato di fiducia e spesso ricorrono al gratuito patrocinio e alla difesa d’ufficio. Al terzo piano, la giustizia ha tempi diversi. È il piano dei reati di aggiotaggio, corruzione, falso in bilancio, per i quali non è previsto l’arresto in flagranza. Gli imputati non sono “i meno abbienti” del piano terra. Gli anni di galera che vengono comminati ogni giorno sono di gran lunga inferiori. Il processo è più garantito, molti reati vanno in prescrizione anche perché la legge ex Cirielli ne ha ulteriormente diminuito i tempi”. Ielo concludeva: “La differenza tra i piani del Tribunale rispecchia una diversa giustizia e si riflette nel carcere. È ovvio che con questo sistema, in galera ci va la carne da cannone”. (Diritti e castighi: storie di umanità cancellata in carcere, di Lucia Castellano e Donatella Stasio, Milano, Il Saggiatore, 2009). Certo, dal 2009 qualcosa è cambiato, ma il problema della lunghezza del processo e quello della prescrizione sono sempre lì, di fatto irrisolti. A volte le loro strade procedono parallelamente, altre volte si intrecciano, com’è avvenuto con l’ultima, recente, riforma del processo penale, targata Renzi-Orlando, entrata in vigore poco più di un anno fa e nata da una proposta del Governo (ispirata ai lavori di una Commissione ministeriale di autorevoli giuristi), senza le modifiche alla prescrizione; modifiche imbarcate strada facendo, da un provvedimento di iniziativa parlamentare che marciava in Parlamento per conto proprio. Il risultato finale è stato una riforma definita un “pannicello caldo” dall’Anm e contestata a suon di scioperi dagli avvocati penalisti. Opposte le ragioni del malcontento. Magistrati e avvocati, per chi ha un po’ di memoria storica, hanno sempre avuto idee contrastanti sul processo e sulla prescrizione, anche quando si sono seduti allo stesso tavolo per discutere. Come accadde nel 2012, con la Commissione Fiorella voluta dall’allora ministro della Giustizia Paola Severino per definire una proposta di riforma (solo) sulla prescrizione: il risultato fu un testo di compromesso (sospensione di due anni dopo la condanna di primo grado e di un anno in Cassazione) al quale si è poi ispirata la riforma Orlando (18 mesi di sospensione in Appello e 18 in Cassazione). Non con grande successo visti i giudizi critici di magistrati e avvocati. Del resto, anche sul processo penale ci sono sempre state “visioni” differenti. E una conferma - se proprio ce ne fosse bisogno - emerge dalle audizioni, dalle proposte e dalle polemiche di questi giorni. Anm e avvocati sono d’accordo, oggi, soltanto su una cosa, e cioè che prima di mettere mano alla prescrizione si debba riformare, accelerandolo, il processo penale. Non è poco. Anzi, per certi versi, questa pregiudiziale comune è una novità. Peccato, però, che le “visioni” del processo siano così distanti da rendere “diabolica” quella pregiudiziale, ovvero impossibile l’approvazione di una riforma condivisa. Quanto alla politica, ha idee confuse, e non da oggi. Per stare all’attualità, subito dopo l’accordo giallo-verde la ministra leghista Giulia Bongiorno ha fatto sapere che bisogna tagliare i tempi delle indagini perché è lì che si consuma il 70% delle prescrizioni; ancora non si sa come la pensi al riguardo il ministro pentastellato Alfonso Bonafede, anche se i grillini in passato hanno sempre contestato quest’impostazione, ovviamente condivisa dai penalisti e criticata dai magistrati, che denunciano, anzi, tempi di indagine strozzati rispetto alle risorse e ai fascicoli esistenti e imputano il dato sulla prescrizione durante le indagini all’ingolfamento dei Tribunali, che perciò non riescono a fissare le udienze per indagini già concluse… . La ricostruzione è sicuramente sommaria ma è sufficiente a spiegare un dato importantissimo, purtroppo sottovalutato: il disorientamento dei cittadini di fronte al trascinarsi di una situazione che, per come viene di volta in volta rappresentata, affrontata, discussa, spiegata, finisce per delegittimare tutti gli attori, istituzionali, politici, professionali. E questo è un prezzo altissimo per una democrazia, che sulla fiducia nelle istituzioni, e in particolare nella giustizia, poggia le sue basi. Intanto il processo è lì, con la sua inefficienza e inefficacia che mettono a rischio quotidianamente diritti e garanzie di tutti: imputati, vittime, collettività. La rassegnazione è inaccettabile, anche se forse è funzionale all’immobilismo politico, corporativo e professionale. Né si può - soprattutto nella perdurante transizione politica italiana - “delegare” a nuove norme la ripresa democratica del processo. Mai come nei momenti di disorientamento e confusione giova la lettura di Piero Calamandrei. “Per il buon funzionamento del processo (ma qualcosa di simile si potrebbe ripetere per tutte le istituzioni pubbliche, specialmente negli ordinamenti democratici), conta, assai più della perfezione tecnica delle astratte norme che lo regolano, il costume di coloro che sono chiamati a metterle in pratica”. La chiave è questa. Ed apre più porte di quante, realisticamente, ne possano aprire nuove norme, peraltro del tutto eventuali e dal contenuto incerto. Il “costume” rimanda non solo alla professionalità, ma anche all’etica della responsabilità, non esercitata abbastanza dagli attori del processo, più inclini a puntare il dito contro le norme vigenti, a reclamarne di nuove, a ostacolare quelle possibili… . “Ciò che plasma il processo, ciò che gli dà una sua fisionomia tipica non è la legge processuale ma è il costume di chi la mette in pratica”, scrive Calamandrei. “Il processo non è che un aspetto della vita di un Paese e le leggi processuali non sono altro che una fragile rete dalle cui maglie preme e talvolta trabocca la realtà sociale”, aggiunge, insistendo sul concetto che il processo non è quello previsto in astratto dal legislatore ma che gli uomini - “giudici e giudicabili” - fanno vivere e che “rappresentano”, ciascuno con il proprio costume “che può essere, purtroppo, anche un malcostume”. E questo, secondo Calamandrei, è un altro elemento di somiglianza con il procedimento parlamentare. Dunque, un richiamo fortissimo all’etica, che va rilanciato e ascoltato. È l’unica strada per “salvarci” dall’immobilismo. “La verità, che poi è il segreto per la salvezza dei regimi democratici, è un’altra - spiega Calamandrei: per far vivere una democrazia non basta la ragione codificata nelle norme di una Costituzione democratica ma occorre, dietro di esse, la vigile e operosa presenza del costume democratico che voglia e sappia tradurla, giorno per giorno, in concreta, ragionata e ragionevole realtà. La démocratie est un comportement, un engagement. Faute de cet engagement, la technique constitutionnelle est morte. E questo - conclude - è anche il segreto della tecnica processuale”. Lo stop alla prescrizione in attesa della riforma organica del processo penale di Ennio Fortuna Il Gazzettino, 15 novembre 2018 Provo a fare una sintesi di quanto si è detto in materia di prescrizione da esponenti del governo negli ultimi giorni prima di esprimere la mia modesta opinione. Secondo alcuni, seguiti da molti osservatori, soprattutto avvocati, il blocco dei termini di prescrizione con la condanna di primo grado sarebbe inutile sotto alcuni aspetti e decisamente dannosa secondo altri. Inutile perché già oggi i processi si estinguono soprattutto durante le indagini preliminari e quindi il rimedio arriverebbe troppo tardi, dannoso anzi esiziale sotto altro profilo perché il blocco indurrebbe i magistrati a prendersela comoda, più di quanto già facciano, e i processi diventerebbero interminabili. Secondo altri invece la sospensione della prescrizione dovrebbe essere addirittura anticipata al rinvio a giudizio, come accade in molti paesi, anche europei. Solo in tal modo il provvedimento sarebbe efficace, con la sospensione al momento della condanna andremmo verso una formula di compromesso. Meglio di niente, ma comunque poco, troppo poco per combattere i mali del processo penale. Quasi nessuno si è ricordato che un provvedimento sulla prescrizione è già in vigore dallo scorso anno, e ha introdotto il blocco per un anno e mezzo con la condanna di primo grado e per altri diciotto mesi per il giudizio di cassazione. La realtà di ogni giorno documenta che gli accusati concepiscono la prescrizione come un beneficio non dovuto ma estremamente gradito. Se possono, gli interessati e i loro difensori fanno di tutto per ritardare il processo e fruire dell’estinzione del reato. Un provvedimento per fermare la prescrizione e per arrivare alla sentenza di merito finale è quindi necessario, tanto è vero che la legge dell’anno scorso, già ricordata, è stata accolta con generale favore anche se si è subito detto che era insufficiente. Certo, l’ottimo sarebbe una riforma organica del processo penale che riduca radicalmente i tempi di espletamento, ma è inutile farsi illusioni, in Italia, e non solo, i tempi della giustizia sono calcolati con il calendario ad anni e non con il cronometro. In seno al governo il contrasto tra i ministri ha riprodotto più o meno lo schema di polemiche già sintetizzato. Mi permetto però di essere scettico con riferimento all’efficacia del progetto complessivo. Sono decenni che si sente parlare della riforma del processo, ma nel frattempo i tempi si sono dilatati fino a quelli di oggi, certamente inaccettabili in un paese civile. Si tenga anche presente che la prescrizione è istituto di diritto sostanziale e quindi funzionerà solo dopo l’entrata in vigore della legge e la commissione del reato previsto. In pratica gli effetti dell’innovazione, se ci saranno, non si vedranno prima del 2025. Ragione di più per non indugiare, soprattutto in previsione del fatto che con il blocco dovrebbero cessare le manovre degli accusati per arrivare all’estinzione del reato per decorso del tempo e quindi favorire un primo consistente sfoltimento della massa dei processi pendenti. Ho già detto che sono scettico sugli effetti della riforma complessiva, da noi i problemi sono soprattutto strutturali e di personale e non serve e comunque non può bastare una legge per risolverli. Il progetto sulla prescrizione può e deve quindi andare avanti. Non basterà per venire a capo dei nodi intricati delle pendenze penali, ma è comunque positivo e va appoggiato senza riserve. Bonafede: “Riforma penale in pochi mesi” . E convoca il vertice con avvocati e Anm di Errico Novi Il Dubbio, 15 novembre 2018 Dovrebbe essere un primo passo. Ma servirà a capire che tipo di percorso immagina il ministro: consultazioni rapide o un tavolo vero? Bonafede si è imposto una scadenza al limite della missione impossibile: dovrebbe dare il via libera a una grande riforma del processo penale in un anno secco, visto che la prescrizione entrerà comunque in vigore dal 1° gennaio 2020. Lunedì sera la Lega ha rinunciato a imporre una “clausola di collegamento” fra la norma sull’estinzione dei reati - inserita nel ddl “Spazza-corrotti” - e la revisione complessiva del codice. “Non ci sono problemi”, ha messo la parola fine Matteo Salvini, “se poi di qui a un anno vedremo che la riforma non sarà ancora pronta, non sarà complicato varare un provvedimento che faccia slittare di un altro anno l’entrata in vigore della nuova prescrizione”. Sembra facile ma non lo è affatto. I Cinque Stelle hanno chiesto e ottenuto che il blocco della prescrizione vedesse rapidamente la luce senza vincoli formali. Le parole dell’alleato pesano e impongono appunto l’accelerazione di Bonafede. Il nodo: limiti alle fasi processuali - Ma le buone intenzioni basteranno? Non si direbbe. Certo il guardasigilli assicura: “Sarà esplicitato che entro dicembre 2019 ci sarà la riforma del processo penale”. Vuol dire porre una scadenza all’esercizio della delega, ma anche ipotizzare un iter in cui il Parlamento avrebbe un ruolo solo consultivo. E poi: l’eventualità di uno sforamento dei tempi non è così irrealistica. Non sarebbe certo il primo caso di delega inattuata: basti pensare alla riforma dell’ordinamento penitenziario. E soprattutto, di nodi da sciogliere sul nuovo processo ce ne sono diversi. Intanto per le distanze che vedono contrapposti, almeno per ora, avvocati e magistrati da una parte e maggioranza dall’altra. A cominciare dai riti alternativi: “Vanno resi appetibili”, ha ricordato Mascherin nell’audizione parlamentare di lunedì scorso. Identica la posizione di Minisci: “Se ne deve rafforzare l’uso, davvero non si comprende la ratio della norma che ne impedisce l’adozione per i reati da ergastolo”. Discorso analogo per lo stop alla prescrizione anche in caso di condanna: non piace neppure alla magistratura associata. Ma il vero punto controverso sono i tempi massimi di durata per ciascuna fase processuale. All’incontro di martedì a via Arenula il Cnf riproporrà la questione. Non solo Mascherin, ma anche magistrati dall’autorevolezza di Giovanni Canzio ritengono necessari quei termini perentori, anche a costo di “determinare l’estinzione del processo nel caso di una loro violazione”. Ma l’Anm? E soprattutto, cosa ne pensa il Movimento cinquestelle? Istituire tempi di fase inderogabili, “assicurati” da una prescrizione processuale, vuol dire mettere nero su bianco che un imputato non potrà comunque stare in giudizio oltre un determinato limite. La maggioranza deve insomma essere pronta a fare spazio a una norma diversa dalla prescrizione del reato (che decorre dal momento in cui il reato è stato commesso) ma che potrebbe determinare esiti analoghi in caso di tempi troppo lunghi: ossia, l’estinzione del processo e quindi del reato. È il quesito politico più difficile da sciogliere, da cui dipende la possibilità di un accordo fra le parti in causa: avvocatura, magistratura e politica. Altri temi pure restano spinosi, come la richiesta di abolire il divieto di reformatio in peius, avanzata dall’Anm e durissimamente censurata dall’Unione Camere penali. Ad accorciare i tempi del processo, invocato anche dalla Lega, dovrebbero contribuire i 500 milioni per assumere giudici e cancellieri (ma anche poliziotti) sui quali ieri è tornato Bonafede: “Un piano di rafforzamento degli organici mai visto”. Ieri il ministro ha discusso a via Arenula con i rappresentanti della maggioranza in commissione Giustizia sulle “ultime limature” al ddl Spazza-corrotti, che approderà in aula lunedì. Nonostante i tormenti in commissione Giustizia, dove ieri è andato in scena un altro scontro con le opposizioni. Senza paletti che evitino a un cittadino travolto da un’indagine l’incubo processuale lungo tutta una vita, la Lega si dice pronta a far saltare l’accordo. Ma c’è un’incognita: se comunque lo stop alla prescrizione sarà già stato approvato, davvero Salvini manderà all’aria il governo, pur di non lasciare “nudo” quel provvedimento? Tra i timori legittimi di avvocati e giuristi e le tappe forzate del guardasigilli, si corre verso un obiettivo difficilissimo da cogliere. Certo è che martedì si capirà meglio anche quale forma Bonafede intende assegnare alla discussione: una mera ricognizione consultiva o una commissione di esperti che elabori l’articolato, come avviene di solito con le leggi delega? “L’unica via sostenibile è quella di una commissione vera, che faccia emergere dal confronto una proposta di riforma”, secondo Mascherin. E il coordinatore di Ocf Giovanni Malinconico aggiunge: “Al momento non sappiamo quali sono le modalità ipotizzate dal ministro, ma è chiaro che serve un percorso strutturato, e che non ci si può limitare alla presentazione di documenti dell’avvocatura e della magistratura, con la politica che poi decide senza ulteriori approfondimenti come utilizzare quegli spunti”. Si vedrà. Intanto martedì anche l’Anm sarà in forze: con l’intera giunta esecutiva presieduta da Minisci, porterà anche i magistrati della propria commissione interna sul processo penale, guidata da Luca Poniz. La manifestazione delle Camere Penali al teatro Manzoni - E ci sarà quindi l’Unione Camere penali, che ha assunto una posizione molto severa con il sindacato delle toghe e che in ogni caso terrà le proprie quattro giornate di astensione, dal 21 al 23 novembre prossimi. Nel giorno conclusivo è prevista la grande manifestazione per la giustizia penale liberale. Sede scelta: il Teatro Manzoni a Roma, una location da 400 posti. Già questo è segno di come l’iniziativa del presidente Caiazza mira ad attrarre, anche in prospettiva, un sostegno che vada oltre il perimetro dell’avvocatura penale. Ddl anticorruzione, la Lega smonta le norme grilline “salva Casaleggio” di Francesco Lo Dico Il Messaggero, 15 novembre 2018 La quadra sulla prescrizione è stata trovata, approvato anche il daspo a vita per i corrotti. Ma la legge anticorruzione resta per gli alleati di governo un campo di battaglia ancora aperto. La Lega reputa indigeste le nuove norme sui partiti inserite nel decreto dal M5s, le stesse che secondo il Carroccio sono state ritagliate su misura per l’Associazione Rousseau. Salvini e i suoi sono perciò decisi a tenere il punto con due modifiche sostanziali. Nel mirino due passaggi controversi. Il primo si trova all’art.7, quello che in buona sostanza impone a partiti e movimenti politici di rendere pubblici i dati dei donatori e le relative somme versate. Una norma che sembra però esentare dalla trasparenza la piattaforma gestita da Casaleggio jr. Che da una parte, secondo quanto previsto dall’art. 9, sarebbe parificata in quanto associazione a partiti e fondazioni. Ma dall’altra non avrebbe in capo gli stessi obblighi imposti agli altri soggetti. Per sanare l’anomalia, interviene perciò sul testo l’emendamento del deputato leghista Igor lezzi. Che conferma l’obbligo di rendere pubblici contributi, prestazioni gratuite o altre forme di sostegno, “anche ai fini della realizzazione e della gestione di piattaforme informatiche e siti internet”. Come a dire: va bene le nuove regole, ma a patto che valgano pure per l’associazione Rousseau. Ma l’emendamento di lezzi nasce anche per contrastare un altro aspetto delle rendicontazioni. Che secondo le nuove norme dovrebbero essere annotate e bollinate da un notaio ma solo nel caso in cui superino i 500 euro. Una soglia che alla Lega piace poco. Perché lascerebbe all’associazione grillina, la quale raccoglie per il 90% donativi inferiori a quella soglia, la facoltà di lasciare coperta l’identità dei sostenitori. Del tutto simile negli effetti è anche il secondo emendamento presentato da lezzi a correzione del testo pentastellato. Che equipara “ai partiti e movimenti politici le fondazioni, le associazioni e i comitati collegati ad un partito o movimento politico”. Un’altra maniera, in poche parole, per estendere a Rousseau l’obbligo di rendicontazione e trasparenza. Restano poi due ulteriori questioni sulle quali Di Maio ha finora tergiversato: il “comma Casaleggio”, e il “comma Rousseau”. Due brevi norme, incluse anch’esse nell’articolo 9 del ddl Anticorruzione. La prima impone a ciascun partito di essere “collegato ad una sola fondazione o ad una associazione o ad un comitato”. Una norma che per le opposizioni sarebbe stata concepita per blindare la leadership di Rosseau. Il secondo obbliga invece partiti e associazioni di riferimento a una gestione separata e indipendente, anche in materia di spese e contabilità finanziaria. Per i più maliziosi, un’altra maniera per rendere insindacabili le scelte dell’associazione stellata, che sarebbe così libera di investire a proprio piacimento, nonostante attinga 300 euro al mese dagli stipendi di ogni singolo parlamentare del Movimento. Un meccanismo che piace poco alla Lega, e che piace anche meno a molti esponenti pentastellati. Di certo in Aula voleranno scintille. Prescrizioni in calo per la prima volta dopo 4 anni (ma in appello crescono) di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 15 novembre 2018 Sono diminuite complessivamente. Ma aumentate in appello. Ieri, davanti alle commissioni Giustizia e Affari costituzionali della Camera, il Governo ha fornito gli ultimissimi dati sulle prescrizioni. Che permettono da subito alcune considerazioni. In termini complessivi il numero è in diminuzione, per la prima volta da 4 anni: nel 2017 infatti i procedimenti azzerati da prescrizione si attesta a quota 125.564, vicino alle 123.078 del 2013, mentre nel 2016 erano state 136.888. Circa 10.000 in meno anno su anno, dunque, e con una finestra sul 2018, dove, nei primi 6 mesi, sono andati in fumo per l’effetto tempo 63.177 procedimenti. Ad aumentare sono però le prescrizioni che maturano in appello, quelle sulle quali maggiormente andrebbe a incidere la proposta di riforma targata 5 Stelle che congela i termini dopo la sentenza di primo grado, che sono passate dalle 25.748 del 2016 alle 28.125 del 2017 (15.845 nei primi 6 mesi di quest’anno). La fase delle indagini si conferma come quella più soggetta al rischio di estinzione del reato, ma il calo di quasi 10.000 prescrizioni riguarda proprio questa fase del procedimento penale. Davanti alle opposizioni, poi, che sollecitavano un ulteriore disaggregazione per distretto di Corte d’appello con l’obiettivo di verificare se, come testimoniato dalla rilevazione precedente, la maggior parte delle prescrizioni è poi concentrata in pochi uffici giudiziari (nel 2016 Roma, Napoli, Torino e Venezia contabilizzavano la metà del totale delle prescrizioni in appello), la risposta del ministero della Giustizia è stata di non essere in possesso di questo approfondimento. “Imbarazzante” per il capogruppo Pd in commissione Giustizia Alfredo Bazoli. Chiusa la partita degli emendamenti (più tecnicamente dei subemendamenti) sulla prescrizione, con la presentazione di 70 proposte di modifica rispetto al testo presentato dai relatori al disegno di legge anticorruzione. Tra queste, quella in quota maggioranza che recepisce l’accordo politico di giovedì scorso, che differisce l’entrata in vigore della riforma della prescrizione al 1° gennaio 2020. Non è stato formalizzato, e forse neppure poteva, invece, l’altro elemento dell’intesa Lega-M5S e cioè la contestuale entrata in vigore della riforma del processo penale per la quale il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha promesso entro un mese la presentazione della legge delega. Le commissioni hanno approvato ieri uno dei cardini delle misure contro la corruzione, il daspo a vita, con una riduzione delle sanzioni però in caso di riconoscimento di un’attenuante speciale. Per una serie di reati come peculato, corruzione, concussione, la pena accessoria dell’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione avrà una durata tra 5 e 7 anni per condanne fino a 2 anni di reclusione; il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, ma anche il divieto di ricoprire pubblici uffici, diventa perpetuo per condanne superiori a 2 anni di reclusione. Queste due pene accessorie, tuttavia, scendono (da 1 a 5 anni) quando il soggetto condannato si è attivato per ridurre le conseguenze del reato e farne scoprire i colpevoli. La Ue rafforza il contrasto al riciclaggio di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 15 novembre 2018 È stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale Ue del 12 novembre (L 284) la direttiva 2018/1673 sulla lotta al riciclaggio mediante il diritto penale. Approvata il 23 ottobre, la direttiva dovrà essere recepita dagli Stati membri entro il 3 dicembre 2020. Primo obiettivo: rafforzare la lotta al riciclaggio, anche colpendo sul piano penale i soggetti obbligati (inclusi i professionisti) in base alla direttiva 2015/849 e intensificare la cooperazione transfrontaliera per la ripartizione della giurisdizione tra Stati membri. La nuova disciplina è articolata su tre pilastri: la parte sostanziale, con la definizione dei reati di riciclaggio (senza norme ad hoc per le monete virtuali definite dalla direttiva 2018/843) e le ipotesi di concorso, istigazione e tentativo; la sezione delle sanzioni per persone fisiche e giuridiche, con un raccordo con la disciplina sulla confisca e la parte della giurisdizione. Sotto questo profilo, la direttiva ha trasposto le modifiche volute dal Parlamento Ue. Da un lato sono elencati due titoli di giurisdizione prestabiliti, ossia la commissione del reato, anche solo parzialmente, sul territorio dello Stato, nonché la cittadinanza dell’autore del reato, dall’altro lato è lasciato spazio agli Stati con la possibilità di estendere la propria giurisdizione se l’autore del reato risiede abitualmente sul territorio o se il reato è commesso a vantaggio di una persona giuridica stabilita nel territorio. Punta a evitare un doppio procedimento e a svincolarsi dalle insidie del ne bis in idem internazionale, il comma 3 dell’articolo 10: nei casi di giurisdizione di più Stati membri per i medesimi fatti, le autorità nazionali dovranno collaborare per stabilire la giurisdizione competente secondo i parametri individuati per risolvere i conflitti positivi di giurisdizione. Se non c’è intesa la questione va deferita a Eurojust. Sul versante delle punizioni, la direttiva chiede agli Stati l’adozione di sanzioni effettive, dissuasive e proporzionate, fissando una pena detentiva massima non inferiore a quattro anni, mentre per le persone giuridiche le autorità nazionali potranno scegliere tra sanzioni pecuniarie penali o non penali. Tra le circostanze aggravanti la commissione del reato nell’ambito di un’organizzazione criminale o nell’esercizio della propria attività professionale. Privacy, legge, diritti. La giustizia nello specchio nero della modernità Il Dubbio, 15 novembre 2018 A Macerata dal 16 al 17 novembre gli incontri di Popsophia. Platone certo non avrebbe immaginato che a rinverdire la memoria della filosofia antica sarebbe stata una serie TV britannica in 19 episodi. Aveva però previsto i pericoli della finzione creativa, il rischio che si finisse per non distinguere più la realtà dalla sua riproduzione attraverso le arti. Ma se il filosofo ateniese ammoniva contro gli inganni della retorica e della scrittura, i nostri potenziali nemici sono ancora tutti da inventare: al centro di Black Mirror, la serie cult ideata da Charlie Brooker nel 2011 e distribuita da Netflix, troviamo infatti il racconto di un futuro prossimo dagli scenari spesso cupi e inquietanti in cui la tecnologia rivela tutta la sua forza a discapito dell’uomo. A ben vedere, il futuro ipotizzato assomiglia più a un presente alternativo, in cui le tecnologie già a nostra disposizione sono soltanto potenziate quel tanto che basta ai suoi fruitori per farne un uso sconsiderato. Non sono quasi mai infatti i prodotti della modernità a prendere il sopravvento sull’uomo, è piuttosto l’uomo a perderne il controllo dimostrando di non avere alcuna capacità critica nell’uso che ne compie. È Tommaso Ariemma, filosofo e scrittore napoletano autore del saggio La filosofia spiegata con le serie tv (Mondadori), a mettere insieme le immagini del famoso “schermo nero” con il pensiero di Platone. La particolare associazione tra filosofia e fiction tv ci viene da più parti nel tentativo di ringiovanire l’una e ancorare l’altra alla speculazione intellettuale: nasce così il concetto della “popsophia” e la sfida di intellettuali e scrittori per comprendere i fenomeni della società contemporanea con gli strumenti fondamentali della cultura occidentale. In occasione del Festival “Philodiritto”, a Macerata il prossimo 16 e 17 novembre, Ariemma parlerà in particolare degli incubi distopici della giustizia in un incontro dal titolo “Black Mirror e diritto visionario” per la rassegna Philofiction: ripercorrendo gli episodi della fortunata serie tv analizzerà il rapporto tra finzione giuridica e finzione cinematografica. L’assunto di partenza è che il diritto inteso come fictio legis possieda la stessa capacità creativa della fiction, così come l’evoluzione giuridica si manifesta in perfetta continuità con l’evoluzione tecnologica. Il legame tra legge e tecnologia infatti non è rotto, ma invertito: la potenza visionaria della tecnologia provoca continuamente una risposta della legge, che cambia così come il mondo cambia. Con Black Mirror scopriamo infatti le numerose implicazioni che l’evoluzione digitale e tecnologica potrebbe comportare nella nostra vita quotidiana e nella nostra società civile, dalle attualissime questioni legate al diritto alla privacy alle esposizioni mediatiche del processo penale. Proprio la facilità di riconoscersi negli scenari che la finzione crea rende probabilmente questa serie tv così amata e il diritto così necessario. “Se la tecnologia sarà visionaria anche la legge lo sarà”, dice Ariemma, che anticipando i temi che saranno al centro del suo intervento questo week end tiene fede alla regola fondamentale di ogni serie tv: no spoiler. Se la misura interdittiva “cade” appello dell’ente inammissibile solo con contraddittorio di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 15 novembre 2018 Corte di cassazione - Sezioni unite - Sentenza 14 novembre 2018 n. 51515. In caso di revoca delle misure interdittive per le azioni riparatorie messe in campo dall’ente in base alla 231/2001, il giudice non può considerare inammissibile l’appello cautelare senza contraddittorio. Le Sezioni unite, con la sentenza 51515, sbarrano la strada alla possibilità di dichiarare “de plano” l’inammissibilità dell’appello cautelare, perché la revoca della misura - nello specifico divieto di trattare con la Pa - in seguito a cauzione non fa venire meno l’interesse ad impugnare per verificare la fondatezza della contestazione che ha portato all’adozione del provvedimento. Un verdetto favorevole all’ente può avere, infatti, più di una ricaduta positiva, ad iniziare ad esempio dal diritto alla restituzione della cauzione versata al momento della sospensione della misura poi revocata. E lo stesso vale nel caso di messa a disposizione del profitto per beneficiare del trattamento premiale. Nel caso risultasse l’insussistenza dei presupposti il giudice dovrebbe disporre la restituzione delle somme. Le Sezioni unite, sottolineano, come le misure interdittive adottate nei confronti delle aziende abbiano pesanti conseguenze sia sul piano economico sia occupazionale, ragione per cui l’ente può volerle “stoppare” con un’azione compensativa a prescindere dalla fondatezza dell’offesa. Nell’escludere dunque ogni automatismo tra revoca e sopravvenuta carenza di interesse all’impugnazione, il Supremo collegio ricorda che una verifica nel “merito” può scongiurare anche l’insorgere di effetti dannosi per l’azienda, come la comunicazione della misura all’autorità di controllo e di vigilanza sull’ente, come prescritto dalla 231 (articolo 84). La decisione di sottrarre la dichiarazione di inammissibilità alle forme semplificate, è in linea anche con il nuovo codice di rito penale disegnato dalla legge 103/2017. La norma regola i casi in cui la Cassazione può dichiarare l’inammissibilità del ricorso senza formalità di procedura, limitandola ai casi di inammissibilità formali: dal difetto di legittimazione, all’inosservanza dei termini per impugnare. Mentre per le altre cause di inammissibilità, come la mancanza di interesse, deve essere seguito il procedimento ordinario previsto dall’articolo 610, comma 1 del codice di procedura penale. La conclusione raggiunta dalle sezioni unite è legittima anche alla luce delle sentenze della Cedu sul diritto di accesso al tribunale. La via da seguire è dunque quella della fissazione dell’udienza camerale, con avviso alle parti, in modo da mettere la società nella condizione di spiegare le ragioni dell’interesse ad ottenere una decisione sulla legittimità del provvedimento cautelare, anche se è stato revocato nel corso del procedimento. Richiesta rinvio dell’udienza a mezzo Pec per legittimo impedimento del difensore Il Sole 24 Ore, 15 novembre 2018 Richiesta di rinvio dell’udienza per legittimo impedimento del difensore - Irricevibile e inammissibile - Esclusione - Accertamento dell’arrivo della mail in cancelleria - Necessario. La richiesta di rinvio dell’udienza per legittimo impedimento del difensore, inviata a mezzo posta elettronica in cancelleria, non è di per sé irricevibile o inammissibile e il ricorso a tale irregolare modalità di trasmissione comporta l’onere, per la parte che intenda dolersi in sede di impugnazione dell’omesso esame della sua istanza, di accertarsi del regolare arrivo della mail in cancelleria e della sua tempestiva sottoposizione all’attenzione del giudice procedente. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 25 ottobre 2018 n. 48892. Notificazioni - Utilizzo della posta elettronica certificata - Legittimità - Esclusione. Nel procedimento penale, alle parti private non è consentito effettuare comunicazioni e notificazioni né presentare istanze mediante l’utilizzo della posta elettronica certificata. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 22 giugno 2017 n. 31314. Richiesta di rinvio dell’udienza per legittimo impedimento del difensore - Invio a mezzo posta elettronica certificata - Prova della ricezione dell’istanza da parte dell’ufficio di cancelleria del giudice procedente - Onere dell’istante - Necessario. Nel caso di richiesta di rinvio dell’udienza per legittimo impedimento del difensore, inviata a mezzo posta elettronica certificata all’indirizzo di posta elettronica ordinaria dell’ufficio di cancelleria del giudice procedente, la parte che intenda lamentarsi della omessa pronuncia del giudice sulla richiesta di rinvio non può che adoperarsi per dimostrare che quella richiesta sia stata effettivamente ricevuta dall’Ufficio del giudice. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 18 luglio 2017 n. 35217. Istanza di rinvio dell’udienza per legittimo impedimento del difensore - Invio a mezzo posta elettronica - Inammissibilità o irricevibilità della richiesta - Esclusione - Prova a carico dell’istante della effettiva conoscenza dell’istanza da parte del giudice - Necessaria. La richiesta di rinvio dell’udienza per legittimo impedimento del difensore effettuata a mezzo posta elettronica in cancelleria, non è irricevibile né inammissibile; tuttavia l’utilizzo di questa irregolare modalità di trasmissione determina l’onere, in capo alla parte che intenda far valere in sede di impugnazione l’omesso esame della sua istanza, di accertarsi del regolare arrivo della mail nella cancelleria del giudice competente e che sia stata tempestivamente portata all’attenzione di quest’ultimo. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 18 novembre 2014 n. 47427. Verona: dramma in carcere, 33enne si impicca in cella tgverona.it, 15 novembre 2018 Dramma al carcere di Montorio: un detenuto di 33 anni si è impiccato in cella lunedì scorso. L’uomo, di origini tunisine, era stato accusato per una rapina commessa a Padova e condannato dal giudice a quasi tre anni di carcere. Si tratta del terzo suicidio nel 2018 nel carcere di Montorio (gli altri casi a maggio e a luglio, coinvolti sempre stranieri trentenni). L’uomo non aveva manifestato segni di insofferenza anche se era molto solitario e non aveva parenti in Italia che gli facessero visita alla Casa circondariale. Lecce: “Viaggio nelle carceri”, la giudice costituzionale De Pretis a Borgo San Nicola di Giulio Serafino leccenews24.it, 15 novembre 2018 Prima l’incontro con le detenute di “Borgo San Nicola”, poi il seminario con gli studenti di Giurisprudenza: la giudice costituzionale Daria de Pretis sarà a Lecce nella giornata di venerdì. Con il “Viaggio” la Corte Costituzionale vuole aprirsi alla società. Arriva anche a Lecce il “Viaggio nelle Carceri”. Il tour lanciato dalla Corte Costituzionale venerdì segnerà la tappa salentina con la Giudice Daria de Pretis: prima nel carcere di “Borgo San Nicola”, poi nelle aule dell’Università del Salento. Per il programma “Viaggio in Italia: la Corte costituzionale nelle carceri” - ideale continuazione del Viaggio nelle scuole - il magistrato di Palazzo della Consulta giungerà a Lecce dove dapprima si recherà nella sezione femminile della casa circondariale di “Borgo San Nicola”, dove risponderà a 15 domande rivolte direttamente dalle detenute, per poi incontrare gli studenti del corso di laurea di Giurisprudenza, negli spazi del Rettorato in Piazzetta Tancredi. Il progetto Viaggio nelle carceri è stato deliberato dalla Corte l’8 maggio scorso e, in continuità con il Viaggio nelle scuole, risponde anzitutto all’esigenza di aprire sempre di più la Consulta alla società, per diffondere e consolidare la cultura costituzionale. “L’incontro fisico con porzioni del Paese reale - precisa una nota - esprime poi l’esigenza di uno scambio di conoscenze e di esperienze in funzione di una piena condivisione e attuazione dei valori costituzionali. Con la scelta del carcere, la Corte intende anche testimoniare che la cittadinanza costituzionale non conosce muri perché la Costituzione appartiene a tutti. Ad assistere all’appuntamento anche gli studenti di Esecuzione Penale del Prof. Rossano Adorno. Bologna: reinserimento sociale e lavorativo al carcere minorile del Pratello regione.emilia-romagna.it, 15 novembre 2018 Tra il 2015 e il 2017 sono stati stanziati dalla Regione attraverso il Fondo sociale europeo oltre 500 mila euro. Sono 66 i progetti di reinserimento sociale e lavorativo voluti dalla Regione e finanziati attraverso il Fondo sociale europeo. Vanno dal corso di edilizia e falegnameria al laboratorio di cucina, dalla pallacanestro, al teatro fino alla musica con l’Orchestra Mozart. Sono attività formative, professionali, culturali e di animazione destinate al recupero sociale dei ragazzi accolti nel carcere minorile Pratello di Bologna nell’ambito del “Piano degli interventi per l’inclusione socio lavorativa dei minori e dei giovani-adulti in esecuzione penale nel procedimento minorile” attivato a livello sperimentale nel 2015, poi riproposto per il triennio 2016-2018. Tutti gli oltre 60 progetti - realizzati congiuntamente da Regione, amministrazione penitenziaria, servizi sociali e per il lavoro, enti di formazione accreditati, imprese profit e no profit e associazioni di volontariato - si caratterizzano per la brevità del percorso, la flessibilità nello svolgimento e la possibilità di essere ripetuti più volte nello stesso anno. Grazie a queste caratteristiche, i corsi garantiscono ai ragazzi presenti in Istituto per periodi di diversa durata in base alla pena da scontare, la possibilità di accedere alle misure rieducative. Tra il 2015, primo anno di sperimentazione del Piano, e i successivi 2016 e 2017 sono stati 150 i ragazzi ad aver frequentato le attività formative realizzate nel carcere minorile di Bologna. Nel 2017 sono stati 117 i ragazzi e i giovani adulti, cioè coloro che hanno meno di 25 anni e hanno compiuto il reato prima di diventare maggiorenni, accolti nell’Istituto. La fascia di età più rappresentata (oltre 62%) è quella tra i 16 e i 17 anni: si tratta soprattutto di stranieri (70%). Tra il 2015 e il 2017 sono stati stanziati dalla Regione oltre 500 mila euro per il finanziamento di progetti di recupero dei minori soggetti a misure restrittive: 325 mila euro destinati all’Istituto minorile e 228 mila ai ragazzi che scontano la pena in misure alternative al carcere. La vicepresidente della Regione e assessore al Welfare, Elisabetta Gualmini, ha dichiarato: “Creare per questi ragazzi percorsi di rieducazione e reinserimento nella società è una questione di civiltà. Chi esce dal carcere e trova un lavoro, una casa, un contesto in cui ricominciare una vita ha meno probabilità di commettere nuovamente reati. E questo rappresenta una vittoria per lui e per tutta la comunità”. Alessandria: le carceri e i rapporti con il territorio e il volontariato radiogold.it, 15 novembre 2018 Questa sera si terrà un convegno dedicato ai due istituti penitenziari alessandrini, al fine di non ritenerli più “città nelle città”, ma inglobarli in un rapporto più partecipato con il territorio e il volontariato. L’Associazione Cultura e Sviluppo, unitamente all’Associazione Don Angelo Campora, organizza nell’ambito dei giovedì culturali, un’iniziativa per riportare l’attenzione sulla realtà carceraria, troppo spesso dimenticata e non considerata al pari di altre istituzioni che operano sul territorio. L’inconto avrà come titolo “Detenuti e carcere - Rapporti con la comunità del territorio, Volontariato in carcere oggi”. In un momento storico in cui si tende a separare e allontanare piuttosto che ad unire e avvicinare, l’incontro - andando controcorrente - si pone invece in linea con il tracciato già a suo tempo indicato dalla Riforma Penitenziaria del 1975, i cui principi ispiratori e le cui finalità oggi devono essere confermati e, se necessario, difesi. Troppo spesso considerata una “città nella città”, slegata dal contesto che la circonda, Alessandria convive con una realtà carceraria composita, composta da due istituti con peculiarità differenti, la Casa Circondariale di piazza don Soria e l’Istituto Penitenziario di San Michele. L’iniziativa proposta oggi, dunque, auspica di poter dare un contributo all’abbandono della concezione delle “due città”, per discutere, ragionare e progettare senza più tenere separate le Istituzioni Carcerarie dalla città dove sono ubicate. A collaborare a questa operazione di inclusione sociale sono chiamate le Istituzioni, gli Enti, le Associazioni, i Volontari, i mass media ed ogni altra Agenzia ed Organismo, a vario titolo interessati. Interverranno nel corso della serata, quali relatori: il Dr. Livio Pepino, già Magistrato ed oggi Direttore Editoriale di “Edizioni Gruppo Abele”; il Dr. Riccardo De Vito, Magistrato al Tribunale di Sorveglianza di Sassari e presidente di Magistratura Democratica; il Dr. Bruno Mellano, Garante dei Detenuti per il Piemonte e membro del Consiglio Regionale del Piemonte; la Dr.ssa Elena Lombardi Vallauri, Direttrice del complesso penitenziario di Alessandria. Arricchiranno il dibattito alcuni interventi qualificati di volontari e operatori. L’incontro inizierà alle 19.00 e terminerà alle 22.30 con una pausa buffet alle 20.30.Chi volesse porre domande, può inviarle tramite questa pagina web: culturaesviluppo.it/failatuadomanda o alla mail failatuadomanda@culturaesviluppo.it Catanzaro: presentato il libro “Il fragile bullo” al carcere di Siano strill.it, 15 novembre 2018 Parlare di bullismo in carcere? Se ne sarebbe dovuto parlare prima, a casa, a scuola, è la frase che potrebbe dire qualcuno. Il bullismo per gli adolescenti è la manifestazione di una fragilità irrisolta. In realtà il fenomeno rischia di presentarsi non solo negli istituti scolastici, ma anche in regimi come quelli carcerari, in cui comunque i detenuti vivono a stretto contatto tra loro e non possono per ovvi motivi allontanarsi troppo. Lo spunto per il confronto svoltosi al carcere di Catanzaro l’altro ieri è la presentazione del libro “Il fragile bullo”, di Rita Tulelli, pubblicato dalla La Rondine Edizioni, rivolto principalmente agli adolescenti. L’autrice è presidente dell’associazione Universo Minori. “Già dall’anno scorso” spiega la direttrice del carcere Angela Paravati “l’associazione Universo Minori e l’associazione Gaia collaborano con il carcere di Catanzaro per la gestione di uno spazio in cui i genitori detenuti possono incontrare in clima di serenità i loro figli, attraverso lo svolgimento di attività di laboratorio, danza, animazione.” Presenti all’incontro, oltre all’autrice e alla direttrice del carcere, Angela Napoli, già parlamentare, presidente dell’associazione “Risveglio ideale”, nonché il provveditore regionale della Calabria dell’Amministrazione Penitenziaria Massimo Parisi (di recente nominato provveditore in Calabria, prima in forza in Lombardia) ed il magistrato di sorveglianza di Catanzaro Angela Cerra. Il libro è un racconto di 48 pagine in cui vengono delineate le figure di Francesca, Beatrice, Niccolò, adolescenti come tanti che frequentano la scuola, si scontrano con le proprie personalità in crescita e quelle dei loro coetanei. A casa non ne parlano, ma avrebbero bisogno dell’aiuto di un adulto consapevole. La logica del branco non perdona chi si discosta dalla massa e ci si ritrova a volte inconsapevolmente ad essere vittime, carnefici o sulla linea di confine: spettatori. Angela Napoli ha sollecitato i detenuti ad essere vicini alle loro famiglie che spesso vivono una situazione di difficoltà, esortandoli a scrivere delle lettere; Massimo Parisi ha apprezzato la lettura dei libri che precede questi incontri e Angela Cerra ha sottolineato l’importanza della presenza della magistratura di sorveglianza nelle attività trattamentali. “Il fragile bullo” presenta racconti sulla prepotenza infantile e sulla sua sconfitta, e auspica una maggiore apertura dei giovani verso le istituzioni. Bulli e vittime sono entrambi fragili; bulli e vittime devono riuscire a venir fuori da questi ruoli il prima possibile, prima che sia troppo tardi. E per cambiare, il primo passo è capire e ammettere di essere vittime o carnefici, con l’aiuto di qualche persona più grande. Che forse da quella situazione c’è già passata. Perché tutti gli adulti sono stati adolescenti. E tutti, almeno in qualche momento della vita, se lo ricordano. Anche in carcere. “Pugni chiusi”, di Alessandro Best. Racconti di boxe nel carcere di Bollate cinemaitaliano.info, 15 novembre 2018 Incassare per ripartire. Un po’ come sbagliare prima di capire, quindi riprendere la retta via. Da questa idea nasce “Pugni chiusi”, il progetto di pugilato attivo dal 2016 nel carcere di Bollate, in provincia di Milano, e rivolto a detenuti e polizia penitenziaria. L’iniziativa è stata raccontata dal giovane filmaker Alessandro Best nell’omonimo documentario, selezionato nell’ambito della call “Games”, lanciata da Infinity - servizio di video streaming on demand - sulla piattaforma Produzioni dal Basso. Un docufilm da guardare, non solo per imparare qualcosa di più su uno sport, come la boxe, che ormai si vede poco in televisione ma che veicola molti valori importanti, tra cui il rispetto dell’avversario, il coraggio di ripartire anche dopo aver subito una sconfitta e la capacità di dosare la propria forza, ma anche per riflettere sulla possibilità di riscatto per chi ha commesso degli errori. “Pugni chiusi” ha infatti l’obiettivo di raccontare come lo sport possa essere una grande leva emotiva per “uscire dal tunnel”, ricostruendo un nuovo futuro e riacquistando un ruolo all’interno della società. Partendo dal progetto nel carcere di Bollate, il documentario mette in contrapposizione la vita sportiva e sociale di un pugile detenuto con quella di un pugile “libero”. Attraverso interviste ai tre istruttori che lavorano nel penitenziario milanese - Mirko Chiari, Bruno Meloni e Valeria Imbrogno - alla direzione carceraria, a diversi detenuti, alle loro famiglie e ad alcuni pugili “liberi”, si scopre come lo sport può plasmare le persone, e come la loro condizione di libertà o reclusione può risultare sia un beneficio che un ostacolo. “Parlare di pugilato è sempre difficoltoso, parlarne in termini di crescita umana e professionale ancora peggio, soprattutto quando devi raccontare a chi non ha mai preso uno schiaffo il perché la boxe può aiutare molte persone” - spiega Mirko Chiari, uno dei tre coach. “Da ottobre 2016 svolgiamo anche due allenamenti a settimana, di un’ora ciascuno, rivolti al personale di polizia penitenziaria. Per i detenuti - oggi in 20 sono coinvolti nel progetto - abbiamo un giorno fisso alla settimana: il venerdì dalle 17 alle 19. I partecipanti provengono dai quattro dei sette reparti presenti al carcere di Bollate, circa la metà hanno un’età compresa tra 19 e i 30 anni. Abbiamo anche qualche ‘anzianotto’ di 51 anni che si difende molto bene”. “Pugni chiusi” racconta proprio le storie di queste persone, mostrando come la loro vita è cambiata in carcere da quando si sono avvicinati alla boxe. Un progetto bello e di ampio respiro, che riguarda tanto chi è dietro le sbarre quanto chi è fuori, al quale si può contribuire direttamente entro il 24 gennaio su Produzioni dal Basso. Una volta raggiunta la metà dell’obiettivo economico (fissato a 10mila euro), Infinity erogherà un cofinanziamento di 5mila euro e il docu-film sarà trasmesso nel palinsesto del 2019. La senatrice che non disdegnava i forni ora diventa il capo dei Diritti umani di Piero Sansonetti Il Dubbio, 15 novembre 2018 Qual è il significato politico della provocazione? L’impressione è che si voglia comunicare questo messaggio: “adesso comandiamo noi e dei diritti dei deboli ce ne freghiamo!”. Decidere di nominare alla guida della Commissione diritti umani del Senato una signora che neanche un anno fa aveva messo un “mi piace” su un post di un suo amico nel quale si chiedevano “forni” (anziché appartamenti), per gli stranieri, e cioè si mostrava un apprezzamento, quantomeno indiretto, per lo sterminio degli ebrei e dei rom realizzato dai nazisti, beh, diciamo che non è una grande idea. È come chiedere al generale Custer di occuparsi dei diritti dei pellerossa, o proporre al Ku Klux Klan di organizzare il riscatto dei neri d’America. Comunque c’è pochissimo da scherzare. Perché la cosa è avvenuta davvero. Ieri la senatrice Stefania Pucciarelli, leghista, classe 1967, è stata eletta presidente della Commissione diritti umani del Senato. E Stefania Pucciarelli, giusto un anno fa mise quel “mi piace” al post dell’amico che occhieggiava alle SS. E la stessa Stefania Pucciarelli un mese fa proponeva, con un post stavolta scritto di suo pugno, di spianare i campi dei rom (cioè di uno dei popoli sterminati da Hitler). Ieri, dopo l’elezione, la senatrice Pucciarelli si è mostrata stupita delle polemiche. Ha detto che non ha niente di cui chiedere scusa per quel “like” al post del suo amico, perché il “like” era al suo amico e non al post, e che poi quando si accorse della gaffe si dissociò e si scusò, e che comunque non c’era nessun reato e infatti il giudice che ha esaminato il caso ha archiviato tutto. Io non ho dubbi sul fatto che non ci fosse nessun reato. Lo ho scritto tantissime volte: trovo insensati, nel ventunesimo secolo, i reati di opinione, anche quando le opinioni espresse sono atroci, come quelle di chi mostra simpatia, o comunque comprensione, per il nazismo. Il problema non è se c’è un reato, e neppure se c’è o no il diritto di fare politica, di stare in parla- mento, di condurre tutte le battaglie politiche che si vuole, anche le più reazionarie, anche quelle contro i rom, o i rifugiati politici o chi vi pare a voi. È fuori discussione che questo diritto esiste e che a chiunque spetta il rispetto per il suo lavoro di rappresentante del popolo. Il problema è che la maggioranza di governo ha deciso di preferire a Emma Bonino (che da anni si occupa di diritti umani, e lo fa con grande professionalità, ed è conosciuta ed apprezzata in tutto il mondo) una signora della quale è legittimo sospettare, quantomeno, che sia fortemente xenofoba, e che in ogni caso ha commesso una gaffe che a lei non sembra molto grave (ed è grave proprio il fatto che a lei non sembri grave) ma che invece è gravissima, perché è una atrocità giustificare l’olocausto ed è una atrocità doppia o tripla invocarne la ripetizione. Che messaggio vuole dare la maggioranza di governo al paese, decidendo questa nomina nel posto che fino a qualche mese era di Luigi Manconi? Un messaggio molto semplice: “Amici, è finita la pacchia, questa storia dei diritti dei deboli e degli stranieri ci ha rotto le palle, ora si cambia e la commissione per i diritti umani si occuperà solo dei diritti degli italiani, e dei cristiani, e tutti gli altri al rogo”. Non è così? Evidentemente è così. L’elezione della senatrice Pucciarelli è stata una provocazione consapevole. Una affermazione da Marchese del Grillo: “Qui comandiamo noi, e delle opposizioni, e delle forze democratiche e liberali, e dei progressisti e dei vecchi conservatori, e degli intellettuali, e dei giornalisti puttane e sciacalli, di tutti questi noi ce ne freghiamo” . Ci sono due cose da capire. La prima riguarda la maggioranza e la seconda l’opposizione. Possibile che nella maggioranza (sia all’interno del movimento di Grillo sia tra i legisti) non ci siano componenti ostili a questa politica xenofoba (e talvolta il termine xenofobo è un eufemismo)? E possibile che sia considerato ordinaria amministrazione l’uso spregiudicato di idee totalitarie e violente allo scopo di sfruttare e moltiplicare un’ondata reazionaria nell’opinione pubblica? Lo chiedo con sincerità. Vorrei davvero sapere, ad esempio, cosa pensano i capi del 5 Stelle della nomina della senatrice Pucciarelli. E cosa pensano personaggi autorevoli della Lega, come per esempio l’on Giorgetti, o per esempio il governatore Zaia, o l’ex ministro Maroni. La seconda domanda invece è rivolta alle opposizioni. Ho l’impressione che si stia affermando un certo sentimento di rassegnazione. Cioè che sia passata l’idea che ormai è andata così, che questa è la direttrice di marcia, che le “pulsioni” della parte più reazionaria del governo, che coincidono con quelle della maggioranza dell’opinione pubblica, si siano affermate e che non vale la pena di perdere tempo per opporsi. Meglio riorganizzare le proprie truppe, scavarsi una tana, aspettare che la bufera passi. Stanno così le cose? Speriamo di no. Migranti. Rimpatri forzati: le raccomandazioni del Garante di Valentina Stella Il Dubbio, 15 novembre 2018 Nel rapporto si evidenziano le criticità, ma anche l’invito a rafforzare la tutela dei diritti. Sei mesi (dicembre 2017 giugno 2018) per monitorare le operazioni di rimpatrio forzato dei cittadini stranieri. Un lavoro svolto dal Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale nella sua funzione di organo indipendente - con delegazioni formate da membri del Collegio, da alcuni garanti regionali e dai membri dello staff. Il rapporto, presentato lunedì in Senato, non ha solo lo scopo di fornire informazioni sul fenomeno, ma anche quello di evidenziare specifiche raccomandazioni alle Autorità responsabili al fine di rafforzare la tutela dei diritti fondamentali delle persone coinvolte nelle procedure. Al termine delle 20 pagine “Rapporto sull’attività di monitoraggio delle operazioni di rimpatrio forzato di cittadini stranieri”, contiamo 14 raccomandazioni, alcune delle quali meritano di essere elencate in dettaglio. Cooperazione e trasparenza - Il Presidente Mauro Palma sottolinea che come “di consueto ha ricevuto un’ottima collaborazione da parte del Ministro dell’Interno”. Tuttavia raccomanda “che sia sempre assicurato il rispetto del ruolo e delle prerogative del monitor (Garante, ndr) che deve avere accesso a tutte le informazioni pertinenti un’operazione, incluso l’accesso senza restrizione a tutti gli spazi utilizzati e ai rimpatriandi”. Staff impiegato nelle operazioni - Professionalità linguistica Di particolare criticità il fatto che il personale responsabile delle fasi preliminari dell’operazione di rimpatrio forzato non riceve alcuna specifica formazione pur entrando e rimanendo solitamente a lungo in contatto con i rimpatriandi: dall’avvio della procedura nel Centro di partenza fino all’arrivo presso lo scalo aeroportuale di partenza. Inoltre “pur apprezzando, in via generale, l’elevato grado di professionalità dimostrato dagli operatori di scorta nel corso delle operazioni, in qualcuna delle operazioni monitorate il monitor ha infatti constatato l’adozione di modi bruschi di interazione con i rimpatriandi che non comprendevano le indicazioni loro rivolte in lingua italiana”. Pertanto raccomanda “che in tutte le fasi di un’operazione di rimpatrio (o almeno nei voli charter) siano previste professionalità linguistiche in grado di rivolgersi alla persona soggetta al rimpatrio in una lingua a lei comprensibile”. Preavviso di rimpatrio - Va rilevato - si legge nel rapporto - che l’avvio delle operazioni di rimpatrio, sia nel caso di provvedimenti di respingimento che di espulsione, è stato di fatto comunicato ai rimpatriandi senza alcun preavviso. Il mancato preavviso “può provocare uno stato di angoscia che raggiunge la massima intensità durante l’espulsione e può spesso degenerare in crisi violente ed escandescenze”. Secondo il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa è dimostrato che consentire a una persona di prepararsi in anticipo al rimpatrio è l’approccio più umano ed efficiente. Pertanto il Garante raccomanda di “comunicare preventivamente agli interessati la data della partenza, in modo da consentire loro di organizzarsi per il viaggio, raggruppare per tempo in condizioni dignitose gli effetti personali, avvisare i familiari o comunque le persone di fiducia e/ o l’avvocato per venire a conoscenza di eventuali aggiornamenti riguardanti la lo- ro posizione giuridica”. Locali utilizzati presso lo scalo aeroportuale di Palermo - Si tratta di luoghi adiacenti alla pista ove viene parcheggiato l’aeromobile utilizzato per l’operazione, separati dalle aree di transito dei passeggeri ordinari. Tali ambienti appaiono inadeguati sotto due ordini di profilo: 1) le condizioni materiali degradate e l’assenza di arredi e servizi, 2) il livello di sicurezza degli spazi, le cui possibili vie di fuga determinano l’automatica, generalizzata e preventiva applicazione di strumenti coercitivi con grave pregiudizio della dignità di chi si trovi a subire una tale misura pur mantenendo un atteggiamento cooperativo con le autorità. L’area è totalmente spoglia e priva di arredi, per sedersi vi è solo un tavolaccio posizionato alla meglio su tre blocchi di cemento, la cui seduta “scomoda” è destinata al massimo per otto persone, per tutti gli altri l’unica alternativa è la seduta a terra. Ogni qualvolta debbano essere condotti per qualsiasi motivo all’esterno del locale seminterrato vengono “fascettati” e accompagnati “a braccetto” da due operatori fino a destinazione. Ciò considerato, il Garante nazionale raccomanda di intervenire sui locali utilizzati per le operazioni pre-partenza presso lo scalo aeroportuale di Palermo affinché siano riportati in un buono stato di manutenzione e pulizia, resi confortevoli e adattati a riparare e isolare chi vi sosta da qualsiasi condizione climatica, dotati di arredi, quali sedie e tavoli, in quantità sufficienti al numero dei rimpatriandi e degli operatori di scorta, nonché provvisti di bagni direttamente accessibili e distributori di snack e bevande; di interrompere prassi che comportino l’uso sistematico di misure coercitive. Uso delle misure coercitive - In linea generale, anche nelle operazioni condotte mediante voli charter interessate dal presente Rapporto, continua a registrarsi un ricorso intensivo e illegittimo delle fascette in velcro applicate ai polsi dei rimpatriandi in difformità dei principi di necessità, proporzionalità e ricorso come misura di ultima istanza. Il monitor ha verificato che spesso l’applicazione di tale misura coercitiva non viene sospesa nemmeno per consentire la consumazione del pasto, obbligando i cittadini stranieri a portarsi acqua e cibo alla bocca con i polsi legati. Il Garante nazionale raccomanda che nel corso delle operazioni di rimpatrio forzato sia fatto ricorso all’uso della forza e delle misure coercitive nel pieno rispetto degli standard europei e internazionali che ne consentono l’utilizzo solo come misura di ultima istanza, in caso di stretta necessità nei confronti dei rimpatriandi che rifiutano o si oppongono all’allontanamento. Tutela della salute e assistenza sanitaria Persistono invece criticità relativamente alla mancata previsione di un’accurata verifica della compatibilità delle condizioni di salute di ciascun rimpatriando con il viaggio e alla trasmissione da parte delle strutture di trattenimento/ accoglienza delle informazioni di carattere medico. Ciò considerato, il Garante nazionale raccomanda di prevedere che tutte le persone interessate da una procedura di rimpatrio forzato siano sottoposte a una preventiva verifica medica. Tutela presunti minori - Il Garante nazionale stigmatizza la decisione di procedere al rimpatrio di una persona che si è dichiarata minorenne ritenendo che una tale prassi violi la Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989. Il Garante nazionale richiama l’esatta applicazione delle norme attualmente in vigore e delle garanzie che devono essere assicurate quando insorga un dubbio sulla minore età di un cittadino straniero. Aspetti critici relativi al diritto alla libertà L’hotspot sarebbe un Centro chiuso da cui non è consentito allontanarsi. “Il Garante nazionale chiede di sapere se si tratta di una prassi diffusa e in ogni caso raccomanda che la privazione della libertà personale dei cittadini stranieri avvenga esclusivamente ai sensi e nei modi previsti dalla legge e che gli hotspot non siano in alcun modo utilizzati come Cpr per trattenere persone destinate al rimpatrio”. Migranti. 51 in Italia con corridoio umanitario dal Niger di Alessandra Ziniti La Repubblica, 15 novembre 2018 A Pratica di Mare è sbarcato un gruppo di persone, evacuate dalla Libia dall’Unhcr, con diritto alla protezione internazionale. Ad accoglierli, il ministro Salvini: “Non si arriverà più con i barconi dei criminali”. Nel Canale di Sicilia, intanto, l’ennesimo naufragio. Sono i migranti che piacciono a Matteo Salvini, quelli che il ministro dell’Interno - “da buon padre di famiglia”, come ama dire - è disposto ad accogliere: donne, bambini, ragazzi che fuggono dalla guerra e dalle persecuzioni. Persone particolarmente fragili che hanno diritto alla protezione internazionale, tirate fuori dall’Unhcr (l’Alto commissariato Onu per i rifugiati) dalle carceri libiche ed evacuate nel centro di transito in Niger, in attesa che qualche Paese europeo dia la disponibilità ad accoglierne una quota. È la strada dell’immigrazione legale, dei corridoi umanitari che tutti auspicano, ma che solo in pillole vengono autorizzati. Per l’Italia è la prima volta di un corridoio dal Niger, per Salvini è il battesimo del volto buono del ministro che ha fatto della lotta all’immigrazione clandestina la sua bandiera, in un Paese dove quella legale è praticamente impossibile. Per questo, Salvini ha voluto accogliere personalmente i 51 immigrati baciati dalla fortuna, arrivati oggi all’aeroporto di Pratica di Mare su un aereo della Protezione civile. Questi migranti arrivano da Sudan, Etiopia, Eritrea, Somalia e Camerun. Sono quasi tutti nuclei familiari e donne sole con bambini. Diciannove sono minorenni, ma ci sono anche tre uomini soli in condizioni di grave vulnerabilità. Quindici hanno già lo status di rifugiato, gli altri sono richiedenti asilo, ma l’Unhcr ha già valutato che hanno i requisiti per ottenere la protezione internazionale. Verranno portati nella comunità “Papa Giovanni XXXIII” in Romagna e poi suddivisi in diverse case famiglia. “Spalancare le porte dell’Italia a chi scappa dalla guerra. Chiudere le porte dell’Italia a chi la guerra ce la vuole portare in casa. Questo è il primo di una serie di aerei, non è un una tantum perché si avvicina il Natale”, ha detto Salvini subito dopo lo sbarco dei migranti. “L’unico arrivo possibile per donne e bambini disabili è in aeroplano, i barconi no, sono decisi dai criminali che comprano armi e droga - ha proseguito il ministro - l’unica immigrazione positiva è quella in aeroplano, non è quella su gommoni o zattere”. Salvini ha poi assicurato che “nessun bambino verrà mai allontanato, perché esistono le leggi ed esiste il cuore. L’Italia è il Paese europeo che concede più cittadinanze all’anno”. Infine, la solita critica alle politiche migratorie europee: “Sui migranti abbiamo avuto in cinque mesi ascolto zero dall’Europa. I Paesi dell’Ue sono inadempienti, perché hanno firmato accordi che non hanno rispettato: ci sono 30 mila richiedenti asilo che si erano impegnati a prendere e invece sono ancora qua”. Nei mesi scorsi, la strada dei corridoi umanitari dalla Libia autorizzati dal Viminale era stata inaugurata dall’ex ministro dell’Interno, Marco Minniti, ma dopo due voli era stata interrotta. Ora l’Unhcr, che non è mai riuscito a inaugurare il centro di transito a Tripoli, allestito proprio per ospitare le persone liberate dalle carceri libiche in attesa di un trasferimento in Europa, si augura che i corridoi umanitari possano riprendere con continuità. Il naufragio. Intanto, però, non si fermano le traversate in mare. Un migrante è morto annegato nel naufragio di un gommone nel Canale di Sicilia. Lo hanno rivelato i 40 superstiti, che sono stati salvati da un peschereccio e portati a Lampedusa. L’uomo si sarebbe gettato in acqua nel tentativo di aggrapparsi alle reti lanciate in mare dall’imbarcazione, ma non ce l’ha fatta. L’episodio è avvenuto di notte, quattro giorni fa, ma è stato reso noto solo oggi durante la conferenza stampa della Procura di Agrigento sul fermo di due presunti scafisti del gommone. Il gommone sarebbe salpato dalle coste della Libia l’8 novembre con a bordo 41 migranti. Dopo due giorni il motore è andato in avaria e il natante è rimasto in balia del mare mosso. Alcune delle persone a bordo sono riuscite ad attirare l’attenzione di un peschereccio e si sono lanciate in mare per raggiungerlo, aggrappandosi alle reti da pesca che l’equipaggio aveva lanciato in acqua. Ma una di loro, appunto, è annegata. L’equipaggio del peschereccio non si è accorto dell’accaduto, che è stato ricostruito dai compagni di viaggio della vittima dopo lo sbarco. Dopo le prime indagini della squadra mobile, la Procura di Agrigento ha disposto il fermo di due presunti scafisti: Cleus Fada, nigeriano, 23 anni, e Ibrahim Muhammed Ridha, egiziano, 35 anni, per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. “Non serve gente che spara, meglio chi sa usare la Rete” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 15 novembre 2018 Cosi la mafia controlla il gioco on line. Blitz della Finanza: 68 arresti e sequestri per oltre un miliardo L’alleanza tra ‘ndrangheta, Cosa nostra e Sacra corona unita. Il capostipite Vito Martiradonna, oggi settantenne, era chiamato Vitin l’Enèl perché un tempo aveva un impiego legale all’Enel. Poi ha preso un’altra strada, fino alla condanna per associazione mafiosa: era il cassiere del clan Capriati, quello che comanda a Bari vecchia, per il quale “aveva il compito di mettere a frutto” i guadagni derivanti dal contrabbando e dal traffico di droga. I tre figli - arrestati ieri assieme al padre - rappresentano per gli investigatori della Guardia di finanza, “l’evoluzione della specie criminale”, capaci di adeguarsi ai tempi e alle nuove frontiere della tecnologia e dell’informatica; internet applicato agli affari illeciti. In particolare Francesco, 45 anni, che in un dialogo intercettato due anni fa spiegava: “Questa è musica di malavita. Io cerco i nuovi adepti nelle migliori università mondiali e tu vai ancora alla ricerca di quattro scemi in mezzo alla strada che vanno a fare così: bam bam!! Io cerco quelli che fanno così, invece: pin, pin!! Che cliccano! Quelli cliccano e movimentano... È tutta una questione di indice, capito?”. Meglio usare il mouse del computer per muovere i soldi, insomma, che il grilletto di una pistola per sparare. Si guadagna di più e si rischia di meno, senza fare rumore né attirare l’attenzione degli investigatori. E così avviene con la gestione delle scommesse online, quelle legali e illegali insieme, controllate attraverso piattaforme parallele nei punti vendita disseminati sul territorio controllato dalle diverse famiglie mafiose: la Sacra corona in Puglia, la mafia in Sicilia, la ‘ndrangheta in Calabria. Un metodo collaudato che garantisce entrate milionarie grazie ai soldi degli scommettitori (quasi sempre denaro contante, e dunque utile al riciclaggio), entrate clandestine e l’evasione delle somme dovute allo Stato per quelle legali. Cifre astronomiche che hanno portato al sequestro di beni per oltre un miliardo di euro (723 soltanto in Calabria) nella maxi-operazione condotta dalle Procure di Bari, Catania e Reggio Calabria, coordinate dalla Direzione nazionale antimafia, che ha portato all’arresto di 68 persone con accuse che spaziano dall’associazione mafiosa al trasferimento fraudolento di valori, passando per riciclaggio, autoriciclaggio, illecita raccolta di scommesse online, fraudolenta sottrazione ai prelievi fiscali e altri reati. Le indagini - che coinvolgono alcuni dei gruppi criminali più importanti delle tre città, che si sono federati per spartirsi aree d’influenza e guadagni attraverso gli stessi metodi e gli stessi specialisti - sono state condotte dallo Scico delle Fiamme gialle, ma anche dai carabinieri del Ros e dei comandi provinciali, dalla polizia con Squadre mobili e Servizio centrale operativo, dalla Dia. E si sono sviluppate all’estero, dall’Austria a Malta, dal Regno Unito a molti altri Paesi europei, fino ai paradisi fiscali delle Antille e delle Isole vergini. Il punto di svolta del sistema smascherato è nella sanatoria introdotta dalla legge di stabilità del 2015, con la quale - secondo la ricostruzione degli investigatori - chi prima raccoglieva le scommesse all’estero ha aderito al pagamento delle somme per trasferire l’attività in Italia aprendo siti legali (quelli targati “.it”) ma utilizzandoli anche come copertura per proseguire la raccolta e gestione illegale delle scommesse (con i siti “.com”), esenti da controlli e tributi. Utilizzando le competenze di bookmakerse specialisti che facevano lievitare i guadagni. Quando uno di loro, dopo aver aderito al condono, voleva ritirarsi dall’attività illecita, i capimafia che fin lì avevano sfruttato il suo lavoro glielo hanno impedito, costringendolo a continuare. A quel punto s’è consegnato agli inquirenti, diventando un prezioso “pentito” delle scommesse clandestine che ha svelato metodi e connessioni tra i clan. È ancora uno dei Martiradonna, in un’altra intercettazione, a spiegare la filosofia dei clan applicata a questo particolare settore d’impresa: “Tu fai la sanatoria, entri in Italia, ti metti giacca e cravatta e vai ai Monopoli; io starò con gli stivali sporchi di fango a fare la guerra, e mi prenderò tutta la merda... A me mi devi pagare, bello! Perché io mi sto buttando al macello per tutti quanti, per continuare da una parte It e da una parte Com. Voi fate la It in giacca e cravatta e io faccio il lavoro sporco, e il lavoro sporco va pagato”. Libia. A sud di Tripoli riprendono gli scontri. Un avvertimento per Serraj di Vincenzo Nigro La Repubblica, 15 novembre 2018 A poche ore dalla conferenza di Palermo, a Tripoli sono ripresi gli scontri militari che a settembre avevano potato la “Settima Brigata” di Tarhuna fino alla periferia meridionale della capitale libica. Con un’avanzata improvvisa i soldati della città a circa 200 chilometri da Tripoli sono avanzati verso il vecchio aeroporto internazionale, chiuso da anni ma appena ristrutturato anche col lavoro di una ditta italiana. Secondo alcune fonti i miliziani di Tarhuna sarebbero appoggiati dalla brigata di Salah Badi, un deputato di Misurata diventato capo milizia, considerato da mesi un “cane sciolto” ma molto vicino agli islamisti armati e soprattutto vicinissimo alla Turchia. I soldati della Settima Brigata hanno dichiarato “zona militare” l’area attorno all’aeroporto e hanno creato posti di blocco sulla “aeroport road”; secondo una fonte libica, in serata si sarebbero ritirati dall’interno dell’aeroporto per limitarsi a presidiare i loro posti di blocco. Ma le forze ritirate sarebbero pronte a una nuova avanzata verso le caserme e le installazioni militari che erano state conquistate fra agosto e settembre nella battaglia che poi venne congelata dal cessate-il fuoco mediato dall’Onu. L’aeroporto attorno a cui si combatte dalle 18 non è quello “urbano” di Mitiga, che in questi ultimi mesi ha funzionato anche come hub per i collegamenti internazionali. Mitiga è praticamente dentro Tripoli ed è difeso massicciamente da due delle milizie più potenti di Tripoli, quella del salafita Abdel Rauf Kara e quella dell’ex capitano di polizia Hajtam Tajuri. Sia Tajuri che Kara hanno nei loro arsenali carri armati e “tecniche” con armi controcarro montate sui cassoni, per cui un loro intervento significherebbe riportare la guerra nelle strade di Tripoli. L’Ansa da Roma ha chiesto un parere a Jamal Zubia, un ex capo ufficio stampa del governo libico quando il premier era il filo-islamista Khalifa al Ghweil. Zubia (che è stato in carcere per alcuni mesi con il nuovo governo di Serraj) dice che questo attacco “era ampiamente atteso dopo che la conferenza per la Libia di Palermo ha scioccato le forze anti-corruzione”. La Settima brigata, quando alla fine di agosto aveva attaccato Tripoli, lo aveva fatto lanciando lo slogan “contro le milizie della corruzione”: nel mirino della Settima c’erano proprio Tajuri e Kara, assieme alle altre 2 milizie più importanti che controllano Tripoli e quindi controllano i finanziamenti del governo Serraj. Per Zubia “la conferenza di Palermo ha deluso le forze del 17 Febbraio”, ovvero i miliziani ispirati dalla data della rivoluzione anti-Gheddafi del 2011. Per Zubia è stato un errore “non aver mai menzionato il disarmo dei criminali della corruzione nella capitale”. Una interpretazione che gira fra alcuni analisti libici è che però l’attacco della Settima Brigata (composta per buona parte anche da ex gheddafiani) possa essere stata una reazione al fatto che alla riunione di ieri mattina fra Haftar e Serraj erano presenti Egitto e Russia, ma non il Qatar e anzi la Turchia per protesta aveva abbandonato il vertice di Palermo. Secondo un analista “questa è la vera protesta della Turchia: hanno visto che Haftar stava guadagnando terreno politicamente, sostenuto dai loro avversari egiziani e con la copertura della Russia e dell’Italia. I turchi possono tranquillamente aver favorito chi ha voluto lanciare un segnale militare sul terreno”. Turchia. Giornalista condannato a quasi vent’anni di carcere di Marco Ansaldo La Repubblica, 15 novembre 2018 Ali Unal, ex caporedattore del giornale Zaman - chiuso nel 2015 - incriminato per presunti legami con il dissidente Fethullah Gulen. In estate altri sei giornalisti sono finiti in carcere per accuse simili. Un giornalista turco condannato a quasi vent’anni di carcere. Una cantante tedesca di origini locali a sei. E i diplomatici in forza al ministero degli Esteri di Ankara allontanati per sospetti legami con un gruppo terrorista sono uno su quattro. È come un bollettino di guerra in Turchia. Ma è una lettura ormai quotidiana. Dalla repressione scatenata dopo il golpe fallito del 15 luglio 2016 non c’è quasi giorno in cui non appaiono annunci di arresti, licenziamenti e condanne. Ieri il tribunale di Usak, nella parte occidentale del Paese, ha condannato a 19 anni e 6 mesi di reclusione il giornalista Ali Unal, ex caporedattore di Zaman, quotidiano chiuso nel marzo 2015 sotto l’accusa di legami finanziari con il gruppo di Fethullah Gulen, il predicatore turco un tempo alleato di Recep Tayyip Erdogan e poi considerato l’ispiratore del mancato colpo di stato. Parlando in video dalla prigione dove è detenuto, Unal ha negato di essere un membro fondatore della rete gulenista e di avere legami con il putsch. “Non ho alcun collegamento con nessuna organizzazione terroristica”, ha spiegato. Il giornalista ha aggiunto di avere parlato “per cinque o sei volte” con Gulen, e di essere mandato a giudizio per i suoi articoli. La sentenza a 19 anni e 6 mesi gli è stata comminata “per aver guidato un gruppo terrorista armato”. Nella scorsa estate altri sei giornalisti di Zaman erano stati condannati a pene detentive comprese fra gli 8 anni e 9 mesi e i 10 anni e 6 mesi di reclusione. Così come Unal, anch’essi erano stati giudicati colpevoli di “sostegno a organizzazione terroristica ed eversiva”. All’ultimo processo erano 31 i giornalisti per cui il magistrato aveva chiesto l’ergastolo: 8 giudicati in contumacia, e fra questi l’ex direttore del quotidiano, Ekrem Dumanli. Altri 5 reporter sono stati invece sollevati dalle accuse. Nel golpe per rovesciare il presidente Erdogan morirono circa 250 persone. Circa 77mila sono state arrestate e la maggior parte è ancora in attesa di processo, mentre 150mila persone sono state licenziate perché accusate di essere collegate al network di Gulen. Secondo Reporter senza frontiere sono almeno 160 i giornalisti attualmente detenuti in Turchia. Circa 130 media, fra quotidiani, riviste, tv, radio, agenzie di stampa e siti, sono stati chiusi. A Edirne, nella Turchia nordoccidentale, un tribunale ha inoltre condannato a 6 anni e 3 mesi di prigione per associazione terroristica con il Pkk curdo la cantante tedesca di origini turche Saide Inac, più nota con il suo nome d’arte di Hozan Cane. La musicista, che al processo ha respinto tutte le accuse e ha annunciato di voler ricorrere in appello, era stata arrestata durante la campagna elettorale per il voto legislativo e presidenziale del 24 giugno scorso a bordo di un bus del partito filo-curdo. Da Berlino il ministero degli Esteri tedesco ha spiegato di essere in contatto con Ankara sul caso, e di aver fornito alla donna assistenza consolare. Ma dopo i giornalisti, i magistrati, gli insegnanti, nemmeno i diplomatici fuggono alle maglie dei processi in atto. Il ministro degli Esteri, Mevlut Cavusoglu, ha reso noto nella relazione periodica sulla politica estera di Ankara che un quarto di tutti i dipendenti del ministero è stato allontanato dopo il fallito colpo di stato, per sospetti legami con la rete di Fethullah Gulen. I diplomatici e i funzionari licenziati risultano il 23% del totale. Le autorità hanno già avviato una campagna per garantire nuovi reclutamenti, e evitare così la permanenza di buchi negli organici. Il provvedimento ha toccato anche diplomatici un tempo in forza all’ambasciata turca di Roma. Stati Uniti. I migranti alle porte degli Usa diventano uno spot per Trump di Loris Zanatta Il Messaggero, 15 novembre 2018 Può il battito d’ali di una farfalla scatenare un uragano? Improbabile, ma sta accadendo con i migranti. Vi taglieremo gli aiuti se non li fermate, ha tuonato Donald Trump all’indirizzo del presidente dell’Honduras. Intanto la carovana è cresciuta attraversando i confini: quello del Guatemala, poi quello del Messico ed eccola arrivare conle avanguardie a Tijuana, due passi da San Diego. Cosa accadrà ora che sono al confine degli Stati Uniti, dove la gendarmeria è già schierata? Fossi un honduregno, è probabile che anch’io cercherei di abbandonare il paese: elezioni truccate, violenza endemica, persecuzioni, impunità, corruzione, narcotraffico, miseria. Come guardare al futuro in tali condizioni? Ma lo stesso farei se fossi cubano o venezuelano, nicaraguense o salvadoregno: difatti anch’essi fuggono. Dirò di più: dovendo lasciare l’Honduras, anch’io punterei a Nord, cercherei un varco per guadare il Rio Grande. Che diamine! Solo lì potrei avere qualche speranza di uscire dalla trappola della povertà. Ma se fossi un cittadino statunitense, è probabile che nonostante l’empatia verso quell’umanità in fuga dall’inferno o in viaggio verso la terra promessa, vedrei la questione in altro modo: possiamo accogliere tutti gli honduregni, i cubani, i venezuelani, i saldavoregni? Suonerà cinico alle anime pure, ma la risposta sarebbe: ovviamente no. Chi meglio lo capì, forse perché in quanto a cinismo era imbattibile, fu Fidel Castro. Sapeva bene che i suoi sudditi erano pronti a tutto pur di lasciare l’isola e di tanto in tanto scatenava immense ondate verso gli Stati Uniti, sapendo che li avrebbe messi in ginocchio. La chiamava la sua “armadi invasione di massa”: mai nome fu più azzeccato. E tale arma, si può star certi, è quella che ha ispirato gli organizzatori della carovana che oggi troneggia sui media di tutto il mondo; organizzatori geniali, a loro modo: hanno saputo elevare ad evento globale ciò che da anni è prassi quotidiana in America Centrale. Il fatto, prosaico finché si vuole, è che distinguere migranti economici e profughi politici è spesso difficile, in questo caso impossibile; e che il diritto di scegliersi il paese di accoglienza, quand’anche si trovi a distanze siderali dal proprio, sarà anche bello in teoria, ma è di certo ingiusto ed impraticabile: i flussi migratori diverrebbero ancor più ingovernabili di quanto già non siano; e i trapianti troppo invasivi, causano pericolosi rigetti: quanti altri esempi ci servono per capirlo? Non basta fare il bene, diceva Denis Diderot, bisogna anche farlo bene. Perché un bene fatto male, fa danni e basta, aggiungo. Cosa intendo dire? Che il battito d’ali partito dall’Honduras, divenuto carovana ora stanziale al confine tra Messico e Usa, ha aiutato Trump in campagna elettorale per agitare un’immagine, quella della potenziale invasione dei migranti, a sostegno dei candidati repubblicani. L’eterogenesi dei fini è sempre in agguato. Stati Uniti. Così la Cia studiò il siero della verità per far parlare i terroristi di Elena Dusi La Repubblica, 15 novembre 2018 Tra il 2002 e il 2003 l’intelligence americana valutò l’uso di psicofarmaci durante gli interrogatori degli estremisti islamici. Un documento desecretato svela le ricerche e come si arrivò alla decisione di rinunciare. In vino veritas, si diceva un tempo. Oggi, per arrivare alla verità, gli investigatori provano ben altro: psicofarmaci inclusi. La Cia ha appena declassificato (perché costretta, e solo dopo due anni di battaglie legali) il rapporto di un medico che ha partecipato agli interrogatori dei combattenti di Al Qaeda dopo l’11 settembre. E che racconta nei dettagli il cosiddetto “Project Medication”, la possibilità di usare uno psicofarmaco della famiglia delle benzodiazepine, chiamato Versed, come “siero della verità”. Project Medication andò avanti dal 2002 al 2003, poi lo staff medico della Cia ritenne di rinunciare a chiedere un’autorizzazione formale al Dipartimento della Giustizia. Il Versed è usato come ansiolitico e blando anestetico. Induce una sensazione di calma e una temporanea amnesia. Viene a volte somministrato nella preparazione agli interventi operatori. Dalla fine degli anni Settanta i medici notarono che i pazienti a volte perdevano l’inibizione, iniziavano a parlare liberamente, a raccontare dettagli che di certo non avrebbero rivelato da svegli. L’aspetto paradossale, nel documento della Cia pubblicato ieri grazie alla caparbietà dell’Aclu (American civil liberties union), una ong americana per i diritti civili, è che l’uso del Versed era considerato, durante alcuni interrogatori particolarmente duri, una parentesi di “relax” per i detenuti. Abu Zubaydah, uno dei prigionieri citati nel documento, fu per esempio schiaffeggiato, sbattuto al muro, costretto a restare rannicchiato in una cella minuscola e poi sottoposto a waterboarding. Visto che si ostinava a non parlare, agenti della Cia e medici pensarono di ricorrere a una “soluzione più benevola”, secondo le parole del rapporto, somministrandogli il “siero della verità” (Versed e morfina furono usati durante alcuni trasferimenti). Sarà stato forse per una sorta di ripensamento etico o, più probabilmente, perché il flusso delle parole indotto dagli psicofarmaci è a volte più simile alla farneticazione di un ubriaco o di un uomo che parla nel sonno che non a una vera e propria confessione, fatto sta che Project Medication fu archiviato sul nascere. Ma la storia del “siero della verità” probabilmente non finirà qui. È più di un secolo infatti che la “narcoanalisi” (gli interrogatori assistiti da psicofarmaci) prova a infilarsi nei tribunali in barba alle regole etiche e di legge, tentando di trovare una giustificazione medica perfino nell’uso dell’ipnosi da parte di Freud. L’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda aveva avviato un programma di sviluppo, usando probabilmente barbiturici. Gli Stati Uniti, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, diedero vita al famigerato progetto Mk-Ultra, che prevedeva fra l’altro la somministrazione di Lsd ai prigionieri da far confessare. Anche in quel caso, le allucinazioni risultarono così confuse da esser più che altro d’intralcio alla ricerca della verità. Pakistan. Non c’è tempo da perdere, Asia Bibi è ancora a rischio di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 15 novembre 2018 Questa battaglia potrà considerarsi conclusa solo se Asia Bibi verrà vista finalmente libera, se non in Pakistan, almeno in qualche parte del “nostro mondo”. Sono ore decisive, queste. Per Asia Bibi, in primo luogo. Ma per tutti noi, perché se Asia Bibi non sarà salvata, se la comunità internazionale lascerà passare sotto silenzio un orribile sopruso, se insomma l’avrà vinta il fanatismo integralista che si scaglia feroce contro una donna colpevole soltanto di essere cristiana in Pakistan, allora noi tutti avremo perduto una battaglia di civiltà e non avremo più credibilità nella difesa dei diritti umani nel mondo. Dopo anni di galera, Asia Bibi è stata riconosciuta un paio di settimane fa innocente da un tribunale pakistano per l’accusa di “blasfemia”. Che poi la “blasfemia” tanto invocata era semplicemente il fatto che Asia Bibi, cristiana, avesse bevuto dalla stessa fonte dove si erano dissetate alcune donne musulmane. Per questo atto “blasfemo”, incredibile a dirsi, pendeva su si lei una condanna alla forca. Le piazze islamiche tumultuavano, ma un giudice ha coraggiosamente assolto Asia Bibi, salvandola dalla forca. E tuttavia da quel momento, tutto è diventato confuso e caotico. Le piazze si sono nuovamente riempite di fanatici che gridavano per l’impiccagione della donna. Il giudice vive blindato sotto scorta, insieme a tutta la sua famiglia. L’avvocato difensore ha lasciato in tutta fretta il Pakistan. Per disinnescare le proteste il governo pakistano ha promesso un’improbabile revoca della sentenza di assoluzione. Del destino di Asia Bibi si sa poco o nulla, piovono informazioni contraddittorie, ma non al punto di non farci trepidare per la sua sorte. Ed è qui che deve giocare un ruolo l’opinione pubblica internazionale. Ogni minuto di silenzio del mondo è una vita che si stringe sul destino ancora incerto, angosciosamente incerto, di Asia Bibi. I governi non dovrebbero tacere, gli organismi internazionali dovrebbero intervenire, anche se è purtroppo noto che gli organismi internazionali, Onu in testa, sono accondiscendenti, silenziosi, addirittura complici delle nefandezze che si consumano a danno dei diritti umani. I media del mondo non dovrebbero spegnere i riflettori proprio ora. A Roma la sindaca Virginia Raggi non ha ancora deciso se esporre l’immagine di Asia Bibi sulla piazza del Campidoglio: ma non c’è molto tempo da perdere, lo faccia al più presto, senza esitazioni, sfidando il conformismo e l’ambiguità. Ieri, intervistato dal Corriere, il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani ha promesso che l’Europa non abbasserà la guardia sul caso di Asia Bibi. Speriamo che sia davvero così, e che qualche governo sia in grado di appoggiare la fuga di Asia Bibi dal Pakistan, dove la sua vita è in pericolo. In caso contrario, la sconfitta di una battaglia di civiltà sarà cocente. Le ragioni del diritto e della legge si dimostreranno carta straccia. Una donna perseguitata per nulla, con un’accusa risibile se non fosse tragica vive ancora momenti di angoscia. Ma per quieto vivere, per paura, per indulgenza, per debolezza culturale o per semplice cinismo si tende a non considerare centrale la voce di una donna cristiana, già vessata da anni di carcere ingiusto, vittima del fanatismo omicida. E questa battaglia potrà considerarsi conclusa solo se Asia Bibi verrà vista finalmente libera, se non in Pakistan, almeno in qualche parte del “nostro mondo”, che si fa forte con le parole dell’accoglienza, ma non sa accogliere una donna braccata dai fondamentalisti. Non c’è molto tempo. Anzi, il tempo è quasi scaduto. Via le sanzioni, dall’Onu un premio all’Eritrea di Afewerki di Marco Boccitto Il Manifesto, 15 novembre 2018 Non più canaglie. Decisivo l’accordo di pace siglato con l’Etiopia. Da domani beni scongelati, leader eritrei liberi di viaggiare e resto del mondo libero di rivendere armi al regime dell’Asmara. Il primo a congratularsi con il popolo e il governo dell’Eritrea è stato il primo ministro etiope Abiy Ahmed. Ed è in buona parte merito suo se il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite ha disposto la revoca delle sanzioni imposte nove anni fa a Asmara per il suo presunto sostegno ai jihadisti somali di al Shabab. Sostegno mai provato, come fa capire anche il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, quando dice che “le sanzioni erano motivate da una serie di fattori che ora non esistono più”. Il fattore decisivo è il processo di distensione regionale a cui il nuovo premier etiope Ahmed ha impresso un’improvvisa accelerazione, producendo in luglio uno storico accordo di pace etio-eritreo. Gli Stati uniti che avevano fortemente voluto le sanzioni hanno fatto cadere il veto e il Regno unito ha preparato la bozza della risoluzione che è stata votata ieri all’unanimità. Da domani beni scongelati, leader eritrei liberi di viaggiare e resto del mondo libero di tornare a vendere armi al regime di Isaias Afewerki. Il nuovo clima che si respira nella regione genera forti aspettative, ma eventuali ricadute positive sul piano interno, in Eritrea, sono tutte da dimostrare. L’ex colonia italiana è un paese dal quale si continua a fuggire.