Gli avanzi della giustizia di Sergio Segio Vita, 14 novembre 2018 Il carcere è ormai divenuto una pentola che bolle nell’indifferenza di chi avrebbe il potere e il dovere di spegnere il fuoco e nel cinismo di chi vi soffia sopra per attizzarlo ulteriormente. Se la pentola trabocca pericolosamente di sofferenza e di insofferenza è - anche e da ultimo - perché ai reclusi è stata sottratta quella speranza che era stata pazientemente costruita negli ultimi anni. Tra il 2015 e il 2016 gli Stati generali dell’esecuzione penale infatti avevano messo al lavoro e a confronto centinaia di esperti e operatori in 18 tavoli tematici; un impegno accurato e anche appassionato ereditato l’anno seguente da tre Commissioni di studio, composte da decine di giuristi, magistrati, cattedratici, avvocati, istituite dal ministro allo scopo di riassumere e tradurre quel lavoro e di elaborare gli schemi di decreto legislativo per la riforma dell’ordinamento penitenziario. Cosa che avvenne, così che nell’autunno 2017 i decreti erano pronti per l’approvazione da parte dell’esecutivo. Il quale, avvicinandosi ormai la data delle elezioni, però se ne guardò bene. Naturalmente, perse comunque, non solo i voti ma anche la faccia, avendo scelto di terminare la legislatura tradendo l’impegno di varare una seria e necessaria, e peraltro prudente, riforma. Quei decreti sono stati infine ripresi dal nuovo governo gialloverde, accuratamente svuotati e infine emanati. Pubblicati in Gazzetta ufficiale il 26 ottobre, sono entrati in vigore il 10 novembre. In particolare, sono state rimosse e archiviate le proposte tese a rivitalizzarle le misure alternative alla detenzione, che dovevano conseguire il duplice obiettivo di ridurre il sovraffollamento penitenziario e di consentire di scontare almeno parte della pena in modalità effettivamente risocializzanti e propedeutiche al ritorno nella società. Alternative alla pena e pene alternative - “Occorre provare a immaginare alternative alla pena, non solo pene alternative”, diceva il compianto Cardinal Martini. Aggiungendo che “Il cristiano non potrà mai giustificare il carcere, se non come momento di arresto di una grande violenza”. Altri tempi e altre stature. Oggi nessuno osa pensare e discutere di modelli di difesa sociale diversi dalla somministrazione di una sofferenza legale, mentre le stesse misure alternative vengono spesso intese, e spacciate dagli “imprenditori della paura” e dai loro megafoni mediatici, come rinunzia alla punizione. L’anno passato gridavano che la riforma del governo di centrosinistra avrebbe “svuotato le carceri”: mentivano sapendo di mentire ma ottenendo il risultato di fare vacillare, e infine recedere, la già scarsa determinazione di quel governo. Le ricerche scientifiche al riguardo, all’opposto, dimostrano che quelle misure sono uno strumento di prevenzione della recidiva, e dunque del crimine, oltre che una modalità di esecuzione delle pene coerente con il dettato costituzionale e con una concezione umana e finalizzata del tempo di detenzione. Lo ha sottolineato di recente anche l’ex magistrato Gherardo Colombo. Speranza è una parola preziosa per tutti, ma in carcere essa si fa precaria e fragile. Riempie i sogni e le giornate ma basta poco (in un luogo in cui il poco è tutto) per mandarla in mille pezzi. Così è avvenuto e sta avvenendo in questi mesi. Morire di carcere - Un indicatore inequivocabile del malessere è la scelta sempre più frequente di uccidersi in cella. Nei primi dieci mesi del 2018 è successo 53 volte, superando il numero dell’intero 2017, quando erano stati 52 (ma il dato ufficiale del ministero dice 48). La cifra è però già da aggiornare: domenica scorsa un giovane recluso si è tolto la vita nel carcere di Velletri; nello stesso luogo, solo poche ore prima, un altro detenuto era invece morto per un malore. Non se ne conoscono i nomi, perché questi decessi non fanno notizia, se non, il più delle volte, per rimarcare non già le condizioni di detenzione bensì la carenza di organici dichiarata dai sindacati di polizia. Sappiamo però che, a detta dei custodi, il suicida aveva “un comportamento arrogante e poco collaborativo”. Così come veniamo puntualmente informati di tanti invece risibili avvenimenti, artatamente enfatizzati per occultare il malessere, invece reale e diffuso. Sappiamo, ad esempio, che nel tal carcere il tal giorno, il tal detenuto, ammesso al lavoro esterno come addetto alla sala bar di una cooperativa, “a fine serata avrebbe dato segno di ebbrezza alcoolica e come tale sarebbe stato segnalato alla sorveglianza dell’Istituto penitenziario”. Oppure che, in altro carcere, nel corso di una perquisizione nelle celle il personale rinveniva “addirittura della frutta lasciata a macerare”, che si suppone accumulata per ricavarne una qualche bevanda fermentata. E così via. Intanto, di carcere si continua a morire. Non da oggi, ma oggi in misura maggiore e senza che ciò provochi, se non risposte, perlomeno domande. Come dimenticare che il picco massimo di suicidi in cella nell’ultimo quarto di secolo, ben 69, si è verificato nel 2001, all’indomani del mancato provvedimento di clemenza nell’anno del Giubileo? Anche lì, in dirittura d’arrivo, avevano trionfato la pavidità e i veti reciproci dei partiti. In particolare, della Lega di Umberto Bossi e di Alleanza Nazionale di Gianfranco Fini, entrambi all’apice del potere allora non riuscirono a immaginare che una giustizia che avesse il coraggio di essere mite potesse, in definitiva e in futuro, risultare un investimento. Un deposito di vite a perdere - Al 31 ottobre scorso in carcere vi erano 59.803 persone, stipate nei 50.616 posti dichiarati “regolamentari”, che però non sono tali ed effettivi poiché almeno 5.000 risultano invece inagibili, per vari motivi. Vi sono, insomma, quasi 15.000 reclusi in più di quanti le carceri potrebbero contenerne. Inevitabile che ciò aggiunga sofferenza a sofferenza, tensione a tensione. E produca l’aumento dei cosiddetti “eventi critici”, come pudicamente e cripticamente vengono chiamate tutte le situazioni di disagio: aggressività, scioperi della fame, violenze, autolesionismo. Nel primo semestre del 2018, oltre ai suicidi, si sono già registrati 5.157 atti di autolesionismo (erano 4.310 nel 2017) e 585 tentati suicidi (erano 567). Per non dire dei problemi igienici e sanitari: da ultimo, nel carcere di Trieste c’è l’allarme per le pulci. E dei prevedibili effetti dell’ennesimo decreto sicurezza, con il quale vengono ulteriormente criminalizzati migranti e poveri autoctoni. Insomma, il carcere della speranza sta lasciando posto al suo contrario e tornando a essere un lazzaretto, un deposito di vite a perdere. Quello che evidentemente si vuole che sia. Spesso neppure per reale cattiveria (oggi che essere “buonisti” è diventata un’accusa e un insulto) e per calcolo politico (ed economico, ché il carcere è anche un grande business, che naturalmente tende a incrementare se stesso), ma per indifferenza e distrazione. Quali che siano le motivazioni e le cause, non muta il risultato di una pena reclusiva che, a distanza di secoli da Cesare Beccaria, è ancora una pena corporale, che determina dolore fisico e psichico, che produce malattia e morte, che si regge su violenza e opacità. “Le carceri italiane rappresentano l’esplicazione della vendetta sociale nella forma più atroce che si sia mai avuta: noi crediamo di aver abolita la tortura, e i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura la più raffinata; noi ci vantiamo di aver cancellato la pena di morte dal codice penale comune, e la pena di morte che ammanniscono goccia a goccia le nostre galere è meno pietosa di quella che era data per mano del carnefice; noi ci gonfiamo le gote a parlare di emenda dei colpevoli, e le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti, o scuole di perfezionamento dei malfattori”. Sono parole che, oltre un secolo fa, il 18 marzo 1904, il socialista Filippo Turati pronunciò in un discorso alla Camera dei deputati. Sembrerebbero di oggi, non fosse che da molto tempo nelle Aule parlamentari non si levano più voci a denunciare l’intollerabilità della situazione carceraria. Processo alla riforma di Ermes Antonucci Il Foglio, 14 novembre 2018 Dai costituzionalisti ai professori, nessuno è d’accordo con la sospensione della prescrizione Roma. Sfilza di bocciature per la riforma della prescrizione proposta dalla maggioranza. Durante le audizioni svolte lunedì dalle commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera, giuristi, magistrati e avvocati hanno pesantemente criticato la norma inserita in extremis dal Movimento 5 Stelle all’interno del ddl anticorruzione che prevede la sospensione della prescrizione dopo una sentenza di primo grado. Persino l’Associazione nazionale magistrati, che sabato scorso ha annunciato un pacchetto di proposte da sottoporre al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, ha voluto prendere alcune distanze. Il presidente del “sindacato delle toghe”, Francesco Minisci, pur rivendicando il sostegno alla proposta, ha detto che la riforma “deve inserirsi in un più complesso e ampio intervento sul codice penale e di procedura penale”, in quanto “adottata da sola sarebbe una soluzione non solo inefficace ma dannosa per le corti d’appello che vedrebbero aumentare i carichi”. Minisci ha inoltre proposto di applicare lo stop al decorso della prescrizione “solo alle sentenze di condanna e non anche a quelle di assoluzione”, evidenziando “la diversità tra l’una e l’altra sentenza in termini di garanzie e interesse dello Stato ad arrivare alla conclusione del processo”. Bocciature pesanti sono arrivate anche dai rappresentanti dell’avvocatura, delle alte Corti e del mondo accademico. L’Unione delle Camere Penali Italiane, dopo aver attaccato nei giorni scorsi l’Anm (“Si candida al ruolo di ghost writer della peggiore riforma populista e giustizialista della storia repubblica na”). per bocca del segretario Eriberto Rosso ha “ribadito la ferma contrarietà all’emendamento sia nel metodo che nel merito”, ritenendo la disciplina “certamente contraria a molti principi della nostra Costituzione” (dal principio di legalità previsto dall’articolo 25 alla ragionevole durata del processo stabilita dall’articolo 111). Secondo Andrea Mascherin, presidente del Consiglio Nazionale Forense, “l’esigenza di allungare i tempi in nome della difesa della parte lesa è sistematicamente sbagliata e non risponde ai principi della Costituzione”: “Solo dopo aver garantito la ragionevole durata del processo possiamo parlare di prescrizione”. Durante l’audizione, il Cnf ha anche chiesto alla maggioranza di governo di chiarire se la riforma della prescrizione andrà di pari passo con quella del processo penale: “Non è possibile che si rimanga, come cittadini e quindi coloro che vi hanno votato, appesi a un distinguo. Il M5s afferma che le due riforme sono l’una slegata dall’altra, mentre la Lega afferma invece che le due riforme dipendono l’una dall’altra”. Per Riccardo Fuzio, procuratore generale della Corte di Cassazione, “l’emendamento è una prescrizione tombale, non è una sospensione ma un atto interruttivo definitivo della prescrizione”. Non solo: la scelta di spostare al 2020 l’entrata in vigore della riforma, e quindi di aspettare diversi anni prima di vederne gli effetti, spinge Fuzio a chiedersi se non si sia di fronte a una semplice “bandierina” voluta dal M5s per motivi propagandistici. Secondo Giovanni Mammone, primo presidente della Corte di Cassazione, la discussione dovrebbe tener conto necessariamente della sovrapposizione della riforma con la legge sulla prescrizione approvata un anno fa, che ha già previsto una sospensione dei termini di prescrizione dopo una sentenza di primo o secondo grado: “Una soluzione non coordinata può dar luogo a una violazione dell’articolo 111 della Costituzione sul giusto processo, che viene garantito anche attraverso una ragionevole durata del processo”. Giovanni Canzio, presidente emerito della Corte di Cassazione, ha ammesso di far “fatica a trovare la ratio della norma”: “Ha un senso parlare di stop della prescrizione dopo la sentenza di condanna di primo grado quando i due terzi delle prescrizioni, circa il 66 per cento, vengono dichiarate all’interno delle indagini preliminari?”. “Non è scandaloso prevedere che dopo la condanna di primo grado si sterilizzi l’effetto della prescrizione - ha aggiunto Canzio - ma così come è formulato può rivelarsi un agente patogeno perché può innalzare il carico giudiziario di lavoro delle corti d’appello, può sollecitare azioni non virtuose all’interno delle indagini preliminari prive di controllo della ragionevole durata del processo”. Canzio ha così espresso “fortissimi dubbi sulla costituzionalità della norma”, che “sarebbe dannosa per l’intero sistema”. Accademici contro La proposta di riforma è stata demolita in audizione dai professori universitari. Per Vittorio Manes, docente di Diritto penale all’Università di Bologna, si tratta di “un blitz politico” che introduce il principio della “presunzione di colpevolezza” e dà vita a una “giustizia kafkiana”. Secondo Manes, la riforma non migliorerà la giustizia ma “produrrà la condizione di eterni giudicabili, che una volta entrati sotto il radar della giustizia penale rimarranno tali a vita”. Alessandro Bernasconi, docente di Diritto penale all’Università di Brescia, ha individuato ben “sei motivi di incostituzionalità” della riforma proposta, “che potrebbero sfociare in altrettanti rinvii alla Consulta”: dalla ragionevole durata del processo alla certezza del diritto, dalla presunzione di innocenza al diritto di difesa. Il costituzionalista Francesco Saverio Marini, professore di istituzioni di diritto pubblico all’Università Tor Vergata di Roma, si è spinto oltre e ha parlato di un disegno complessivo del governo che delinea un quadro da “deriva giustizialista che mortifica la nostra storia, sempre connotata da una matrice liberal-garantista. Un processo sine die è una sorta di ergastolo processuale”. Infine, per Nicola Pisani, professore di diritto penale all’Università di Teramo, la proposta del M5s ha “un’anima autoritaria”. Quando lunedì prossimo il ddl anticorruzione con la riforma della prescrizione passerà all’esame della Camera, il testo sarà già stato bocciato da tutti gli esperti del settore. Antigone. “Decreto Salvini: non sicurezza, ma populismo penale” di Angelica Spampinato nelpaese.it, 14 novembre 2018 “A delle domande sociali il governo ha deciso di dare una risposta penale, utilizzando strumenti giudiziali per creare il consenso”, queste le parole di Claudio Paterniti Martello, dell’associazione Antigone, in merito al decreto legge Sicurezza, approvato al Senato lo scorso 7 novembre. “È un decreto a cui noi ci siamo opposti in maniera chiara, netta e totale – aggiunge. Non c’è nulla di positivo, è stato emanato in nome di un’emergenza che non esiste, come possiamo leggere dagli stessi dati pubblicanti dal Ministero dell’Interno, secondo cui i reati sono in netto calo negli ultimi anni”. “Il reato di accattonaggio e l’inasprimento delle pene per gli occupanti – continua - sono elementi che ci preoccupano. La società verrà resa più insicura, anche grazie a tutti i provvedimenti presi in materia di immigrazione. I cittadini stranieri potranno cadere nel circuito deviante e criminale molto più facilmente, ecco perché la nostra opinione su questo decreto è che sia ingiusto e produca solo più insicurezza. Si tratta di un’espressione avanzata e forte del populismo penale, in cui vengono individuati alcuni nemici, tra cui elemosinanti, clochard e migranti in condizione di vulnerabilità, alle cui domande sociali si risponde penalmente”. Secondo Paterniti Martello un ulteriore sovraffollamento delle carceri non ci sarà nell’immediato, ma posticipato nel tempo: “Tra la norma e la sua applicazione non è detto ci sia immediatezza, quello relativo al sovraffollamento delle carceri è un dato che misureremo nel corso del tempo. Sicuramente quando si inaspriscono le pene o si introducono nuovi reati, la situazione carceraria già delicata, ne risente”. E per quanto riguarda l’idea di sperimentare il Taser? “Il Taser è un’arma a tutti gli effetti - risponde - c’è un’inchiesta di Reuters che ha documentato che le vittime principali di questo strumento sono donne incinta, persone con problemi cardiaci, o problemi mentali. Verrà usato principalmente contro dei soggetti problematici, contro chi non si riesce a contenere, come ad esempio persone con patologie psichiatriche. Questo strumento è stato introdotto in fase sperimentale, ma ci si era prefissati lo scopo di capire prima quali fossero i rischi e le conseguenti precauzioni da prendere, invece non si è attesa la fine delle sperimentazioni che anche la polizia municipale ne è stata dotata. Ci troviamo di fronte a una procedura chiaramente non coerente, considerando che tra l’altro la polizia municipale dovrebbe occuparsi di viabilità, visto che a Roma ancora si muore mentre si attraversa la strada”. Paterniti Martello ha chiara la risposta da dare ai sostenitori del Taser come arma alternativa non letale alle armi da fuoco: “Si tratta di strumenti che andranno a sostituire i manganelli, non le armi da fuoco, che sono utilizzate in contesti diversi”. Un decreto che andrebbe riscritto, e non emendato, dunque: “La parte più preoccupante è quella che riguarda la protezione umanitaria e la fragilizzazione dello statuto dei migranti. Nei confronti di queste persone è stato prevista una privazione della libertà anche senza aver commesso alcun reato, con la scelta di trattenere negli hotspot gli ospiti per 30 giorni ai fini identificativi, ed eventuali altri 180, qualora non si riuscisse ad identificarli subito, per un totale di sette mesi. Non abbiamo dato dei consigli correttivi perché questo è un decreto che andrebbe riscritto tutto, è completamente sbagliato”. Antigone continuerà quindi a opporsi fermamente al decreto Sicurezza: “Cerchiamo di esprimere la nostra preoccupazione e il nostro allarme in tutti gli ambiti in cui possiamo farlo: politico, mediatico e accademico. Bisogna fare opposizione culturale, esprimendo le ragioni del garantismo penale”, conclude Paterniti Martello. Contro il populismo più forti le idee liberali della giustizia penale di Gian Domenico Caiazza* Il Sole 24 Ore, 14 novembre 2018 Il congresso sorrentino dei penalisti italiani ha tracciato con chiarezza il percorso che l’Unione delle camere penali Italiane dovrà seguire nel prossimo biennio; un percorso d’altronde ineludibile alla luce della tumultuosa trasformazione del quadro politico nazionale. I temi della giustizia penale, infatti, sono al centro del programma politico del nuovo governo gialloverde, costituendone il connotato identitario addirittura più marcato e condiviso tra i due partner della nuova maggioranza. D’altro canto, Giovanni Fiandaca già ci ammoniva ricordandoci che se “la patente di populista può essere concessa a quanti utilizzano tecniche retoriche o manipolative di acquisizione del consenso, a loro volta costruite intorno alla pretesa di essere gli interpreti più autentici e i difensori più credibili degli interessi del popolo, a prescindere, invero, da ogni rapporto di effettiva corrispondenza tra ideologia e realtà”, è certo che “l’ispirazione populistica si è notoriamente tradotta in una accentuata strumentalizzazione politica del diritto penale, e delle sue valenze simboliche, in chiave di rassicurazione collettiva rispetto a paure e allarmi a loro volta indotti, o comunque enfatizzati da campagne politico-mediatiche propense a drammatizzare il rischio-criminalità”. Dunque, da sempre la politica cede alla tentazione populistica quando si occupa di giustizia penale, e da sempre i penalisti italiani denunciano e combattono quella deriva. Ma la novità è che mentre fino a ieri il populismo penale veniva negato anche quando era in concreto praticato dalla politica, oggi esso viene fieramente rivendicato come riferimento cardinale del nuovo programma di governo del Paese. Non è certo una differenza da poco, perché in questo modo sono gli stessi assetti costituzionali della giustizia penale a essere messi apertamente in discussione, con la forza iconoclasta di un consenso popolare che al momento sembra davvero inarrestabile. Le istanze securitarie sopravanzano e travolgono ogni esigenza di garanzia; il processo penale viene letto solo con gli occhiali della vittima del reato; al centro di ogni ragionamento sui fatti di rilevanza penale si pone con chiarezza la presunzione di colpevolezza; tutto ciò che è alternativa alla pena carceraria è interpretato come una resa dello Stato; la finalità rieducativa della pena è sbeffeggiata come una pruderie liberal-salottiera; la paura sociale del crimine in drammatica ascesa, cioè la realtà percepita, sopravanza le evidenze statistiche di segno contrario, ignorate o scacciate via come un moscerino fastidioso. Noi sappiamo che un simile, travolgente contagio culturale e politico è reso possibile non dalla debolezza o dal tramonto delle idee liberali della giustizia penale, ma dal loro travisamento e dalla loro diffusa ignoranza. È ben chiaro a tutti che non una delle tricoteuse placidamente sedute a godersi le decapitazioni in piazza si sottrarrebbe alla vigorosa e anzi furibonda rivendicazione di un processo giusto ed equo, rigorosamente rispettoso della presunzione di non colpevolezza, se il destino riservasse loro di doversi dolorosamente immedesimare con la vicenda umana e processuale dell’imputato. Dunque ecco l’imperativo politico e culturale che i penalisti hanno saputo avvertire: ridare forza, vitalità, chiarezza, identità e poi diffusa conoscenza alle idee liberali della giustizia penale, promuovendo il concepimento e la scrittura del Manifesto della giustizia penale liberale. Il “Manifesto” è una ricorrente esigenza nella storia del pensiero umano, che puntualmente sorge quando si avverte la necessità - politica, filosofica, culturale, artistica - di definire con chiarezza perimetro e contenuto di idee che si intende poi promuovere, e intorno alle quali si intende raccogliere consenso e azione. Noi avvertiamo forte la esigenza di esprimere con chiarezza contenuto e declinazione di quella idea del diritto penale, del processo penale, dell’ordinamento giudiziario in materia penale, per chiamare a raccolta tutti coloro che credano in essa e intendano difenderla e vederla affermata: nella politica, nella legislazione, nella amministrazione della giustizia, nel dibattito culturale, nei media. L’Unione delle camere penali Italiane ha la storia e la forza per avviare questo progetto ambizioso, chiamando a raccolta la comunità dei giuristi, e innanzitutto quella Accademia che in modo sempre più chiaro, in questi ultimi anni, ha inteso e con sempre maggior forza intende schierarsi in difesa di valori costituzionali irrinunciabili. Presunzione di non colpevolezza, sacrificio della libertà personale come extrema ratio, principio di legalità come limite del potere di interpretazione del giudice, terzietà del giudice e parità processuale delle parti nel processo, ragionevole durata del processo come diritto dell’imputato e non come legittimazione del sacrificio delle garanzie a presidio del diritto di difesa. E ancora, diritto penale minimo, razionalità e proporzionalità della pena; finalità rieducativa della esecuzione penale; e potremmo continuare. Al tempo stesso, seguiremo l’iter parlamentare della legge di iniziativa popolare sulla separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante, sottoscritta su nostra iniziativa da 72mila cittadini, sollecitando la promozione di un inter-gruppo parlamentare che ne sostenga l’approvazione. Quale che ne possa essere l’esito, sarà un dibattito di vitale importanza, perché consentirà di approfondire una riflessione finalmente seria sulla effettività (o ineffettività, come noi sosteniamo) del comando costituzionale sulla indispensabile terzietà del giudice. Se vi sono risposte diverse dalla separazione delle carriere, se ne parli e se ne discuta; ma negare il problema non serve a nessuno. Vediamo collegi della Corte di cassazione presieduti da magistrati che hanno svolto per trent’anni e più le funzioni di pubblico ministero; vediamo quotidianamente all’opera giudici che esprimono la medesima formazione, la medesima cultura professionale, il medesimo percorso ordinamentale (e disciplinare) dei pubblici ministeri dai quali la nostra Costituzione li vorrebbe distanti esattamente quanto da noi avvocati: discutiamone finalmente con serietà. Questo (insieme a molto altro, naturalmente) è il percorso che il Congresso di Sorrento ha indicato ai penalisti italiani, e che noi vogliamo affrontare insieme con tutta la comunità dei giuristi, con la politica, con le istituzioni, con la pubblica opinione. È tempo di schierarsi, è tempo di discutere, è tempo di spiegare e di difendere le ragioni fondative del nostro patto sociale in tema di giustizia penale; è tempo di diffondere la consapevolezza del valore irrinunciabile dei princìpi e delle regole che garantiscono i diritti, la dignità e la libertà di ciascuno di noi. *Presidente dell’Unione Camere penali italiane Camere penali: “La riforma penale proposta dall’Anm è fuori dalla Costituzione” Il Dubbio, 14 novembre 2018 In una dettagliata nota, l’Unione Camere penali analizza la proposta di riforma penale definita nei giorni scorsi dall’Anm: la giudica “incostituzionale” e trova, nella tempistica della delibera dei magistrati, “sinergie a dir poco allarmanti col governo”. La Giunta dell’Ucpi, esaminato il documento approvato dalla Giunta dell’Anm e reso pubblico nei giorni scorsi, contenente proposte di modifica del Codice di Procedura penale, osserva: le proposte di riforma di Anm sono certamente contrarie a principi costituzionali, a Carte e Convenzioni Internazionali ed alla stessa ispirazione del codice accusatorio. I. L’Anm propone l’abolizione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Lo fa con una norma scritta assai meglio dell’emendamento “galeotto” del Governo, ma la sostanza non cambia. Il processo penale che non finisce mai, addirittura con nuove decorrenze intermedie finalizzate a salvare le abnormi dilatazioni del tempo delle indagini. Come sanno benissimo i Magistrati del Pubblico Ministero, evidentemente ispiratori del progetto, l’avviso di conclusioni ex art. 415 bis del codice di rito viene solitamente emesso dopo molto tempo dalla effettiva conclusione delle investigazioni. Questa è una delle ragioni per le quali il legislatore non ha ritenuto di inserire tale atto nell’elenco degli atti interruttivi della prescrizione. L’accusa avrebbe in mano un formidabile strumento per allontanare il tempo dell’accertamento nel contraddittorio. L’abolizione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado è contraria all’art. 111 della Costituzione che statuisce la ragionevole durata del processo. Un tempo ragionevole, e non infinito, del processo penale è diritto dell’imputato riconosciuto dall’art. 14 del Patto Internazionale sui diritti civili e politici approvato dall’Assemblea delle Nazioni Unite il 16 dicembre 1966, e previsto dall’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. L’abolizione della prescrizione contrasta altresì con il principio costituzionale della “personalità” della responsabilità penale in quanto, come osserva la moderna dottrina più accreditata, un processo infinito (già “pena” esso stesso) finirebbe per riguardare altra persona, diversa dall’originario imputato, che ha diritto di sapere in tempi ragionevolmente brevi se ritenuto colpevole o innocente. Essa è infine in contrasto anche con gli interessi delle persone danneggiate dal reato, le quali si vedrebbero coinvolte in un processo dalla durata infinita. II. Vorrebbe Anm una profonda modifica del sistema delle notificazioni attraverso una vecchia proposta che è quella di scaricare sul difensore, spesso d’ufficio, e comunque sin dal primo atto, l’onere di rendere edotto l’accusato dell’esistenza del procedimento a suo carico. L’inefficienza del sistema verrebbe così formalmente superata con la certezza che la persona sottoposta all’indagine non sa della specifica accusa e non è stata posta nella condizione di difendersi. Pronunce della Corte Europea e riforma dei presupposti del processo in absentia cancellate - dunque - con un tratto di penna. III. L’estensione del meccanismo di cui all’art. 190 bis c. p. p. e dell’art. 159 del codice penale per consentire, da un lato, l’aumento del novero dei reati che autorizzano il recupero probatorio, dall’altro la prescrizione infinita per la rinnovazione del dibattimento a causa del cambio del Giudicante, sono norme autoritarie, contrarie al sistema e proposte in spregio ai principi di oralità e immediatezza che caratterizzano l’accusatorio. Dovrebbe essere interesse primario delle parti del processo che il Giudice della decisione sia quello dinanzi al quale si è formata la prova, che ha colto incertezze e modi di rappresentazione della e nella prova dichiarativa, che ha provveduto ad ammettere la prova documentale o scientifica. Proporre nuovamente la distinzione tra contraddittorio nella formazione della prova e contraddittorio sulla valutazione della prova, vuol dire saltare a piè pari due decenni di letteratura processuale, negare diritti connaturati al processo accusatorio, vagheggiare l’instaurarsi di un sistema inquisitorio incompatibile con il modello costituzionale dettato dall’art. 111 Cost. Né deve sottacersi che il principio dell’oralità e della immutabilità del Giudice rappresenta una garanzia non solo per le parti processuali, ma per lo stesso Giudice chiamato a pronunciare sentenza. Sulla stessa lunghezza d’onda è la ipotesi di riforma dell’art. 511 c. p. p., che porterebbe al recupero di materiale probatorio formatosi fuori dal contraddittorio. IV. Proporre il processo virtuale in aule vuote, prevedendo addirittura l’audizione di testimoni periti e consulenti, per il tramite di “teleconferenze” vuol dire calpestare genuinità ed immediatezza della modalità acquisitiva della prova. V. L’abolizione del divieto di reformatio in peius nel processo di appello è contraria a ciascuno ed a tutti insieme i principi del giusto processo. Tale principio è corollario dell’effettività del diritto di difesa e del diritto dell’imputato condannato ad ottenere la rivalutazione del primo giudizio. Neppure il Codice Rocco si era spinto ad immaginare la definitiva soppressione del favor rei. La reintroduzione, ad un anno dalla sua abrogazione, dell’appello incidentale del Pm, chiarisce ulteriormente la portata autoritaria del progetto di Anm. Sconcerta che a tale proposta venga dichiaratamente attribuita una funzione sanzionatoria finalizzata a dissuadere l’imputato dall’esercitare la sua facoltà legittima ed irrinunciabile di promuovere un secondo giudizio sul fatto di reato addebitatogli. Il tutto senza neppure confrontarsi con i limiti che il legislatore e prima ancora la Corte Europea hanno fissato in materia di reformatio in peius anche qualora il giudizio di appello sia richiesto dal Pubblico Ministero. VI. L’estensione della confisca per equivalente è l’ulteriore dimostrazione dell’ispirazione giustizialista del progetto del Sindacato dei Magistrati. Si è volutamente dimenticata la natura sanzionatoria di tale misura, così ricorrendo ad uno strumento che ha le stimmate della misura di sicurezza. È quello di Anm un progetto che va dunque respinto in toto, giacché esprime una idea del processo penale manifestamente in contrasto con la ratio ispiratrice dell’art. 111 della Costituzione. A ciò si aggiunga che la tempistica di questa iniziativa di Anm, proposta qualche giorno dopo l’improvvisa manifestazione da parte del Governo di una estemporanea intenzione di “avviare una riforma del codice di procedura penale”, lascia intravvedere sinergie a dir poco allarmanti, ma soprattutto incompatibili con la pur manifestata intenzione di aprire “tavoli” di confronto e di costruttivo dialogo con l’avvocatura penale e con l’Accademia. È nostra convinzione che i confronti vadano aperti a monte di una proposta tecnica, non a valle, misurando con anticipo ragioni, obiezioni, punti di vista, ferma poi - come è del tutto ovvio - la determinazione finale delle libere scelte di ciascuno. L’Unione delle Camere Penali Italiane, per parte sua, conferma senza riserve la più ampia disponibilità al confronto ed al dialogo, che auspica venga finalmente corrisposta non solo negli annunci, ma nella concretezza degli atti, dei fatti e delle scelte adottate. La Giunta dell’Unione Camere Penali Italiane “Il processo sarà kafkiano: chi lo subisce diventa presunto colpevole a vita” di Errico Novi Il Dubbio, 14 novembre 2018 Intervista a Vittorio Manes, ordinario di Diritto penale Università di Bologna. C’è un timore che soverchia gli altri: con lo stop alla prescrizione, il Parlamento neppure sa in quale “guaio” si è cacciato e in che incubo rischia di scaraventare il Paese. Perché stravolge le regole del processo e addirittura la trama dello Stato di diritto, con un’ulteriore possibile effetto perverso: “Rischia di intasare i Tribunali, a causa dell’ulteriore rilassamento nel ritmo delle indagini e di una almeno iniziale tendenza a optare solo raramente per l’archiviazione. Una paradossale eterogenesi dei fini”, suggerisce il professor Vittorio Manes. Ordinario di Diritto penale all’università di Bologna, impegnato da anni anche al fianco dell’Unione Camere penali, Manes è tra gli studiosi ascoltati lunedì scorso alla Camera. Ha fortemente criticato la norma sulla prescrizione, con argomenti che ripropone al Dubbio in forma ulteriormente affilata. Ma la stroncatura inflitta da lui e da altri ha come lasciato i deputati in uno stato d’ipnosi. Tanto che ieri, solo per riflettere sulla pagina A4 con i dati di via Arenula, la commissione Giustizia ha impiegato una mattinata. Eppure non è affatto detto che allo straniamento segua un dietrofront. Ed è questo il punto, professor Manes: è come se l’attuale maggioranza fosse trascinata da una spinta inesorabile verso scelte rischiose in materia di giustizia... Ne è trascinata al punto da correre verso un esito paradossale. Secondo il contratto di governo sarebbe necessaria una “efficace” riforma della prescrizione. Se per “efficacia” si intende una tempistica più ragionevole nei tempi della giustizia, ossia l’efficienza, l’intervento sulla prescrizione non raggiungerà l’obiettivo. Moltissimi argomenti concorrono a farlo prevedere. Quali? Le Procure hanno sempre avuto, di fatto, anche l’orizzonte della prescrizione come criterio di priorità di trattazione del fascicolo. Ma alla luce delle nuove tempistiche di prescrizione, e nell’illusione di non avere più questo filtro, le Procure stesse potrebbero non avvertire più quello stimolo, trattenendo il fascicolo sino a consumare gran parte del termine di prescrizione. Potrebbero addirittura essere portate a esercitare con meno rigore selettivo l’azione penale. Tanto c’è più tempo e si può provare a mandare avanti tutto... Ipotizzare un cedimento a una tentazione simile è tutt’altro che insensato. Le Procure potrebbero essere più restrittive nelle richieste di archiviazione, anche a fronte di ipotesi di accusa fragili o bagatellari, con l’effetto di intasare i Tribunali e determinare un aumento e non una riduzione dell’incidenza delle prescrizioni dichiarate prima della sentenza di primo grado. Cioè avremmo ancora più reati prescritti? Fare previsioni del genere non è facile, ma l’impressione è che si produrrebbe solo un allungamento ulteriore dei tempi processuali: di prescrizione si parlerà solo in primo grado, di fatto non se ne parlerà più, perché dopo la sentenza di primo grado qualsiasi reato diverrà imprescrittibile, nessun tempo processuale sarà irragionevole e nessuna condanna irragionevolmente tardiva. Ed è in tali aspetti che si colgono i profili di incostituzionalità già segnalati da tante autorevoli voci. Incostituzionale e comunque inefficace: ma chi glielo fa fare al Parlamento? Un retro-pensiero distorsivo e distruttivo: chi è indagato si presume colpevole, e quindi se dovrà affrontare i tempi delle giustizia se la dovrà prendere con se stesso. La logica è non “in dubio pro reo” bensì “in dubio pro republica”, come nelle impostazioni più retrive care alla ideologia del Ventennio. A questo va aggiunto che l’istituto secolare della prescrizione è ormai assunto a creatura teratologica. Un mostro? Sì, dispensatore di morte e causa primigenia di tutti i problemi e di tutti i mali, anche se le statistiche dicono da un lato che il problema ha una dislocazione geografica limitata, in particolare in quattro distretti di Corte d’Appello, e soprattutto che la sua intensità sta scemando. A fronte di ciò, nei fatti la prescrizione, per diverse ragioni è divenuta, rispetto alla esperienza concreta del nostro sistema, un freno estremo a tutela dell’imputato, cui si assicura un estremo riparo rispetto alla durata irragionevole della sofferenza legata al processo. Giovanni Canzio e Andrea Mascherin chiedono che nella ipotizzata riforma complessiva del processo entrino tempi di fase inderogabili... Non a caso: la prescrizione finora ha funzionato come sostitutivo o “surroga” rispetto all’assenza di una disciplina di prescrizione del processo. Il processo, scandito da rigorosi termini di fase, in realtà dovrebbe essere ben più breve del tempo necessario a determinare l’estinzione della pretesa punitiva. E invece è alla prescrizione sostanziale che si guarda come estremo presidio garantistico contro l’intollerabile protrazione dei tempi. Si potrebbe istituire, certo, una prescrizione del processo che, qualora intervenga, implichi la non punibilità dell’eventuale reato, con un effetto sostanziale e definitivo, salvo specifiche previsioni derogatorie a diversi effetti. Intanto non è neppure chiaro se la “nuova prescrizione” sarebbe vincolata a una riforma complessiva non solo in teoria ma anche con una specifica clausola di collegamento... La prescrizione dei reati è un termometro che segna la febbre ma non la cura, senza una terapia sistemica sul processo penale. Al momento andiamo verso un sistema nel quale l’unica speranza a cui affidarsi, nel nostro Paese, sarà quella di non entrare sotto il radar della giustizia penale. L’unto, lo sventurato contagiato da una indagine, avrà perso ogni diritto, perché sarà un “eterno giudicabile”, quindi un “eterno indagato”, quindi un “eterno presunto colpevole”, quasi un “monatto” estraniato dal consorzio civile, tanti e tali sono gli “effetti penali” ormai connessi anche alla sola sottoposizione ad indagine. Rischiamo di trovarci con un sistema che ricorderà Il processo di Kafka, quando il protagonista scopre, dal colloquio con il pittore Titorelli, che davanti alla legge possono esservi tre tipi di assoluzione, “l’assoluzione vera”, “l’assoluzione apparente” o il “rinvio”: una giustizia all’insegna della “provvisorietà permanente”, anche per chi sia stato assolto in primo grado, che sarà “quasi come se fosse libero”. Una giustizia, appunto, kafkiana. Bonafede: “Legge Severino cardine della lotta alla corruzione” di Ivan Cimmarusti Il Sole 24 Ore, 14 novembre 2018 “La legge Severino è un punto cardine nella lotta alla corruzione. Un punto di partenza per implementare la norma, perché la corruzione non ha confini”. Così il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, alla conferenza Osce-Luiss dedicata alle nuove strategie anticorruzione nell’era del web. L’evento, che si chiude oggi a Roma con l’intervento del presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac) Raffaele Cantone, è stato fortemente voluto da Paola Severino, ex ministro della Giustizia del governo Monti e presidente uscente del comparto anticorruzione dell’Osce. “Lotta alla corruzione non è solo giudiziaria ma anche culturale” - Bonafede ha illustrato i termini della riforma del reato di corruzione, in corso di analisi in Commissione Giustizia della Camera. Ha spiegato che “la corruzione si aggancia ad altri reati. Lo diceva prima la stessa Severino, parlando di corruzione connessa, per esempio, a fenomeni di riciclaggio”. Il Guardasigilli ritiene che l’Italia debba essere all’avanguardia sul fronte anticorruzione. Dice, infatti, che “dobbiamo rilanciare modelli all’avanguardia che abbiano un riflesso positivo anche a livello internazionale”. E aggiunge che “la lotta alla corruzione non è solo giudiziaria ma anche culturale. Dobbiamo mandare un messaggio chiaro a cittadini e imprenditori. La percezione della corruzione ha un valore importante, che rischia di inquinare il nostro sistema economico”. De Raho: l’Unione Europea non comprende la criminalità organizzata in Italia di Caterina Ristori eunews.it, 14 novembre 2018 Il Procuratore Nazionale Antimafia commenta la sentenza della Corte di Giustizia Ue sul caso Provenzano. “Negli altri paesi si ha solo una percezione tiepida”, le leggi italiane sono “severe” ma “necessarie”. Ciò che accade in Italia con la mafia, spesso, non è compreso all’estero. La sentenza della Corte di Giustizia Ue, che condanna il nostro paese per aver violato i diritti umani del capo mafioso Bernardo Provenzano (sottoponendolo a trattamenti inumani e degradanti), dimostra che non si conosce il sistema mafioso italiano. Lo ha affermato oggi Federico Cafiero De Raho, procuratore nazionale antimafia, nel corso del seminario di alto livello dal titolo Belgium & Italy: The fight against organized crime and terrorism, tenutosi oggi pomeriggio a Bruxelles, presso il campus universitario Vub. “Per i capi mafiosi è normale impartire ordini fino all’esalazione dell’ultimo respiro. Ecco perché è stato necessario prendere determinate misure”. Per De Raho, in altre parole, “niente è violato nei diritti di chi ha sbagliato”, nei confronti dei quali (così come per i terroristi radicalizzati) sono previsti anche progetti di recupero all’interno delle carceri. “L’Italia è attenta ai diritti umani, dobbiamo riconoscere quel che c’è di buono nel nostro paese e la nostra Costituzione è tra queste cose”, ha sostenuto De Raho. “Il regime speciale di cui al 41 bis e la sua introduzione nel nostro ordinamento è stata una necessità. Credo che gli altri paesi dovrebbero riflettere e guardare alla storia italiana, studiando il fenomeno della mafia e della ‘ndrangheta, verificando quali sono le modalità attraverso le quali vengono impartiti gli ordini e quali sono le regole interne alle cosche mafiose”. Il procuratore parla in proposito anche della criminalità organizzata in Sud America, con i cui paesi l’Unione europea sta attualmente collaborando nell’ambito di El Paccto, progetto che vede l’Italia come una dei protagonisti assoluti. Non a caso, ovviamente: il nostro paese si è infatti dimostrato capace di fronteggiare le mafie anche tramite il sistema penitenziario, che nei paesi latinoamericani “spesso è controllato dalla stessa criminalità organizzata, che comanda all’interno delle prigioni”. Riconosciuto a livello internazionale, il nostro sistema a detta di De Raho funziona, e precisa: “Ogni paese deve provvedere ad adottare interventi che consentano di contrastare efficacemente il crimine organizzato”, il quale ha regole forti e rigorose per cui “uno Stato si deve preoccupare non solo di tutelare i diritti del detenuto, ma anche quelli delle persone che si trovano fuori da carcere, la società civile, che spesso viene soggiogata dalla mafia”. In alcuni territori italiani, evidenzia il procuratore, la mafia comanda tutto. “In Belgio o in altri paesi europei si ha un riflesso talmente tiepido di quella che è la criminalità organizzata, che non consente di comprenderla completamente”. In alcuni paesi del sud italico, la cosca “comanda tutto, determina le elezioni, le attività economiche, impone le proprie imprese negli appalti. Si ha un vero e proprio sovvertimento della democrazia”. “In Italia ci battiamo per ripristinare il rispetto delle regole, e proprio per far valere le regole sono morti tanti italiani”, conclude De Raho. Il diritto alla sana alimentazione dei detenuti di Benedetta Cacace studiolegalebusetto.it, 14 novembre 2018 Corte di Cassazione, prima sezione penale, sentenza n. 51209 del 2018. Il Tribunale di sorveglianza, in totale riforma del provvedimento emesso dal locale Magistrato di sorveglianza aveva rigettato il reclamo per violazione degli artt. 35-bis e 69, comma 6, lett.b) dell’Ordinamento penitenziario, proposto da un detenuto in materia di vitto somministrato dall’Amministrazione penitenziaria. Nello specifico, il reclamante lamentava che essendo intollerante al pesce azzurro, la sua dieta fosse sì stata predisposta in modo da escludere tutti i tipi di pesce in generale, sostituendo tale alimento solo con la carne. Per tale motivo si sarebbe violato il diritto del detenuto ad una sana alimentazione, rientrante nel diritto alla salute. Secondo il Tribunale le sostane nutrizionali del pesce sarebbero contenute in altri alimenti, e per tale motivo non vi sarebbe alcuna compromissione del diritto del detenuto a mangiare sano. La Cassazione, intervenuta per dirimere la controversia ha chiarito che l’ordinanza impugnata era incorsa in uno specifico profilo di inosservanza di norme di diritto. Infatti, il primo comma dell’art. 9 ord. pen. dispone che ai detenuti venga assicurata “un’alimentazione sana e sufficientemente adeguata allo stato di salute”. La sana alimentazione è garantita in quanto componente del diritto protetto, anche rispetto alla popolazione detenuta, dell’articolo 32 Cost., a garanzia del quale si esercita senza alcun dubbio il controllo del giudice di sorveglianza, ex art. 69, comma 6, lett. b) ord. pen. quale sostituito dell’art. 3, comma 1, lett. l) d.l. n. 146 del 2013 conv. Della legge n. 10 del 2014. Il quarto comma del richiamato art. 9 ord. pen. prevede che: “La quantità e la qualità del vitto giornaliero sono determinate da apposite tabelle approvate con decreto ministeriale”. In connessione con la fonte primaria, il quarto comma dell’art. 11 del d.p.r. n. 230 del 2000 prevede che tali tabelle siano distinte secondo i criteri del primo comma dell’art. 9 della legge, e quindi anche in base al criterio dello stato di salute del detenuto. Detto ciò gli Ermellini ritengono che non sia lecito per il giudice sostituirsi agli organi tecnici ed amministrativi deputati a stabilire ciò che rientri o meno nella nozione di alimentazione sana ed equilibrata. Busto Arsizio: in carcere a si inaugura lo sportello del Garante dei detenuti informazioneonline.it, 14 novembre 2018 “Carceri al collasso, l’Europa risponde, l’Italia tace”. Lo afferma Lara Comi, europarlamentare di Forza Italia e vicepresidente del Gruppo Ppe, alla luce della risposta, arrivata dal commissario europeo alla giustizia Vera Jourová a nome della Commissione Europea, all’interrogazione a risposta scritta sul sovraffollamento carcerario all’interno della Casa Circondariale di Busto Arsizio. Lara Comi aveva depositato l’interrogazione immediatamente dopo il confronto avuto con gli agenti di polizia penitenziaria a seguito di una “sommossa” che provocò il ferimento di alcuni agenti. “Il commissario Jourova ha rimarcato tutta una serie di opportunità che le norme europee offrono all’Italia per affrontare e cercare di risolvere i problemi emersi a Busto Arsizio, sia per quanto riguarda i rimpatri dei detenuti stranieri, sia per quel che concerne le esigenze del personale di polizia penitenziaria - fa sapere Lara Comi - ora tocca al governo italiano dare delle risposte concrete. Perché è facile a parole incolpare l’Unione Europea di ogni male, ma poi bisogna anche dimostrare coi fatti la volontà di risolvere i problemi. Personalmente continuerò ad essere al fianco degli agenti di polizia penitenziaria, chiedendo che si predisponga al più presto un piano per il rimpatrio dei detenuti nei loro Paesi d’origine, parallelamente ad interventi concreti per mettere gli agenti in condizione di operare in modo sereno ed efficace”. Giovedì 15 novembre alle 10.30 Lara Comi sarà ancora in carcere a Busto Arsizio in occasione dell’inaugurazione dello sportello del garante dei detenuti, alla presenza del garante regionale Carlo Lio e del direttore Orazio Sorrentini. Lecco: Avviso Pubblico per l’incarico di Garante comunale dei detenuti resegoneonline.it, 14 novembre 2018 Gli interessati possono presentare la propria candidatura entro le ore 12.30 di lunedì 19 novembre. Gli interessati a svolgere il ruolo di Garante dei diritti delle persone private della libertà personale possono presentare la propria candidatura entro le ore 12.30 di lunedì 19 novembre 2018 all’ufficio Protocollo del Comune di Lecco, allegando dettagliato curriculum vitae. Nel 2014 il Consiglio comunale ha istituito la figura del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, approvandone il relativo regolamento (aggiornato con deliberazione n. 41 del 25 luglio 2016). L’incarico di Garante è incompatibile con l’esercizio di funzioni pubbliche nei settori della giustizia, della pubblica sicurezza e della professione forense. È esclusa la nomina nei confronti del coniuge, di ascendenti, discendenti, parenti e affini fino al terzo grado di amministratori comunali e del personale che opera nella Casa Circondariale. Il Garante dura in carica tre anni; lo svolgimento delle funzioni attribuite è a titolo onorifico e non è prevista alcuna indennità. ad eccezione di un rimborso spese documentate. Palermo: un protocollo d’intesa per valorizzare l’inclusione sociale dei detenuti Askanews, 14 novembre 2018 Giovedì 15 novembre 2018 alle 11, presso la Casa di reclusione Ucciardone “Calogero di Bona” di Palermo, alla presenza del Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, sarà firmato il protocollo d’intesa “Mi riscatto per Palermo”. L’accordo, promosso dal Ministero della Giustizia-Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, coinvolge il Comune di Palermo, la Direzione dell’istituto penitenziario siciliano e il Tribunale di Sorveglianza ed è finalizzato a ammessi a svolgere all’esterno lavori di pubblica utilità. Insieme al Guardasigilli, interverranno il Sindaco di Palermo Leoluca Orlando, il Capo del Dap Francesco Basentini, il Presidente del Tribunale di Sorveglianza Giancarlo Trizzino, il Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Gianfranco De Gesu e il Direttore della Casa di reclusione di Palermo Ucciardone Rita Barbera. Bologna: la vicepresidente della Regione Gualmini in visita all’Ipm del Pratello bologna2000.it, 14 novembre 2018 Dal corso di edilizia e falegnameria al laboratorio di cucina. Poi la musica con l’Orchestra Mozart, la pallacanestro, il teatro. Sono alcune delle attività formative, professionali, culturali e di animazione destinate al recupero sociale dei ragazzi accolti nel carcere minorile Pratello di Bologna. Iniziative - alcune ormai concluse, altre ancora in atto - realizzate nell’ambito del “Piano degli interventi per l’inclusione socio lavorativa dei minori e dei giovani-adulti in esecuzione penale nel procedimento minorile” voluto dalla Regione Emilia-Romagna e finanziato attraverso il Fondo sociale europeo la prima volta a livello sperimentale nel 2015, poi riproposto per il triennio 2016-2018. A visitare ieri l’Istituto penale per i minorenni Pratello, unica struttura penitenziaria per minori operativa in Emilia-Romagna, la vicepresidente della Regione e assessore al Welfare, Elisabetta Gualmini. “Creare per questi ragazzi percorsi di rieducazione e reinserimento nella società è una questione di civiltà - sottolinea Gualmini. Chi esce dal carcere e trova un lavoro, una casa, un contesto in cui ricominciare una vita ha meno probabilità di commettere nuovamente reati. E questo rappresenta innegabilmente una vittoria per lui e per tutta la comunità”. Nel 2017 sono stati 117 i ragazzi e i giovani adulti (cioè coloro che hanno meno di 25 anni e hanno compiuto il reato prima di diventare maggiorenni) accolti nell’Istituto. La fascia di età più rappresentata (oltre 62%) è quella tra i 16 e i 17 anni: si tratta soprattutto di stranieri (70%), per lo più marocchini e tunisini. I progetti e le risorse - Tra il 2015, primo anno di sperimentazione del Piano, e i successivi 2016 e 2017 sono stati 150 i ragazzi ad aver frequentato le attività formative realizzate nel carcere minorile di Bologna. Tutti i 66 progetti - realizzati congiuntamente da Regione, amministrazione penitenziaria, servizi sociali e per il lavoro, enti di formazione accreditati, imprese profit e no profit e associazioni di volontariato - si caratterizzano per la brevità del percorso, la flessibilità nello svolgimento e la possibilità di essere ripetuti più volte nello stesso anno. Grazie a queste caratteristiche, i corsi garantiscono ai ragazzi presenti in Istituto per periodi di diversa durata in base alla pena da scontare, la possibilità di accedere alle misure rieducative. Oltre agli interventi previsti dal piano, il Pratello svolge da 18 anni un’intensa attività teatrale realizzata grazie alla collaborazione con la cooperativa sociale Teatro del Pratello e il coinvolgimento di alcuni studenti delle scuole superiori di Bologna. Tra il 2015 e il 2017 sono stati stanziati dalla Regione oltre 500 mila euro per il finanziamento di progetti di recupero dei minori soggetti a misure restrittive: 325 mila euro destinati all’Istituto minorile e 228 mila ai ragazzi che scontano la pena in misure alternative al carcere. Vibo Valentia: il Natale di Callipo, 7 detenuti assunti per preparare i cesti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 novembre 2018 È il terzo anno che l’azienda mette in campo l’iniziativa con il carcere di Vibo Valentia. Lavoro e formazione, il progetto dell’azienda Giacinto Callipo Conserve Alimentari che punta all’inserimento lavorativo. Per il terzo Natale consecutivo la Callipo, l’azienda calabrese che produce e commercializza tonno, assumerà quindi sette detenuti per il confezionamento di 10.000 idee regalo natalizie. I detenuti selezionati per questo progetto saranno formati per lavorare all’interno del carcere per due mesi. La Giacinto Callipo Conserve Alimentari, spiega un comunicato, “punta all’inserimento lavorativo dei detenuti come occasione di recupero sociale”. L’iniziativa, avviata nel 2016, prevede la collaborazione con il penitenziario di Vibo Valentia per l’assunzione di sette persone per un periodo di due mesi. I detenuti selezionati hanno il compito di confezionare all’interno del carcere 10.000 idee regalo, contenenti un assortimento dei prodotti Callipo, che saranno in vendita per le prossime festività natalizie. Il percorso lavorativo prevede un periodo di training con le maestranze di Callipo. “Ogni detenuto - ha commentato Antonio Galati, Direttore del Penitenziario di Vibo Valentia - ha la sua storia ma tutti hanno la stessa esigenza: avere una speranza per il futuro. La formazione e il lavoro sono la strada giusta per il recupero sociale, i detenuti possono in questo modo dimostrare che può esserci un cambiamento e tornare a credere nella possibilità di rifarsi una vita dopo la conclusione della pena. La collaborazione con Callipo è una grande opportunità per tutti i detenuti coinvolti in questi anni, perché un’azienda virtuosa dà loro fiducia. La nostra speranza è che anche altre aziende del territorio possano comprendere la valenza sociale del progetto e decidere di farne parte”. “Si tratta - dice il titolare dell’azienda, Pippo Callipo - di un progetto che ci sta molto a cuore e il cui impatto sociale ci viene riconosciuto anche a livello nazionale. Lo scorso 2 ottobre, infatti, siamo stati invitati a dare la nostra testimonianza al riguardo all’interno del Salone della Csr e dell’Innovazione Sociale, svoltosi all’Università Bocconi di Milano. Sono proprio la fiducia, il rispetto delle regole, l’impegno, la creazione di valore per il proprio territorio, la ricerca della qualità totale i principi su cui Callipo fonda la “mission” aziendale da 105 anni e che tramanda da 5 generazioni”. I prodotti made in carcere sono di vitale importanza per i detenuti stessi. Coloro che lavorano remunerati con una paga adeguata, hanno una possibilità di attuare un percorso costruttivo e riabilitarsi. La legge 354 del 1975, infatti, dice che il lavoro nelle carceri è uno dei fattori fondamentali per la riabilitazione dei detenuti. Studi empirici attestano che la recidiva si abbassa notevolmente per i detenuti che intraprendono un percorso lavorativo in carcere. Parliamo, infatti, del 60-70% di diminuzione di ricadute in comportamenti scorretti dal punto di vista legislativo una volta usciti dal carcere. I dati sono diversi laddove questo percorso di riabilitazione non avviene e la recidiva aumenta vertiginosamente. Anche per questo motivo il carcere diventa una “porta girevole” dove si esce per poi ritornare. Ad oggi la percentuale dei lavoranti non supera il 30 per cento dei reclusi presenti. Ciò significa che ancora c’è tanto da fare. Sono diverse, comunque, le realtà virtuose dove serie cooperative entrano in carcere e fanno lavorare i detenuti per la produzione di prodotti artigianali, nella ristorazione e nella sartoria. Con la riforma appena approvata ed entrata in vigore il 10 novembre scorso, si introduce una modifica che, almeno in questo profilo, ha accolto molte delle proposte dalla Commissione Giostra, sono quelli di potenziare il lavoro, che come noto soffre nella prassi di una gravissima carenza di effettività, per le sue enormi potenzialità come strumento per il processo risocializzativo e come mezzo indispensabile per assicurare e promuovere la dignità della persona. Norma centrale in questa materia è l’art. 20 o. p., che viene completamente riscritta. In essa si prevede espressamente che debbano essere ammessi a fruire al lavoro non solo i soggetti ospitati negli istituti penitenziari, ma anche coloro che si trovano nelle altre strutture ove si eseguono misure privative della libertà (come ad esempio le Rems). Si elimina poi la previsione dell’obbligatorietà del lavoro penitenziario, certamente in contrasto con il principio del libero consenso al trattamento. Altre modifiche riguardano la composizione e il funzionamento della commissione deputata alla formazione delle graduatorie di avvio al lavoro; la valorizzazione della produzione in autoconsumo; la previsione secondo cui gli introiti delle lavorazioni penitenziarie, destinati al bilancio dello Stato, siano accantonati per finanziare lo sviluppo della formazione professionale e del lavoro dei detenuti. Ancora si interviene sulla disciplina della remunerazione dei detenuti e degli internati di cui all’art. 22 o. p., stabilendone la quantificazione in una misura fissa, pari a due terzi del trattamento economico dei contratti collettivi: una disposizione che si spiega con la necessità di semplificare la procedura di determinazione del quantum della retribuzione, che oggi genera, nella prassi, ritardi intollerabili. Da segnalare poi la prevista istituzione negli istituti penitenziari, a norma del nuovo art. 25 ter o. p., di un servizio di assistenza ai detenuti e agli internati per il conseguimento delle prestazioni assistenziali e previdenziali. Poi c’è anche la modifica riguardante il lavoro di pubblica utilità da parte di detenuti ed internati, che trova ora una più ampia e dettagliata disciplina nel nuovo art. 20 ter dell’ordinamento penitenziario. Tra le novità di rilievo, il lavoro di pubblica utilità - che era stato introdotto nel 2013 come modalità di lavoro all’esterno - è configurato come un elemento del trattamento rieducativo e viene quindi “sganciato” dal lavoro all’esterno, con un conseguente ampliamento del suo ambito di operatività: ora infatti il lavoro di pubblica utilità potrà svolgersi anche all’interno degli istituti con la partecipazione di detenuti e internati che non hanno i requisiti per essere ammessi al lavoro all’esterno. Sì, perché sono poi previste alcune limitazioni, come il divieto nei confronti di coloro che hanno commesso dei reati rientranti nel 4 bis. Ferrara: una “panchina rossa” in carcere contro la violenza sulle donne estense.com, 14 novembre 2018 Contributi per l’iniziativa del Centro di ascolto per uomini maltrattanti e per un progetto di lavoro dei detenuti nella ristorazione. In occasione della ricorrenza della “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne” sabato 24 novembre alle 11 negli spazi antistanti la casa circondariale di Ferrara si terrà la cerimonia di inaugurazione per l’installazione della “Panchina rossa”. L’iniziativa fa parte del progetto di sensibilizzazione e di ferma condanna contro ogni forma di violenza di genere, portato avanti dal Centro di ascolto per uomini maltrattanti (Cam) con il sostegno dell’Assessorato alle Pari Opportunità del Comune di Ferrara che ha destinato un contributo di 750 euro all’associazione Cam a parziale copertura delle spese di realizzazione, in collaborazione con il comando e la direzione della casa circondariale di via Arginone. La “panchina rossa” sarà corredata di una targa che ricorda e sancisce l’impegno al rispetto verso le persone con la dicitura “25 novembre 2018, la città di Ferrara contro ogni forma di violenza sulle donne” e verrà illuminata da faretti a terra e da un fascio di luce dall’alto, per poter essere visibile anche nell’oscurità. La cerimonia si svolgerà alla presenza delle autorità cittadine. Sempre per il carcere, il Comune ha previsto uno stanziamento di 1.600 euro a favore dell’associazione Viale K per proseguire il progetto “Ri-Cuci-Re 2 - Ristorazione e Cucito” finalizzato all’apprendimento da parte dei detenuti di nuove competenze e abilità. Il contributo sarà in particolare utilizzato per l’acquisto di alcuni elettrodomestici e utensili indispensabili per consentire lo svolgimento di un’attività di ristorazione a livello professionale, che potrebbe preludere a servizi di catering o di produzione di beni da commercializzare all’esterno, sfruttando la filiera che nasce con i prodotti del “Galeorto”. Pozzuoli: il carcere femminile è un’eccellenza, ma per la sanità ancora molto da fare di Giuseppe Cesareo farodiroma.it, 14 novembre 2018 In un mondo, quello delle carceri, dove vengono sempre registrate delle criticità, risulta esserci un istituto “fuori dal coro” che fa notizia per essere un’eccellenza: il carcere femminile di Pozzuoli. I radicali, da sempre in lotta per migliori condizioni nelle carceri, hanno visitato la struttura puteolana e sono rimasti favorevolmente colpiti. “Le celle sono luminose, pulite e abitabili anche se alcune hanno piccoli problemi di umidità alle pareti. Vi è un ottimo rapporto tra personale della polizia penitenziaria e detenute, il clima è apparso sereno e solidale. Le detenute hanno la possibilità di impegnare le proprie giornate in maniera proficua, nonché l’occasione di accrescere il proprio bagaglio culturale o di imparare un mestiere”. Una “filosofia”, quella di Pozzuoli, che si basa sulla “responsabilizzazione” delle 175 detenute, sempre più “libere” (per diverse ore al giorno) nei differenti reparti. Novità anche per l’istruzione vistoche si è sul punto di aprire “un polo universitario, con ciò ascoltando le istanze di alcune detenute che ne avevano espressamente parlato. In particolare, “sono previste scuola elementare e scuola media (il cosiddetto primo ciclo di studi); il biennio della scuola superiore (il cosiddetto secondo ciclo di studi); un corso d’italiano per straniere ed è in fase di avviamento il polo universitario per quattro detenute che ne hanno fatto richiesta”. Bene anche in ambito lavorativo: “Per quanto riguarda il lavoro e le attività svolte nel carcere di Pozzuoli, il totale delle lavoranti ammonta a 35, di cui quattro in art.21. Le mansioni consistono in lavori domestici e di pulizia all’interno del carcere ma anche lavoro in cucina. C’è inoltre la sartoria dove le detenute lavorano in un’officina che produce cravatte per la nota azienda napoletana “Marinella”. Cravatte prodotte per le divise del personale della polizia penitenziaria. Presente inoltre la cooperativa “Le Lazzarelle” che cura la torrefazione del caffè; sono inoltre previste attività sportive, yoga, decoupage, canto e teatro. Sono presenti quattro educatori più un collaboratore e due psicologi”. Dove c’è da fare ancora tanto è in materia di sanità. La direttrice Stella Scialpi, infatti, ha evidenziato “uno scollamento con i partner sanitari in merito alla gestione delle questioni di salute”. Il personale medico (non interno alla struttura) “spesso fatica a tenere conto delle esigenze di gestione della struttura. Dal canto loro le detenute lamentano tempi di attesa troppo lunghi sia per le visite specialistiche che per i ricoveri presso ospedali cittadini”. Ad esempio, per un ricovero al reparto Palermo del Cardarelli bisogna attendere dai 6 mesi ai due anni, e le soprattutto le donne sono svantaggiate. Il problema evidenziato è che nel reparto ci sono solo 12 posti disponibili ed è impensabile mettere una donna in stanza con gli uomini. Alessandria: carcere e comunità, una “città nella città” di Marco Madonia alessandrianews.it, 14 novembre 2018 Giovedì si terrà un convegno per fare il punto sugli istituti penitenziari alessandrini, sul loro rapporto con la città e sulla attività di volontariato che consentono di cucire relazioni fra chi sconta un periodo temporaneo di detenzione e la realtà che troverà una volta tornato in libertà. Intanto il numero dei detenuti torna a crescere. Sono tanti i progetti avviati in questi anni per dare qualche possibilità in più a chi si trova in carcere in città e, una volta scontata la propria pena, si troverà a confrontarsi con le difficoltà di un reinserimento in società, che vuol dire evitare la recidività dei reati e garantire una maggiore qualità della vita a tutta la comunità, perché una società più integrata è un società più sicura. Gli istituti penitenziari di Alessandria “Cantiello e Gaeta”, vale a dire la Casa circondariale di piazza don Soria e la Casa di reclusione di San Michele sono realtà complesse e saranno al centro di un incontro pubblico giovedì 15 novembre, con orario 19 - 22,30 (e pausa buffet offerta ai partecipanti) presso l’Associazione Cultura e Sviluppo Alessandria, in piazza F. De André 76, organizzato in collaborazione con l’Associazione Don Angelo Campora. “In un momento storico in cui si tende a separare e allontanare piuttosto che ad unire e avvicinare, l’incontro - andando controcorrente - si pone invece in linea con il tracciato già a suo tempo indicato dalla Riforma Penitenziaria del 1975, i cui principi ispiratori e le cui finalità oggi devono essere confermati e, se necessario, difesi” raccontano gli organizzatori. “Troppo spesso considerata una ‘città nella città’, slegata dal contesto che la circonda, Alessandria convive con una realtà carceraria composita, che non va dimenticata. Fondamentale in tal senso è il ruolo del volontariato e delle attività proposte nelle due strutture”. Durante la serata, oltre a una serie di testimonianze provenienti proprio dal mondo del volontariato, ci sarà spazio per numerosi interventi qualificati, grazie alla partecipazione di Livio Pepino, già magistrato ed oggi Direttore Editoriale di “Edizioni Gruppo Abele”; Riccardo De Vito, magistrato al Tribunale di Sorveglianza di Sassari e presidente di Magistratura Democratica; il Bruno Mellano, Garante dei Detenuti per il Piemonte e membro del Consiglio Regionale del Piemonte ed Elena Lombardi Vallauri, Direttrice del complesso penitenziario di Alessandria. Proprio in questi giorni verrà aperta un’importante breccia simbolica all’interno del muro della Casa Circondariale di piazza Don Soria, grazie al progetto Social Wood e all’Hub che consentirà anche ad altre realtà alessandrine di sfruttare lo spazio creato per promuovere i propri prodotti solidali. Fra i progetti avviati nell’ultimo periodo, proprio per cercare di costruire relazioni positive con la città, va segnalata la presenza degli scout all’interno dell’istituto di San Michele, con un progetto volto a stabilire un rapporto con i detenuti, con l’obiettivo di trasmettere loro alcuni dei valori che animano i ragazzi, facendoli sentire meno soli. La realtà alessandrina è infatti caratterizzata da una forte presenza di detenuti stranieri, che supera ormai il 50% dell’intera popolazione carceraria (un dato non dissimile comunque a quello di tante altre realtà), con tutte le problematiche a questo connesse, come la solitudine e la difficoltà di reinserimento una volta finita la pena. Anche per questo fra gli obiettivi dei prossimi anni ci sarà quello di potenziare la scuola all’interno, avviando corsi nell’ambito alberghiero, uno dei più adatti per trovare lavoro e poter avere una seconda chance nella vita. Il numero delle persone attualmente detenute ad Alessandria è tornato a crescere, dopo un periodo di relativa tranquillità: a San Michele i detenuti sono oggi circa 380, alla luce anche dei continui arrivi da altre reatà più grandi, con trasferimenti sul nostro territorio provenienti in particolare da Torino e Genova. La scorsa settimana intanto si è tenuta la cerimonia di premiazione della diciassettesima edizione del premio letterario nazionale Città di Piombino “Emanuele Casalini”, presieduto da Ernesto Ferrero, presso la sezione circondariale degli istituti penitenziari Cantiello e Gaeta di Alessandria, in Piazza Don Soria. Il Premio letterario nazionale “Emanuele Casalini”, riservato ai detenuti degli istituti penitenziari italiani, è nato nel 2002, per volontà della Società di San Vincenzo De Paoli e dell’Università delle Tre Età, che svolgevano da anni opera di volontariato nel carcere di Porto Azzurro. Per questa edizione hanno concesso il patrocinio il Vescovo ed il Sindaco di Alessandria, il Presidente della Regione Piemonte e della Provincia di Alessandria. La manifestazione, che ha visto la partecipazione di alcuni vincitori e la lettura di opere di poesia e prosa, ha visto la partecipazione e l’interesse dei detenuti dell’istituto, che hanno accolto questo importante momento di riflessione e motivazione. Nel mese di dicembre prenderà vita in città il festival “Artiviamoci”, con la presentazione di tutti i progetti realizzati dai detenuti delle due carceri alessandrine, dall’arte contemporanea alla bottega di pittura, dal laboratorio di ceramica fino alle esperienze di scrittura. Ecco di seguito il calendario di eventi che si sta andando via via componendo: - Lunedì 10 dicembre, ore 17.30 - Inaugurazione della mostra fotografica “43 risvegli nell’ombra” presso Casa Circondariale di piazza Don Soria Segue conferenza e dibattito presso la sala del teatro. Intervengono il Garante regionale dei detenuti, Bruno Mellano, il Docente Universitario, Davide Petrini, il magistrato Elvio Fassone, la Direttrice degli Istituti di reclusione di Alessandria, la referente della Compagnia di San Paolo, Silvia Pirro - Martedì 11 dicembre, ore 9.30 - Performance “Face to face” presso l’Istituto Superiore Saluzzo Plana, via Fra di Bruno, 85. Esposizione delle tele e lettura dei racconti da parte di detenuti e studenti - Mercoledì 12 dicembre, ore 9.30 - “La scrittura in carcere”, esperienze, testimonianze e progetti editoriali, presso l’Istituto Superiore Saluzzo Plana, via Fra di Bruno, 85 Laura Raiteri presenta “Il gatto nel Pallone”, di Giovanni Tassone; Piero Spotti parla del progetto di scrittura dei collaboratori; Nunzio Pisano del Comune di Brescia illustra “Marino, l’ultimo vero punk” una storia a confronto con il mito di Filottete. - Giovedì 13 dicembre, ore 18 - Fotografia e Cinema in carcere, presso la Sala Affreschi di Santa Maria di Castello. L’associazione Passo dopo passo presenta i primi ingrandimenti foto- grafici del progetto “La divina Commedia, l’Inferno”. L’Associazione Paper Street 2.0 presenta i dettagli della lavorazione del documentario “Voci di dentro” realizzato con i detenuti del carcere di San Michele e il backstage fotografico. Tutti i laboratori: la bottega di pittura, l’arte contemporanea, la fotografia, la xilografia e la stampa, il cinema, la letteratura, la ceramica, il teatro espongono le loro opere e offrono momenti d’incontro dentro e fuori le mura del carcere. Vi chiediamo di ascoltarne queste voci e i loro racconti, di incontrare le persone e di accogliere la creatività dei loro gesti. Santa Maria Capua Vetere (Ce): i detenuti a lezione di teatro da “I SudAtella” atellanews.it, 14 novembre 2018 Il teatro quale strumento attraverso il quale raggiungere uno degli obiettivi più nobili della Costituzione e del sistema giuridico italiano: il reinserimento nella società di chi è costretto a trascorrere un periodo della propria vita in carcere. È questo l’obiettivo che si è posto la Direzione della Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere “ Francesco Uccella” con il bando “Laboratorio Teatrale”. Ed a guidare i detenuti nel magnifico mondo della tavole del palcoscenico sono gli attori della compagnia santarpinese “I SudAtella” diretta dalla regista Susy Ronga. Due gli appuntamenti settimanali dove si alternano nel ruolo di docenti i vari attori : Ernesto Di Serio; Luisa Pitocchelli; Rosa Di Mattia, Agnese Crispino e la stessa Ronga. Un’iniziativa dall’altissima valenza sociale e civica fortemente voluta dalla direttrice della struttura sammaritana, la dottoressa Elisabetta Palmieri, da sempre sensibile nel favorire il diverso sviluppo della varie forme d’arte anche dietro le sbarre, come dimostrano anche gli svariati progetti realizzati al “Filippo Saporito” di Aversa, diretto in precedenza dalla stessa Palmieri. E grande ovviamente è stato l’entusiasmo degli attori per passione della compagnia atellana che non hanno perso l’occasione per dimostrare ancora una volta come il teatro possa ancora di più elevarsi se si mette al servizio dei più deboli. Perugia: teatro in carcere, ma aperto alla città Corriere dell’Umbria, 14 novembre 2018 Mercoledì 14 e giovedì 15 novembre, alle ore 17.30, al carcere di Capanne a Perugia, con lo spettacolo Matrioska O la capacità di sparire nelle forme degli altri, si conclude il laboratorio teatrale tenuto negli ultimi mesi dall’artista Vittoria Corallo nella sezione penale maschile. Il progetto, del Teatro Stabile dell’Umbria in collaborazione con la casa circondariale di Capanne, nasce dal desiderio di costruire un legame tra parti lontane della nostra comunità, e farle incontrare in un luogo emarginato, sia dal contesto urbano, che da quello dell’esperienza civica, come il carcere, e trasformarlo in un luogo accogliente, in cui si tesse e si racconta una storia. Proprio per questo lo spettacolo è aperto alla cittadinanza, il momento di restituzione della creazione teatrale, e la partecipazione dei cittadini, è la conclusione del progetto e sua parte integrante. Lo spettacolo scritto e diretto da Vittoria Corallo è liberamente ispirato dal Woyzeck di Buchner e racconta le vicende di un uomo soggetto agli abusi di potere della comunità di cui fa parte, e della sua esistenza schiacciata da doveri e umiliazioni, anche nella sua stessa casa e famiglia. La storia di Buchner si conclude con un omicidio, da parte dello stesso Woyzeck, che uccide sua moglie. Il racconto di Vittoria Corallo: “Ho deciso di togliere il crimine dalla nostra storia, perché il luogo in cui la raccontiamo, lo contiene e lo evoca. Volevo aggirare il rischio del giudizio e della retorica. Nell’affrontare questo testo, che ho riscritto, aggiungendo personaggi, e introducendo eventi che appartengono al nostro tempo e luogo, ho avvicinato ed esplorato il tema del potere. L’ho distribuito allegoricamente a personaggi che assomigliano a uomini cartonati, con caratteri che si stagliano tra l’ombra dell’umiliazione e l’ombra dell’abuso di potere. Ci si chiede dove sia la libertà nell’espressione del potere, e nella subordinazione ad esso. L’ho chiamato Matrioska perché nel nostro racconto ogni offesa si nasconde dentro un’altra umiliazione. I fili della dignità e della libertà degli uomini sembrano manovrati da forme e costruzioni, di cui non siamo più gli ingegneri. La famiglia, la coppia, i ruoli sociali, diventano quasi archetipi, nel nostro luogo narrativo indefinito, l’unico luogo che dobbiamo includere tra gli elementi attivamente narrativi è quello che ci circonda, fatto di sbarre e porte blindate che si chiudono dietro di noi. Gli stessi sentimenti di chi si troverà nel pubblico quando racconteremo questa storia, saranno tracce della storia stessa, e delle domande che spero questa possa generare.” Bologna: “Sezione Femminile”, un film che apre le sbarre di Andrea Olgiati unibo.it, 14 novembre 2018 Girato nel carcere della Dozza con attrici detenute. Il 22 novembre anteprima all’Orione. “Sezione Femminile” è un film realizzato da detenute all’interno dell’ala femminile del carcere della Dozza. “Un modo - afferma il regista Eugenio Melloni - per entrare in una realtà solitamente preclusa, quella del carcere, vista da occhi femminili. C’è stata una grande partecipazione anche perché, interpretare altri ruoli è un modo per liberarsi attraverso l’immaginazione dalla propria condizione”. Venerdì 16 novembre ci sarà una proiezione del film all’interno del carcere e il ventidue ci sarà una proiezione in anteprima al cineteatro Orione in via Cimabue. “Il film - secondo Mariaraffaella Ferri, consigliera comunale e ideatrice del progetto “Non solo Mimosa” - non è un documentario e nemmeno una fiction. È qualcosa che non solamente parla del percorso riabilitativo in carcere ma è esso stesso parte di questo percorso”. In Italia il 10% dei detenuti è di sesso femminile. Alla Dozza, degli 800 ospiti, un’ottantina è donna. “La pellicola - afferma l’assessora Susanna Zaccaria - riesce bene a cogliere la condizione femminile delle detenute”. Oltre sessanta detenute hanno infatti partecipato alla realizzazione. “L’opera - continua Patrizia Stefani, presidente associazione Meg, associazione Medicina Europea di Genere - rappresenta anche un modo per far capire alle detenute la loro utilità sociale, che è un passo fondamentale per il loro reintegro in società. Il regista è stato capace di cogliere come una levatrice la voglia d’opportunità delle detenute”. “La peculiarità del film - ha detto Antonio Ianniello, Garante per i diritti delle persone private della libertà - risiede nello straordinario focus che riesce a restituire sulla detenzione femminile, investigando tra le pieghe dei sentimenti più intimi, come per esempio sul rapporto a distanza con i figli”. “È molto importante - conclude l’assessore marco Lombardo - il coinvolgimento delle associazioni all’interno della casa circondariale. Attraverso il loro aiuto sono possibili molte delle attività che permettono un reinserito lavorativo dei detenuti”. Rifugiati. Centro Astalli: anche l’Italia vuole diventare “fortezza” di Luca Liverani Avvenire, 14 novembre 2018 L’Unione Europea sempre più fortezza. La chiusura verso i richiedenti asilo non caratterizza solo le politiche comunitarie, ma anche i singoli stati. Respingimenti violenti alle frontiere e ostacoli alle domande d’asilo si registrano ormai in molti paesi membri: dalla Spagna, a Malta, dalla Romania alla Croazia. E l’Italia, col decreto sicurezza all’esame del Parlamento, rischia di avviarsi sulla stessa strada. La denuncia arriva dal rapporto Dimenticati ai confini d’Europa del Centro Astalli, realizzato in collaborazione con il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati (Jrs) e l’Istituto di formazione politica Pedro Arrupe di Palermo. Il rapporto si basa su 117 interviste realizzate in diversi Paesi e regioni d’arrivo: l’enclave spagnola di Melilla, Sicilia, Malta, Grecia, Romania, Croazia e Serbia. A presentare il dossier il presidente del Centro, padre Camillo Ripamonti, il direttore del Jrs Europa padre Josè Ignacio Garcia e la curatrice della versione italiana Chiara Peri. Dalle interviste è emerso un tratto comune, ha spiegato padre Garcia: “Le politiche europee sono riuscite a ridurre il numero degli arrivi via mare in Italia e Grecia, ma hanno fallito nel loro obiettivo di migliorare la situazione di tante persone in cerca di protezione”. In sostanza “gli stati membri dell’Ue continuano a investire energie per impedire ai migranti di raggiungere l’Europa o confinarli in “centri controllati” ai confini esterni”. Fatto ciò, “i politici europei sembrano pensare che se impediamo ai rifugiati di raggiungere le nostre coste, non abbiamo bisogno di un sistema d’asilo comune in Europa”. Arrivare ai confini dell’Europa costa sofferenze enormi. A una somala di 19 armi i trafficanti hanno detto che se non avesse pagato per la traversata le avrebbero rubato il bambino per venderlo. Quasi tutti i 17 intervistati in Croazia e Serbia, tra cui 5 minori, hanno riferito di violenze fisiche da parte della polizia di frontiera croata e di respingimenti immediati verso la Serbia. A Melilla un giovane di 27 anni del Burkina-Faso, Mamadou, dopo aver scavalcato l’ultima serie di barriere è caduto da sei metri ferendosi gravemente le caviglie: le forze di sicurezza spagnole invece di portarlo in ospedale lo hanno respinto in Marocco. A Derav, curdo iracheno chiuso in un centro di detenzione in Romania, è stata rifiutata la domanda di asilo perché presentata dal centro di detenzione e non al momento in cui è arrivato. L’accesso alle procedure d’asilo poi - afferma la ricerca - viene spesso scoraggiato esplicitamente con la giustificazione che la domanda non verrebbe accettata. Molti evitano di presentarla, mentre tentano di raggiungere familiari o amici in altri Paesi, consci che il regolamento di Dublino li rispedirebbe al Paese di ingresso, da cui altri fuggono “per le condizioni disumane dei centri di accoglienza in cui si trovano”. “Il nostro Paese - ha detto padre Ripamonti - ha scelto di adottare nuove misure che rendono più difficile la presentazione della domanda d’asilo in frontiera, introducono il trattenimento ai fini dell’identificazione, abbassano gli standard dei centri di prima accoglienza, oltre a cancellare migliaia di posti di lavoro nel settore”. All’Ue il Centro Astalli chiede invece “vie legali e sicure, condizioni di accoglienza dignitose e procedure d’asilo accessibili, rapide e trasparenti in tutti i Paesi, la radicale riforma del regolamento di Dublino”. Patrick Doelle, Funzionario della Commissione Europea nella direzione generale Immigrazione e affari interni, intervenendo a margine della presentazione ha spiegato che “la Commissione sta verificando gli effetti che porterà il decreto sicurezza sul sistema, ed è preoccupata per quello che sembra un passo indietro”. Migranti. In Italia nuovo “corridoio” dal Niger per i rifugiati evacuati dalla Libia di Alessandra Muglia Coriere della Sera, 14 novembre 2018 Domani il primo charter da Niamey con 51 migranti liberati dalle carceri libiche. Ad accoglierli Matteo Salvini. L’Unhcr: “Speriamo sia il primo passo per una collaborazione proficua”. Viene inaugurato in Italia un nuovo corridoio umanitario: domani per la prima volta arriva da Niamey un charter carico di migranti liberati dalle carceri libiche ed evacuati in Niger. E ad accoglierli ci sarà Matteo Salvini. Il vicepremier e ministro dell’Interno leghista, che ha fatto del contrasto all’immigrazione il suo cavallo di battaglia, è atteso a Pratica di Mare alle 12,30, quando è previsto l’arrivo del volo con a bordo 51 rifugiati, per lo più famiglie, con molte donne e bambini, tra cui tanti etiopi, eritrei e sudanesi. Il Niger è l’unico Paese africano ad aver offerto un “punto di appoggio” ai richiedenti asilo evacuati dalla Libia dall’Unhcr e destinati a essere ricollocati in Europa. “Prima di ripartire passano almeno 7 mesi nei nostri centri in Niger, li aiutiamo a rimettersi in salute dopo le torture e le violenze subite in Libia, e gli riconosciamo lo status di rifugiato” spiega Alessandra Morelli, capo missione dell’Unhcr a Niamey, che viaggerà con loro. Da dicembre sono state trasferite in Niger duemila persone che erano rimaste intrappolate nelle carceri libiche: l’ultimo volo è arrivato lunedì scorso con 263 passeggeri. Era da febbraio che non ne arrivavano. “Abbiamo dovuto fermarci per la crescente instabilità del Paese, con violenze frequenti e attacchi militari all’aeroporto. In alcuni centri detentivi non siamo riusciti ad accedere per settimane, è sempre più rischioso muoversi nel Paese” denuncia Carlotta Sami, portavoce per il Sud Europa dell’Unhcr. Delle duemila persone evacuate in Niger dalla Libia, 839 sono state trasferite in altri Paesi europei con il programma Etm (Emergency Evacuation Transit Mechanism), meccanismo di evacuazione straordinario che, in attesa di soluzioni definitive, fornisce ospitalità temporanea e assistenza di prima necessità ai richiedenti asilo presenti in Libia. In Niger ne restano circa 1100 (con un tetto massimo di 1500). “Se non li ricollochiamo, non possiamo evacuarne quanti vorremmo dalla Libia - spiega Carlotta Sami -. I ricollocamenti procedono ma lentamente, invece non bisogna perdere il senso dell’urgenza. Le condizioni nelle carceri libiche sono nettamente peggiorate nell’ultimo anno, con violenze più frequenti e razioni di cibo più scarse, somministrate soltanto una volta al giorno. Finora ne abbiamo evacuati oltre 2mila in Niger, ne restano 5mila, possiamo farcela”. L’Italia, che dalla fine dell’anno scorso ha accolto 300 richiedenti asilo direttamente dalla Libia, con tre voli da Tripoli (l’ultimo a febbraio), finora non si era prestata per ricollocamenti dal Niger. Dice Alessandra Morelli: “Spero che questo sia il primo passo per una collaborazione proficua. Per Salvini è una opportunità, per noi una necessità”. Migranti. Le ruspe del ministro demoliscono il Centro sociale Baobab di Giulia Merlo Il Dubbio, 14 novembre 2018 La soddisfazione del Ministro dell’Interno: “mai più zone franche. Non è finita qua”. I blindati della polizia di stato sono arrivati al centro Baobab alle sette del mattino: hanno chiuso i cancelli, svegliato gli immigrati che dormivano nelle tende e proceduto con le operazioni di sgombero. Poi, sono comparsi una piccola ruspa con due camion, per distruggere la baraccopoli e portare via i detriti di lamiere e cartoni. Il ministro Matteo Salvini ha rilanciato la notizia immediatamente, via social: “In corso lo sgombero di Baobab a Roma. Zone franche, senza Stato e legalità, non sono più tollerate. L’avevamo promesso, lo stiamo facendo. E non è finita qui. Dalle parole ai fatti”. Nessuno, tra migranti e volontari che operano per prestare assistenza, è rimasto stupito: “L’ordine era nell’aria da settimane”, e la settimana scorsa il Campidoglio, in previsione dello sgombero per occupazione abusiva, aveva avviato il censimento degli ospiti del campo, per poi offrire loro posti letto in strutture di accoglienza. L’associazione Baobab, che da fine 2016 ha occupato e allestito a tendopoli l’ex parcheggio per pullman nei pressi della stazione Tiburtina - quadrante est della Capitale, ospitava circa 140 migranti e faceva da punto di raccolta per i migranti in transito. Secondo i volontari, infatti, più di 70 mila persone sono passate dai loro campi, ricevendo cure mediche, cibo, una sistemazione per la notte, assistenza legale per poi proseguire il viaggio verso altri Paesi europei oppure in attesa delle pratiche per la richiesta di asilo. Ieri mattina gli occupanti, fatti uscire dalle tende dove si riparano per la notte, sono stati divisi: la maggior parte è stata portata agli uffici immigrazione della questura di Roma, per procedere all’identificazione; altri trenta, invece, sono stati riconosciuti come richiedenti asilo o persone con regolari documenti e sono stati allontanati dall’area. Il centro Baobab, nei giorni scorsi, aveva infatti aperto le porte a decine di titolari di ordine di protezione umanitaria, che erano finiti per strada dopo essere stati cacciati dagli Sprar, per effetto del decreto Sicurezza. Le operazioni sono procedute in fretta, con qualche momento di tensione. Ai migranti sono stati dati pochi momenti per raccogliere qualche effetto personale, prima di venire caricati sui pullman della polizia. Poi, intorno alle 10.40, nel piazzale sono stati fatti entrare giornalisti e telecamere: un bobkat è stato messo in funzione e ha iniziato a distruggere le baracche e le tende, montate per proteggersi dall’ondata di mal tempo dei giorni scorsi, poi due camion hanno iniziato a caricare i detriti. Intorno, gli operatori e i volontari hanno provato a salvare il salvabile: tenda per tenda, hanno rovistato tra gli oggetti gettati alla rinfusa in cerca di effetti personali, documenti lasciati nella concitazione e suppellettili da sottrarre alle ruspe. Così, al centro del piazzale è stato accatastato tutto: materassi, coperte, qualche vestito, oggetti d’uso quotidiano, tendoni, taniche d’acqua e un generatore. “Abbiamo affittato un furgone per poter portare via quel che rimane”, hanno detto i volontari. Intanto, però, rimane l’incognita di dove le persone sfollate verranno accolte. “Così un centinaio di persone rimarrà per strada. Ci auguriamo che il Comune si attivi per ricollocarli”, ha commentato Andrea Costa, coordinatore di Baobab Experience: “È il 22esimo sgombero di questo campo, ma temo che questa volta sia la chiusura definitiva, ma noi continueremo a dare assistenza legale, medica, a fare da centro di informazione, a costituire corsi di lingua. Ancora una volta, alla domanda di accoglienza si risponde con la forza pubblica”. Il prossimo sgombero, secondo il programma dei lavori dell’ultimo Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza, potrebbe essere quello dell’ex fabbrica di Penicillina sulla via Tiburtina, all’altezza del quartiere di San Basilio, dove dormono alcune centinaia di migranti. Intanto però - attaccano le opposizioni - l’occupazione di Casa Pound nello stabile in via Napoleone III all’Esquilino non è ancora stata toccata. Migranti. Lo sgombero del Baobab non deve creare nuovi “invisibili” di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 14 novembre 2018 Molti sgomberati finiranno in strada, alcuni di nuovo dietro la stazione, con nuovo caos e nuovi disagi per tutti. La vicenda del Baobab è un buon metro per misurare la distanza tra propositi e risultati nella nostra confusa Italia. Difficile negare, se non con le lenti deformanti dell’ideologia, che lo sgombero del cosiddetto “campo informale” dietro la stazione Tiburtina di Roma risponda a ragionevolezza. Neppure i migranti potevano essere lieti di vivere in quello slum senza legge (quanto ai residenti attorno, la loro avversione per il campo era nota e assai comprensibile). La tendopoli però non era nata tanto per un vezzo “buonista” quanto per la nota incapacità del Comune di dare ricovero a centinaia di sbandati, fuorusciti dai centri Cas e Sprar o speranzosi di transitare attraverso l’Italia verso mete del Nord Europa. Di colpo - magia del novismo muscolare - i posti letto sembravano saltati fuori (e si andava così verso uno sgombero soft); poi la giornata si è trascinata in un penoso scaricabarile tra servizi comunali e prefettura: molti sgomberati finiranno in strada, alcuni di nuovo dietro la stazione, con nuovo caos e nuovi disagi per tutti. Qualcosa di non troppo diverso sta accadendo, in grande, dopo la stretta del decreto Sicurezza voluto da Matteo Salvini col proposito di serrare i bulloni d’una accoglienza sgangherata. Causa cancellazione della protezione umanitaria (certo abusata in passato), molti richiedenti asilo riceveranno un foglio di via, lo ignoreranno e andranno a ingrossare le fila dei 600 mila “invisibili” dispersi nelle periferie. Non mancano casi di ragazzi appena maggiorenni cacciati dalle strutture d’accoglienza e spariti anche dalla scuola che frequentavano. I consigli comunali di Torino, Bologna e Firenze chiedono già la sospensione del decreto: le tensioni sociali, ove i rimpatri continuassero col contagocce, potrebbero esplodere. Quando il primo energico Berlusconi nel ‘94 scoprì che l’Italia era “una macchina senza volante”, Salvini era un ragazzo, ma ora dovrebbe studiarne la parabola prima di promettere altri 27 sgomberi (10 mila persone da ricollocare): qui “adelante con juicio” resta nei secoli un aureo consiglio di guida. Migranti. “Integrazione e solidarietà nascono fuori dalle istituzioni” di Giansandro Merli Il Manifesto, 14 novembre 2018 Intervista a Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia: “Associazioni di volontariato e organizzazioni non governative sono costrette a farsi Stato quando le istituzioni vengono meno al dovere di dare risposte adeguate ai bisogni sociali”. Amnesty International è impegnata a livello globale nella difesa dei diritti umani. Al presidio di Baobab ha svolto attività di monitoraggio. Ieri, ha condannato l’intervento della polizia affermando che: “Gli sgomberi a ripetizione lasciano senza protezione decine e decine di persone”. Il ministro dell’interno Matteo Salvini ha definito Baobab una “zona franca, senza Stato e senza legalità”. Amnesty International condivide questa interpretazione? No, affatto. Chiamare Baobab “zona franca” è ingiusto e ingeneroso. La dichiarazione è stata rilasciata evidentemente con poca conoscenza di quell’esperienza che, al contrario, parla di accoglienza, alloggio e integrazione. Per quanto riguarda l’affermazione di “senza Stato”, invece, devo dire che le associazioni di volontariato e le organizzazioni non governative sono costrette a farsi Stato quando le istituzioni vengono meno al dovere di dare risposte adeguate ai bisogni sociali. In questo contesto, Baobab si è assunto la responsabilità di fornire assistenza a migranti e richiedenti asilo e di dare accoglienza a cittadini italiani senza fissa dimora. Interventi di questo tipo servono a ripristinare la “legalità”? Favoriscono il contrario. Se c’è un modo per aumentare dispersione e marginalità, con il rischio conseguente di azioni che danneggino la sicurezza di tutti, è sicuramente effettuare sgomberi di questo tipo. Così si colpisce soprattutto chi si trova a vivere in situazioni di maggiore difficoltà. Da ieri a Roma ci sono oltre 100 persone, molte delle quali aventi regolare permesso di soggiorno e comunque già identificate dalle autorità competenti, che hanno perso un importante punto di riferimento e di sostegno. In città c’è aria di nuovi sgomberi. Quali misure dovrebbe adottare la sindaca Virginia Raggi per evitare che le persone finiscano in strada senza alcuna alternativa? Il problema è annoso e complesso. Certamente non è nato con questa amministrazione, ma questa amministrazione ha fatto tutto meno che risolverlo. Siamo una capitale del G8 che ha un problema enorme di rispetto del diritto all’alloggio. Una situazione che riguarda moltissime persone di differenti nazionalità che vivono nella nostra città. Abbiamo visto esperienze di accoglienza e di occupazione di stabili abbandonati che coinvolgono italiani e stranieri. Paradossalmente integrazione e solidarietà sono nate in luoghi del tutto non istituzionali. Quello che occorre è un piano serio di accoglienza e garanzia del diritto alla casa. Pochi giorni fa il Senato ha approvato il “decreto immigrazione e sicurezza”. Cosa pensa di questa misura? Le critiche al decreto sono ampie e riguardano tutta una serie di aspetti discriminatori. Ad esempio, la riduzione delle possibilità e delle tempistiche per far valere i propri diritti o l’allungamento dei tempi di detenzione amministrativa degli stranieri. La domanda è: fino a che punto siamo disposti a violare i diritti umani in nome della sicurezza o della percezione di insicurezza? Con questo provvedimento mi pare si dica che la sicurezza, se percepita o reale è tutto da vedere, è l’obiettivo da perseguire a ogni costo, senza alcuna attenzione per il rispetto dei diritti. Una tendenza pericolosa a cui bisogna porre un freno. In questo paese c’è una maggioranza di persone che può ancora godere dei propri diritti: è necessario che tornino a muoversi insieme a chi se li vede negati ogni giorno. Droghe. “Per bucarmi bastano solo due euro”. Tra i ragazzi dello “zoo” di Milano di Monica Serra La Stampa, 14 novembre 2018 Mille clienti al giorno arrivano nella piazza di spaccio più grande d’Europa, a 15 minuti dal Duomo. Sono soprattutto minorenni che rubano tutto per farsi: anche i vestiti a chi va in overdose. “Volevo sentirmi grande. Bucarmi era più forte di me, mi sentivo importante. Poi sono finito in strada. Su e giù con la metro a elemosinare qualche moneta per pagare una dose. Mi “facevo” una volta all’ora. Venivo a bucarmi piangendo”. Fabio, vent’anni, ha appena scoperto di avere l’Aids. Maglia nera e jeans, un ragazzo come tanti. Accanto c’è la fidanzata, da poco maggiorenne, sta per prendere il treno per tornare a casa. “Lei è pulita, viene qui a trovarmi. È l’unica che mi è sempre stata accanto”. Quando è finito in ospedale i genitori lo hanno ripreso in casa. “Ho smesso col metadone - accenna un sorriso - e non mi “faccio” più quanto prima. Vengo solo la domenica”. Poi si ferma, sospira. “Tutta la settimana aspetto questo momento”. La stazione di Rogoredo è a due passi dal parco della morte, la più grande piazza di spaccio d’Europa, 15 minuti di metropolitana dal Duomo. Mille clienti al giorno, molti dei quali minorenni, “che nessun muro può fermare”. Hanno 14, 15, 17 anni, “i ragazzi dello zoo di Rogoredo”. Figli di persone perbene, come Fabio. Operai, insegnanti, medici, ingegneri e farmacisti. Si avvicinano alla droga con gli amici, a scuola. Perché “se non lo fai sei sfigato”, perché “devi” provare. “Poi il passaggio all’eroina è sempre più veloce: nel giro di un’estate si trasformano”, dice Simone Feder, responsabile dell’area dipendenze della Casa del giovane di Pavia, l’unica in Lombardia con una comunità per adolescenti con tossicodipendenza certificata. E i dati lo dimostrano. Secondo uno studio del Cnr sono 320 mila gli adolescenti che hanno assunto eroina almeno una volta nell’ultimo anno. In un decennio i giovani consumatori sono aumentati del 36% e l’età media del primo contatto con la sostanza si è abbassata da 18 a poco più di 14 anni. I post-Millennials della “Generazione Z” non hanno conosciuto gli effetti devastanti dell’eroina negli Anni 70 e 80 e ora rischiano di perdersi. “Ho visto madri in lacrime accompagnare ragazzine a Rogoredo. Genitori disperati che non vedono i figli da giorni e vengono qui ad appendere foto e appelli sugli alberi. Sono mamma anch’io e mi piange il cuore”. La voce di Roberta tradisce la sua fragilità. Ha 32 anni, una bambina di 12 affidata alla nonna, si droga da 7. “Vorrei uscirne. Vengo qui una volta al giorno, un paio d’ore, poi vado via”. Nel tempo ha visto cambiare la “popolazione” di Rogoredo: “Su 10 che entrano, 4 sono ragazzini. Arrivano con lo zaino di scuola, ascoltano musica, fumano la “roba” con la stagnola, in mezzo allo schifo, come nulla fosse”. Trascorrono il tempo quasi come farebbero in un parco normale. Ma a Rogoredo niente lo è. “C’è chi vende ogni cosa per “farsi”. Rubano i vestiti a chi va in overdose. E le ragazzine si prostituiscono per 5 euro”. Ne bastano 2 per una “punta” di eroina. “La droga è tagliata con ogni cosa: stricnina (veleno per topi), paracetamolo e altre schifezze”. Si è salvato per miracolo Ivan, 31 anni, la faccia segnata da 14 di tossicodipendenza. Preferisce parlare lontano da Rogoredo. Come molti fantasmi del boschetto trascina la gamba destra: “mi sparavo la roba all’inguine. Sono finito in ospedale con una trombosi, mi hanno detto che rischiavo di perdere la gamba”. È una roulette russa, Rogoredo: 11 morti per overdose a Milano da inizio anno. “Il confine tra la vita e la morte è solo questione di fortuna. Sono i nostri figli, dobbiamo dargli una speranza. Non possiamo arrenderci all’idea che siano perduti. Non possiamo abbandonarli”, ripete Simone Feder. Con i suoi collaboratori prova ad avvicinare i ragazzi attorno al parco della morte. “Questo dramma riguarda tutti noi. Non possiamo più voltarci dall’altra parte”. Droghe. Don Mazzi: “A Rogoredo per ascoltare gli adolescenti” di Fabio Poletti La Stampa, 14 novembre 2018 Dopo 34 anni Exodus si trasferisce dal Parco Lambro a Sud di Milano. In cantiere una nuova comunità. Solo il Lambro poteva piegare don Antonio Mazzi. Solo questo fiume che è esondato ancora una volta una settimana fa allagando la Comunità Exodus, poteva costringere il prete dei tossici come lo conoscono a Milano dal 1984, a dire addio a questa bella cascina con i prati pettinati dove si coltivano pure i mirtilli e dove vivono in 80, tutti ex tossici sulla via della redenzione dopo essere passati da ogni tipo di dipendenza che si possa immaginare e pure qualcuna inimmaginabile. “Sì ce ne andiamo. Ma potrebbe essere un’opportunità per noi e per Milano. A Rogoredo potremmo sistemare la Cascina San Nazzaro. È vicino al boschetto della droga. Sarebbe una cosa straordinaria. Sarebbe come tornare in prima linea”, dice d’un fiato questo prete veronese di 89 anni, diventato sacerdote 52 anni fa, laurea in filosofia, specializzazione in psicologia e psicopedagogia, negli Anni Settanta i primi stages nei rehab degli Stati Uniti e poi non si è più fermato. “Ho parlato con il sindaco Giuseppe Sala. Mi ha detto che vorrebbe trovare una soluzione prima della fine del suo mandato. Qui il contratto scadrebbe tra sei anni. ma è chiaro che non sono più tranquillo nemmeno io”, ammette don Mazzi mentre racconta delle folate di vento che gli han tirato giù sei alberi dentro la cascina, del tetto degli uffici volato via per le folate di vento, dei ragazzi che dormono tutti a piano terra e che no, non si può più vivere con un orecchio al fiume pronti a scappare se fa la voce grossa. “Lo vediamo. Ci passa proprio accanto. Quando è grosso fa paura”. Don Mazzi non ha paura di niente. Figuriamoci di ricominciare da un’altra parte. Fosse pure a un passo dal boschetto dell’eroina dove arrivano mille clienti al giorno da tutta la Lombardia e pure da lontano. I bulldozer della polizia sono entrati già decine di volte a tirar giù le catapecchie dove ci si buca con 5 euro ma a volte ne bastano 2 e non è cambiato niente. Le retate oramai settimanali hanno dato lo stesso effetto. Come il muro, l’ultima trovata, costruito per evitare che i tossici rotolino sui binari della ferrovia lì vicino e un po’ per tenerli a bada. Don Mazzi la prende di petto come sempre: “Mi sono opposto al muro in ogni modo. I muri non servono a niente. Bisogna ascoltarli questi ragazzi. Da noi non ci sono né muri né cancelli. Se vuoi te ne vai e se torni dopo tre giorni ti ripigliamo. Due terzi di loro hanno già tentato il suicidio. Non dobbiamo dirgli cosa non devono fare. Devono solo imparare la poesia e la fatica della vita”. La “Cascina degli adolescenti” don Mazzi ce l’ha già tutta in testa. Adesso bisogna capire come fare il contratto con il Comune, stabilire l’affitto o qualche altra formula, vedere chi paga la ristrutturazione e i tempi per iniziare questa nuova sfida. Don Antonio Mazzi a 89 anni ha già messo il turbo: “Io non penso che la politica si rivolga a noi perché le ha fallite tutte sul boschetto di Rogoredo. Né credo che vogliano lavarsi le mani. Quello di Milano è un Comune attento. Io sono un prete, mi piace di più pensare che questo sia il riconoscimento del lavoro che abbiamo fatto fino a qui”. Libia. La rabbia delle brigate e delle tribù: “Il Paese non si aggiusta con i summit” di Francesco Semprini La Stampa, 14 novembre 2018 Curiosità mista a pragmatismo, speranze mai sopite, qualche ilarità, e un po’ di delusione che trova forma nell’interrogativo: “E ora che succederà qui in Libia?”. C’è un po’ tutto nello stato d’animo di chi, dalla sponda sud del Mediterraneo, ha seguito gli sviluppi della conferenza di Palermo. Ben inteso, i libici non sono rimasti certo col fiato sospeso davanti alle tv per assistere alle gincane di Khalifa Haftar o alle triangolazioni delle diplomazie. Tutt’altro, a Tripoli ad esempio le banche hanno dovuto fare i conti con le consuete file agli sportelli e i negozi coi soliti problemi di fornitura, mentre la macchina amministrativa proseguiva le attività ai ritmi che la contraddistinguono. “Troppi boss nel Paese” Certo però che nei caffè e nelle case della capitale, come tra le tribù della Tripolitania e nel resto del Paese, si è teso un orecchio a quello che rimbalzava da alcune centinaia di chilometri di distanza, visto che di Libia si è parlato. “Di conferenze ne abbiamo avute tante, la nostra situazione politica è complicata, sono in troppi a voler fare i boss o a voler diventare presidente. Credo che sia necessario ancora un percorso di maturazione, quindi del tempo. Ecco perché temo che da Palermo non esca fuori molto”. A parlare è Mustafa Barouni, sindaco di Zintan, quella che da alcuni è considerata una città-stato, realtà fondamentale nella storia politica e militare della Libia post-gheddafiana. Barouni mostra un certo disappunto per non essere stato invitato alla conferenza di Palermo. “Senza dubbio i quattro leader che hanno rappresentato il Paese sono personaggi noti e hanno forza sul campo, senza dubbio potevano, anzi possono, dare un contributo alla soluzione della crisi libica, ma non sono gli unici”. Un’osservazione che viene mossa da un’altra “città-stato” ovvero Misurata, delusa per il fatto che il suo principale esponente, il vicepresidente Ahmed Maetig, non sia stato invitato di persona e che, come altri, non abbia trovato la collocazione che meritava. In realtà a Zintan si guarda già oltre, a quella sorta di “Costituente” prevista dal piano Onu ai primi del 2019 e di cui il sindaco ha discusso con Ghassan Salamé alla vigilia del vertice siciliano. Sulle elezioni però frena: “Sarebbe bello farle nel 2019, ma non credo sia possibile, non siamo pronti”. Mentre spera che da Palermo emerga la presa di coscienza da parte del governo di Fayez al Sarraj di “dare sostegno alle amministrazioni locali perché sono le uniche garanti del territorio”. La sicurezza di Tripoli C’è chi dalla conferenza si attende un passo in avanti sulla sicurezza della capitale: “Dobbiamo favorire quanto più possibile la transizione verso una forza regolare e agevolare l’uscita di scena delle milizie”. È il pensiero di Saad Hamali, portavoce della 7° Brigata di Tarhuna, i cosiddetti “insorti” che lo scorso agosto hanno innescato la rivolta contro le formazioni di Tripoli. “La situazione era diventata insostenibile, nelle periferie e nelle zone limitrofe mancava acqua, gas e luce a causa dei taglieggiamenti di certe formazioni che controllano Tripoli. Non c’era pane e non c’erano contanti, le milizie hanno umiliato la Libia ed è ora di cambiare le cose”. Per Tarhuna ci sono inoltre formazioni che hanno mantenuto rapporti con i trafficanti illegali di migranti e di carburante: “Ecco perché la soluzione del problema è interesse di tutti, anche dell’Italia”. C’è chi evoca il lavoro avviato dal generale Paolo Serra nella veste di consigliere militare della missione Onu (Unsmil), come Houssam al- Najjar detto “Irish Sam” per le sue origini dublinesi, noto combattente (foreign) della rivoluzione del 2011 di cui racconta le vicende nel libro “I leoni della Tripoli Brigade”, la sua formazione. “Per combattere il crimine organizzato, bisogna iniziare dal lavoro di Serra e creare forze di sicurezza istituzionali: così possiamo rifondare Tripoli”. C’è chi, sottolineando il Dna etnico-sociale della società civile libica, spiega che nel Paese vi sono almeno 120 tribù, e quattro leader (i soliti noti) non sono in grado di rappresentarle. Ashraf Shah, membro del dialogo politico libico dal quale sono nati gli accordi di Skhirat, sostiene che la linea inclusiva dell’Onu sia giusta “ma il popolo non appoggia quei leader”. La “Costituente” - Così la soluzione “bottomup”, ovvero di legittimazione dal basso, della “Costituente” di inizio 2019, con oltre 200 rappresentanti della società civile libica riuniti assieme, è guardata di buon grado dalle tribù della Libia. Comprese quelle del Sud, ai margini del palcoscenico palermitano, che dalla conferenza si attendono quanto meno lo sblocco dei piani strategici a partire dalla copertura dell’area di Ghat con una base di sorveglianza dei confini. Il progetto è chiave per le dinamiche locali e regionali, perché dal Fezzan vi sono minacce di fazioni degli Awlad Suleyman volte a sovvertire Tripoli, destabilizzando Ubari e l’equilibrio tribale. “Da mesi e mesi quel progetto, che avrebbe messo in stallo l’azione francese a sud della Libia è sconsideratamente fermo - spiega Agenfor International, fondazione di analisi globali -. Dal sud passano tutti i traffici e vi è una presenza Tuareg da sempre favorevole all’Italia, dunque per l’asse Roma-Tripoli è un asset più che strategico”. Stati Uniti. La cannabis legale vola con i referendum di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 14 novembre 2018 Alle recenti elezioni di midterm erano abbinati alcuni referendum nei diversi Stati, in particolare relativi all’uso della cannabis. Gli elettori sono stati chiamati ad esprimersi in Michigan e North Dakota sull’uso ricreativo, in Missouri e nello Utah su quello terapeutico. In base all’esito del voto, salgono a 33 gli Stati che hanno introdotto normative che regolano l’uso legale della cannabis a fini terapeutici. Anche questa tornata elettorale in Usa ha dato una spinta dal basso al cambio di politiche sulla cannabis, con tanto di colpo di scena finale. Come succede ormai da venti anni alle elezioni federali si sono abbinati numerosi referendum che avevano come oggetto la cannabis. Martedì 6 novembre gli elettori sono stati chiamati ad esprimersi in Michigan e North Dakota sull’uso ricreativo, in Missouri e nello Utah su quello terapeutico. Al termine dello spoglio si è registrata una vittoria in Michigan, 56% a 44%. Lo stato del Midwest diviene così il decimo a legalizzare l’uso ricreativo. Le norme permetteranno ai maggiori di 21 anni di possedere e coltivare piccole quantità di cannabis, nonché implementeranno un sistema di licenze commerciali per produzione e vendita di cannabis e derivati. La tassazione è fissata al 10%, un valore inferiore agli altri Stati, che consentirà di vedere crescere una fiorente industria della cannabis. Sconfitta invece, con un risultato negativo che è andato oltre le previsioni (60 a 40), l’analoga iniziativa in North Dakota. Salgono a 33 gli stati che hanno introdotto normative che regolano l’uso legale della cannabis a fini terapeutici. Dopo l’Oklahoma lo scorso giugno, Utah e Missouri hanno approvato le proposte di legalizzazione. Nel primo caso la proposta è passata con il 53% di favorevoli, mentre in Missouri il margine è stato molto più ampio (65 a 34). Di particolare valore il successo in Florida, dove attraverso un referendum sono state riammesse al voto un milione e quattrocentomila persone condannate per crimini non violenti. Fra queste moltissime per possesso di droghe, in particolare cannabis. Se il fronte antiproibizionista gioisce, quello proibizionista ha visto perdere nel round elettorale anche uno dei suoi paladini alla Camera. Quel Pete Sessions, in carica dal 1997 ed omonimo dell’Attorney General Jeff, che ha perso il proprio seggio in Texas a favore di Colin Allred, democratico schieratosi per la decriminalizzazione della cannabis e per l’accesso a quella terapeutica. Per Justin Strekal di Norml: “Pete Sessions è stato da solo il più grande impedimento perché alla Camera non passassero misure per la riforma delle leggi sulla cannabis”. Sessions infatti, occupando un ruolo chiave nel Rules Committee ha impedito sul nascere una serie di emendamenti per la cannabis terapeutica ai veterani o per l’accesso al sistema bancario dell’industria della cannabis legale, oggi impedito in quanto attività illegale a livello federale. “La sua bocciatura apre le porte per attuare significativi interventi legislativi”, ha concluso Strekal. Ma il vero colpo di scena è avvenuto il giorno dopo le elezioni, quando il Presidente Trump ha annunciato il siluramento dell’altro Sessions, il Ministro della Giustizia. Cancellando il memorandum Cole, a gennaio minacciava di intervenire contro gli Stati che hanno legalizzato l’uso ricreativo. Prima aveva ripristinato l’obbligo per i giudici di comminare la massima pena possibile, spesso draconiana, anche per crimini non violenti legati alle droghe, come il semplice possesso. Si tratta di una operazione con ben altri fini (salvaguardare la tenuta presidenziale sul Russiagate), ma è evidente che si ripercuoterà anche sull’atteggiamento federale sulle sostanze. “Si deve cogliere l’occasione per correggere gli errori di Sessions”, ha dichiarato Maria McFarland Sánchez-Moreno, della Drug Policy Alliance sottolineando l’importanza del momento. Il sostegno bipartisan rispetto al progetto di legge federale per mettere al riparo le legalizzazioni statali è sempre più forte. Così la strada verso ipotesi di riforma delle politiche sulle droghe in Usa sembra oggi meno irta di ostacoli. Romania. L’accusa dal Parlamento europeo: “Non difendete i diritti e la libertà” di Emanuele Bonini La Stampa, 14 novembre 2018 La Romania non sta tenendo conto di libertà e diritti fondamentali. Non sta, quindi, difendendo i valori su cui si fonda l’Ue. Ne è convinto il Parlamento europeo, che approva la risoluzione con cui si chiede al governo di Bucarest un’inversione di marcia, e fare quindi in modo di “astenersi dal realizzare qualsiasi riforma che metta a rischio il rispetto dello Stato di diritto, compresa l’indipendenza della magistratura”. Un messaggio politico forte per chi dall’1 gennaio avrà la presidenza di turno del Consiglio Ue, e sarà chiamato a gestire l’agenda dei lavori a dodici stelle. Proposte legislative giudiziarie e penali che aprono la strada alla “possibilità di compromettere in modo strutturale l’indipendenza del sistema giudiziario e la capacità di contrastare in modo efficace la corruzione in Romania”, con il rischio di rischio che ciò “indebolisca lo Stato di diritto”. Queste la “profonda preoccupazione” racchiusa nel testo che l’Aula ha approvato a larga maggioranza (473 “sì”, 151 “no”, 40 astenuti). Un testo che esprime anche “preoccupazione riguardo alle restrizioni politiche alla libertà dei media”. Nessuna sanzione, per ora - Polonia e Ungheria sono già stati censurati dall’Europa per la violazione dello Stato di diritto, con tanto di procedura. Contro entrambi è stata avviato il procedimento che potrebbe condurre alla sospensione del diritto di voto in seno al Consiglio. Contro Varsavia l’iter è stato attivato dalla Commissione europea, contro Budapest invece dal Parlamento europeo. Per l’esecutivo di Bucarest siamo ancora ai richiami preliminari. “Il nostro gruppo è stato tra i promotori di questa risoluzione, ma non ci sono richieste di attivazione dell’articolo 7” del trattato sul funzionamento dell’Ue, quello che può portare alle sanzioni, sottolinea il capogruppo dei socialdemocratici (S&D), Udo Bullmann. Avvertimento blando - Il Parlamento europeo invia una segnale politico a Bucarest, ma meno forte del previsto. L’Aula produce delle maggioranze che smontano l’impianto accusatorio messo a punto da Verdi, laddove si denunciavano “i tentativi di limitare l’accesso dei giornalisti alle attività parlamentari, la mancanza di trasparenza delle istituzioni pubbliche e l’accresciuto fardello che i giornalisti affrontano nell’accedere alle informazioni di pubblico interesse”. Un emendamento respinto in sede di voto, assieme a quello che puntava il dito contro il controllo del governo sulla radiodiffusione pubblica chiedendo di “astenersi” da simili interferenze. Le preoccupazioni per i media restano dunque vaghe e generiche. Fugato poi “il dubbio dubbio la legittimità” sollevato dai socialdemocratici sui protocolli di cooperazione firmati tra il Servizio di intelligence rumeno e le istituzioni giudiziarie. Anche questo emendamento è stato respinto. Monitoraggio continuo - Per il momento, dunque, ci si limita ai richiami. Si concede tempo al governo romeno per fare retromarcia e intavolare un dialogo costruttivo con la Commissione europea. Nel frattempo la Romania sarà un super-sorvegliato speciale. Nella relazione si sottolinea “la necessità di un processo regolare, sistematico e obiettivo di monitoraggio” a cui devono partecipare tutti gli Stati membri, con “coinvolgimento” delle istituzioni comunitarie, al fine di salvaguardare valori fondamentali dell’Ue, diritti fondamentali e Stato di diritto. Dovrà essere in questo momento l’esecutivo comunitario a tenere d’occhio Bucarest. Al team Juncker si chiede inoltre di pubblicare la relazione sulla lotta alla corruzione, atteso nel 2017 ma mai edito. Ucraina. Il “campo estivo” dove i bambini imparano ad amare le armi da fuoco di Nadia Ferrigo La Stampa, 14 novembre 2018 Capelli lunghi e maglietta rosa, pantaloni mimetici e kalashnikov. Così ancora non si va alla guerra, ma si impara a sparare. Per uccidere. Felipe Dana, fotografo brasiliano di Associated Press tra i vincitori del World Press Photo, racconta con i suoi scatti il campo estivo nascosto in una foresta vicino a Ternopil, nell’ovest dell’Ucraina. A organizzarlo è il partito nazionalista Svoboda, anche grazie ai soldi del governo. Il ministero della Gioventù e dello Sport a inizio anno ha stanziato quattro milioni di grivna - circa 150 mila dollari - per finanziare alcuni dei campi giovanili di estrema destra. Il più anziano dei campeggiatori ha diciotto anni, il più giovane appena otto. Secondo il ministro, armare la gioventù ucraina vale come “educazione nazionale patriottica”. Si alternano esercitazioni pratiche e teoria, con due obiettivi: addestrare le nuove generazioni a difendere il Paese dalla Russia di Vladimir Putin e diffondere l’ideologia nazionalista.