“A scuola di libertà”, gli studenti imparano a conoscere il carcere aics.it, 13 novembre 2018 Scuola e prigioni a confronto, il 15 novembre, per l’iniziativa promossa dalla Conferenza Nazionale Volontariato e Giustizia di cui Aics fa parte. La scuola e il carcere, due mondi che il 15 novembre - e poi molti altri giorni dell’anno scolastico in corso, avranno l’occasione, per il terzo anno, di conoscersi e confrontarsi per riflettere insieme sul sottile confine fra trasgressione e illegalità, sui comportamenti a rischio, sulla violenza che si nasconde dentro ognuno di noi. Organizzato dalla Conferenza Nazionale Volontariato e Giustizia, nella quale Aics esprime la vice presidenza nazionale (attraverso Viviana Neri, già presidente di Aics Emilia Romagna), l’iniziativa ha anche l’obiettivo di far riflettere i due mondi sul diritto agli affetti delle persone private della libertà personale, di minori, dei loro comportamenti a rischio, dei reati che commettono più di frequente, di carceri minorili, di pene alternative al carcere. Ma che cosa ci può raccontare sulla libertà chi ne è stato privato perché ha commesso un reato? E che cosa ci possono insegnare tutti quei volontari, che entrano ogni giorno nelle carceri italiane per contribuire a renderle più “civili” e meno “lontane” dalle città? Che per apprezzare davvero la libertà è importante capire che può capitare di perderla per errori, per leggerezza, per scarso rispetto degli altri. Ma chi l’ha persa deve avere la possibilità di riconquistarla scontando una pena rispettosa della dignità delle persone. Che in carcere ci sono persone, e non “reati che camminano”. Che il carcere è meno lontano dalle nostre vite di quello che immaginiamo, perché il reato non è sempre frutto di una scelta, e tutti noi possiamo scivolare in comportamenti aggressivi e violenti e finire per “passare dall’altra parte”. Che le pene non devono essere necessariamente carcere, che parlare di “pene umane” significa rispettare di più anche le vittime, che investire sul reinserimento delle persone detenute significa investire sulla sicurezza della società. Il 15 novembre, nelle scuole di tante città italiane, si parlerà in modo nuovo di carcere, di pene, di giustizia, cercando di sconfiggere luoghi comuni e pregiudizi. L’iniziativa gode del riconoscimento del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. “L’isolamento diurno è una vera e propria tortura” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 novembre 2018 È il giudizio di Rita Bernardini e il Partito Radicale ne chiede l’abolizione. La Consulta, però, ha respinto le questioni di legittimità. ma diversi giuristi hanno sottolineato la poca attinenza con il dettato costituzionale. “Al colpevole di più delitti, ciascuno dei quali importa la pena dell’ergastolo, si applica la detta pena con l’isolamento diurno da sei mesi a tre anni”. Così recita l’articolo 72 del Codice Penale che cristallizza la possibilità, da parte del giudice, di aggiungere una vera e propria sanzione penale per i delitti che vengono puniti con l’ergastolo. L’isolamento diurno è di fatto una pena nella pena, tanto che il Partito Radicale, attraverso la raccolta di firme per otto proposte di legge di iniziativa popolare, ne chiede l’abolizione oltre a chiedere la riforma del sistema di ergastolo ostativo e del regime del 4 bis. “L’isolamento di questo tipo è severamente condannato dalle regole europee - dice l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini, è una vera e propria tortura che si aggiunge a quella più grave del “fine pena mai”. L’isolamento rappresenta una misura di natura eccezionale, non compresa nel nostro ordinamento penitenziario, in quanto contrastante con il processo di risocializzazione. Così, in passato sono sorte questioni sulla legittimità costituzionale dell’isolamento diurno, tuttavia respinte dalla Consulta con sentenza n. 115 del 1964, che dichiarava non fondata la questione sottoposta al suo esame, sul rilievo della natura di sanzione penale di tale isolamento. Secondo il giudice a quo l’isolamento diurno, per sua natura e per le modalità di esecuzione, non avrebbe consentito la rieducazione del condannato e si sarebbe risolto in un trattamento contrario al senso di umanità, esplicitamente vietato dall’art. 27 Cost. Ma la Corte è in disaccordo: ha ricordato che la misura prevista dall’allora codice Zanardelli, ovvero la già vista segregazione cellulare continua, prevista come autonoma sanzione per i casi di concorso di reati (art. 84), ma anche “come contenuto e modalità di esecuzione della pena dell’ergastolo”, che sottoponeva così il condannato a tale pena, solo perché tale, alla segregazione cellulare continua per sette anni (art. 12), “durissimo trattamento di rigore”, venne successivamente abrogata. Attualmente, invece, tale istituto rappresenterebbe un’autonoma pena e, inoltre, ha sottolineato sempre la Corte, l’ergastolano è sempre ammesso all’attività lavorativa, elemento che riduce così l’afflittività della misura. Hanno così concluso i giudici: “Appare evidente pertanto, da questa ed altre recenti disposizioni (eliminazione del limite dei tre anni per l’ammissibilità dell’ergastolano al lavoro all’aperto, possibilità della liberazione condizionale anche per il condannato all’ergastolo, ecc.), che le leggi penali vanno ispirandosi sempre più ai criteri di umanità riaffermati nella nostra Costituzione. È una viva esigenza della coscienza sociale che un tale indirizzo, nel quadro di una efficiente difesa sociale contro il delitto, trovi sempre più civili e illuminate applicazioni”. Eppure diversi giuristi non si sono ritrovati d’accordo. Come può definirsi attinente al dettato della Costituzione laddove chiede che il trattamento sia umano visto l’effetto deleterio che può avere sulla psiche del detenuto e, soprattutto, non è posto in contatto con altri detenuti trattandosi di un’intensificazione della pena detentiva perpetua dell’ergastolo? Di fatto, tale pena sanzionatoria, è ancora in vigore, e a metterla in discussione è il Partito Radicale attraverso la raccolta firme per le leggi d’iniziativa popolare sulla giustizia che è partita a giugno e ha sei mesi di tempo per arrivare ad almeno 50mila firme autenticate. Non è questione di prescrizione, ma di scandalosa lentezza del sistema processuale di Vincenzo Musacchio Gazzetta del Mezzogiorno, 13 novembre 2018 L’istituto della prescrizione in ambito penale ha la semplicissima funzione di garantire che, per ogni cittadino, colpevole o meno, esiste un limite temporale oltre il quale non può essere processato, giudicato e punito. Il limite temporale, correttamente, varia in proporzione alla gravità del reato: tanto più è grave la conseguenza penale, tanto più sarà lungo il tempo in cui il processo può estendersi. Nel nostro ordinamento penale è bene ricordarsi che esistono anche reati imprescrittibili, pochi e gravissimi (cfr. art. 98 c.p. e in ambito di diritto penale internazionale). La prescrizione è un istituto voluto dai grandi pensatori del settecento che con la loro ideologia costruirono a un diritto penale di matrice democratica. Cesare Beccaria, grande studioso, autore di “Dei delitti e delle pene”, più circa tre secoli fa, riteneva che un paese democratico non potesse arrogarsi il diritto di giudicare e punire all’infinito i suoi cittadini, fossero anche colpevoli. Oggi il suo pensiero è notevolmente rafforzato, tanto più se, Costituzione alla mano, si deve presumere che chi e sottoposto a procedimento penale fino a sentenza definitiva debba considerarsi innocente. Dall’epoca di “Mani pulite” della prescrizione, nel sistema penale italiano, è stato fatto un uso smisuratamente distorto, ed è diventata spesso un obiettivo della strategia difensiva, cercando, con tecniche dilatorie, di arrivare alla prescrizione del reato, cioè a un pronunciamento che renda impossibile accertare con una sentenza definitiva la colpevolezza dell’imputato (la recente storia processuale penale italiana è piena di prescrizioni soprattutto di personaggi economicamente potenti). Quel che non si dice mai, in questo dibattito spesso adulterato, è che i termini della prescrizione non sono il vero problema del nostro processo penale. Il “vulnus” del nostro sistema penale non è nelle norme sulla prescrizione, ma nella scandalosa lentezza del sistema giudiziario e processuale italiano. È questo il vero cancro che uccide la nostra giustizia, e l’alto numero di dichiarazioni di prescrizione non è patologico ma è soltanto una conseguenza della cd. “mala giustizia”. È come se fossimo dinanzi ad una grave infezione e decidessimo di non assumere l’antibiotico come cura necessaria. Personalmente ritengo che intervenire sui termini della prescrizione, senza risolvere i problemi del sistema giudiziario e della lentezza dei processi sia come assumere un’aspirina per sconfiggere il cancro che metastatizza. La nostra giustizia penale ha bisogno di riforme serie, oculate e generali, affrontando anche una seria politica di depenalizzazione. Anm e avvocati infilzano la prescrizione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 13 novembre 2018 Non ne esce benissimo la riforma della prescrizione dopo il giro di audizioni svoltosi ieri alla Camera. Davanti alle commissioni Affari costituzionali e Giustizia sono sfilate le associazioni di magistrati e avvocati, professori universitari e alti magistrati. Da nessuno è arrivato un via libera senza se e senza ma all’ipotesi di interruzione dopo la sentenza di primo grado, sia essa di condanna o di assoluzione. Per l’Associazione nazionale magistrati c’è un problema di metodo e uno di merito. Quello di metodo: non si può affrontare la riscrittura della prescrizione, del suo decorso, in maniera del tutto avulsa da interventi mirati sul processo penale. E di questi Anm dà esempio, nel merito appunto, con 30 pagine di proposte di modifica del sistema penale, sia sostanziale sia processuale, già all’attenzione dell’ufficio legislativo del ministero della Giustizia che potrebbe utilizzarle per la redazione dell’annunciata delega sulla riforma che dovrà vedere la luce a breve. E ieri il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha preannunciato che il testo sarà portato in Parlamento entro un mese. Tra le modifiche, l’abolizione del divieto di riforma peggiorativa del giudizio di appello, la previsione della sola prima notifica come da farsi personalmente all’accusato (tutte le altre al difensore), la riduzione dei casi in cui deve essere rifatto il dibattimento se cambia (a qualsiasi titolo) il o uno dei giudici, l’estensione del giudizio direttissimo al caso di fermo di indiziato, l’introduzione dell’esame a distanza dei testimoni, l’allargamento delle possibilità di confisca per equivalente a tutti i reati con finalità di lucro. E, per quanto riguarda la prescrizione, il presidente Anm Francesco Minisci, dopo avere ricordato che gli effetti di vedranno solo tra qualche anno, vista l’impossibilità di un’applicazione retroattiva, l’indicazione dell’Anm è di bloccarla sì dopo il primo grado, ma solo in caso di pronuncia di condanna, come punto di equilibrio tra le garanzie dell’imputato e l’efficacia del processo. Di radicale opposizione all’emendamento al disegno di legge anticorruzione è la posizione dei penalisti, espressa ieri dal segretario dell’Unione camere penali Eriberto Rosso. I penalisti, che hanno già proclamato l’astensione dalle udienze dal 20 al 23 novembre, chiedono il ritiro dell’emendamento, e considerano la conservazione della prescrizione come un baluardo dello stato di diritto. E quanto al pacchetto di proposte messo a punto dall’Associazione magistrati, la bocciatura è altrettanto sonora: “l’Anm ormai è il ghost writer dell’esecutivo. Si propone la contro-riforma dell’appello che neppure sta nel contratto di governo. Non una parola invece sulla durata delle indagini preliminari, dove matura il 60% delle prescrizioni”. Oggi, entro le 17, dovranno essere depositati i subemendamenti sul solo tema della prescrizione (sull’anticorruzione ne giacciono 300, con 80 in quota maggioranza) che si attendono ovviamente numerosi da parte delle opposizioni e da domani si inizierà a votare per chiudere la partita entro venerdì. Da lunedì lo sbarco in Aula. Prescrizione, la legge M5S demolita dai giuristi di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 13 novembre 2018 Un coro di critiche nelle audizioni davanti alle commissioni della camera dei deputati. Solo l’Anm sceglie una prudente apertura: “Ma deve entrare in vigore assieme alla riforma del processo penale”. Per la quale il ministro Bonafede dice che avrà tutto pronto in un solo mese. Salvato da un patto tra Lega e 5 Stelle, ma solo perché rinviato nell’applicazione al gennaio 2020, l’emendamento che interrompe per sempre la prescrizione dei reati penali dopo la sentenza di primo grado viene smontato dagli avvocati e dai professori di diritto, ascoltati ieri dalle commissioni della camera dei deputati. Non lo bocciano invece i magistrati; il presidente dell’Anm Minisci ha confermato che si tratta di una vecchia richiesta della magistratura associata. Ha aggiunto però che lo stop della prescrizione per funzionare deve andare di pari passo con modifiche in grado di velocizzare il processo penale. È quanto il governo ha annunciato di voler fare, rinviando a un prossimo disegno di legge delega. Che è tutto da inventare (nel “contratto di governo” non se ne parla e la maggioranza ha già mostrato le sue divisioni in materia) ma sarà efficace, secondo le promesse, già alla fine del 2019. L’Anm ha scelto di fidarsi: “La tempistica la scelga il legislatore, l’importante è che la riforma della prescrizione e del processo penale entrino in vigore insieme”. Il ministro della giustizia del resto ha già convocato i magistrati (e avvocati) e ha annunciato che in una settimana farà le sue audizioni e in un mese avrà bello e pronto il testo della riforma. Vedremo. Intanto nel pomeriggio di ieri, nelle commissioni, la musica è cambiata. Tutti i giuristi convocati (tranne, parzialmente, uno) hanno demolito l’emendamento 1.124 con il quale i due relatori M5S immaginano di stravolgere l’istituto della prescrizione, inserendolo nella legge anticorruzione. Legge firmata dal ministro Bonafede e battezzata dai 5 Stelle “spazza corrotti”. Nemmeno il nome è sfuggito alle critiche. “Termini del genere rivelano una concezione del diritto come strumento ributtante”, ha detto il professore di diritto penale a Napoli Maiello, “spazza corrotti evoca l’idea di un processo penale usato come strumento di sterminio giuridico”, ha aggiunto il professore Manes, docente della stessa materia a Bologna. Critiche pesanti sono arrivate sul metodo individuato dal governo: “La legge che nel 2017 ha cambiato i termini di prescrizione non ha ancora avuto modo di dispiegare i suoi effetti”, ha ricordato il primo presidente della Cassazione, Mammone; “indicare per legge l’entrata in vigore al 2020 serve a fissare una bandierina”, ha aggiunto il pg della Cassazione Fuzio, richiamando il fatto che come norma “sostanziale” (è nel codice penale, non in quello di procedura) la prescrizione si applicherà comunque solo ai reati commessi dopo l’entrata in vigore. Mentre il presidente del Consiglio nazionale forense, l’avvocato Mascherin, ha detto che “non è possibile che i cittadini debbano restare appesi a un distinguo, M5S afferma che le due riforme, prescrizione e procedimento penale, sono slegate l’una dall’altra, mentre la Lega dice che una dipende dall’altra”. Generale e condivisa la preoccupazione per gli effetti che lo stop alla prescrizione potrà avere sulla durata dei processi di appello. Di riforma come “agente patogeno” ha parlato l’ex primo presidente della Cassazione Canzio, un magistrato tra i più esperti sulla buona organizzazione degli uffici giudiziari. “Per quanto tempo un individuo dovrà essere sottoposto alla spada di Damocle di non conoscere il proprio destino penale?”, si è chiesto retoricamente il professore di diritto penale a Teramo Pisani. “La riforma produrrà un aumento esponenziale dei tempi dei processi e la paradossale impunità proprio dei reati più gravi”, ha aggiunto il professore di diritto pubblico Marini. E non sono mancate le denuncia di incostituzionalità, avanzate da Canzio, Marini, dal costituzionalista Celotto - “mina la ragionevole durata del processo”, mentre il professore di procedura penale a Brescia Bernasconi, chiamato in audizione dalla Lega, di vizi di costituzionalità ne ha trovati addirittura sei. “Un processo lungo non è un processo giusto per nessuno” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 13 novembre 2018 L’Anm presenta la sua “contro-riforma”. Il sindacato delle toghe chiede lo stop della prescrizione solo in caso di condanna: “le nuove norme vanno accompagnate da interventi per accelerare la giustizia”. “Stop della prescrizione solo in caso di condanna e non anche di assoluzione”, “rivisitazione del divieto di aumentare la pena in appello”, “allargamento del novero dei reati per i quali se cambia un giudice non si deve iniziare tutto daccapo”, “redistribuzione delle piante organiche dei magistrati”. Sono solo alcune delle proposte avanzante ieri mattina dal presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Francesco Minisci, in audizione nelle Commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera, in merito alla riforma della prescrizione nell’ambito dell’esame del ddl “spazza corrotti”. “Un processo lungo non è un processo giusto per nessuno, occorre trovare soluzioni per snellire le procedure e accorciare i tempi, trovando il giusto equilibrio. L’interruzione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado è da sempre sostenuta dall’Anm ma è solo uno degli strumenti in puzzle più ampio e articolato, altrimenti rischia di diventare inefficace e non migliorare le cose se non è accompagnata da interventi per accelerare i processi”, ha esordito Minisci, passando quindi ad illustrare le proposte approvate sabato scorso dal Comitato direttivo centrale dell’Anm. Il documento, circa trenta pagine, nelle intenzioni delle toghe dovrebbe garantire “celerità” ed “efficacia” al processo penale, senza intaccarne però le “garanzie”. Una premessa è necessaria: il riferimento a non meglio specificate “pratiche dilatorie” che rallenterebbero il processo, e dunque da correggere, è costante. Senza mai evocarlo, il responsabile per i magistrati sarebbe da individuarsi nella difesa, dato che nessun accenno viene fatto sul 70% dei procedimenti che oggi si prescrivono nella fase delle indagini preliminari, dove il pm è appunto dominus assoluto. Non un parola sul rispetto dei tempi delle indagini o, in tema di garanzie per l’indagato, sui sistemi di verbalizzazione da parte della pg per evitare il ripetersi di altri casi “Consip”. Ma tant’è. Le proposte dell’Anm vanno nel senso di aumentare ulteriormente il potere, già debordante, del pm nel processo penale. Tutte proposte, a detta delle toghe “compatibili con il principio del contraddittorio” che caratterizza il processo penale accusatorio. Eccone alcune. Inserimento fra gli atti interruttivi della prescrizione della notifica dell’avviso ex 415bis cpp, “in quanto contiene l’incolpazione e la manifestazione della volontà punitiva” del pm. In caso di mutamento del giudicante, sia monocratico che collegiale, non sarà più previsto il riascolto dei testimoni, se non su “fatti e circostanze diverse dalle precedenti dichiarazioni”. Escussione a distanza per i testimoni, periti e consulenti tecnici. Ciò per evitare di “sottrarre gli ufficiali di pg alle attività di servizio per le deposizioni, con disagi che si amplificano in caso di distanza fra la sede di sevizio e l’ufficio giudiziario dove devono rendere la testimonianza”. Modifica delle letture consentite nel dibattimento, ampliando la possibilità per il giudice di disporre che sia data lettura di atti redatti dalla pg senza la presenza in aula dell’operante. Ripristino dell’appello incidentale del pm. Pur avendo le Corti di Appello pendenze ingestibili, il pm deve tornare ad impugnare le sentenze di condanna. Come accadeva prima della riforma Orlando del 2017. Infine, il tema delle notifiche. Per le toghe è centrale essendo il “meccanismo ridondante pure in ottica garantista”. Dopo la prima notifica, le altre devono avvenire mediante il difensore. E, per la precisione, “occorre superare il sistema di notifiche con l’ufficiale giudiziario che cerca l’indagato, basterebbe un indirizzo di posta elettronica”, ha puntualizzato Minisci, invitando poi il legislatore a “ripensare alla redistribuzione delle piante organiche dei magistrati, verificando quali sono gli uffici con maggiori sofferenze intervenendo per coprire i vuoti che diventeranno ancora più gravi dopo l’introduzione della “quota 100” in materia di pensioni. L’omicidio stradale? Inutile persecuzione, una legge demagogica e dannosa di Filippo Facci Libero, 13 novembre 2018 “Omicidio stradale” è una denominazione che lasciò perplessi sin dall’inizio, quando la legge fu introdotta il 25 marzo 2016 in uno di quei periodi in cui l’informazione decide di evidenziare fenomeni sempre “notiziabili” (tipo gli stupri, i morti sul lavoro, in questo caso la pirateria stradale) anziché evidenziarne altri. Sta di fatto che se ne parlava nei talkshow e il pubblico sembrava sempre più incazzato. Ma va così: che le leggi improvvisate a furor di popolo, spesso, si rivoltano proprio contro il popolo e contro i giudici che devono applicarle, ma anche contro i figli dei giudici che vi inciampano: è il caso milanese - scoperto da Libero di sabato - della figlia di Ilda Boccassini, che all’inizio di ottobre è stata indagata per omicidio stradale dopo che aveva investito con lo scooter un pedone che attraversava sulle strisce pedonali. Il reato è pacifico (la vittima è morta dopo sei giorni di coma) anche se la dinamica è indiretta, perché lo scooter non ha propriamente investito il pedone ma ne ha comunque provocato una caduta complicata dal fatto che aveva dei sacchetti in mano: ha picchiato la testa. Ma non ci addentriamo: ad Alice Nobili, figlia di fida Boccassini e di un altro magistrato, sono già stati automaticamente ritirati lo scooter e la patente per 5 anni (almeno) e ora s’avvia alla labirintite giudiziaria che non potrà non venirle per riuscire a far rientrare la sua condanna nella parte bassa della forchetta di pena, che parte dai due anni di galera ma, con tutte le varianti possibili, può arrivare sino a 18. È infatti una legge unica al mondo per severità e specificità (nel mondo prevale l’omicidio colposo, previsto in precedenza anche in Italia) ma soprattutto si è rivelato un pasticcio giurisprudenziale e un fallimento sostanziale, visto che, a due anni e mezzo dalla promulgazione della legge, le vittime non solo non sono calate, ma soprattutto sono aumentate le fughe degli automobilisti colpevoli e quindi le omissioni di soccorso: anche perché, a fronte di una legge che prevedeva pene durissime e l’obbligo dell’arresto in flagranza di reato, è difficile che scappare peggiorasse le cose: fermarsi non costituiva un attenuante. Fu una cosiddetta legge di iniziativa popolare ma fu, soprattutto, una chiamata all’opinione pubblica indignata per le sanzioni troppo “basse” a beneficio di certi pirati della strada: la normativa fu imposta con la fiducia dal governo Rent, ma ci si accorse presto che la spada di Damocle della legge non pendeva solo su ubriachi o drogati o pazzi al volante. I giuristi cominciarono a dire che certe pene, per dei reati non volontari, parevano eccessive. Molti notarono che gli incidenti non in strada (tipo se ammazzi uno in mare, investendolo con un gommone) non rientravano nella legge e il giudizio era ancora legato al vecchio omicidio colposo, con pene diverse. Con l’omicidio stradale, invece, bastava che un tizio i ‘scisse in retromarcia da un parcheggio e, senza volere, schiacciasse il piede una passante con la gomma (è successo) perché le lesioni subite dalla vittima superassero i 40 giorni di prognosi e, rilevata l’infrazione stradale, scattasse la reclusione da tre mesi a un anno e la revoca della patente: non restituibile prima di cinque anni che diventano dieci in caso di condanna anche solo in primo grado. Questo per un “pirata della strada” uscito di due metri dal parcheggio Critiche più forbite - ma inosservate - vennero dal procuratore generale della Cassazione durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario del 26 gennaio 2017: in pratica disse che la legge era confusa e andava sistemata, altrimenti, come al solito, avrebbero provveduto i vari giudici un po’ come accade con tutte le leggi italiane, che il legislatore fa e il giudice disfa nell’applicarle: talvolta nel bene e talvolta nel male. Nel caso dell’omicidio stradale, i magistrati hanno rilevato veri e propri errori di matematica nei calcoli delle pene previsti dal legislatore: da un lato avevano scritto che la pena per un conducente che fugge (dopo aver causato un omicidio) “non può essere inferiore a 5 anni”, dall’altra, sommando tutte le aggravanti, non si superavano i quattro. Le cosiddette “lesioni stradali” poi erano disciplinate in maniera diversa dagli articoli 590-bis e 590-ter, mentre altre varianti di applicazione erano disciplinate diversamente a seconda che si guardasse al Codice della strada o al Codice penale. E poi, domanda: chi guida sotto effetto di alcol o droga risponde solo di omicidio stradale aggravato o anche per guida in stato di ebbrezza o sotto effetto di droghe, che è un altro reato ancora? Quale reato assorbe quale? Insomma un casino, al punto che singoli parlamentari ne fecero una battaglia personale, ma i governi successivi hanno sempre rifiutato di rimetterci mano. Così, ancora una volta, fanno tutto i magistrati: aggiustano, smussano, correggono. In caso di prole, si ritrovano i reali anche in casa. Legittimo destituire la toga che accetta favori da imputati di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 13 novembre 2018 Corte costituzionale - Sentenza 12 novembre 2018 n. 197. È legittima la destituzione del magistrato che accetta favori da imputati in processi pendenti presso la sue sede giudiziaria. La Corte costituzionale, con la sentenza 197, considera infondati i dubbi di costituzionalità sollevati dalla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, rispetto alla norma (Dlgs 109/2006, articolo 12, comma 5) che fa scattare in automatico la massima sanzione disciplinare della rimozione, prevista dall’ordinamento delle toghe, per il magistrato che accetti prestiti o agevolazioni, come nel caso esaminato, che non possono essere considerati di scarsa rilevanza, da una persona che la toga sa essere parte, indagata, parte offesa, testimone, o comunque coinvolta in un procedimento presso il proprio ufficio o presso un altro del distretto. L’organo di autogoverno dei giudici avanzava perplessità sull’automatismo della rimozione, che non lascia spazi di valutazione ai probi viri e prescinde da una condanna in sede penale. La Consulta chiarisce che la sanzione è applicabile ai magistrati, ai quali è affidata la tutela dei diritti di ogni cittadino. Un ruolo che mette la magistratura, più di qualunque categoria di funzionari pubblici, nella condizione di tenere una condotta conforme ai più rigorosi standard di imparzialità, correttezza, laboriosità, diligenza e riserbo, come previsto dalla norma sugli illeciti disciplinari dei magistrati. Le toghe, precisa il giudice delle leggi, devono essere imparziali e indipendenti e apparire tali agli occhi della collettività, “evitando di esporsi a qualsiasi sospetto di perseguire interessi di parte nell’adempimento delle proprie funzioni”. Pena il rischio di compromettere la fiducia nella giustizia. E non c’è dubbio che comportamenti come quelli analizzati sono tali da pregiudicare l’immagine di imparzialità agli occhi dei consociati. Considerato il bene tutelato, non è dunque irragionevole la scelta del legislatore di “punire” con la rimozione tutte le condotte che rientrano nell’articolo 3, comma 1, lettera e) del decreto legislativo, caratterizzate dalla piena consapevolezza del magistrato della posizione dei suoi “benefattori”. La norma è idonea a raggiungere l’obiettivo, legittimo, di restituire la fiducia ai cittadini, e non è censurabile neppure sotto il profilo della necessità: non è, infatti, per nulla scontato che con una punizione più mite il fine sarebbe raggiunto. La sanzione è in linea anche con il principio di proporzionalità: in nome di un interesse essenziale per lo Stato di diritto, interferisce, ammettono i giudici delle leggi, in maniera pesante con i diritti fondamentali del soggetto colpito, al quale resta tuttavia la possibilità di intraprendere un’altra professione. Con il solo limite del divieto di continuare a esercitare la funzione giurisdizionale. Antiriciclaggio ad ampio raggio di Dario Ferrara Italia Oggi, 13 novembre 2018 Segnalazione anche per la mera elusione delle norme. L’obbligo per l’intermediario di effettuare la segnalazione antiriciclaggio alle autorità scatta non solo se l’operazione lascia sospettare un reato finanziario ma anche una mera situazione di elusione delle norme. E ciò, ad esempio, perché la società che effettua cospicui prelievi in banca è una piccola impresa sprovvista di un ampio volume d’affari. Risultato? La banca risponde per il direttore di filiale che non ha vigilato sul funzionario, ma con l’entrata in vigore del decreto legislativo 97/2017 può evitare di pagare il 10% delle somme movimentate grazie all’applicazione del favor rei: la disposizione ad hoc consente di applicare le eventuali punizioni meno gravose ai procedimenti di opposizione pendenti contro le sanzioni irrogate nella vigenza della vecchia normativa. È quanto emerge dalla sentenza 28888/18, pubblicata il 12 novembre dalla seconda sezione civile della Cassazione. Ordinaria diligenza. Il ricorso dell’istituto di credito è accolto contro le conclusioni del sostituto procuratore generale soltanto rispetto all’entità della sanzione. Il preposto alla filiale esce dal processo per la contestazione tardiva mentre ora la banca potrebbe risparmiare sulla somma pretesa dal ministero dell’Economia. Nessun dubbio sulla responsabilità della banca: non importa che i pagamenti ricevuti dal legale rappresentante della srl “incriminata” siano tutti tracciabili e provenienti da soggetti conosciuti come imprenditori seri della zona. Né che il prelievo di contanti sia irrilevante per la concorrenza del delitto di riciclaggio, come configurato all’epoca. Conta solo che i movimenti di contanti risultano abnormi rispetto alle dimensioni e alla redditività dichiarata della correntista. È irrilevante che la società cliente operi sempre in attivo e che sia seguita da un funzionario diverso dal responsabile, che deve informarsi su ciò che accade nella filiale che dirige. Regola e deroga. L’articolo 69 del decreto legislativo 90/2017 deroga al principio generale dell’irretroattività delle leggi ex articolo 11 delle preleggi. Il favor rei non può essere escluso dalla clausola d’invarianza economica: il credito non può essere ritenuto entrata stabile dell’erario perché dipende dall’esito incerto della lite giudiziaria. Parola al giudice del rinvio. Diritto di visita, la distrazione del genitore non comporta responsabilità penale di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 13 novembre 2018 Tribunale di Bari - Sezione I Penale - Sentenza 15 maggio 2018 n. 702. Il genitore non affidatario durante il tempo in cui ha la custodia del proprio figlio nell’esercizio del diritto di visita ha l’obbligo giuridico di vigilare sul minore ed è responsabile per la sua incolumità. Tuttavia, se distraendosi non si accorge che il figlio si è allontanato da casa, non può essere condannato per il reato di abbandono di minori per difetto dell’elemento psicologico del reato. Per la responsabilità penale, infatti, non basta l’imprudenza e negligenza del suo comportamento. Ad affermarlo è il Tribunale di Bari con la sentenza 702/2018. Il caso - L’episodio che ha dato origine alla vicenda penale ha visto come protagonista un bambino di 4 anni, figlio di genitori separati, il quale una domenica sera di ottobre veniva trovato da un agente dei Carabinieri su un marciapiede da solo e privo di scarpe e giubbotto. Prontamente soccorso, il bambino affermava di volersi recare presso la casa della madre, dopo aver trascorso il pomeriggio con il padre. A seguito delle dovute indagini, l’uomo veniva tratto a giudizio per rispondere del reato di abbandono di persone minori o incapaci, previsto dall’articolo 591 c.p., in quanto non si era accorto del tentativo di fuga da parte del figlio, in sua custodia nell’esercizio del diritto di visita concordato con la madre. Durante il dibattimento, poi, si delineavamo meglio i contorni della vicenda. Emergeva, infatti, che padre e figlio si erano addormentati a casa, stanchi per aver trascorso il pomeriggio nel bosco, con il piccolo che, una volta svegliatosi, decideva di tornare da solo a casa della madre. La decisione - Il Tribunale analizza la vicenda e passa in rassegna la giurisprudenza di legittimità sulla fattispecie prevista dall’articolo 591 c.p.. Ebbene, l’elemento oggettivo di tale reato è integrato da “qualsiasi condotta, attiva od omissiva, contrastante con il dovere giuridico di cura (o di custodia), gravante sul soggetto agente, da cui derivi uno stato di pericolo, anche meramente potenziale, per la vita o l’incolumità del soggetto passivo”. È evidente, dunque, afferma il giudice, la sussistenza nella fattispecie del dovere di cura e custodia dell’uomo, il quale aveva l’obbligo giuridico di vigilare sul figlio nel tempo di affidamento concordato con la madre di quest’ultimo. Ciononostante, precisa il Tribunale, “evidente risulta l’assenza dell’elemento psicologico richiesto dalla norma: l’imputato verserebbe tutt’al più in colpa, e in particolare, in imprudenza e negligenza per essersi addormentato e non aver predisposto le cautele necessarie atte ad evitare che il figlio potesse uscire di casa da solo”. E ciò basta a evitare una condanna penale per il padre distratto. Sicilia: 40 borse di studio per la formazione dei figli dei detenuti di Marta Silvestre meridionews.it, 13 novembre 2018 Il Garante: “Sosteniamo le famiglie, prima volta in Italia”. Un budget di 20mila euro per 40 finanziamenti a giovani meritevoli con condizioni economiche disagiate. “È l’unico strumento per un’evoluzione. I ragazzi possono diventare motore di cambiamento per tutto il nucleo”, dice Giovanni Fiandaca a MeridioNews. “Lo studio è lo strumento principale che permette un’evoluzione culturale, sociale e, più in generale, di miglioramento delle condizioni di vita”. C’è questa idea alla base dell’istituzione delle borse di studio per i figli dei carcerati voluta dall’ufficio del garante dei diritti dei detenuti di Sicilia, Giovanni Fiandaca. Saranno finanziate con “una parte del budget delle risorse messe a disposizione del mio ufficio per il suo funzionamento”. L’iniziativa pilota in Italia è stata possibile grazie alla “legge regionale istitutiva dell’ufficio del garante - spiega Fiandaca a MeridioNews - che attribuisce tra le funzioni anche quella di venire in aiuto delle famiglie dei detenuti. Io credo che tra le forme di ausilio previste, questa sia una delle più intelligenti”. Quaranta borse di studio in tutto con a disposizione un budget complessivo di 20mila euro: trenta - del valore di 400 euro ciascuna - sono rivolte a giovani che hanno conseguito il diploma di terza media nell’anno scolastico 2017/2018 e che vogliono continuare la formazione scegliendo un istituto superiore; le restanti dieci - del valore di 800 euro ciascuna - destinate, invece, a giovani diplomati che hanno deciso di iscriversi all’università. Ulteriori 10mila euro restano a disposizione nel caso in cui si verifichino del ex aequo. “Spesso i detenuti vengono da famiglie disagiate e creano famiglie disagiate dal punto di vista sociale ed economico. A causa di queste precarie condizioni di partenza - illustra Fiandaca - i loro figli non hanno possibilità di continuare a studiare oltre l’obbligo previsto, così abbiamo deciso di declinare questa competenza aiutando ragazzi meritevoli e in stato di difficoltà economica per fare in modo che possano acquisire strumenti e competenze, diventando anche motori di cambiamento all’interno del nucleo familiare a cui appartengono”. Per i giovani figli di detenuti in tutte le carceri siciliane che desiderano proseguire gli studi sarà possibile partecipare al bando (entro il 20 dicembre) la cui graduatoria terrà conto tanto del merito scolastico (voto del diploma) del ragazzo, quanto delle condizioni economiche della famiglia (situazione Isee). Il comunicato dell’Ufficio del Garante Nell’anno in cui Palermo è Capitale della Cultura, l’Ufficio del Garante dei diritti dei detenuti di Sicilia lancia un’iniziativa che guarda alla formazione delle nuove generazioni, incentivando lo studio dei figli di detenuti e di condannati in esecuzione penale esterna. Un bando già operativo, pubblicato sulla pagina web dell’Ufficio del Garante (accessibile dal sito della Regione Sicilia) e che sarà pubblicato anche in Gazzetta Ufficiale della Regione Sicilia. “Tra gli interventi che il Garante in base alle competenze normativamente assegnategli può mettere in atto - spiega Giovanni Fiandaca - c’è il sostegno alle famiglie di chi è sottoposto a misure detentive. Abbiamo deciso di declinare questa competenza aiutando i ragazzi meritevoli e in stato di difficoltà economica affinché, se lo desiderano, possano proseguire gli studi, acquisendo strumenti e competenze per il futuro e diventando motori di cambiamento anche all’interno del nucleo familiare a cui appartengono”. L’iniziativa è pilota in Italia e mette a disposizione 20 mila euro per 40 borse di studio in tutto. Trenta, del valore individuale di 400 euro, sono rivolte a giovani che hanno conseguito nell’anno 2017/2018 il diploma di terza media; 10 invece, del valore individuale di 800 euro, sono destinate a chi avendo già conseguito il diploma, decida di iscriversi all’università nell’anno accademico 2018/2019 (per partecipare alla selezione bisogna già aver fatto l’iscrizione). A disposizione, altri 10 mila euro, nel caso ci siano ex aequo. La graduatoria sarà stilata tenendo conto del voto di diploma e della situazione Isee, così da premiare il merito e incoraggiare i ragazzi più talentuosi che rischiano di non proseguire negli studi per le difficoltà economiche della famiglia. Le istanze dovranno essere trasmesse entro il 20 dicembre (farà fede il timbro postale), esclusivamente a mezzo raccomandata postale (con avviso di ricevimento) all’indirizzo: Ufficio del Garante regionale dei diritti dei detenuti, Viale Regione Siciliana 2246, 90135 Palermo. Nel caso di minorenni, la domanda dovrà essere presentata da un genitore, i maggiorenni potranno invece inoltrare tutto in prima persona. In entrambi i casi, l’istanza (ai sensi degli artt. 46, 47 del D.P.R. 145/2000 e nella piena consapevolezza del contenuto dispositivo degli artt. 75 e 76) dovrà contenere: il codice fiscale di chi sottoscrive la domanda; il nome e il cognome del genitore in esecuzione penale, il luogo e la data di nascita del genitore e l’istituto penitenziario ove è eventualmente recluso; la dichiarazione sostitutiva di certificazione con la quale l’istante dichiara la composizione del proprio nucleo familiare e la residenza, la condizione di condannato in esecuzione di pena del genitore, la data di nascita e il voto del diploma di scuola media/superiore conseguito dallo studente beneficiario, l’anno del conseguimento e l’istituto scolastico relativo con indicazione della via, numero civico, città e c.a.p. di quest’ultimo; la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà di non aver presentato istanza, né di aver ricevuto altre borse di studio, premi, sussidi o assegni di studio erogati da altre amministrazioni o enti per l’anno accademico 2018-2019; dichiarazione sostitutiva di certificazione di avvenuta iscrizione dello studente beneficiario al primo anno di università. Sempre all’interno della domanda dovrà essere specificata la modalità di pagamento prescelta per ricevere la borsa di studio tra: accredito in conto corrente bancario o postale con indicazione del codice Iban; oppure la quietanza diretta presso la Cassa della Regione Siciliana. Bisognerà inoltre allegare alcuni documenti: fotocopia del documento di identità, in corso di validità, di chi sottoscrive l’istanza; fotocopia del codice fiscale di chi sottoscrive l’istanza; certificazione ISEE ordinario del nucleo familiare dello studente beneficiario. Le graduatorie entro 60 giorni dalla scadenza del bando. Napoli: la Federico II va in carcere, attivati i corsi di laurea e le matricole sono già 75 di Fabrizio Geremicca Corriere del Mezzogiorno, 13 novembre 2018 Da Giurisprudenza a Economia, il rettore firma la convenzione. L’anno accademico comincerà il 15 gennaio. Esoneri per le tasse. La più gettonata è Giurisprudenza, con una ventina di immatricolati. Scienze nutraceutiche ed Erboristeria mettono insieme un’altra ventina di iscritti. Poi Economia, Storia, Servizio Sociale, Urbanistica. Sono alcuni dei corsi di laurea scelti dai detenuti che a gennaio inizieranno la propria carriera universitaria alla Federico II. L’anno accademico partirà il 15 gennaio e sarà una novità perché finora mai in Campania sono state organizzate sistematicamente lezioni universitarie in carcere. Il primo passo lo muove ora l’ateneo Federico II, sulla base di una convenzione stipulata tra il rettore Gaetano Manfredi e Giuseppe Martone, il provveditore agli istituti penitenziari della regione. Gli studenti dietro le sbarre che hanno deciso di lanciarsi nell’avventura sono 75. I più giovani hanno una ventina di anni, i più anziani sono oltre i quaranta. Alcuni, per frequentare, hanno chiesto di essere trasferiti a Napoli da altri istituti di pena, per esempio da quello di Santa Maria Capua Vetere. I docenti terranno per loro i corsi all’interno del penitenziario di Secondigliano. Uno spazio è riservato a chi è in regime di alta sicurezza ed un altro a chi è in regime di media sicurezza. Esonero dalle tasse e prestito librario attraverso le strutture bibliotecarie della Federico II aiuteranno le matricole recluse ad affrontare il primo anno universitario. Ci sarà anche una inaugurazione dell’anno accademico che, però, ancora non è stata definita nel dettaglio. “Non è certo la prima volta - ricostruisce Marella Santangelo, che è una delle animatrici della iniziativa ed insegna ad Architettura - che i detenuti si iscrivono all’università. Non potendo frequentare le lezioni, però, si sono sempre limitati a preparare gli esami, per quanto possibile, da soli. Questo progetto propone qualcosa di completamente diverso. Siamo noi professori che entriamo in carcere a tenere i corsi, per garantire agli studenti la possibilità di frequentare pur non potendo uscire dal penitenziario. Mi pare importante per attuare la Costituzione, laddove parla di finalità rieducativa della pena”. Napoli non è la prima esperienza di polo penitenziario universitario in Italia. “Una bella realtà - sottolinea Santangelo - è per esempio quella di Sassari. Sto studiando il regolamento che lì sovrintende alle immatricolazioni ed al funzionamento dei corsi di studio all’interno del penitenziario e mi pare molto ben costruito”. Prevede tra l’altro, in relazione agli stranieri privi di permesso di soggiorno, che la presenza in Italia per l’esecuzione della pena debba considerarsi come presenza legale e, quindi, dà titolo all’iscrizione all’Università, “purché il periodo di detenzione sia uguale o superiore alla durata legale del corso di studi al quale il detenuto intende iscriversi”. Commenta Samuele Ciambriello, il garante dei detenuti in Campania: “Un’ottima notizia. Spero ed auspico che aderiscano anche altri atenei, affinché si allarghi l’offerta formativa. Per esempio, sarebbe molto apprezzato un corso di studi in Scienze motorie”. E aggiunge: “C’è una criticità da superare nel progetto: non è stato ancora individuato uno spazio per le lezioni delle donne. È utile, lo si faccia subito piuttosto che posticipare la scelta al momento in cui arriveranno le richieste da parte delle detenute”. Ma quanti sono gli studenti universitari tra i reclusi negli istituti penitenziari italiani? “Secondo i dati di un anno fa - risponde il garante - 300 su una popolazione carceraria di 58.000 persone. Molto più numerosi sono naturalmente i detenuti che frequentano la scuola in carcere. In Campania lo scorso anno se ne sono diplomati 300”. Ferrara: sovraffollamento al 150%, moltiplicati gli sforzi per la rieducazione di Martin Miraglia estense.com, 13 novembre 2018 La Garante dei detenuti sull’Arginone: muffa nelle docce e telecamere non funzionanti, ma molte attività per la reintegrazione sociale. “Leggere gli scritti sulle carceri del 1800 e quelli di adesso sembra la stessa cosa: anche allora si parlava di spazi angusti, di dignità e di sovraffollamento”, anche se in tutto questo il carcere di Ferrara “pecca come tutte le costruzioni carcerarie degli anni ‘80: ci sono infiltrazioni d’acqua in alcuni settori, dell’umidità in alcune zone ma non abbiamo una struttura con spazi ‘terribili’, anzi rimane dignitosa”. Parola della garante dei detenuti Stefania Carnevale, che lunedì ha presentato in consiglio comunale il report annuale sulle sue attività che, seppur in un contesto in via generale di relativo benessere dei detenuti continua a scontare criticità importanti comuni agli altri istituti penitenziari italiani: ci sono morti per cause naturali e suicidi, un accesso tardivo alle cure, un serio sovraffollamento e una scarsa visibilità all’interno delle celle. La popolazione carceraria, nello scorso anno, si è mantenuta costante tra le 350 e le 370 presenze a dispetto di una capienza regolamentare di 244 posti, il che porta a un tasso di sovraffollamento che si aggira intorno al 150%. “Stando alla capienza regolamentare, la casa circondariale di Ferrara è un istituto gravemente sovraffollato. L’ingombro dei due letti, quando alloggiati l’uno dirimpetto all’altro, rende notevolmente sacrificati gli spazi di movimento all’interno delle camere. La soluzione del letto a castello, adottata in molte camere di detenzione, rende più vivibile lo spazio diurno, creando tuttavia ad alcuni disagio per le ore notturne. Le camere sono tutte poste su un solo lato dei reparti detentivi, senza che nessuna fronteggi un’altra. Gli arredi, oltre ai due letti a castello o appoggiati ai muri più lunghi, sono completati da un tavolino, uno scaffale a muro con piccoli vani contenitivi e uno sgabello. Sono ancora precluse nei nostri istituti le sedie con schienale, il che comporta per alcuni detenuti sofferenti di schiena notevoli disagi”, scrive la garante nella sua relazione dalla quale attinge per la presentazione in consiglio riportandone ampi stralci. Non è solo questo: non arriva l’acqua calda quando ci sono molte docce in funzione, gli impianti di areazione dei bagni non funzionano e gli stessi sono spesso ammuffiti e le finestre delle celle “non sono solo protette da sbarre ma da fitte schermature metalliche a rete che limitano fortemente il passaggio dell’aria e impediscono ai detenuti di guardare fuori, almeno per lo scorcio di spazio del loro alloggio. I detenuti lamentano cali della vista dovuti al costante sforzo di guardare fuori attraverso le strette fessure, e durante i mesi estivi la griglia si surriscalda contribuendo a incrementare ulteriormente la temperatura degli ambienti. E poi quasi tutte le telecamere installate all’interno del penitenziario non funzionano”. Una situazione difficile - anche se “il resto degli ambienti sono ben puliti, tenuti e decorosi”, resa ancora più complicata dal sotto organico degli agenti di polizia penitenziaria rispetto a quanto richiesto in un istituto che comprende tutte le sezioni carcerarie ad eccetto della femminile e del 41bis, le cui custodie cautelari rappresentano il 22% del totale delle presenze e il cui 60% dei detenuti definitivi è lì per aver ricevuto pene inferiori a cinque anni. Tutti motivi per i quali sono tante e variegate le attività messe in campo con le diverse amministrazioni locali per rispondere al principio costituzionale della rieducazione del condannato: “Il carcere di Ferrara è una realtà vitale, che ha moltiplicato negli ultimi anni gli sforzi verso queste direzioni impresse dalla Carta costituzionale al nostro sistema penale. Sono moltissime le attività e le azioni intraprese per la salvaguardia dei diritti delle persone private della libertà e per la loro reintegrazione sociale. La percezione della realtà cambia molto tra la popolazione generale e chi, almeno una volta, viene a vedere di persona cos’è e come si sta un carcere. Con pene spesso così basse vuol dire rieducare persone che saranno i nostri prossimi concittadini, i nostri prossimi vicini di casa”, spiega Carnevale che poi annuncia come da quest’anno anche l’anagrafe è presente per 4 ore ogni bimestre perché “avere i documenti in regola è la chiave per avere accesso a moltissimi servizi”. All’interno della struttura gli stranieri - che comunque non riflettono la popolazione generale né l’andamento della criminalità locale per via dei trasferimenti tra le carceri - non arrivano a 140 (il 36% della popolazione carceraria), seguiti da uno sportello di mediazione culturale, mentre i tossicodipendenti sono un’ottantina (il 22%), 25 i protetti, 30 i collaboratori di giustizia e 7 i detenuti nella sezione ad alta sicurezza oltre a 15 semiliberi. 92 sono infine i detenuti ammessi a varie forme di lavoro, dai servizi d’istituto al lavoro volontario intramurario o esterno o in pochissimi casi con un impiego retribuito da enti esterni. A garantire il diritto alla salute c’è un presidio dell’Asl che si compone di 6 medici e 10 infermieri che garantiscono una copertura h24, oltre agli specialisti dall’esterno che però arrivano solo dall’ospedale di Cona “con notevoli complicazioni organizzative e spesso ritardi perché non si può, come facciamo noi, fare riferimento ad un’altra struttura”. Nonostante questo però, nei primi otto mesi di quest’anno si segnalano 43 atti di autolesionismo e 38 scioperi della fame o della sete - con un trend che pare in calo dallo scorso anno. Nell’ultimo anno solare poi sono state due le morti per cause naturali, a novembre dello scorso anno e ad agosto, oltre a un suicidio di un giovane appena arrestato e in attesa della convalida del provvedimento il 17 agosto. Trieste: Rojc (Pd) “grave l’assenza di mediatori culturali, il 60% dei detenuti è straniero” di Zeno Saracino triesteallnews.it, 13 novembre 2018 Il carcere di Trieste soffre da tempo di una carenza tanto di polizia penitenziaria, quanto di personale assistenziale, nella forma di specialisti e mediatori culturali. La cronica mancanza di fondi, ignorata dalle istituzioni, ha portato a tragici casi, come il suicidio dello scorso ottobre 2018 di un soggetto che da tempo soffriva gravi problemi psichiatrici. “Il carcere di Trieste è una realtà che merita decisamente maggiore attenzione da parte della politica, che si interessa troppo poco all’universo penitenziario”. Lo ha ribadito la senatrice del Pd Tatjana Rojc, che ieri si è recata in visita al carcere “Ernesto Mari” di Trieste, dove ha incontrato il direttore reggente Ottavio Casarano, assieme a rappresentanti della Polizia penitenziaria, dell’area pedagogica e amministrativa. “In primo luogo il carcere di Trieste ha bisogno che gli sia assegnato un direttore - ha rilevato Rojc - che si occupi a tempo pieno della struttura, senza essere costretto a dividersi tra altre carceri e farsi carico di altre incombenze, come accade oggi al direttore Casarano, che pure ci mette grande passione. Fermare la turbinosa rotazione dei direttori un presupposto essenziale per fare programmazione a medio-lungo termine e permettere un’interlocuzione stabile e diretta con le strutture”. Attualmente, Casarano regge anche l’Ufficio di esecuzione penale esterna di Trieste e Gorizia, è coordinatore dell’Ufficio del contenzioso del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria di Padova, nonché direttore in missione del carcere di Udine. Una situazione comunque non semplice, quella del Coroneo dove, con una capienza di 139 posti regolamentari, sono reclusi 206 detenuti, a vigilare sui quali è chiamata una forza di 105 agenti di Polizia penitenziaria, mentre l’organico ne prevede 143. Per la senatrice “è grave l’assenza assoluta di mediatori culturali, soprattutto in un carcere in cui circa il 60% dei detenuti è straniero. Gli educatori e lo stesso personale di Polizia penitenziaria suppliscono volontariamente come possono, ma è chiaro che bisogna porre rimedio a questa mancanza. Il lavoro di risocializzazione svolto dagli educatori è davvero encomiabile, ma potrebbe essere ancora più efficace se l’accesso al lavoro per i detenuti non fosse stato reso così farraginoso da risultare quasi impossibile, oltre che disincentivante anche per i soggetti privati che dovessero rendersi disponibili. Inoltre, da maggio, non sono stati ancora finanziati dalla Regione i bandi per la formazione, che riguardano tutte le carceri del Friuli Venezia Giulia”. “La politica deve conoscere il carcere - ha osservato Rojc - e tutti mondi che vi gravitano intorno, mentre quasi sempre finisce per essere l’imbuto in cui si gettano tutti i problemi che non si riesce a risolvere altrimenti, dal disagio mentale, a quello sociale ai problemi connessi ai fenomeni migratori. E non si pensa che un sistema carcerario messo in condizione di fare il suo dovere, cioè di rieducare oltre che punire, è una risorsa per la società, anche - ha concluso - in termini di sicurezza e pace sociale”. Ivrea (To): carcere senza soldi per forniture e manutenzione “va chiuso subito” quotidianocanavese.it, 13 novembre 2018 Personale ridotto all’osso, debiti con i fornitori, impianto antincendio non funzionante e persino l’impianto idrico a rischio legionella. Per questo motivo l’Osapp, il sindacato autonomo della Polizia Penitenziaria, ha chiesto al Ministro della giustizia, Alfonso Bonafede, la chiusura immediata del carcere di Ivrea. In una lunga lettera, inviata dal sindacato anche al Prefetto e al Presidente della Corte di Appello di Torino, si fa riferimento e numerose criticità, alcune delle quale lamentate ormai da anni. “Alla Casa Circondariale di Ivrea il personale di Polizia penitenziaria e persino i detenuti versano in condizioni lavorative, di vivibilità strutturale e gestionale, ai limiti se non, probabilmente, al di fuori della legalità e sicuramente fuori da ogni più elementare forma di organizzazione e gestione prevista per un qualsiasi istituto penitenziario che non sia presumibilmente attribuibile ai paesi, con tutto il dovuto rispetto, del terzo mondo”, sottolinea il segretario generale Leo Beneduci. Tra i problemi segnalati, “l’istituto di Ivrea risulterebbe oberato di debiti con i vari fornitori e non vi sarebbero più fondi neanche per acquistare delle lampadine; dall’inizio di ottobre l’impianto antincendio non è funzionante; gli allarmi anti-scavalcamento e anti-intrusione sarebbero parzialmente o totalmente fuori uso ed ormai non riparabili in quanto di vecchia dotazione; l’impianto dell’acqua sarebbe a rischio legionella come segnalato dall’Asl; la carenza di personale di ogni ordine e grado rende difficilissima la gestione dell’intero istituto”. Palermo: “Morte per pena”, folla al convegno del Partito Radicale di Giuseppe Bianca La Sicilia, 13 novembre 2018 “Non servono nuove carceri, ma carceri nuove”. “Morte per pena” il tema della conferenza sul sovraffollamento e la sanità in carcere che si è svolta ieri a Palermo, promossa dal parlamentare regionale Vincenzo Figuccia. All’incontro hanno preso parte i dirigenti del Partito Radicale Rita Bernardini, Donatella Corleo e Sergio D’Elia e l’ex presidente della Regione, il medico ed ex detenuto Totò Cuffaro. Il tema resta scottante anche in considerazione del crescente numero di suicidi. I dati aggiornati al 31 ottobre, forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, parlano di 59.803 persone detenute in Italia, contro una capienza regolamentare di 50.616 posti. Vincenzo Figuccia, che si è intestato negli ultimi mesi una solida battaglia su questo argomento, ha sottolineato la drammaticità degli ultimi dati pervenuti dal dipartimento Amministrazione Penitenziaria. “Una vera e propria involuzione del nostro sistema - dice il parlamentare - che va risolta al paio con i diritti dei familiari dei detenuti, quei “detenuti virtuali” che troppo spesso vengono confinati e stipati in spazi per nulla idonei”. Non ha fatto mancare la sua opinione Totò Cuffaro: “Entrare in carcere - ha detto - ci priva non della libertà, ma delle libertà. L’Unione Europea impone che per allevare maiali sia previsto uno spazio di almeno 7 metri quadri per ogni unità e l’allevatore è tenuto a rispettare questa misura. Non vedo e non concepisco il perché non si debba fare altrettanto per l’uomo, rispettando la dignità che gli è propria”. E dunque per l’ex governatore che ha scontato la pena per favoreggiamento alla mafia “non servono nuove carceri ma carceri nuove”. Devono essere “carceri rispettose della dignità delle persone, più rispettose della nostra Costituzione, che prevede che scontare una pena non è un castigo ma una rieducazione. Così come la pena deve essere rieducativa non punitiva, le carceri devono essere più a contatto con il mondo esterno in maniera tale che chi vuole rieducarsi lo passa fare e serve che il detenuto venga seguito ritrovando una dimensione umana”. Per Rita Bernardini, presidente del Partito Radicale “la ragionevole durata dei processi prevista dall’art. 111 della Costituzione e dall’art. 6 della Cedu, oggi in Italia, non è assicurata. Sentenze che arrivano a troppi anni di distanza dal reato mentre nel nostro Paese ci sono 1000 errori giudiziari all’anno”. Intervenendo Sergio D’Elia, ha ricordato il “motto paolino” di cui Pannella ha fatto tesoro e linea di condotta nella sua vita, “spes contra spem”. “È sempre attuale - dice D’Elia - perché proprio nei momenti bui della vita di un Paese e di ogni singola persona non bisogna mai abbandonarsi alla sfiducia e alla disperazione ma combattere per cambiare la realtà che ci opprime”. Durante la Conferenza, i partecipanti sono stati invitati a firmare le “Otto proposte di legge di iniziativa popolare contro il regime” su amnistia, misure di prevenzione, informazioni interdittive, scioglimento dei comuni per mafia, ergastolo ostativo, riforma della Rai, leggi elettorali e incarichi extragiudiziari dei magistrati. Prato: convegno sulla detenzione femminile “tutelare i figli minori e promuovere il lavoro” di Fabrizia Prota Il Tirreno, 13 novembre 2018 È quanto è emerso dal confronto che si è tenuto in palazzo comunale a Vernio per la festa del patrono San Leonardo, protettore dei carcerati. Le donne sono il 4% della popolazione detenuta. L’avvocato Augustin: “Importante riconoscere la differenza di genere”. Il mondo della detenzione femminile, tra maternità e lavoro in carcere. Se ne è discusso sabato 10 novembre nella sala consiliare di palazzo comunale a Vernio nel confronto organizzato in occasione della festa del patrono San Leonardo, protettore dei carcerati. L’iniziativa è stata promossa dal Comune di Vernio e dalla parrocchia di San Quirico con Confartigianato Donne Impresa e il Movimento per la vita di Prato. Tra le tematiche emerse, una riflessione sul fatto che il carcere sia per lo più pensato su un modello maschile o meno e su quanto questo possa rendere l’esperienza carceraria ancora più dura per le donne detenute. Dopo il saluto del sindaco Giovanni Morganti, che ha ricordato l’impegno del Comune di Vernio nell’approfondire ogni anno le problematiche carcerarie, sono intervenute - moderate da Maria Cristina Caputi de La Voce - l’avvocato penalista Elena Augustin, Cristina Pacini di Donne impresa - Confartigianato, presidente del Movimento per la vita di Prato Benedetta Nuti, la funzionaria giuridico pedagogica del sistema carcerario Maria Bruschetta, garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Prato Ione Toccafondi e ispettore superiore della polizia penitenziaria di Prato Francesco Lisci. L’iniziativa è stata organizzata dall’assessore comunale alla Cultura Maria Lucarini. In Italia le carceri femminili sono quattro (Trani, Pozzuoli, Roma-Rebibbia, Venezia-Giudecca) e 50 le sezioni femminili di carceri maschili, mentre le donne rappresentano circa il 4% della popolazione sottoposta a detenzione. L’avvocato Augustin ha evidenziato che solo le detenute madri hanno tutele diverse dagli uomini e ha auspicato che venga concretamente riconosciuta la differenza di genere. Si è parlato anche di detenute madri e di presenza dei minori (di età inferiore ai tre anni) in carcere. Ione Toccafondi ha insistito sulla necessità di rafforzare l’istituto degli Icam, cioè quelle strutture che, sul modello della casa-famiglia, sono in grado di accogliere madri e figli in un contesto adeguato a proteggere e far crescere i piccoli. Molti interventi hanno messo in evidenza la funzione fondamentale del lavoro nel processo di rieducazione. Non mancano le esperienze pilota in questo ambito come quelle promosse dalla Caritas (“Non solo carcere”) e il progetto Quid di Confartigianato che inserisce le donne in un’attività di produzione di abbigliamento. Padova: convegno avvocatura “processi sui media, spesso una scusa per intrattenere” di Renzo Mazzaro Il Mattino di Padova, 13 novembre 2018 L’Ordine degli avvocati discute il modo con cui giornali e televisioni trattano i procedimenti giudiziari. “Ma va garantito il diritto di cronaca”. Gli avvocati di mezza Italia mettono sotto processo il diritto di cronaca. Lo hanno fatto da Padova con un convegno dal titolo mellifluo: “Virtù e limiti del processo mediatico”. Da alleati dei giornalisti, viene da pensare, a giudicare dalla scelta di mettere le “virtù” davanti ai “limiti”. Ma basta ascoltare il saluto del presidente delle camere penali Gianni Morrone per capire fin dalla mattina che il vento dominante tira nella direzione opposta. “L’esposizione dei fatti necessariamente parziale, spesso fuorviante”, si chiede Morrone, che pure in carriera ha difeso fior di giornalisti, “fondata su regole tempi e modi che non sono quelli del processo, ha un ruolo nell’ansia di giustizialismo che monta?”. Va da sé che la risposta è sì. Anche perché giustizialismo non è il bisogno elementare di giustizia, che verrebbe prima, ma di cui pochi si curano. Non a caso partorisce poi il giustizialismo. C’è un distinguo tra la carta stampata, che ci arriva fredda, dunque più meditata (lo dice il direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana, dunque bisogna crederci) e la tv che va in diretta, dove la spettacolarizzazione piega la cronaca alle esigenze dell’audience (ma non c’è nessun direttore di tv a contestare: peccato). Nel mezzo le relazioni di calibri da novanta del diritto penale. E gli interventi di Francesco Petrelli del foro di Roma, autore di un libro bianco delle camere penali, di Nicola Recchia ricercatore di Francoforte e della padovana Paola Rubini responsabile dell’osservatorio Europa. Tutti da angolazioni diverse denunciano la deriva di trasmissioni tv che ormai fanno un processo parallelo, in Italia (da Chi l’ha visto a Quarto grado) ma anche all’estero (in Germania si era arrivati al sondaggio tv sul processo in corso: secondo voi è colpevole o innocente?). “L’imputato del processo vero diventa il bersaglio del processo mediatico”, dice Francesco Rossi presidente dell’Ordine padovano. “La persona perde dignità, schiacciata dalla sbrigatività televisiva, che affastella testimoni, esperti, procedure, indipendentemente dalle conoscenze reali, spesso inesistenti, per arrivare ad una verità che è sempre la stessa: condanna”. Insomma, le virtù del processo mediatico sono a zero. Ma si può fare onestamente a meno dell’informazione televisiva sui processi? “Non è questione di carta stampata o tv, il diritto di cronaca deve essere garantito”, sintetizza il senso del convegno Giuseppe Pavan, motorino dell’organizzazione. “Il problema nasce quando si perde interesse per la cronaca giudiziaria e il processo penale diventa una scusa per l’intrattenimento, addirittura per celebrare un processo in confutazione di quello vero. Questo influenza testimoni, avvocati, giudici, ha ricadute pericolose. È un problema reale, del quale bisogna prendere atto per intervenire”. Roma: il film sul caso Cucchi alla Camera. Salvini: “Non ho tempo per il cinema” Corriere della Sera, 13 novembre 2018 A Montecitorio la proiezione di “Sulla mia pelle” con il regista Cremonini e Ilaria Cucchi. Il vicepremier leghista: “Il presidente della Camera fa le sue scelte”. Il film su Stefano Cucchi sarà proiettato martedì a Montecitorio. Alla proiezione della pellicola “Sulla mia pelle”, voluta dal presidente della Camera Fico, saranno presenti anche il regista Alessio Cremonini e Ilaria Cucchi, sorella del geometra romano morto in carcere. La presentazione del film viene trasmessa in diretta web tv sul sito della Camera. Non parteciperà il vicepremier e ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Che con Ilaria aveva avuto un duro scambio social sulla vicenda del carabiniere Francesco Tedesco (che con le sue ammissioni sul pestaggio di Cucchi ha dato una svolta al processo), che aveva pubblicato una sua foto in costume al mare. L’allora capo del Carroccio commentò così, nel gennaio 2016, a “La Zanzara” su Radio 24: “Capisco il dolore di una sorella che ha perso il fratello, ma mi fa schifo. È un post che mi fa schifo”. “Domani sono molto impegnato” ha risposto il leader leghista a chi gli domandava di una sua possibile partecipazione alla proiezione. “Il presidente della Camera fa le sue scelte”, ha aggiunto parlando dell’iniziativa. Ma il film lo ha visto? “Non ho molto tempo per andare al cinema”, la replica. Il film “Sulla mia pelle”, oltre che nei circuiti cinematografici, dal mese scorso viene proiettato anche su iniziativa delle università e delle amministrazioni locali. A Milano, ad esempio nell’Aula Magna dell’Università Statale si sono presentati in oltre mille studenti (ma la capacità dell’aula era di 500). A Torino, la proiezione era stata boicottata dall’Anec - Associazione italiana esercenti cinematografici per la messa in onda simultanea su Netflix. Appena tre giorni fa, il II municipio di Roma, la città dove Stefano viveva ed è morto, ha organizzato una visione nel quartiere universitario. Saluzzo (Cn): teatro nel carcere, “Fuori di testa” per finalità di cuore di Vilma Brignone targatocn.it, 13 novembre 2018 Sabato 1 dicembre replica speciale dello spettacolo dei detenuti del Morandi. Il ricavato per l’acquisto di un forno da pane per i carcerati della capitale del Burkina Faso. “Fare il pane per garantire una pagnotta al giorno”. Obbligatoria la prenotazione entro il 23 novembre. “Fuori di Testa” lo spettacolo prodotto per il 2018 dai detenuti del carcere Morandi di Saluzzo, replicherà in via speciale sabato 1 dicembre alle 15, per una finalità di “cuore” che lega la realtà carceraria saluzzese con un’altra africana. Il ricavato della vendita dei biglietti (10 euro) contribuirà all’acquisto di un forno da pane per i detenuti del carcere della capitale del Burkina Faso. L’iniziativa nasce su proposta dell’Associazione saviglianese “Noi con voi”, nelle persone della presidente Gabriella Piano e dei volontari, impegnati in diversi progetti di cooperazione umanitaria in Africa. Uno di questi riguarda proprio le attività svolte nel carcere della capitale del Burkina Faso. Il problema più grave ed urgente, segnalano è la fame. Per questo motivo l’Associazione si è impegnata ad organizzare, per i detenuti locali, corsi di panificazione al fine di poter garantire una pagnotta di pane al giorno. Voci Erranti che da anni organizza i laboratori teatrali in carcere a Saluzzo con la guida di Grazia Isoardi ha detto sì al progetto e con la collaborazione del direttore del penitenziario Giorgio Leggieri e del comandante Ramona Orlanda, ha organizzato la replica speciale di “Fuori di Testa”. Nello spettacolo con il cast di detenuti, il carcere è “come una scatola per contenere quelli che sono andati fuori-legge e per raddrizzare quelli che stanno sempre fuori dalle righe. In essa i detenuti si allenano per prepararsi alle tante follie che li attendono, per essere pronti al “nuovo mondo” e per cercare la terapia giusta, quella che, finalmente, li farà diventare “ normali”. Con l’iniziativa si vuole costruire un ponte tra due realtà carcerarie distanti geograficamente, ma con l’obiettivo comune di restituire dignità alle persone. “Un teatro che diventa “pane” per il corpo e per la mente, che semina occasioni di conoscenza e di incontro per tutti”. Per assistere allo spettacolo e contribuire al progetto è obbligatorio prenotarsi entro venerdì 23 novembre telefonando ai numeri 3403732192 / 3801758323 o scrivendo a info@vocierranti.org. Caltagirone (Ct): in carcere un concerto del Conservatorio “Bellini” di Palermo di Sebastiano Russo ilsettemezzo.com, 13 novembre 2018 La Casa Circondariale di Caltagirone venerdì 9 novembre ha ospitato il concerto dell’orchestra del Conservatorio di Palermo “ Bellini” organizzato dall’Ufficio del Garante dei detenuti. Si tratta di un’iniziativa volta a far vivere ai detenuti un’esperienza che va al di là della quotidianità detentiva in coerenza con la politica dell’Ufficio del Garante dei detenuti volta al recupero culturale e sociale delle persone private della libertà personale che scontano la propria pena nel territorio della regione siciliana. Abbiamo chiesto al direttore della Casa Circondariale dott. Giuseppe Russo come s’inquadra questa iniziativa nell’ambito della sua direzione: “Questa iniziativa nasce dalla volontà e dall’idea del garante regionale dei detenuti per la Sicilia prof. Giovanni Fiandaca. Noi lavoriamo sempre per aprire il carcere al territorio in tutte le dimensioni possibili con l’auspicio che anche il territorio si avvicini sempre di più al carcere. La situazione in cui versa la Casa Circondariale è complicata dall’elevato numero dei detenuti ospitati nelle carceri. Noi siamo sopra i cinquecento detenuti e riusciamo a gestirli nella normale quotidianità grazie a un personale di qualità molto preparato professionalmente. Va detto che si tratta di una carenza comune a tutte le strutture detentive”. “Questa è un’iniziativa che già suo terzo anno di edizione - dichiara il dott. Pietro Valenti dell’Ufficio del Garante dei detenuti per la Sicilia - Noi abbiamo sottoscritto una convenzione con conservatorio Vincenzo Bellini di Palermo e annualmente facciamo questi eventi per portare musica all’interno del carcere per dare qualche ora di serenità e di distrazione ai detenuti. L’iniziativa è stata proposta con successo negli anni passati. Quest’anno abbiamo iniziato con Siracusa. Oggi siamo a Caltagirone, il trenta saremo a Enna e il quattro dicembre chiudiamo con Trapani. Investiamo queste risorse per portare ore liete all’interno delle carceri”. Qual è lo stato di salute delle carceri siciliane? “Questa è la domanda che imbarazza - continua il dott. Pietro Valenti - lo stato delle carceri siciliane non si discosta più di tanto da quello che è lo stato ordinario in tutte le altre regioni d’Italia. La nostra è una regione dove ci sono 23 istituti e dove la popolazione carceraria supera le seimila unità con i suoi punti di luce i suoi punti di oscurità e di grigio come avviene in tutte le regioni d’Italia”. “Costituzione e clemenza”. Giustizia, più spada o più bilancia? di Francesca de Carolis remocontro.it, 13 novembre 2018 Amnistia, indulto, grazia, commutazione della pena… che fastidio… che cosa contro corrente! Eppure capire cosa è cambiato dall’amnistia di pacificazione del 1946, passando per le tante che si sono susseguite fino all’interruzione del 1992, per arrivare alla grazia concessa agli agenti della Cia che rapirono l’imam di Milano… aiuta a capire molto del nostro Paese. “A cosa serve la clemenza? A togliere di mezzo dal mondo del diritto l’inimmaginabile, il non pensabile che ancora accade nei nostri penitenziari”. “Nell’iconografia della giustizia, è come se i gigli e i rami di olivo intrecciati alla spada si fossero ormai essiccati”. Sempre ricco di metafore quanto mai appropriate il linguaggio di Andrea Pugiotto, docente di Diritto Costituzionale, che nel cammino che ho da qualche tempo intrapreso per cercare di capire qualcosa a proposito di delitti e di pene, è diventato irrinunciabile punto di riferimento… sempre più convinta che nella Costituzione è la ragione prima delle risposte da trovare… Le sue riflessioni mi arrivano oggi con gli atti di un incontro, da Pugiotto introdotto, a proposito degli istituti di clemenza. Immagino già… “Amnistia, indulto, grazia, commutazione della pena… che cosa contro corrente! Con tutto il bisogno di sicurezza che abbiamo… ancora si parla di atti di clemenza?” Ma visto che qui si rema contro… Impossibile riassumere il ricchissimo, complesso dibattito dell’incontro, che vale la pena di leggere nel libro che ne raccoglie gli atti. “Costituzione e clemenza” (a cura di Stefano Anastasia, Franco Corleone, Andrea Pugiotto, editore Ediesse, per La società della ragione). Un testo utilissimo anche per capire qualcosa di noi e del nostro paese. Solo alcune annotazioni. Ricordando che, dopo la lunga prassi di amnistie che sono seguite a quella di pacificazione del 1946, nel 1992 (a parte un indulto nel 2006) tutto si è interrotto. E questo per via della riforma, nel 1992 appunto, dell’articolo 79 della Costituzione che nella sostanza ha introdotto “un mostruoso procedimento rafforzato”, con maggioranze non previste neppure per deliberazione definitiva di leggi costituzionali. Capite bene quanto paralizzante. Insomma dal troppo al nulla… perché “non c’è spazio per amnistia e indulto- ancora parole di Pugiotto - quando impera il primato della pena esclusivamente retributiva, revival della legge del taglione”. E non è questione d’esser buoni… La questione, inutile dirlo?, è di riassunzione di responsabilità politica, di una politica che abbia il coraggio di scrollarsi di dosso, invece che crogiolarvisi dentro, la trappola del consenso… La proposta, “tecnica” ma non solo, è di riformulare l’articolo della Costituzione superando quel paralizzante meccanismo e restituendo alla clemenza il ruolo non secondario di strumento di politica criminale, che può concorrere a realizzare quanto detta la Costituzione: vietate le pene inumane, e che sia, la pena, rieducativa. Mentre leggo… mi vengono incontro gli sguardi persi di tanti giovani che affollano gli istituti di pena per questioni di droga… Sappiamo bene che dopo la legge sulle tossicodipendenze, la Giovanardi-Fini, nonostante l’intervento della Corte Suprema che la definisce in parte incostituzionale, basta davvero poco per mandare dentro chi dovrebbe essere piuttosto aiutato e curato… e che prospettive pensate che abbia un ragazzo, già in difficoltà, chiuso nell’indecenza delle nostre prigioni… se nessuno lo aiuta a costruire una nuova strada… Quanto rancore, quale disastro… Eppure quanto bisogno ci sarebbe di conciliazione, anziché di esasperazione, se la punizione del reato, in alcuni casi, è come e più del reato lesione sociale. Rinfocola l’odio, il risentimento… E lo stesso si potrebbe dire per un’infinità di altre questioni… in un sistema come il nostro inflazionato di norme e previsioni di reato, di cui nessuno (ci credereste?) sa oggi indicare il numero esatto… Atti di clemenza intanto come strumento di riequilibrio… Guardando alle nostre affollatissime, terrificanti carceri, alla condizione di violazione costante del principio di rieducazione che dovrebbe il tutto ispirare… viene alla mente l’immagine della Giustizia morente, sapendo del gran numero di malati, di persone con malattie psichiche, delle persone che di carcere, nella mente e nel corpo, si ammalano… pensando ai suicidi… Guardando al panorama della popolazione carceraria, per una gran parte viene da chiedersi “ma questi che ci fanno qui?” Ma fa ancora più male un altro pensiero: se avessimo un ordinamento penitenziario davvero democratico, non ci sarebbe bisogno di atti di clemenza… né collettivi né individuali… Leggendo di questi ultimi, grazia e commutamento di pena… gigli e rami d’olivo essiccatissimi, se dai 15.578 atti di clemenza di Einaudi, si precipita ai 23 con la presidenza Napolitano e ai 9 finora di Mattarella, e di questi qualcuno preoccupante atto politico… come altro definire la grazia concessa agli agenti della CIA del caso Abu Omar, l’imam di Milano sequestrato e consegnato all’Egitto dove fu torturato, (e per questo l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti Umani). Stamperò e manderò le pagine sulla grazia a Mario Trudu, così che si faccia una ragione del “NO” tondo avuto dall’attuale presidente in risposta alla sua domanda di grazia. Soprattutto perché si risparmi l’amarezza che mi ha detto di aver provato, per quella risposta “secca”, senza un rigo di motivazione… A proposito di tanto “disseccamento”, parlando del groviglio di emozioni e disperazioni che il meccanismo feroce dei dinieghi alimenta nell’animo di chi è sigillato fra quattro mura per il tempo di tutta una vita… Monica Murru, avvocato e cara amica, mi ha ricordato il film “Le ali della libertà”, dove Morgan Freeman è un recluso condannato a una pena lunghissima a cui ogni volta viene rigettata la richiesta di libertà condizionale perché non parrebbe riabilitato… All’ennesimo colloquio, ricorda Monica, a chi gli chiede se si sente effettivamente riabilitato dopo 40 anni, risponde: “Riabilitato… a dire il vero non so cosa significa. Per me è solo una parola vuota. Una parola inventata dai politici perché un giovane come lei possa indossare un vestito e una cravatta e avere un lavoro. Cosa volete sapere? Se sono pentito di quello che ho fatto? Non passa un solo giorno senza che io provo rimorso, non perché sono chiuso qui dentro o voi pensate che dovrei… mi guardo indietro e mi vedo come ero allora… un giovane stupido ragazzo che ha commesso un crimine terribile…vorrei parlare con lui, cercare di farlo ragionare… Ma non posso, quel ragazzo se n’è andato da tanto e questo vecchio è tutto quello che ne rimane… e nessuno può farci niente… Riabilitato? Non significa un cazzo, quindi scriva pure quello che vuole nello sue scartoffie… perché a dire la verità… non me ne frega niente”. Parole, toni, provocazioni: il neo-volgare dei politici di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 13 novembre 2018 Non è una questione di buone maniere, in gioco c’è la credibilità di chi governa l’Italia. Ormai sembra diventata una gara a chi usa il termine più greve, l’insulto più sgradevole, la provocazione più estrema. I ministri parlano in pubblico e lo fanno come fossero al bar, l’aggressività diventa tanto normale da essere inserita persino nei comunicati ufficiali che i loro portavoce trasmettono nelle chat aperte su whatsapp. E così la volgarità viene utilizzata sempre più spesso, fino a diventare un tratto caratteristico di questa stagione politica. Quale fosse il modello di comunicazione si era capito ben presto ascoltando il ministro dell’Interno Matteo Salvini che l’estate scorsa, annunciando un decreto per intervenire in materia di immigrazione, aveva avvisato gli stranieri presenti in Italia che “la pacchia è finita”. Da allora ha sempre duellato con chi osava contraddirlo. Il governo tunisino che non effettua controlli sulle coste e lascia partire i barchini verso Lampedusa “esporta galeotti”, gli analisti che criticano la manovra economica sono “sciacalli” e al presidente della commissione europea Jean Claude Juncker che paragona l’Italia alla Grecia risponde: “Parlo solo con le persone sobrie”. È uno stile ed è fin troppo chiaro che anche i ministri 5 Stelle abbiano deciso di accodarsi, forse convinti che questo paghi in termine di consenso. Con il trascorrere delle settimane i toni si sono alzati fino a diventare fragorosi. E allora il titolare delle Infrastrutture Danilo Toninelli definisce “ignorante” chi non apprezza il suo progetto per ricostruire il ponte Morandi di Genova con negozi e ristoranti, senza ammettere poi di aver sbagliato visto che la sua idea copiava quella del ponte Galata di Istanbul e forse lui non sa che quella è un’area pedonale e non un viadotto autostradale. Era maggio scorso quando Luigi Di Maio attaccava il capo dello Stato Sergio Mattarella chiedendo che fosse messo in stato di accusa perché non accettava come ministro dell’Economia Paolo Savona. Qualche settimana dopo ha ammesso l’errore, ma questo non è evidentemente bastato per convincere tutti ad abbassare i toni. Nemmeno lui. E così capita che nei suoi comunicati il ministro Salvini dica frequentemente “mi fa schifo” e parlando in diretta Facebook dal suo ufficio al Viminale arrivi a usare come intercalare la parola “cazzo”, oppure a evocare spesso e volentieri il mussoliniano “me ne frego”. Succede che proprio Salvini e Di Maio si accusino reciprocamente di scorrettezze, salvo poi prendersela con chi “ci porta sfiga”. In questo clima persino il sindaco di Milano Giuseppe Sala, sempre misurato, è stato costretto a scusarsi per aver invitato Di Maio (con un’espressione forte) “a chiudere i negozi ad Avellino e non a Milano”. Lui una correzione l’ha fatta. Di Maio invece non solo non si è pentito di aver definito “infimi sciacalli” i giornalisti che hanno raccontato l’inchiesta sulla sindaca Virginia Raggi, ma poi ha avallato la posizione del compagno di partito Alessandro Di Battista che li reputa “puttane”, specificando che “quando ce vo, ce vo, non si torna indietro”. E il titolare della Giustizia Alfonso Bonafede - che appena una settimana fa ha definito “azzeccagarbugli” gli avvocati schierati contro le nuove norme sulla prescrizione - ha voluto allinearsi chiarendo che “non c’è alcuno scandalo ad usare questi termini”. È un problema di linguaggio, ma non solo. Perché si tratta di ministri e dunque in discussione c’è il ruolo che hanno, l’istituzione che rappresentano. Quando oltrepassano il confine e scadono nell’insulto, ad essere sviliti non sono i bersagli dell’epiteto, ma le funzioni che loro stessi ricoprono. Un esponente del governo non può comportarsi come un cittadino qualunque. La scrivania nella stanza di un dicastero non può essere utilizzata come il tavolino di un bar. Non è una questione di buone maniere, in gioco c’è la credibilità di chi governa questo Paese e dunque dell’Italia. Sarebbe bene tenerlo a mente. Almeno fino alla prossima parolaccia. Integrare i migranti, un futuro possibile di Dacia Maraini Corriere della Sera, 13 novembre 2018 L’esperimento di Riace credo che sia indicativo e suggerisce qualcosa di nuovo, per questo incuriosisce e attira. Con tutti gli sbagli che abbia potuto fare il coraggioso sindaco Lucano, la sua azione sembra andare nel verso giusto. La paura che provoca la migrazione dei popoli non è da sottovalutare: crea oggettivamente dei timori, soprattutto quando i migranti praticano religioni diverse, che nelle memoria collettiva ricordano guerre lontane e persistenti. Noi italiani fra l’altro sappiamo bene cosa sia la migrazione perché siamo partiti in massa (20 milioni solo nel 900, fuggiti da carestie, terremoti, disoccupazione e fame) verso Paesi lontani portando con noi molta sapienza artigianale, tanta capacità lavorativa, buon senso e intelligenza. Ma anche orribili pratiche come la mafia che ha creato disordini e malversazioni in Paesi che conoscevano solo la criminalità organizzata. Ricordiamo che, a differenza della malavita, endemica in tutti i Paesi, le nostre mafie hanno inventato un modo militaresco e insinuante per penetrare nei gangli del potere amministrativo e politico, unica al mondo. Tornando ai migranti di oggi, il problema non è la prima accoglienza, pratica che bene o male funziona con l’aiuto dei finanziamenti europei. Il dilemma sta nel dopo: come integrarli o come rimandarli indietro? L’accoglienza nei centri abilitati ha dei limiti di tempo e di denaro. E dopo? L’esperimento di Riace credo che sia indicativo e suggerisce qualcosa di nuovo, per questo incuriosisce e attira. Con tutti gli sbagli che abbia potuto fare il coraggioso sindaco Lucano, la sua azione sembra andare nel verso giusto. Curiosamente lo avevo proposto anch’io su questo giornale due anni fa: perché non invitare i migranti, una volta concesso loro un permesso di soggiorno e delle nuove carte di identità, a ripopolare i borghi abbandonati, che ce ne sono piu di 5000? Perché non fare loro ricostruire le case che vanno in rovina, riprendere a coltivare la terra, recuperare l’artigianato? Insomma farli sentire a casa, bene accolti, ma con il patto che lavorino per rendere vivibili quei borghi lasciati a muffire, quei terreni inselvatichiti; ma soprattutto imparando la lingua e le nostre regole, cominciando da una fedeltà assoluta alla nostra Costituzione. Oltre a Riace voglio ricordare che c’è Montesilvano, il cui il sindaco, Francesco Maragno, ha accolto 500 giovani africani e dato loro un lavoro dignitoso. Li ha integrati così bene che la gente del luogo non ha mai mostrato segni di intolleranza. Migranti. Rimpatri sì, ma nel rispetto dei diritti e della dignità di Valentina Stella Il Dubbio, 13 novembre 2018 Al Senato il primo convegno su due anni di monitoraggi del garante sui rimpatri forzati. Nel 2017 sono state rimandate a casa 6.514 persone, una media di 543 al mese. Dal primo gennaio al 31 ottobre di quest’anno sono 5306. “Il Garante nazionale ha preso molto sul serio il compito di verificare il rispetto dei diritti fondamentali nel corso delle operazioni di rimpatrio forzato. Rispetto al 2017 abbiamo triplicato il numero di voli monitorati e da circa un anno è attivo un sistema nazionale di monitoraggio che coinvolge anche i garanti territoriali”. Lo ha affermato Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, al primo convegno nazionale “Due anni di monitoraggi dei rimpatri forzati del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà” tenutosi ieri al Senato. Come ha spiegato Massimiliano Bagaglini, Responsabile U. O. “Privazione della libertà e migranti”. “Il Garante esercita tale mandato in conformità alla Direttiva europea “Rimpatri” n. 115 del 2008. Nel 2014 la Ue aveva aperto una procedura di infrazione ai danni dell’Italia per il mancato rispetto della direttiva che prevede l’individuazione di un organismo indipendente di monitoraggio dei rimpatri forzati; procedura definitivamente superata proprio nel 2017 grazie all’avvio dell’attività del Garante”. Ma nello specifico cosa fa il Garante? Individua a campione le operazioni di rimpatrio forzato e invia generalmente - senza preavviso - due propri funzionari. Fino ad oggi ha monitorato 22 voli organizzati tramite charter, 15 per la Tunisia e 7 per la Nigeria. Il Presidente Palma ha aggiunto: “Come emerge dal nostro Rapporto 2018 sui rimpatri forzati, sono diverse le criticità riscontrate nelle operazioni monitorate. L’uso delle misure coercitive non è in linea con gli standard europei e internazionali; la trasparenza di informazione va rigorosamente garantita, mentre i rimpatriandi spesso ignorano il motivo del loro trasferimento dal Centro. Altra area di centrale importanza è quella relativa alla tutela della salute: tutte le persone interessate da una procedura di rimpatrio forzato dovrebbero essere sottoposte a una preventiva verifica medica. Analogamente, va garantita la presenza fissa di un mediatore culturale sui voli di rimpatrio. Positiva è la cooperazione con il ministero dell’Interno nella formazione dei monitor e degli operatori di scorta. Lo stesso vale per la collaborazione mostrata nel comunicare le statistiche e nell’inoltrare le informazioni sui rimpatri che vengono quotidianamente effettuati”. Nel 2017 sono state rimpatriate forzatamente 6.514 persone, di cui 2870 con scorta internazionale e 3644 senza scorta internazionale. Dunque una media di circa 543 persone al mese. Dal primo gennaio al 31 ottobre di quest’anno sono state rimpatriate forzatamente 5306 persone, di cui 2889 con scorta internazionale e 2417 senza scorta internazionale. Dunque una media di circa 530 persone al mese. Questo vuol dire, a giudicare dalla media mensile, che il numero di rimpatri forzati effettuati si è leggermente ridotto rispetto allo scorso anno. La variazione verosimilmente dipende dal fatto che nel 2018 gli sbarchi sono diminuiti. “In ogni caso, il Garante nazionale raccomanda di investire di più sui rimpatri volontari, che garantiscono una maggiore tutela dei diritti delle persone e che comportano anche un notevole risparmio per le casse dello Stato”. Mauro Palma, in riferimento alle criticità dei mesi passati sul tema migratorio, a partire della questione della Diciotti, ha chiarito: “Ci tengo molto ad un aspetto che lega il rapporto tra la ragione giuridica e quella politica: per noi è essenziale la prevalenza della ragione giuridica su quella politica. Siamo tenuti insieme da un quadro ordinamentale che ha il suo perno nella stretta osservanza della tutela dell’integrità e della dignità della persona”. Migranti. Rimpatri, funzionano solo gli accordi con Tunisia e Nigeria di Alessandra Ziniti La Repubblica, 13 novembre 2018 L’anno record dei rimpatri di migranti irregolari è stato il 2017 quando l’Italia è riuscita a rimandare nei paesi d’origine 6.514, quasi un migliaio in più di quanti ne erano stati rispediti a casa nei due anni precedenti. Nel 2018, nonostante i quotidiani annunci del ministro Salvini, la macchina dei rimpatri ha rallentato procedendo a un ritmo tra i 450 e i 500 al mese. Al 31 ottobre sono 5306 gli irregolari espulsi che sono stati accompagnati indietro. Sono i dati aggiornati della Direzione centrale dell’immigrazione della Polizia diffusi oggi dal garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà che, come prevede la legge, ha effettuato il monitoraggio delle operazioni di rimpatrio verificandone la legittimità e le condizioni, a cominciare dalle informazioni tempestive date agli immigrati destinatari dei provvedimenti di espulsione e poi di rimpatrio. Diciassette i voli monitorati, tutti charter, alcuni con scorta internazionale, altri senza, che hanno portato indietro 524 persone. Dalla lista dei voli si evince come dei quattro accordi che sulla carta l’Italia ha in atto con i paesi di provenienza dei migranti funzionano solo quelli con la Tunisia e con la Nigeria. Dei 17 voli monitorati dal garante tredici sono partiti alla volta di Tunisi o Hammamet, quattro verso Lagos. Il garante ha girato le proprie raccomandazioni alla polizia di Stato sottolineando la necessità che in tutte le fasi di un’operazione di rimpatrio, o almeno nei voli charter, siano previsti mediatori linguistici. Altra questione fondamentale riguarda la necessità che ai rimpatriandi sia comunicato in tempo utile la data della partenza in modo da consentire loro di organizzarsi per il viaggio, avvisare i familiari e l’avvocato, per venire a conoscenza di eventuali aggiornamenti riguardanti la loro posizione giuridica. Di estrema delicatezza l’uso delle misure coercitive nel corso delle operazioni di rimpatrio forzato solo come misura di ultima istanza o in caso di serio e immediato rischio di fuga. “Io, eroinomane a 15 anni: così la droga ti mangia l’anima” di Jacopo Storni Corriere della Sera, 13 novembre 2018 La droga uccide trentamila adolescenti italiani. Sono 60 mila quelli che usano cocaina. Le parole di chi prova a salvarsi. Giovani, e per questo fragili. È una trappola per loro, dove sono caduti e dalla quale non riescono a uscire. Distrugge le loro vite, altera i loro pensieri, droga le loro emozioni. Minorenni, e già eroinomani, cocainomani. Totalmente dipendenti. “Mi sveglio e non penso ad altro”. Pensano a trovare una dose, a comprarla, a trovare un contatto per recuperare la roba. Così la chiamano, le loro voci ancora adolescenti, i loro volti ancora innocenti. Una dose, e poi subito un’altra. Tutti i giorni, più volte al giorno. Ubriachi di sostanze che spaccano i loro corpi, eccitano le loro menti. “Non dormo la notte, dolori di intestino, problemi gastrici, dolori fortissimi”. Non basta però, quando sei dentro è durissima, è durissima uscirne. “Bucavo la scuola per andare a bucarmi”. Non è un gioco di parole, sono i nostri adolescenti devastasti. Quasi tutti la fumano sulla stagnola, è la nuova tendenza. Pensano sia meno pericoloso, ma non è così. Una minoranza la inala, oppure se la inietta in vena. Trentamila adolescenti italiani usano eroina, 60 mila cocaina. Emergenza vera, e il trend è in crescita. Spendono soldi, rubano per comprare l’eroina. Una morsa d’ebbrezza e follia. “Ho speso almeno 50mila euro”. Raccontano questo, i giovani eroinomani incontrati a Villa Lorenzi, comunità d’accoglienza di Firenze, dove è attivo un progetto col Servizio Dipendenze Sert Ufm B di Firenze. Non puoi incontrarli facilmente. Le loro vite sono appese a un filo, gli operatori che si prendono cura di loro non vogliono interferenze, gli educatori temono per il destino di questi ragazzini. Bisogna prima conoscersi reciprocamente, guadagnarsi la fiducia. Ragazzini fragili come il cristallo. Si curano tutti i giorni, terapie farmacologiche e sedute psicologiche, attività ricreative, amicizie sul filo del baratro. A volte guariscono, poi ricadono, anima e corpo. Rubano soldi perfino ai loro genitori per comprarsi dosi, siringhe, insuline. Ricorrono ai pusher. “A Prato arrivano camion pieni di dosi, quasi tutte le settimane, è facile trovare la roba”. Ragazzi sinceri, si mettono a nudo per raccontarsi, volti oscurati e voci alterate. Ma l’anima è quella autentica, raccontano senza filtri. “Ho rubato l’oro a mia madre per comprarmi eroina e cocaina”. Collane, orecchini, bracciali. “In casa sparivano i gioielli, i miei genitori pensavano fossero i ladri”. Non volevano curarsi, non volevano confessare ai genitori, volevano continuare a inseguire l’inebriante follia: “Andavamo in taxi, di notte, fino a Prato, soltanto per acquistare le dosi”. Firenze-Prato, taxi all’andata e taxi al ritorno. Cento euro di taxi, quasi tutti i giorni. “Quando ne hai bisogno, diventi pazzo pur di prenderla, pensi soltanto a quello e non ti fermi davanti a niente”. Nemmeno al nonno che sta per morire. “Stavo andando a trovarlo all’ospedale, ho deviato per andare a bucarmi, quella notte mio nonno è morto e non l’ho più rivisto”. Ragazzi di oggi, che riconoscono i loro errori. C’è chi comincia il percorso terapeutico adesso, dopo mille ripensamenti. C’è chi è in fase di guarigione. “Uscirne è possibile, il primo passo è parlarne ai genitori” racconta uno di loro. A volte però, il problema nasce proprio da lì, da quei contesti familiari frantumati. “Mio padre è stato arrestato, in quel periodo ho iniziato a drogarmi pesantemente”. Difficile trovare cause comuni: c’è lo smarrimento di ragazzi che si sentono sempre più soli, insicuri con le ragazze, trascurati dalle famiglie. Qui, nel contesto idilliaco del centro d’accoglienza per giovani Villa Lorenzi, si mangia tutti assieme. “La nostra comunità - dice il responsabile Stefano Superbi - è nata per offrire risposte al disagio giovanile e minorile, siamo impegnati al fianco della Asl per dare ascolto al malessere delle famiglie dei minori e non solo”. I ragazzi sono seguiti dalla psicologa Caterina Borrello, responsabile del gruppo dedicato ai percorsi per giovani del Sert Ufm B: “Abbiamo verificato che c’è un trend in aumento di minori eroinomani e questo ci preoccupa, i ragazzi arrivano all’eroina perché il nuovo modo di consumarla fa sì che possano sottovalutare i pericoli. Dobbiamo essere in grado di ripensare i nostri servizi, come stiamo cominciando a fare, per offrire risposte ancora migliori dove servizio pubblico e privato sociale siano in grado di collaborare”. E la Regione Toscana si attrezza per contrastare il fenomeno: “I numeri ci allarmano, abbiamo creato 40 Sert in tutta la regione - ha detto l’assessore alla salute Stefania Saccardi - Sul versante della prevenzione, abbiamo attivato protocolli di collaborazione e accordi con l’Ufficio scolastico regionale per attività di prevenzione e per favorire stili di vita sani”. Eccoli i giovani eroinomani che si stanno curando. Camminano lungo il parco, respirano la natura. Un lago e i fiori, gli alberi e le ninfee. “Ma quando hai la botta, non te ne frega un cazzo della natura, la droga ti mangia l’anima, perdi il senso della realtà”. Percorsi terapeutici lunghi anni, avanti e indietro tra Sert e attività educative. Nel mezzo c’è la scuola, che spesso diventa un dettaglio in queste vite randagie. “Non vedevo l’ora di scappare da scuola per andare a bucarmi”. Ma uscirne si può, ripetono questi ragazzini: “Il primo passo è dirlo ai genitori, non dimenticherò mai l’espressione di mia madre quando le dissi che avrei voluto curarmi”. E poi le cure nei centri: “Si conoscono tante persone che ti aiutano a cambiare radicalmente vita, capisci che la vera vita è quella senza eroina”. I distruttori della Libia ora “per la Libia” di Manlio Dinucci Il Manifesto, 13 novembre 2018 La Conferenza internazionale “per la Libia” si sta svolgendo a Palermo, in quella Sicilia che sette anni fa è stata la principale base di lancio della guerra con cui la Nato sotto comando Usa ha demolito lo Stato libico. Una mezzaluna (simbolo dell’islamismo) raffigurata come uno stilizzato emisfero che, affiancato da una stella e le parole “for/with Libya” (per/con la Libia), rappresenta “un mondo che vuole porsi dalla parte della Libia”: è il logo della “Conferenza per la Libia” promossa dal governo italiano, come evidenzia il tricolore nella parte inferiore della mezzaluna/emisfero. La Conferenza internazionale si concluderà oggi a Palermo, in quella Sicilia che sette anni fa è stata la principale base di lancio della guerra con cui la Nato sotto comando Usa ha demolito lo Stato libico. Essa veniva iniziata finanziando e armando in Libia settori tribali e gruppi islamici ostili al governo di Tripoli e infiltrando nel paese forze speciali, tra cui migliaia di commandos qatariani camuffati da “ribelli libici”. Veniva quindi lanciato, nel marzo 2011, l’attacco aeronavale Usa/Nato durato 7 mesi. L’aviazione effettuava 30 mila missioni, di cui 10 mila di attacco, con impiego di oltre 40 mila bombe e missili. L’Italia, per volontà di un vasto arco politico dalla destra alla sinistra, partecipava alla guerra non solo con la propria aeronautica e marina, ma mettendo a disposizione delle forze Usa/Nato 7 basi aeree: Trapani, Sigonella, Pantelleria, Gioia del Colle, Amendola, Decimomannu e Aviano. Con la guerra del 2011 la Nato demoliva quello Stato che, sulla sponda sud del Mediterraneo di fronte all’Italia, aveva raggiunto, pur con notevoli disparità interne, “alti livelli di crescita economica e sviluppo umano” (come documentava nel 2010 la stessa Banca Mondiale), superiori a quelli degli altri paesi africani. Lo testimoniava il fatto che avevano trovato lavoro in Libia circa due milioni di immigrati, per lo più africani. Allo stesso tempo la Libia avrebbe reso possibile, con i suoi fondi sovrani, la nascita in Africa di organismi economici indipendenti e di una moneta africana. Usa e Francia - provano le mail della segretaria di stato Hillary Clinton - si erano accordati per bloccare anzitutto il piano di Gheddafi di creare una moneta africana, in alternativa al dollaro e al franco Cfa imposto dalla Francia a 14 ex colonie africane. Demolito lo Stato e assassinato Gheddafi, nella situazione caotica che ne è seguita è iniziata, sul piano internazionale e interno, una lotta al coltello per la spartizione di un enorme bottino: le riserve petrolifere, le maggiori dell’Africa, e di gas naturale; l’immensa falda nubiana di acqua fossile, l’oro bianco in prospettiva più prezioso dell’oro nero; lo stesso territorio libico di primaria importanza geostrategica; i fondi sovrani, circa 150 miliardi di dollari investiti all’estero dallo Stato libico, “congelati” nel 2011 nelle maggiori banche europee e statunitensi, in altre parole rapinati. Ad esempio, dei 16 miliardi di euro di fondi libici, bloccati nella Euroclear Bank in Belgio e Lussemburgo, ne sono spariti oltre 10. “Dal 2013 - documenta la Rtbf (radiotelevisione francofona belga) - centinaia di milioni di euro, provenienti da tali fondi, sono stati inviati in Libia per finanziare la guerra civile che ha provocato una grave crisi migratoria”. Molti immigrati africani in Libia sono stati imprigionati e torturati dalle milizie islamiche. La Libia è divenuta la principale via di transito, in mano a trafficanti e manovratori internazionali, di un caotico flusso migratorio che nel Mediterraneo ha provocato ogni anno più vittime delle bombe Nato del 2011. Non si può tacere, come hanno fatto perfino gli organizzatori del controvertice di Palermo, che all’origine di questa tragedia umana c’è la guerra Usa/Nato che sette anni fa ha demolito in Africa un intero Stato. Libia. Rifugiati senza via d’uscita: “crudeli le politiche europee sull’immigrazione” La Repubblica, 13 novembre 2018 La denuncia di Amnesty International, in coincidenza con la conferenza internazionale sulla Libia, convocata a Palermo per trovare soluzioni alla paralisi politica nel Paese. Un anno dopo l’ondata d’indignazione mondiale provocata dalle scioccanti immagini della compravendita di esseri umani in Libia, Amnesty International ha denunciato che la situazione dei migranti e dei rifugiati in quel Paese rimane tetra e per alcuni aspetti è persino peggiorata. Le conclusioni rese note oggi dall’organizzazione umanitaria, in coincidenza con la conferenza internazionale sulla Libia, convocata a Palermo per trovare soluzioni alla paralisi politica nel Paese, mettono in evidenza come le politiche degli stati membri dell’Unione europea per fermare l’immigrazione e l’insufficienza dei posti messi a disposizione per il reinsediamento dei rifugiati continuino ad alimentare un ciclo di violenza, intrappolando migliaia di migranti e rifugiati all’interno dei centri di detenzione libici, in condizioni agghiaccianti. “Una situazione tetra”. “A un anno di distanza da quelle immagini che sconvolsero il mondo, la situazione per i rifugiati e per i migranti in Libia resta tetra”, ha dichiarato Heba Morayef, direttrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord. “Le crudeli politiche attuate dagli stati dell’Unione europea per impedire gli approdi sulle loro coste, insieme al loro insufficiente contributo in termini di percorsi sicuri che potrebbero aiutare i rifugiati a raggiungere la salvezza, significa che migliaia di uomini, donne e bambini restano intrappolati in Libia e continuano a subire violenze orribili, senza una via d’uscita”, ha aggiunto Morayef. All’interno dei centri di detenzione libici i migranti e i rifugiati rischiano regolarmente di subire torture, estorsioni e stupri. Le richieste di reinsediamento. L’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) ha registrato 56.442 rifugiati e richiedenti asilo in Libia e ha ripetutamente chiesto ai governi, europei e non, di reinsediarli, anche attraverso l’evacuazione via Niger. Tuttavia, finora sono stati messi a disposizione solo 3886 posti per il reinsediamento da parte di 12 paesi e solo 1140 rifugiati sono stati effettivamente reinsediati dalla Libia e dal Niger. Tra dicembre 2017 e febbraio 2018 l’Italia ha evacuato, trasferendoli sul suo territorio, 312 richiedenti asilo ma non vi sono state ulteriori evacuazioni fino al reinsediamento di 44 rifugiati il 7 novembre. Il blocco degli attraversamenti nel Mediterraneo. Negli ultimi due anni gli stati membri dell’Unione europea hanno posto in essere una serie di misure per bloccare l’attraversamento del Mediterraneo centrale, rafforzando le capacità della Guardia costiera di intercettare imbarcazioni, stringendo accordi con le milizie libiche e ostacolando il lavoro delle Ong impegnate nelle operazioni di ricerca e soccorso. Queste politiche hanno determinato la diminuzione degli approdi in Italia di quasi l’80 per cento: da 114.415 tra gennaio e novembre 2017 ad appena 22.232 fino a ora nel 2018. Nei centri di detenzione libici sono trattenuti circa 6000 migranti e rifugiati. L’ostruzionismo dei libici. Mentre la rotta marittima del Mediterraneo centrale è quasi completamente chiusa e le autorità libiche mettono illegalmente in carcere i rifugiati rifiutando di rilasciarli sotto la protezione dell’Unhcr, l’unico modo per uscire dai centri di prigionia è l’evacuazione verso un altro paese attraverso i programmi gestiti dalle Nazioni Unite. Per quanto riguarda i rifugiati, che evidentemente non possono tornare nel paese di origine, la mancanza di posti per il reinsediamento sta facendo sì che migliaia di loro restino abbandonati nei centri di detenzione libici. L’apertura di un a lungo promesso centro dell’Unhcr a Tripoli, che potrebbe dare riparo a un migliaio di rifugiati, viene ripetutamente ritardata. La sua apertura sarebbe indubbiamente un gesto positivo ma riguarderebbe solo una piccola parte dei rifugiati in stato di detenzione e non offrirebbe comunque una soluzione sostenibile. “Le autorità libiche si prendano le loro responsabilità”. “Mentre fanno il massimo per fermare le partenze e aiutare la Guardia costiera libica a intercettare persone in mare e a rispedirle nei famigerati centri di detenzione, i governi europei hanno catastroficamente mancato di mettere a disposizione altre rotte per lasciare la Libia a coloro che ne hanno più bisogno”, ha sottolineato Morayef. “Siccome l’Europa non vuole allungare una cima di salvataggio a coloro che ne avrebbero disperatamente necessità e che restano bloccati nei centri di detenzione libici a rischiare violenza, è il momento che le autorità della Libia si prendano le responsabilità per le loro atroci politiche di detenzione illegale e proteggano i diritti umani di tutte le persone che si trovano nel loro territorio”, ha proseguito Morayef. Pallottole vaganti a Tripoli. Gli scontri armati avvenuti a Tripoli tra agosto e settembre hanno reso la situazione più pericolosa anche per i migranti e i rifugiati. Alcuni detenuti sono stati feriti da pallottole vaganti. In altri casi, chi doveva sorvegliare le carceri è fuggito per scampare agli attacchi lasciando migliaia di detenuti senza acqua né cibo. Amnesty International ha sollecitato tutti i partecipanti alla conferenza di Palermo ad assicurare che i diritti umani di tutte le persone presenti in Libia, migranti e rifugiati compresi, siano posti al centro dei negoziati. Libia. I profughi reclusi: “non giochino sulla nostra pelle” di Paolo Lambruschi Avvenire, 13 novembre 2018 Alla conferenza di Palermo il convitato di pietra sono i migranti detenuti nei lager libici, di cui non si parlerà. Amnesty in un rapporto pubblicato ieri ricorda che sono circa seimila, soprattutto africani, nelle galere statali libiche senza accusa e senza giudizio o assistenza legale. Quelli in mano ai trafficanti sfuggono, anche se i racconti dell’orrore dei sopravvissuti sono impressionanti. Una detenzione comunque illegale per qualsiasi norma internazionale, di cui è responsabile l’Ue e a cui il nostro Paese contribuisce. L’aggettivo “statali” non tragga in inganno: si tratta perlopiù di capannoni sovraffollati in pessime condizioni igienico-sanitarie dove le guardie non vanno per il sottile. Se ne esce corrompendole o aderendo ai programmi di rimpatrio volontario dell’Oim o se si rientra nelle categorie vulnerabili e si viene selezionati dall’Acnur per un’evacuazione in Niger e poi ricollocati in Paesi terzi. Finora sono stati spostati in 1.140, soprattutto donne sole o con bambini o minori non accompagnati. Molti non reggono: come Abdullah, 28 anni, che si è dato fuoco tre settimane fa a Tariq al Sikka, centro di detenzione statale a Tripoli. “Ai capi di governo e di Stato europei e africani, se fossi a Palermo, chiederei perché non ci ammazzano subito anziché a poco a poco”. Solomon è il nome di fantasia di un profugo eritreo di circa 30 anni, detenuto in una galera statale da 13 mesi e che se venisse riconosciuto potrebbe morire. Nonostante ciò continua ad aggiornarci via Whatsapp sulle condizioni di vita nel lager. Ai leader giunti a Palermo vuole mandare almeno un Whatsapp. Ci eravamo messi in contatto con lui con un cellulare nascosto alle guardie libiche del centro di Tarek al Matar e abbiamo raccontato la sua vita quotidiana fatta di maltrattamenti, mancanza di cibo e igiene e del terrore di migliaia di detenuti: venire rapiti e rivenduti ai trafficanti se non si è registrati dall’Alto commissariato Onu peri diritti umani. Abbiamo raccontato anche della rivolta contro le guardie tra luglio e agosto e abbiamo visto il video della repressione a colpi di fumogeni. Poi ai primi di settembre, quando a Tripoli sono scoppiati gli scontri tra milizie che non hanno risparmiato le galere, con gli altri detenuti è stato trasferito ad al Zintan, 180 km a sudovest di Tripoli, centro di detenzione statale sotto il controllo del governo di al-Serraj con 1.300 detenuti circa. “Nell’hangar dove vivo ci sono 713 persone, tutti eritrei ed etiopi, circa un terzo sono minori soli. Le donne con bambini e le famiglie sono detenuti in un centro a 13 minuti a piedi da qui. In due mesi sono morte di malattia 4 persone, 3 cristiani e un musulmano; hanno sepolto solo lui, i cristiani sono ancora nell’ospedale. I sudanesi e gli africani occidentali sono in un altro hangar; loro non sono registrati dall’Acnur e il capo delle guardie ha chiesto 5.000 dinari per farli scappare. Noi siamo tutti registrati e almeno dovremmo essere più sicuri”. Solomon racconta ancora: “La polizia ci sta trattando meglio ma il cibo è scarso, solo riso, abbiamo 4 bagni e non ci cambiamo gli abiti. La gente muore di stress e di tbc, almeno 31 sono infetti. Non entra il sole, manca l’aria. Mi chiedo quale sia la nostra colpa e perché veniamo trattati così. Quale sarà la nostra fine? Sembra che stiano giocando una partita di calcio con la nostra pelle. Chiedo di portarci via da questa galera, di metterci in salvo in qualunque Paese ci voglia, anche in Africa. Non so quanto potremo resistere ancora, dateci una speranza”. Myanmar. Amnesty International revoca alta onorificenza ad Aung San Suu Kyi di Riccardo Noury Corriere della Sera, 13 novembre 2018 Quando nel 2013, finalmente libera dagli arresti domiciliari, fu in grado di recarsi a Londra per ricevere il premio “Ambasciatrice della coscienza”, conferitole da Amnesty International nel 2009, la leader birmana e premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi pronunciò queste parole: “Questo è un giorno indimenticabile per me. Chiedo ad Amnesty International di non distogliere lo sguardo e i pensieri da noi”. Amnesty International prese quella richiesta molto sul serio. Anche per questo, oggi l’organizzazione per i diritti umani ha revocato il premio ad Aung San Suu Kyi. Nella lettera inviatale per informarla della decisione, il segretario generale di Amnesty International Kumi Naidooha espresso disappunto per il fatto che, a metà del suo mandato e otto anni dopo la fine degli arresti domiciliari, Aung San Suu Kyi non abbia usato la sua autorità politica e morale per salvaguardare i diritti umani, la giustizia e l’uguaglianza in Myanmar. Naidoo ha fatto poi riferimento alla palese indifferenza della leader birmana di fronte alle atrocità commesse dall’esercito e alla crescente intolleranza rispetto alla libertà di espressione. Ecco un estratto della lettera: “Come Ambasciatrice della coscienza, ci aspettavamo da Lei che continuasse a usare la sua autorità morale per prendere posizione contro le ingiustizie ovunque le scorgesse, a iniziare dal Suo paese. Oggi, proviamo profondo sconcerto per il fatto che Lei non rappresenti più un simbolo di coraggio, di speranza e di imperitura difesa dei diritti umani. Amnesty International non può più valutare il Suo comportamento come coerente al riconoscimento assegnatole ed è pertanto con grande tristezza che ci accingiamo a revocarlo”. Da quando, nell’aprile 2016, Aung San Suu Kyi è diventata leader di fatto del governo a guida civile, la sua amministrazione è stata parte attiva nella commissione e nel perpetuarsi di multiple violazioni dei diritti umani. Amnesty International ha ripetutamente criticato Aung San Suu Kyi e il suo governo per non aver preso la parola nei confronti delle atrocità commesse dai militari contro la popolazione rohingya dello stato di Rakhine, nel nord di Myanmar, che vive da anni sotto un sistema di segregazione e discriminazione equivalente all’apartheid. Durante la campagna di violenza dello scorso anno contro i rohingya, le forze di sicurezza di Myanmar hanno ucciso migliaia di persone, stuprato donne e bambine, arrestato e torturato uomini e bambini e incendiato migliaia di case e di villaggi. Oltre 720.000 rohingya sono fuggiti in Bangladesh. Un rapporto delle Nazioni Unite ha chiesto che alti ufficiali dell’esercito siano indagati e processati per il crimine di genocidio. Sebbene il governo civile non eserciti controllo sui militari, Aung San Suu Kyi e la sua amministrazione hanno protetto le forze di sicurezza giudicando false, ridimensionando o negando le denunce sulle violazioni dei diritti umani e ostacolando le indagini internazionali. L’amministrazione guidata da Aung San Suu Kyi ha attivamente rinfocolato l’ostilità verso i rohingya, definendoli “terroristi”, accusandoli di aver bruciato essi stessi le loro case e parlando di “falsi stupri”. Contemporaneamente, la stampa governativa pubblicava articoli violenti e disumanizzanti definendo i rohingya come “pulci umane da detestare” e un “tormento” di cui liberarsi. Nei suoi rapporti Amnesty International ha documentato anche la situazione negli stati di Kachine e Shan. Pure in questo caso, Aung San Suu Kyi non ha usato la sua influenza e la sua autorità morale per condannare le violenze dell’esercito, per promuovere indagini sui crimini di guerra o per difendere i civili appartenenti alle minoranze etniche su cui ricade il peso dei conflitti. Per rendere ancora peggiori le cose, il governo civile ha imposto forti limitazioni all’accesso umanitario, aumentando la sofferenza di oltre 100.000 sfollati. Per finire, nei due anni trascorsi da quando l’amministrazione civile è salita al potere, le leggi repressive - comprese alcune di quelle usate per tenere Aung San Suu Kyi e altri sostenitori della democrazia e dei diritti umani - non sono state affatto abolite. Non solo: Aung San Suu Kyi ha attivamente difeso l’uso di quelle leggi, come nel caso della loro applicazione per condannare due giornalisti della Reuters che avevano documentato un massacro commessi dai militari.