I processi e la giustizia malata di Luigi Labruna* La Repubblica, 12 novembre 2018 Una delle più gravi malattie di cui la giustizia italiana soffre è la durata irragionevole (di decenni) dei processi che annienta la credibilità della giustizia, compromette il prestigio della magistratura, rovina l’economia del Paese ma, soprattutto, viola il principio costituzionale del “giusto processo”, del quale la legge “deve” assicurare “la ragionevole durata”. Lo impone l’art. 111, co. 2, della Costituzione, che non mira certo a lasciare impuniti i colpevoli bensì a garantire il diritto di ciascun cittadino, sancito dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, di essere giudicato irrevocabilmente in un tempo “ragionevole”, che la legge 89/2001 (modificata nel 2016) individua “comunque in non più di sei anni complessivi”. E sei anni, o il maggior tempo corrispondente al “massimo della pena edittale”, vengono richiesti dall’art. 157 c.p. perché - tranne che per i reati che comportano l’ergastolo - intervenga la prescrizione. Che scatta, dunque, solo quando i ritardi vanno ben oltre il limite al di là del quale i diritti di libertà svaniscono. Si dissolvono. Muoiono. Per inseguire il giustizialismo grillino (e non solo), il Pd Orlando ha dilatato (fino a raddoppiarlo, con l. 133/2016) il tempo entro cui molti processi (per omicidio stradale, ad es., per corruzione, di mafia…) debbono concludersi prima che si abbia prescrizione. Ora il grillino Bonafede sta addirittura imprigionando “per sempre” quel tempo, senza dirlo. Con un inghippo truffaldino. Stabilendo, cioè, che la prescrizione sia “sospesa” dopo il giudizio - anche di assoluzione - di primo grado “sino al giudizio definitivo”. Cioè fino a quando, decenni dopo, verrà accertata, se è ancora vivo, la colpevolezza o l’innocenza dell’imputato, comunque rovinato, disonorato (talvolta imprigionato) per imputazioni anche infondate. E se ne conoscono esempi... È imbarazzante che, irresoluta e timorosa di giudici alla Davigo, la sinistra abbia lasciato ai leghisti la difesa (magari “pelosa”, ma sacrosanta) di principi di libertà, giustizia e ragionevolezza sanciti dalla Costituzione. È stata, infatti, l’opposizione di Salvini, ben più efficace di quella di giuristi indipendenti, avvocati e vari cittadini, ad ottenere che sia posticipata di un anno la operatività della norma liberticida. Che però “verrà approvata subito” nel ddl anticorruzione, seppur corredata da un’ambigua “intesa” raggiunta con Di Maio. Che, cioè, “di pari passo” entro l’anno (figurarsi!) si approverà una “storica ed epocale” riforma complessiva del processo penale che ne abbrevi la durata. Il compromesso, però, è stato subito interpretato in modo opposto dai due. Per i leghisti, il blocco della prescrizione non entrerà in vigore senza l’approvazione di quella mirabolante riforma. Per i grillini, al contrario, indipendentemente da essa la prescrizione scomparirà nel 2019, con tanti saluti agli innocenti sacrificati. Truffe. Solo altre truffe. Buone per i gonzi. E per la sinistra. Che sta a guardare le (5) stelle e i Davigo. E litiga. In vista del congresso. *Professore emerito di Diritto romano all’Università “Federico II” di Napoli Bisogna cambiare la prescrizione? ilpost.it, 12 novembre 2018 In molti pensano che il sistema odierno vada rimpiazzato, ma non c’è accordo sul come. Dopo giorni di scontri, il governo ha deciso di posticipare al 2020 l’entrata in vigore del blocco della prescrizione, un controverso provvedimento che farà si che una volta giunti alla sentenza di primo grado i processi non potranno più concludersi con l’estinzione del reato, indipendentemente da quanto tempo sarà trascorso. La decisione è il frutto di un compromesso tra il Movimento 5 Stelle, che a sorpresa una settimana fa aveva introdotto il provvedimento nel decreto legge anti-corruzione, e la Lega, che invece è contraria a modificare la prescrizione senza una complessiva riforma del processo penale. Come spesso accade, anche questo compromesso lascia quasi tutti scontenti. Gli avvocati penalisti, che lo contestavano fin dall’inizio, hanno annunciato lo sciopero, mentre diversi esponenti della Lega sostengono che il provvedimento andrà modificato ancora in futuro. I giornali parlano di delusione anche tra i parlamentari del Movimento 5 Stelle, mentre l’ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Piercamillo Davigo, favorevole al blocco, dice che se ne vedranno gli effetti soltanto “dopo che sarò morto”. Come funziona la prescrizione, e perché è un tema così controverso? La prescrizione è una forma di garanzia per gli imputati contro l’eccessiva lunghezza dei processi, e uno strumento che lo Stato può utilizzare quando non è più interessato a perseguire alcuni reati. In sostanza, la prescrizione fa sì che trascorso un certo tempo da quando un reato è stato commesso, quel reato si estingue e diventa non più perseguibile. L’idea alla base della norma è che nessuno - tra proroghe delle indagini, processi lunghissimi e magari da ripetere - possa e debba restare sotto processo per un tempo irragionevole (potenzialmente a vita), con gli enormi costi economici e personali che questo comporta, e anche che tra il presunto reato e la condanna debba passare un tempo ragionevolmente breve, perché abbia senso fare giustizia. La prescrizione è diffusa in varie forme in tutti i paesi europei e negli Stati Uniti. In Italia però la prescrizione è un tema altamente politicizzato dai tempi di Silvio Berlusconi, quando una serie di leggi accusate di essere “ad personam”, cioè fatte per favorire Berlusconi e i suoi alleati, portò a una netta riduzione dei suoi tempi. Da allora molte persone pensano che la prescrizione sia uno strumento che serve ai potenti per sfuggire alla giustizia. In Italia sono soggetti alla prescrizione tutti i reati che tra le loro pene non prevedono l’ergastolo. La prescrizione scatta quando, dal momento in cui è stato commesso il presunto reato, trascorre un numero di anni pari alla pena massima prevista per quel reato, con un minimo di sei; quattro invece per le contravvenzioni, per esempio le violazioni dei regolamenti ambientali. Alcuni atti nel corso del procedimento, dall’ordinanza di arresto alle sentenze, “interrompono” il corso della prescrizione, cioè fanno ripartire da zero il conteggio. Queste interruzioni però non possono rimandare all’infinito la prescrizione, che arriva in ogni caso quando sono trascorsi i termini previsti, cioè un tempo pari alla massima condanna prevista per quel reato, più un quarto: questo è il meccanismo che fa più spesso scattare la prescrizione. Il reato di corruzione per esercizio delle proprie funzioni, per esempio, prevede una pena massima di sei anni: quindi si prescrive entro 7 anni e sei mesi dal momento in cui viene commesso, indipendentemente da eventuali interruzioni che abbiano fatto partire il riconteggio nel corso del procedimento. Lo scorrere della prescrizione viene invece effettivamente fermato nel caso delle “sospensioni”, per esempio quando la difesa dell’imputato chiede di rimandare un’udienza (quindi il nostro processo per corruzione può effettivamente durare più di 7 anni e sei mesi dal momento in cui viene commesso il reato, ma solitamente non molto di più visto che le “sospensioni” sono per lo più di breve durata). In Italia oggi circa il 10 per cento dei procedimenti finisce in prescrizione, un dato in calo rispetto al massimo raggiunto nel 2004, quando se ne prescrissero quasi il 15 per cento, ma in aumento rispetto al 2012 quando ne vennero prescritti il 7,8 per cento. Secondo gli ultimi dati disponibili, che risalgono al 2014, i processi per i cosiddetti “reati dei colletti bianchi” - quelli di funzionari, imprenditori, pubblica amministrazione - finiscono in prescrizione in media un po’ più spesso degli altri: il 12,5 per cento dei procedimenti per reati contro la pubblica amministrazione e il 13,2 per cento dei reati societari finiscono estinti per prescrizione. Nella maggioranza dei casi, più del 60 per cento delle volte, la prescrizione scatta in fase di indagine: prima ancora che inizi il processo. Questo avviene perché i reati vengono scoperti troppo tardi e quindi non c’è tempo sufficiente per terminare le indagini, oppure perché le indagini vanno molto per le lunghe e vengono più volte prorogate, o più spesso perché le procure a corto di personale sono costrette a trascurare i fascicoli dei reati minori per concentrarsi su casi più importanti, lasciando che i primi cadano in prescrizione. Attualmente si stima infatti che ai tribunali italiani manchino circa 10 mila dipendenti per poter funzionare a pieno regime. I critici dell’attuale sistema sostengono che, per come è regolata in Italia la prescrizione crei un forte incentivo a non utilizzare forme alternative più rapide per arrivare a un giudizio (per esempio il rito abbreviato) e incoraggi gli imputati a fare appello ai vari gradi di giudizio nel tentativo di allungare il procedimento e ottenere così la prescrizione. Sempre secondo i critici, la prescrizione in questa forma viene usata in particolare dai colpevoli di reati da “colletti bianchi”, che avendo spesso pene relativamente basse vengono prescritti rapidamente. I difensori dell’attuale sistema sostengono invece che sia una forma essenziale di protezione dell’imputato dalla lunghezza dei processi, che in Italia è un problema particolarmente grave, e che serva a tutelare gli imputati anche da eventuali abusi dei magistrati. La Costituzione italiana, infatti, garantisce processi di durata ragionevole, e senza prescrizione questa disposizione rischierebbe di essere lasciata disattesa in molti casi. In Italia i processi penali di primo grado durano in media il doppio che in Germania, mentre quelli d’appello durano più del triplo (qui trovate tutti i dati dell’ultimo rapporto realizzato dal Consiglio d’Europa). Nel corso degli anni quasi tutte le principali istituzioni europee e internazionali, dalla Commissione europea al Consiglio d’Europa passando per l’OCSE, hanno suggerito all’Italia di modificare il funzionamento della prescrizione e adeguarlo ai sistemi in vigore nel resto d’Europa, con lo scopo in particolare di garantire una maggiore certezza della pena nei confronti dei reati commessi dai “colletti bianchi”. Come funziona nel resto del mondo - In Francia il conto alla rovescia della prescrizione riparte in seguito a qualunque attività giudiziaria sul caso, e non è previsto un “termine massimo” oltre quale scatta la prescrizione come in Italia: finché ci sono udienze e finché i giudici sono attivamente al lavoro sul procedimento, quindi, la prescrizione non scatta mai. In Germania vige un sistema simile, ma come in Italia esiste un tempo massimo oltre il quale non si può andare: il doppio del termine massimo di prescrizione (in Italia, come abbiamo visto, è un quarto in più e si arriva al doppio solo in casi molto particolari). In Spagna la prescrizione è sospesa fino a che il processo in corso non è terminato (si blocca quindi dall’inizio del processo alla sua fina e scorre soltanto nelle fase intermedie). La Grecia è uno dei pochi paesi ad avere un sistema simile a quello italiano, in cui lo scorrere della prescrizione può essere sospeso ma il conteggio non ricomincia mai, e quindi un processo può estinguersi per prescrizione a pochi giorni dalla sentenza. Il sistema italiano quindi è attualmente piuttosto peculiare in Europa e, tra i principali paesi dell’Unione, è simile soltanto al sistema greco. Rispetto a quello di sistemi giudiziari molto simili al nostro, come quello francese, è più favorevole agli imputati, stabilendo una durata massima del procedimento relativamente breve per molti casi. Cosa cambia la proposta del Movimento 5 Stelle - Il Movimento 5 Stelle ha deciso di intervenire sulla prescrizione a sorpresa, presentando un emendamento al decreto anti-corruzione già approvato dal governo e in fase di conversione in legge alla Camera. Il gesto ha colto alla sprovvista gli alleati della Lega e ha portato a uno scontro tra i due partiti, che si è concluso con la mediazione di ieri. L’emendamento presentato dal Movimento 5 Stelle sarà approvato, ma i suoi effetti entreranno in vigore a partire dal primo gennaio 2020. L’emendamento consiste in poche righe che hanno l’effetto di bloccare completamente la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, sia in caso di assoluzione che di condanna. In altre parole, una volta emessa la sentenza di primo grado un procedimento penale potrebbe teoricamente durare all’infinito, fino alla morte degli imputati. La Corte d’appello, cioè il tribunale che si occupa del secondo grado, potrebbe dimenticarsi il fascicolo, ma anche dopo 20 o 30 anni l’imputato sarebbe ancora imputato: il processo potrebbe ricominciare in qualsiasi momento. Se venisse confermato, quindi, il provvedimento porterebbe l’Italia da una situazione peculiare a un’altra situazione peculiare. In quasi tutta Europa, infatti, i termini della prescrizione sono più severi che in Italia, ma sono comunque previsti dei termini, in modo che gli imputati dimenticati per decenni dalla giustizia non rischino di trovarsi improvvisamente di nuovo coinvolti in un processo. Con questo sistema, invece, non ci sarebbe alcun limite una volta emessa la sentenza di primo grado. Una situazione simile a quella del Regno Unito, dove però vige un sistema giudiziario completamente differente. Prescrizione, la cattiva riforma che vuole tutti colpevoli e ingolfa la giustizia di Paolo Tosoni ilsussidiario.net, 12 novembre 2018 L’accordo di governo prevede che la prescrizione entri in vigore nel 2020. La sua abolizione, oltre che frutto di demagogia, è incostituzionale. Da più di vent’anni, nel nostro Paese, la giustizia penale è sovraesposta e utilizzata come strumento di lotta politica e di accaparramento del consenso. Solo così si spiega l’ultima decisione della maggioranza parlamentare che si appresta a varare il disegno di legge in materia di “Misure di contrasto dei reati contro la Pubblica amministrazione” in relazione al quale, come noto, è stato presentato l’emendamento governativo per l’abolizione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. L’inganno che si cela dietro gli slogan populisti che annunciano una nuova stagione della giustizia, senza più strategie dilatorie per far prescrivere i processi, garantendo l’impunità ai colpevoli, è che il vero problema, la vera anomalia italiana è la lentezza dei processi (anche e soprattutto di quelli civili, di cui nessuno parla più) e non i termini prescrizionali, di per sé molto lunghi. Peraltro nella passata legislatura questi termini sono stati ulteriormente allungati, sia innalzando a dismisura le pene edittali dei principali reati contro la Pa (con conseguente aumento dei termini prescrizionali), sia prevedendo periodi di sospensione della prescrizione tra una fase e l’altra del processo (cfr. legge 103/2017). Ci si dimentica che la prescrizione è un istituto di garanzia a presidio del giusto processo (e della sua ragionevole durata), previsto dall’art. 111 della Costituzione. Abolire tale istituto, anziché intervenire sulle regole processuali e le disfunzioni del sistema che determinano la patologica lunghezza dei processi, significa togliere quel presidio che, nell’attuale sistema, costituisce l’ultimo argine per non avere processi infiniti: cioè, letteralmente, che non finiscono mai. Se si volesse veramente avere una giustizia penale celere ed efficace si dovrebbe pensare ed approntare una riforma processuale organica, sia intervenendo su alcuni passaggi chiave delle fasi processuali, oltre che investire in risorse per adeguare strutture e organici del personale amministrativo e dei magistrati: in tal modo avremmo processi che potrebbero agilmente concludersi prima dello scadere dei già lunghissimi termini prescrizionali. Viceversa, abolire la prescrizione dopo la sentenza di primo grado (senza distinguere tra condanna e assoluzione), significherà, di fatto, avere migliaia di processi i cui appelli saranno celebrati dopo molti anni, così come il successivo terzo grado avanti la suprema Corte di Cassazione, senza più neppure la responsabilità dei giudici di evitare che il processo si prescriva. Nell’attuale sistema giudiziario, i cui limiti burocratici e organizzativi sono sotto gli occhi di tutti, questa sarà l’inevitabile realtà. Per comprendere l’assurdità, oltre che l’ingiustizia di tale abolizione, si pensi al cittadino processato e assolto in primo grado, nei cui confronti la pubblica accusa proponga appello: questo cittadino, presunto innocente e ritenuto tale, rimarrebbe imputato e sotto processo per anni, senza limite, con tutte le gravi conseguenze di questo status. In barba alla tanto decantata civiltà giuridica italiana, si trasforma il processo stesso in pena. L’inganno è ben congegnato da parte dell’attuale Governo: prevedere l’abolizione dopo la sentenza di primo grado a partire dal gennaio 2020 per mantenere il consenso, così prezioso in vista dell’appuntamento elettorale europeo, annunciando altresì una fantomatica riforma di accelerazione dei processi che, sia consentito il legittimo sospetto, se veramente si volesse fare, non avrebbe senso abolire l’attuale istituto della prescrizione, ampiamente sufficiente a garantire la celebrazione di processi di ragionevole durata. La verità è che questa maggioranza, caratterizzata da un’evidente connotazione populista, utilizza e strumentalizza la giustizia penale proclamando riforme che catturano l’immediato consenso di una parte della popolazione che non è in grado di comprenderne gli effetti destabilizzanti sugli equilibri e i meccanismi del sistema. Si collocano in quest’ottica la proclamata riforma della legittima difesa, il ddl cosiddetto “spazzacorrotti”, il cosiddetto “Decreto sicurezza”, la non approvazione della riforma Orlando sulle condizioni di vita carceraria, con un più adeguato percorso di espiazione della pena, attraverso un maggiore accesso alle misure alternative. Inutile dire che le emergenze del Paese in questo momento sono altre, ma la sconcertante improvvisazione dei nostri governanti, che sta trascinando l’Italia in una profonda crisi annunciata, è in parte mitigata e nascosta da questi provvedimenti che, solo apparentemente, fanno sentire più al sicuro una parte della cittadinanza. Prescrizione emergenza napoletana di Massimo Krogh La Repubblica, 12 novembre 2018 Intorno alla prescrizione del reato (prescrizione sostanziale) si torna a parlare ogni giorno, sempre per cambiare mai per concludere. In realtà, parrebbe che secondo logica e intelligenza dovrebbe essere sostituita dall’istituto della prescrizione del processo (prescrizione processuale), quantomeno per adeguarci ai paesi avanzati, dove la prescrizione del reato non esiste. Vediamo le varie, autorevoli opinioni sul tema. In un’intervista, un ministro definì una “bomba sui processi” la sospensione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Ora attenua rinviando ad una complessiva riforma del processo, che permetterà di ridurne i tempi. Il Guardasigilli osserva a sua volta che la bomba che rischia di esplodere potrebbe essere “la rabbia dei cittadini di fronte all’impunità”; ma poi versa acqua sul fuoco assicurando contatti per riporre la questione in modo “strutturale”. Infine, aggiunge che le nuove regole sulla prescrizione partiranno dal 2020 e verosimilmente non avranno effetto prima del 2024. La Giunta della Unione delle Camere Penali ha emesso un comunicato criticando la proposta di sospendere la prescrizione dopo la sentenza di primo grado e “chiamando a raccolta tutti gli operatori del diritto, l’Accademia e quella Magistratura che intende ispirare la propria azione al rispetto dei principi e delle garanzie del giusto processo, in difesa del diritto penale liberale”. Sul tema, per la sua importanza, vi sono stati molti interventi. Impossibile citarli tutti, ma quasi tutti contrari. Va ricordato che il primo presidente della Cassazione ha logicamente suggerito di affrontare il problema “in modo organico”. E che la presidenza del Senato ha insistito sul fatto che “il vero nodo è ridurre i tempi del processo”. Gli avvocati annunciano scioperi. Il problema è molto sentito a Napoli, dove i proscioglimenti per prescrizione sono pressoché la regola; la durata del processo, di per sé intollerabile in Italia, a Napoli è ulteriormente aggravata dalla carenza dei magistrati, segnalata dai rappresentanti dei relativi uffici giudiziari. Di qui, il “trionfo” della prescrizione. A Nocera mancano cinque magistrati su dieci. Come si vede il problema è aperto, anzi spalancato, sotto molti e diversi aspetti. Giova ricordare che dal 1988, data in cui il processo penale è stato riformato con l’introduzione del rito accusatorio in luogo del rito inquisitorio, il processo penale ha avuto oltre cento riforme e dopo ogni riforma il suo funzionamento è peggiorato. Ciò va richiamato per sottolineare la persistente incapacità del Paese di migliorare il funzionamento della giustizia. Polemiche a parte, l’istituto della prescrizione del reato ha fatto molto parlare, ora come nel passato; peraltro, piuttosto che discuterne, basterebbe fare i processi. Non è superfluo qualche chiarimento per i non addetti ai lavori. Nei paesi della Commom law esiste una sorta di prescrizione del processo. Per parlare di processo accusatorio, da noi adottato nell’88, giova ricordare che nella patria di questo rito, l’Inghilterra, per le fattispecie di reato minori (summary offences) il processo deve iniziare non più tardi di sei mesi dal reato; per i reati molto gravi, invece, non esistono termini, vi è il principio dell’abuso di processo (abuse of process), in base al quale l’organo giudicante può fermare il processo, estinguendo l’azione penale, ove ritenga che il prolungamento possa divenire ingiustamente dannoso per l’accusato. L’istituto della prescrizione del reato, secondo le fonti storiche, troverebbe le sue origini nell’antica Roma, dove si ingiungeva agli accusatori di essere solerti e di abbreviare i processi. È un istituto che deriva dalla necessità di certezza del diritto, la quale non tollera una pretesa punitiva senza tempo; ma si dà il caso che la insopportabile durata dei processi in qualche modo è da noi connessa proprio alla durata della prescrizione del reato, in quanto gli operatori (magistrati e avvocati) spesso regolano le loro attività nel processo a misura della prescrizione. Sicché, allungandola si finirebbe con l’allungare i processi; ma anche sospendendola dopo il processo di primo grado vi sarebbe il probabile riflesso di un allungamento, nel senso di accreditare un processo senza scadenze. In verità, la soluzione più efficace parrebbe quella di sostituire la prescrizione del reato con la prescrizione del processo, adeguando il nostro ordinamento processuale alla cultura della Common law, che ha sempre guardato alla durata del processo per considerarlo “giusto”. Tempo fa ebbe risalto la notizia di un uomo che aveva dichiarato pubblicamente di aver ucciso la moglie molti anni prima; non fu processato perché il reato era prescritto. Se invece della prescrizione del reato fosse stata in vigore la prescrizione del processo, quell’assassino avrebbe potuto essere processato, nei tempi ragionevoli. Ciò parrebbe la cosa giusta, ma non sembra che sia tale per il nostro legislatore. Il 3 agosto del 2006 pervenne al dicastero della Giustizia la bozza di legge delega per la riforma del Codice di procedura penale della commissione ministeriale presieduta dal professore Giuseppe Riccio. Nella relativa relazione si premetteva che la centralità del dibattimento era rimasta un mero proponimento, visto che la fase delle indagini si diffondeva in lungo e largo senza alcuna attenzione ai termini. La relazione Riccio mirava ad un sostanziale cambiamento, in particolare, senza abrogare la prescrizione sostanziale, si proponeva l’introduzione di una forma di prescrizione processuale, derivata dalla necessità di un confronto fra la pretesa punitiva dello Stato e il diritto del soggetto sottoposto a non essere pregiudicato dall’ingiustificata durata del processo; ciò in coerenza con il principio di presunzione di non colpevolezza. La bozza prevedeva che il tempo di prescrizione del processo iniziasse a decorrere dopo il rinvio a giudizio. La cosa non andò in porto. Occorre ricordare che la durata del nostro processo è stata più volte condannata dall’Europa, ha gravi effetti sullo sviluppo sostenibile del paese ed è “vergognosamente” sotto gli occhi di tutti. L’esperienza ha insegnato che la prescrizione sostanziale non giova al processo, anzi lo allunga, quindi dovrebbe farsi una riflessione se abbia fatto il suo tempo e soprattutto se sia in linea con il rito accusatorio, cosa che parrebbe da escludere. Ad ogni modo, piuttosto che modificarla, come ora si vorrebbe, sarebbe forse meglio sostituirla con una prescrizione processuale formulata nei corretti termini; vale a dire si prescrive il processo e non il reato. Non basta, però, ripetere che nessuna modifica potrà produrre effetti concreti ed utili, se nei siti dovuti non si capisce che la giustizia è un valore primario, addirittura è la premessa perché un paese possa dirsi civile. I rischi dell’accordo sul blocco della prescrizione di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 12 novembre 2018 L’accordo fra Lega e M5S sulla riforma della prescrizione è stato raggiunto: il blocco dopo la sentenza di primo grado, anche se di assoluzione, rimarrà all’interno del disegno di legge anticorruzione, messo a punto dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e attualmente all’esame della Camera dei deputati. Ma lo stop alla prescrizione fortemente voluto dal M5S non entrerà subito in vigore: l’intesa prevede infatti che scatti dal primo gennaio 2020 e, secondo la Lega, dopo la riforma del processo penale che dovrebbe partire nei prossimi giorni al Senato. Secondo il ministro Giulia Bongiorno la modifica della prescrizione va assolutamente collegata alla durata certa dei processi, mentre secondo il M5S l’entrata in vigore, dal 2020, dovrebbe scattare a prescindere. L’accordo di Governo suscita diverse perplessità. Il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado (sia in caso di condanna che di assoluzione) impatta in realtà su un sistema in cui, a seguito delle riforme che si sono succedute negli ultimi anni (l’ultima varata dal Governo Gentiloni circa un anno fa), i reati di maggiore allarme sociale già oggi sono caratterizzati da tempi molto lunghi (in alcuni casi oltre 40 anni). I dati del ministero della giustizia riferiti al 2015 hanno dimostrato che la prescrizione ha riguardato solamente il 4% dei procedimenti penali: una percentuale destinata a diminuire, visto l’ulteriore allungamento dei termini di prescrizione per alcuni reati - tra i quali quelli contro i minorenni e la pubblica amministrazione - e il congelamento della prescrizione per un periodo di 18 mesi in caso di condanna sia dopo il primo che dopo il secondo grado di giudizio, introdotto dal ministro Orlando. Nella maggior parte dei casi, la prescrizione riguarda principalmente reati che non costituiscono una priorità per la magistratura, che perciò li lascia prescrivere nel limbo delle indagini preliminari per anni. Ma c’è un altro aspetto che suscita molte preoccupazioni e cioè il condizionamento, sostenuto dalla Lega, dell’efficacia di una disposizione di legge al verificarsi di una condizione futura e incerta e cioè l’entrata in vigore di un’altra riforma, quella penale, che non ha ancora avviato il suo cammino parlamentare. La formazione delle leggi è disciplinata in modo preciso dalla Costituzione (difesa, fra l’altro, con grande impegno dalle due attuali forze di Governo in occasione del referendum del 2016): agganciare l’efficacia futura di una norma alla scommessa sulla tenuta della maggioranza e del Governo, e alla condizione chi si riesca ad approvare entro un anno una riforma del processo penale che ancora non ha tagliato i nastri di partenza, non sembra in linea con il dettato costituzionale. Il fatto è doppiamente grave se si pensa che si tratta di una legge in materia penale. Al di là del fatto che in un anno (con in mezzo il decisivo passaggio delle elezioni europee) le maggioranze politiche possono cambiare, si creerebbe un precedente molto pericoloso: la nuova norma sulla prescrizione sarà infatti contenuta in una legge dello Stato in vigore. Ci sarebbe quindi il rischio che qualche magistrato provasse ad applicarla, magari con una sentenza “creativa”, un evento cui, purtroppo, abbiamo già assistito. Questo modo di legiferare “per proclami” dimostra inoltre che la legge non è più il fine dell’azione politica, ma ne è diventato il mezzo, uno strumento per mantenere o aumentare il consenso nell’immediato. Attenzione però: a pagarne il prezzo saranno i cittadini e gli operatori del sistema che avrebbe invece bisogno di risorse estremamente qualificate. Caiazza (Ucpi): “Processi rapidi. Serve passione civile per fare il penalista” di Marzia Paolucci Italia Oggi, 12 novembre 2018 Ha festeggiato il compleanno con l’elezione a presidente dell’Unione camere penali nell’ultimo congresso Ucpi del 19-21 ottobre scorso: Gian Domenico Caiazza, 62 anni, di Salerno, già presidente della Camera penale di Roma che ha presieduto dal 2006 al 2010. Un profilo, il suo, costruito in anni di carriera iniziata a Roma dove si è laureato. Avvocato di Enzo Tortora nella causa per responsabilità dei magistrati che lo avevano ingiustamente arrestato e condannato, difensore di Marco Pannella con altri militanti radicali per i processi penali nati dagli atti di disobbedienza civile e in processi penali di rilievo nazionale, quando lo sentiamo al telefono, è reduce da un incontro con il ministro della giustizia Alfonso Bonafede. In quella sede ha ribadito sia “la contrarietà alle iniziative governative in materia di sicurezza e di reati contro la pubblica amministrazione” che definisce “ispirate al populismo giudiziario e contrarie al dettato costituzionale” che la richiesta di ritiro dell’emendamento sulla prescrizione promettendo altrimenti “lotta dura perché i diritti costituzionali non si toccano”. Domanda. Presidente Caiazza, voi avete intitolato l’ultimo congresso alle “garanzie da difendere nell’epoca dei populismi”, quali sono secondo lei quelle che stanno venendo meno? Risposta. Le garanzie costituzionali fondamentali: diritto di difesa, diritto alla ragionevole durata del processo, presunzione di innocenza e finalità rieducativa della pena. Tutte garanzie messe in pericolo sia dal programma che dalla sua attuazione del nuovo Governo. D. Avete chiesto al ministro Bonafede il ritiro dell’emendamento che introduce la sospensione del processo dopo la sentenza di primo grado. Cosa vi ha risposto? R. Il ministro ci ha ribadito la sua volontà di andare avanti sull’emendamento. Ma c’è una doppia questione da valutare: di metodo e di merito. Sul primo, posso solo dire che non si interviene con un emendamento senza nemmeno consultare la comunità dei giuristi, avvocati, magistrati e professori universitari. Mentre sul secondo, si va a colpire un istituto posto a garanzia della persona sottoposta a procedimento penale lasciandola in balia del processo senza un limite di tempo, rimessa all’arbitraria determinazione dell’autorità giudiziaria. Se si toglie l’unico argine che garantisce l’esistenza di un termine al processo, ci si condanna alla loro durata infinita. D. Quali sono i concetti caposaldo del processo penale su cui intende fondare il suo mandato? R. I processi devo essere rapidi e celebrati da un giudice terzo, equidistante. Cosa che in questo momento non è, per questo abbiamo raccolto le firme per arrivare a una legge di iniziativa popolare sulla separazione delle carriere in risposta a un comando costituzionale. L’articolo 111 che impone che il giudice sia terzo, cioè equidistante da pm e parte. D. Com’è fare l’avvocato penalista oggi? Iscritti, prospettive e criticità. R. Abbiamo circa 9 mila iscritti e più di 130 camere penali. La nostra professione vive una grande crisi perché è messo in discussione il nostro ruolo sociale. Considerati come un intralcio, siamo i protagonisti del processo e invece vediamo il nostro ruolo svilito perché siamo visti come lo strumento del delinquente per farla franca. Ecco perché ci battiamo per il diritto di difesa e l’accrescimento della nostra qualità nel senso di una specializzazione penalistica che chiediamo da almeno 15-20 anni, ai governi succedutisi. C’è da dire che annualmente attiviamo corsi di formazione a livello nazionale e nelle camere territoriali, la specializzazione che manca alla categoria ce la facciamo da soli. D. Che consiglio darebbe a un giovane che voglia fare l’avvocato? R. Che sia consapevole della passione civile che richiede la professione. Decreto sicurezza. Stretta contro l’accattonaggio di Stefano Manzelli Italia Oggi, 12 novembre 2018 Pene severe per chi esercita l’accattonaggio con modalità vessatorie o simulando deformità o malattie o attraverso il ricorso a mezzi fraudolenti per destare l’altrui pietà e per chi organizza l’altrui accattonaggio, se ne avvale o lo favorisce a fini di profitto. Inasprimento della pena detentiva per l’invasione di terreni ed edifici, in particolare se il fatto è commesso da più di cinque persone ovvero da persona palesemente armata. Sono alcune delle modifiche del codice penale previste dal disegno di legge di conversione del decreto legge sicurezza n. 113/2018 all’esame della Camera dopo l’approvazione in prima lettura del Senato. Accattonaggio molesto. Il disegno di legge prevede l’introduzione nel codice penale del reato di esercizio molesto dell’accattonaggio. Il nuovo articolo 669-bis c.p. sanziona con la pena dell’arresto da tre a sei mesi e con l’ammenda da euro 3 mila a euro 6 mila chiunque esercita l’accattonaggio con modalità vessatorie o simulando deformità o malattie o attraverso il ricorso a mezzi fraudolenti per destare l’altrui pietà, prevedendo inoltre il sequestro delle cose che sono servite o sono state destinate a commettere l’illecito o che ne costituiscono il provento. La nuova fattispecie di reato riprende quando previsto dal secondo comma dell’abrogato articolo 670 del codice penale, che sanzionava il reato di mendicità, punendo con la pena dell’arresto fino a tre mesi chiunque mendicava in luogo pubblico o aperto al pubblico (comma primo) e con la pena dell’arresto da uno a sei mesi nel caso in cui l’accattonaggio fosse stato commesso in modo ripugnante o vessatorio ovvero simulando deformità o malattie o adoperando altri mezzi fraudolenti per destare l’altrui pietà (comma secondo). Nel nuovo articolo 669 - bis del codice penale la fattispecie di esercizio molesto dell’accattonaggio ha carattere sussidiario, in quanto è configurabile soltanto qualora il fatto non costituisca più grave reato. A titolo esemplificativo, lo sfruttamento di anziani o disabili per l’accattonaggio può configurare il reato di riduzione o mantenimento in schiavitù, di cui all’articolo 600 c.p. e l’utilizzo di animali potrebbe integrare una forma di maltrattamento penalmente rilevante ai sensi dell’articolo 544-ter c.p., mentre, nei casi più gravi, in cui la mendicità si configura come particolarmente intimidatoria e invasiva, si potrebbe considerare configurabile il reato di violenza privata di cui all’articolo 610 Inoltre, il disegno di legge approvato dal Senato modifica la disciplina del reato di impiego di minori nell’accattonaggio sanzionando anche la condotta dell’organizzazione dell’altrui accattonaggio. La formulazione attualmente vigente dell’articolo 600-octies del codice penale (introdotto dalla legge n. 94 del 2009 contestualmente all’abrogazione dell’articolo 671, che disciplinava il reato contravvenzionale dell’impiego di minori nell’accattonaggio) sanziona con la pena della reclusione fino a tre anni chi si avvale per mendicare di una persona minore degli anni quattordici o, comunque, non imputabile, chi permette che tale persona, ove sottoposta all’autorità o affidata alla custodia o vigilanza del soggetto attivo, mendichi e chi permette che altri se ne avvalga per mendicare. Secondo il disegno di legge approvato dal Senato, nell’articolo 600-octies del codice penale viene inserito un nuovo comma che punisce con la pena della reclusione da uno a tre anni “chiunque organizzi l’altrui accattonaggio, se ne avvalga o lo favorisca a fini di profitto”. La nuova disposizione sembra essere finalizzata a sanzionare le forme di gestione imprenditoriale, sistematica e continuativa dell’attività di accattonaggio, con riferimento non soltanto all’organizzazione dell’accattonaggio minorile, ma, più genericamente, all’organizzazione dell’altrui accattonaggio. Invasione di terreni o edifici. Il primo comma dell’articolo 633 del codice penale sanziona con la pena della reclusione fino a due anni e con la multa da 103 a 1.032 euro la condotta di chi invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto. Il reato è perseguibile a querela della persona offesa. Il secondo comma dell’articolo 633 c.p. contempla due circostanze aggravanti speciali, che comportano la procedibilità d’ufficio: quando il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, e quando il fatto è commesso da più di dieci persone, anche senza armi. Le modifiche contenute nel disegno di legge di conversione del decreto sicurezza riscrivono l’articolo 633 c.p. modificando la pena detentiva prevista per l’invasione arbitraria di terreni o edifici dagli attuali “fino a due anni” a “da uno a tre anni”. Inoltre vengono ridefinite con la previsione della pena della reclusione da due a quattro anni e la multa da euro 206 a euro 2.064 nel caso in cui il fatto sia commesso da più di cinque persone ovvero da persona palesemente armata, venendo meno la circostanza aggravante che ricorre quando il fatto è commesso da più di dieci persone, anche non armate. Oltre a ciò, una modifica dell’art. 284 del codice di procedura penale prevede che la misura degli arresti domiciliari non possa essere eseguita presso un immobile occupato abusivamente. Decreto sicurezza. Telecamere e taser alla Polizia municipale di Stefano Manzelli Italia Oggi, 12 novembre 2018 Potenziamento della videosorveglianza comunale con massicci e consistenti contributi statali. Armi a impulsi elettrici in dotazione applicabile a tutti i Comuni capoluogo e ad altri Comuni che rientrino nei parametri connessi alle caratteristiche socioeconomiche, alla classe demografica, all’afflusso turistico e agli indici di delittuosità. Sono queste alcune delle misure per rinforzare la sicurezza urbana previste dal disegno di legge di conversione del decreto sicurezza n. 113/2018. Videosorveglianza comunale. Per il potenziamento dei sistemi di videosorveglianza urbana i Comuni potranno accedere ad ulteriori contributi finanziari statali oltre a quelli già previsti dai bandi ministeriali, comunitari e regionali. Si tratta di una dote di ben 90 milioni di euro che potranno essere erogati dal Viminale alle amministrazioni locali che si accorderanno con la prefettura per supportare tecnologicamente i moderni patti per la sicurezza. Il testo dell’articolato è molto sintetico e razionale. Al fine di potenziare gli interventi in materia di sicurezza urbana per la realizzazione degli obiettivi di cui all’articolo 5, lettera a) del decreto legge 20 febbraio 2017, n. 14 con riferimento all’installazione, da parte dei comuni, di sistemi di videosorveglianza, l’autorizzazione di spesa di cui all’art. 5, comma 2-ter, del dl 14/2017 è incrementata di 90 milioni nel quadriennio 2019-2022. In buona sostanza ai già previsti 37 milioni di euro fissati dal decreto sicurezza dell’ex ministro Minniti (e già incardinati in un apposito bando scaduto il 30 giugno scorso), il Viminale aggiunge ulteriori 90 milioni per un totale di 127 milioni di euro. Che andranno finalizzati al potenziamento degli impianti di videosorveglianza urbana integrata, previa sottoscrizione di appositi patti per la sicurezza tra il sindaco e il prefetto. È possibile che a questo punto il Viminale ritenga di allargare la forbice dei progetti che sono già in attesa di essere finanziati dal precedente bando scaduto da qualche mese. Oppure che decida di calendarizzare un nuovo bando specifico. Anche perché la tecnologia nel frattempo prosegue e pure le indicazioni normative, la prassi e la gestione del trattamento dei dati personali. Che in caso di impianto destinato alla tutela della sicurezza urbana potrà essere regolata ai sensi della direttiva Ue 2016/680 e solo marginalmente dal regolamento Ue 2016/679. Taser per la polizia locale. Il disegno di legge amplia la platea dei Comuni che possono sperimentare per sei mesi l’utilizzo di armi comuni a impulso elettrico da parte degli addetti della polizia locale muniti della qualifica di agente di pubblica sicurezza. Infatti, la disposizione del decreto legge diventerà applicabile a tutti i Comuni capoluogo e ad altri Comuni che rientrino nei parametri connessi alle caratteristiche socioeconomiche, alla classe demografica, all’afflusso turistico e agli indici di delittuosità, che saranno definiti con decreto del ministro dell’interno previo accordo sancito in sede di conferenza unificata. Baby-gang. Gli aggressori di Arturo e la sfida del recupero di Antonio Mattone Il Mattino, 12 novembre 2018 Chissà cosa deve essere passato nella mente dei tre minorenni quando hanno ascoltato la sentenza che li ha condannati a nove anni e tre mesi per la feroce aggressione ad Arturo. Così come vorremmo capire cosa avevano in testa quando lo hanno colpito con numerose coltellate alla gola e al torace, rischiando di ucciderlo. Dopo il verdetto alla baby-gang, che rappresenta un punto fermo di questa vicenda, comincia forse la fase più difficile, quella del recupero di questi minori. Quello che è certo è che non avrà nessun effetto di deterrenza verso la gioventù marginale e deviata della città. Se altri ragazzini si aggregheranno per mettere paura o per compiere azioni violente nei confronti di altri, difficilmente si ricorderanno mai degli anni di pena inflitti dal tribunale dei minori di Napoli agli assalitori di Arturo. Il malessere che prende i giovani violenti è qualcosa che non è indecifrabile. Ne abbiamo parlato tante volte sulle colonne di questo giornale. Nasce nel contesto familiare e ambientale e passa per il fallimento a scuola. Si tratta di ragazzi periferici, un po’ abbandonati e un po’ narcisisti in cerca di identità e riscatto, che per emergere e sentirsi “qualcuno” ostentano coltelli e aggressività fino a diventare cinici e spietati. Con un palcoscenico rappresentato dai social dove hanno il pubblico da cui farsi applaudire. E sotto l’effetto di droghe che assicurano impeto e incoscienza. Qualcuno ha definito troppo blanda la condanna, altri l’hanno considerata eccessiva. Ma al di là di un pronunciamento che appare ragionevole, il problema essenziale è come questi minori sconteranno gli anni di carcere che gli stanno davanti. Lo ha detto la stessa Maria Luisa Iavarone, la mamma di Arturo: “riusciranno a capire veramente il male che hanno fatto? E sapranno cambiare comportamenti e modelli di riferimento una volta che saranno tornati in libertà?” Qui il percorso appare tutto in salita. I tre non hanno mai mostrato un segno di pentimento, e durante questo anno sono apparsi spavaldi e privi della comprensione della gravità del gesto compiuto. Tuttavia non bisogna mai rinunciare a sperare nel cambiamento delle persone. Per recuperare quei ragazzi c’è bisogno di una grande azione educativa e di un efficace programma di osservazione e trattamento penitenziario. Di sicuro non serve metterli in cella e buttare la chiave. Uscirebbero peggiori di come sono entrati. Ma piuttosto occorre disattivare quella chiave interiore che ha innescato tanta violenza. Potrebbe essere interessante ad esempio metterli a confronto con persone deboli, come i senza fissa dimora o gli anziani. Ascoltando le loro storie e o facendo qualcosa di concreto, come preparargli i pasti, attività che fanno alcuni ragazzi di Nisida. Questo confronto oltre ad incuriosirli, potrebbe far emergere la loro debolezza, perché in fondo questi minori dietro l’arroganza nascondono un enorme vuoto e una grande fragilità. Ricette non ne esistono. Ma bisogna provarle tutte, ascoltando e cominciando un serrato confronto. E poi sarebbe bene avviarli a percorsi di formazione professionale, che possano appassionarli, responsabilizzarli e nello stesso tempo far intravedere qualche sbocco lavorativo. La nuova riforma dell’ordinamento penitenziario, tra le poche innovazioni positive, introduce alcune misure di comunità per i minori, anche se di durata inferiore a quelle previste nell’impianto dell’ex ministro Orlando. Se riscontriamo con favore il fatto che i minori debbano essere separati dai giovani adulti, cioè dai ragazzi che hanno meno di 25 anni e che hanno commesso il loro reato quando ne avevano meno di 18, bisogna segnalare la criticità che con il nuovo regolamento le celle possono ospitare fino a 4 reclusi invece dei 2 previsti fino ad oggi, con un evidente aggravio dei problemi di convivenza. In ogni caso questi ragazzi vanno accompagnati nel loro percorso rieducativo, con delle forti e autorevoli figure di riferimento che sostituiscano quei padri e quei maestri che non hanno avuto. Qualcuno ha chiesto ad Arturo se avrebbe perdonato i suoi aggressori. Ma il perdonismo è qualcosa che non ci convince e rimanda ai talk-show televisivi. E poi il perdono riguarda la sfera della propria coscienza e va in ogni caso chiesto, prima di essere concesso. Noi ci auspichiamo che un domani si possa incontrare con qualcuno dei suoi assalitori, anche solo per caso, e una volta chiariti si possano salutare con una sincera stretta mano. Post offensivi, il no dei social non deve bloccare le indagini di Marisa Marraffino Il Sole 24 Ore, 12 novembre 2018 Se il social network non collabora nell’identificazione dell’autore del reato, le indagini devono essere approfondite per individuare chi ha scritto il post. La battaglia contro il diniego delle autorità statunitensi di fornire gli indirizzi IP degli iscritti ai social network parte dalla Cassazione che con la sentenza 42630/2018 ha imposto ai giudici nazionali di motivare adeguatamente le ragioni dell’archiviazione a carico del presunto autore della diffamazione on line. La controversia - Il caso nasce da una querela per alcuni post offensivi pubblicati su Facebook da un utente la cui identità era rimasta incerta. Il gip del tribunale di Santa Maria Capua Vetere aveva disposto l’archiviazione dopo il rifiuto dei gestori di Facebook di fornire l’indirizzo IP dell’autore del messaggio. Fatti salvi i casi di utilizzo dell’utenza da parte di più persone o di uso abusivo del nickname, rintracciare l’indirizzo IP è importante perché consente di identificare con un elevato livello di certezza chi si muove dietro un nome di fantasia. Il decreto di archiviazione era stato però impugnato in Cassazione dalla persona offesa che aveva lamentato l’assoluta mancanza di indagini suppletive e di analisi degli ulteriori indizi forniti dalla persona offesa. Da qui la pronuncia degli ermellini che hanno imposto ai giudici di merito di andare oltre la mancata collaborazione dei social network e di approfondire tutti gli elementi utili alle indagini. Il “no” dei social - Spesso i social network sono restii a concedere all’autorità giudiziaria italiana l’accesso ai propri dati, non essendoci un obbligo giuridico in tal senso. In teoria, in base all’articolo 132 del Dlgs 196/2003 così come coordinato con il regolamento Ue 679/2016, basterebbe un decreto motivato del Pm per ottenere i dati sul traffico telematico degli utenti. E la richiesta, limitatamente alle utenze del proprio assistito, può provenire anche dal difensore. Ma i social network possono rifiutarsi di collaborare, chiedendo alle autorità procedenti di attivarsi tramite lo strumento della rogatoria, la cui complessità spesso fa desistere i magistrati dall’andare avanti. Oltre al fatto che, nei casi di diffamazione, la richiesta di rogatoria si scontra spesso con l’assenza della condizione di reciprocità, visto che negli Stati Uniti non rappresenta un reato ma soltanto un illecito civile. La maggior parte dei procedimenti per diffamazione i cui autori si celano dietro un nickname si concludono quindi con delle archiviazioni. L’ordinanza della Cassazione costituisce quindi un’inversione di tendenza che potrebbe influenzare l’incisività delle indagini. Se manca l’indirizzo IP, insomma, le indagini non devono fermarsi, ma i magistrati devono approfondire tutti gli elementi utili, fermo restando che gli altri elementi probatori devono essere così stringenti e ben motivati da condurre oltre ogni ragionevole dubbio all’identificazione dell’autore del post. Questo lo aveva già stabilito la stessa Cassazione che con la sentenza 5352/2017 aveva precisato che senza la verifica dell’indirizzo IP di provenienza, per raggiungere il massimo grado di certezza sulla paternità del post, sono necessari elementi probatori gravi precisi e concordanti. Colpa medica: linee guida sempre adeguate alla specificità del caso concreto di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 12 novembre 2018 Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 19 ottobre 2018 n. 47748. In materia di responsabilità professionale del medico, il disposto dell’articolo 590-sexies,introdotto dalla legge 8 marzo 2017 n. 24 (cosiddetta “legge Gelli-Bianco”) è subordinato, nella sua operatività all’emanazione di linee-guida “come definite e pubblicate ai sensi di legge”. La Cassazione, sentenza 47748/2018, ricorda che la norma richiama, infatti, l’articolo 5 della stessa legge, che detta un articolato iter di elaborazione e di emanazione delle linee-guida, di guisa che, in mancanza di linee-guida approvate ed emanate mediante il procedimento di cui al citato articolo 5, non può farsi riferimento all’articolo 590-sexies del codice penale, se non nella parte in cui questa norma richiama le “buone pratiche clinico-assistenziali”. Ne deriva che la possibilità di riservare uno spazio applicativo all’articolo 590-sexies del codice penaleè ancorata all’opzione ermeneutica consistente nel ritenere che le linee­ guida attualmente vigenti, non approvate secondo il procedimento di cui all’articolo 5 della legge n. 24 del 2017, possano venire in rilievo, nella prospettiva delineata dalla norma in esame, come buone pratiche clinico-assistenziali. Opzione ermeneutica non agevole ove si consideri che le linee guida differiscono notevolmente, sotto il profilo concettuale, prima ancora che tecnico-operativo, dalle buone pratiche clinico-assistenziali, sostanziandosi in raccomandazioni di comportamento clinico sviluppate attraverso un processo sistematico di elaborazione concettuale, volto a offrire indicazioni utili ai medici nel decidere quale sia il percorso diagnostico­ terapeutico più appropriato in specifiche circostanze cliniche: esse consistono, dunque, nell’indicazione di standard diagnostico-terapeutici conformi alle regole dettate dalla migliore scienza medica, a garanzia della salute del paziente e costituiscono il condensato delle acquisizioni scientifiche, tecnologiche e metodologiche concernenti i singoli ambiti operativi, e, quindi, si sostanzino in qualcosa di molto diverso da una semplice buona pratica clinico-assistenziale. Come è noto, in tema di responsabilità del medico, l’articolo 6 della legge 8 marzo 2018 n. 24 (cosiddetta “legge Gelli- Bianco”), nell’abrogare l’articolo 3, comma 1, della legge 8 novembre 2012 n. 189 (cosiddetta “legge Balduzzi”), secondo cui “l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve”, ha introdotto nel codice penale l’articolo 590-sexies del codice penale, dedicato alla responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario, che recita: “1. Se i fatti di cui agliarticoli 589e590 sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma. Qualora l’evento si è verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”. Con riferimento alle “linee guida”, si deve quindi trattare, come recita il comma 1 dell’articolo 5 della stessa legge n. 24 del 2017, di linee guida pubblicate con la dettagliata disciplina prevista dal successivo comma 3 ed elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco istituito e regolamentato con decreto del ministro della Salute, da emanare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, e da aggiornare con cadenza biennale. All’evidenza, è una soluzione apprezzabile laddove per un verso offre spazi sicuri di operatività per il sanitario, e per altro verso esclude il rischio di fare entrare nel processo ricostruzioni - magari opinabili o frutto di convinzioni soggettive - sulle buone prassi da invocare nel caso concreto a opera dei consulenti/periti chiamati a giudicare dell’operato del sanitario. In senso contrario, però, non si può trascurare il rischio potenziale di “irreggimentare” in tal modo l’approccio del sanitario alla cura del caso sottopostogli, finendo con il mortificare di fatto la specificità professionale del singolo medico, chiamato a prendere su di sé il rischio della scelta tra il seguire pedissequamente le linee guida codificate (per eludere la responsabilità, comunque vada) e il percorrere un percorso diagnostico o curativo differente, di cui si sia intimamente convinti e/o che trovi conforto in buone prassi non codificate (ma con l’impossibilità o la difficoltà di valersi poi della non punibilità). Questo è un dubbio operativo di non poco momento, ove si consideri che le buone prassi assistenziali [diverse da quelle “codificate” come sopra], nel disegno della legge, assumono un ruolo esimente solo se queste ultime manchino. Si tratta di una scelta che, se vale - come detto - a ricondurre a certezza il tema delle linee guida valevoli per l’esonero della responsabilità, porta con sé l’inconveniente di “condizionare” il sanitario che, invece, sia convinto di coltivare un (diverso) percorso terapeutico, ritenuto migliore per il paziente, ma non “codificato”. La verità - per non ridurre la professione sanitaria a una professione meccanicistica - è che le linee guida, anche se codificate nei rigorosi termini formali indicati nella legge n. 24 del 2017, non possono affatto eliminare l’autonomia del medico nelle scelte terapeutiche, giacché questi è sempre tenuto a prescegliere la migliore soluzione curativa per il paziente. E di questa situazione è consapevole lo stesso legislatore allorquando evoca la necessità che le linee guida devono pur sempre essere adeguate alla specificità del caso concreto. Stupefacenti: no alla “quantità ingente” se principio attivo è inferiore a 4.000 il valore soglia di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 12 novembre 2018 Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 29 ottobre 2018 n. 49366. La circostanza aggravante della “quantità ingente” di sostanza stupefacente (articolo 80, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990 n. 309), dopo il novum normativo introdotto a seguito della sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, non è di norma ravvisabile quando la quantità di principio attivo è inferiore a 4.000 volte (e non 2.000) il valore massimo in milligrammi (valore-soglia), determinato per detta sostanza nella predetta tabella allegata al decreto ministeriale 11 aprile 2006, ferma restando la discrezionale valutazione del giudice di merito, quando tale quantità sia superata (cfr., invece, sezioni Unite, 24 maggio 2012, Biondi). Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza 29 ottobre 2018 n. 49366. Si tratta di un orientamento minoritario e francamente creativo, secondo cui, per alcune sentenze della Cassazione, a seguito del novum normativo introdotto a seguito della sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, il parametro di riferimento quantitativo per stabilire la ricorrenza dell’aggravante, in caso di droghe leggere, dovrebbe essere pari a “4.000” il valore-soglia, pur restando sempre la discrezionale valutazione del giudice di merito, quando tale quantità sia superata (cfr. di recente sezione VI, 13 luglio 2017, Trifu). In realtà, sembra senz’altro preferibile l’orientamento prevalente secondo cui, in tema di circostanza aggravante dell’ingente quantità di sostanza stupefacente, prevista dall’articolo 80, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990 n. 309, il principio di diritto affermato dalle sezioni Unite (sentenza 24 maggio 2012, Proc. gen. App. L’Aquila e altro in proc. Biondi), in forza del quale l’aggravante non è di norma ravvisabile quando la quantità sia inferiore a “2.000 volte” il valore massimo in milligrammi (valore-soglia), determinato per ogni sostanza nella tabella allegata al Dm 11 aprile 2006, ferma restando la discrezionale valutazione del giudice di merito, quando tale quantità sia superata, mantiene validità anche dopo la sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale. Infatti, si sostiene convincentemente, il “senso” della decisione delle sezioni Unite è stato quello di trovare un parametro “convenzionale”, non arbitrario o invasivo delle competenze del legislatore, perché basato sull’esperienza giurisdizionale, cui poter ancorare una applicazione della norma tendenzialmente omogenea su tutto il territorio nazionale, conservando ovviamente gli spazi di libertà interpretativa del giudice in ragione delle peculiarità del caso concreto; cosicché, in questa prospettiva, i parametri indicati nel citato decreto ministeriale costituiscono solo un dato oggettivo da cui muovere e non già il presupposto di legittimità del ragionamento probatorio e dimostrativo (sezione IV, 15 novembre 2017, Corrao; sezione IV, 12 ottobre 2016, Palumbo e altro; sezione VI, 6 maggio 2015, Proc. gen. App. Bologna in proc. Perri; sezione VI, 4 febbraio 2015, Berardi). Quest’ultimo orientamento, in effetti, serve a guidare guida la discrezionalità del giudice, ma nel contempo fa salve le specificità del caso concreto, senza impegnarsi in azzardate ricostruzioni quantitative (cfr. il raddoppio del parametro utilizzato dalla sentenza Biondi) che risultano frutto di una lettura giurisprudenziale priva di sostanziali riferimenti normativi, neppure nel novum introdotto a seguito della sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale. Recidiva e reato continuato: coesistenza o inconciliabilità? Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 12 novembre 2018 Reato - Continuazione - Recidiva - Rapporto tra i due istituti - Incompatibilità - Esclusione. Non esiste incompatibilità tra gli istituti della continuazione e della recidiva essendo il primo finalizzato a riconoscere il minore disvalore della progressione criminosa che si esprime in esecuzione di un medesimo disegno criminoso; mentre la recidiva è funzionale a consentire la valorizzazione, nella determinazione della sanzione, della oggettiva crescente pericolosità attribuibile all’agente che reitera condotte penalmente rilevanti. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 26 ottobre 2018 n. 49092. Reato - Reato continuato - In genere - Recidiva e continuazione - Compatibilità. Non esiste incompatibilità tra gli istituti della recidiva e della continuazione, potendo quest’ultima essere riconosciuta tra un reato già oggetto di condanna irrevocabile e un altro commesso successivamente alla formazione di detto giudicato. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 3 maggio 2016 n. 18317. Reato - Reato continuato - In genere - Recidiva e continuazione - Compatibilità. Nel caso di reato commesso dopo il passaggio in giudicato di sentenze di condanna per reati in precedenza consumati, il riconoscimento della recidiva non è di ostacolo al contestuale riconoscimento della continuazione, ove si accerti la permanenza dell’identico disegno criminoso. La recidiva opera, infatti, soltanto relativamente ai reati commessi dopo una sentenza irrevocabile di condanna e il fatto che l’agente abbia persistito nella condotta criminosa nonostante la controspinta psicologica costituita dalla precedente condanna è conciliabile con il permanere dell’originario disegno criminoso. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 11 maggio 2016 n. 19477. Reato - Reato continuato - In genere - Recidiva - Compatibilità - Esclusione. Non vi è compatibilità tra recidiva e continuazione, con la conseguenza che non può tenersi conto della recidiva una volta ritenuta la continuazione tra il reato per cui sia pronunciata sentenza passata in giudicato, valutato come più grave e, pertanto, considerato reato base, e quello successivo, oggetto di ulteriore giudizio, in quanto i reati ritenuti in continuazione costituiscono momenti di un’unica condotta illecita, caratterizzata dalla reiterazione di diversi episodi delittuosi, consumati in attuazione di un medesimo disegno criminoso, con la conseguenza che non è possibile ritenere la recidiva per gli episodi successivi al primo. Tra i due istituti esiste, pertanto, assoluta antitesi, valorizzando la recidiva la speciale proclività a delinquere, espressa dalla reiterazione di reati consumati in piena autonomia rispetto a vicende pregresse ed elidendo la continuazione proprio la predetta autonomia, collegando ed unificando i diversi episodi criminosi. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 15 febbraio 2011 n. 5761. Campania: il Garante detenuti “nelle carceri la situazione è drammatica” Il Roma, 12 novembre 2018 Ciambriello: 7.400 carcerati, più della metà a Napoli. Forti criticità anche per le cure sanitarie. Sovraffollamento, scarsa presenza di figure sociali e difficoltà nell’accesso alla sanità. Sono queste le principali criticità del sistema carcerario in Campania secondo Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Regione Campania. In carica da poco più di un anno, Ciambriello ha già prodotto tre report sulla situazione delle carceri campane e visitato tutte le strutture presenti nella regione. “Nelle carceri della Campania - spiega - in questo momento sono ristretti circa 7.400 detenuti, 3.600 dei quali solo Poggioreale e Secondigliano e l’istituto minorile di Nisida. Poggioreale ospita in media 800 detenuti in più rispetto alla capienza stimata”. Anche i numeri relativi ai suicidi e ai tentativi di suicidio sono impressionanti: “Nel 2018 sono stati 8 i suicidi in carcere, 5 a Poggioreale, uno a Carinola, uno a Secondigliano e uno a Salerno, e oltre 70 tentativi di suicidio. Nel 2017 sono stati registrati 5 suicidi e 70 tentativi”. Una situazione difficile sulla quale, secondo Ciambriello, non inciderà un’eventuale modifica della prescrizione da parte del Governo: “Sull’emergenza sovraffollamento avrà un riflesso minimo, mentre stanno avendo ripercussioni i nuovi decreti che non lavorano sulle misure alternative al carcere. I vecchi decreti insistevano molto sulla popolazione carceraria che doveva scontare l’ultimo o gli ultimi due o tre anni di carcere. Con il nuovo Governo si sono chiuse queste possibilità, non si lavora sulle misure alternative al carcere”. Il report più recente stilato dal garante dei detenuti in Campania è concentralo sull’accesso alla sanità, uno dei punti maggiormente critici del sistema carcerario campano secondo Ciambriello: “Il rischio è che una persona entri in carcere perché ha commesso un reato ma che rischi di uscirne dopo aver sofferto di un caso di malasanità. In Campania sono pochi gli ospedali nei quali c’è un reparto per i detenuti, addirittura la provincia di Benevento è l’unica in Italia che non ha neanche un posto letto riservato ai detenuti”. In Campania sono attualmente 32 i posti letto negli ospedali da destinare alla popolazione ristretta, mentre solo a Poggioreale e Secondigliano vi è la presenza di centri clinici, oggi chiamati Sai, “ma non è un vero reparto ospedaliero”, sottolinea Ciambriello. A Poggioreale è presente un impianto di radiologia utilizzabile anche dai detenuti delle carceri limitrofe, ma non macchinari utili e necessari per effettuare in sede una Tac o riso- nanza magnetica”. Ciambriello si dichiara sostenitore della riforma della sanità penitenziaria che ha riportato il tema nelle competenze delle sole Asl “affermando il principio fondamentale che il diritto alla cura e alla salute è unico per la persona libera e priva di libertà”, ma sottolinea che “su questo tema in alcuni casi ho assistito a un rimpallarsi di responsabilità che offende le istituzioni e chi le rappresenta”. C’è poi il tema della salute mentale: “In Campania - ricorda Ciambriello - avevamo due grandi Opg, ad Aversa e Secondigliano, che sono stati chiusi e si è fatto bene. Ma in quei due Opg c’erano più di 400 persone, dove sono andate a finire? Sono state attivate articolazioni per la tutela della salute mentale in carcere, ma sono 6 per un totale di 70 posti. Ho l’impressione che queste articolazioni psichiatriche vengano usate come valvole di sfogo per ospitare e contenere detenuti problematici ma senza patologie psichiatriche conclamate, che hanno problemi di convivenza nelle sezioni ordinarie”. Campania: i Radicali “Pozzuoli carcere in salute, Fuorni da incubo” di Fabrizio Ferrante Ristretti Orizzonti, 12 novembre 2018 Le visite ispettive dei Radicali per il Mezzogiorno Europeo. I Radicali per il Mezzogiorno Europeo hanno visitato, sabato 10 novembre, le carceri di Pozzuoli e di Fuorni. Le ispezioni hanno concluso la due giorni che si era aperta venerdì 9 con le visite ispettive a Poggioreale e Secondigliano. Il carcere femminile di Pozzuoli conta al momento 174 detenute nonostante una capienza regolamentare di 109. Di queste, 45 sono straniere e dieci hanno meno di 25 anni. La maggior parte delle detenute sono “definitive” anche se c’è un intero reparto dedicato alle detenute in attesa di giudizio. Nella struttura sono presenti solo detenute di media sicurezza con l’aggiunta di alcune detenute cosiddette “protette” ma solo in via eccezionale. Questo perché il reparto ufficialmente destinato alle detenute protette si trova nel carcere di Benevento; gli ingressi totali nel 2017 ammontano a 264 mentre le uscite totali a 269 quindi ingressi e uscite si compensano. La polizia penitenziaria è presente con 100 agenti in servizio, rispetto ai 135 previsti dalla pianta organica. Le camere prevedono dai quattro fino a un massimo di dodici letti e sebbene i tre metri quadri calpestabili a persona (previsti dalla sentenza Torreggiani del 2013) siano rigorosamente rispettati, molte detenute evidenziano tra le principali criticità della struttura, la difficoltà di gestione degli spazi comuni con particolare riferimento all’unico bagno previsto in ciascuna cella. Tale problematica acuisce le possibilità di dissidio tra le detenute e aumenta la tensione. Questo soprattutto se in una cella che ospita dodici detenute c’è bisogno di fare turni per la doccia fin dalle 6 del mattino. I colloqui si svolgono tutti i giorni e oltre a quello fisso ogni settimana, le detenute hanno diritto ad un ulteriore colloquio premio; per i bambini è prevista un’area verde attrezzata con giochi e ben curata. È presente inoltre un reparto per la tutela e la cura delle detenute affette da disturbi di natura psichiatrica per un totale di otto posti. Il carcere di Pozzuoli è gestito secondo la filosofia della responsabilizzazione, quindi le detenute in alcuni reparti restano con le celle aperte da un minimo di otto ore e mezzo ad un massimo di dodici ore al giorno. Proprio in quest’ottica, la settimana scorsa il Dap ha approvato un progetto profondamente innovativo presentato proprio dal carcere di Pozzuoli. Questo prevede che in alcuni reparti del carcere, nel futuro prossimo, le detenute vengano lasciate libere di autogestirsi senza la presenza di un agente della polizia penitenziaria che resti in stazionamento fisso all’interno della sezione. Alle detenute definitive che abbiano dimostrato maggiori capacità di vivere pacificamente insieme alle proprie compagne e che non rappresentano un pericolo per sè stesse o per le altre, sarà data insomma piena fiducia. Tuttavia al fine di garantire la sicurezza delle detenute, nonché la capacità di tempestivo intervento in casi d’emergenza, sarà istallato un nuovo e più preciso sistema di videosorveglianza degli spazi comuni dei reparti. Rispetto all’ultima visita dei Radicali, lo scorso marzo, vi sono novità per quanto riguarda l’istruzione. Èinfatti sul punto di essere aperto un polo universitario, con ciò ascoltando le istanze di alcune detenute che ne avevano espressamente parlato durante il precedente incontro coi militanti dei Radicali per il Mezzogiorno Europeo. Nello specifico, sul fronte istruzione, sono previste scuola elementare e scuola media (il cosiddetto primo ciclo di studi); il biennio della scuola superiore (il cosiddetto secondo ciclo di studi); un corso d’italiano per straniere ed è in fase di avviamento il polo universitario per quattro detenute che ne hanno fatto richiesta. Nella visita ispettiva di marzo alcune detenute avevano esplicitamente richiesto che fosse fornita loro la possibilità di prendere una laurea, quindi i Radicali hanno salutato con estremo favore l’attivazione del polo universitario, a Pozzuoli e in altre strutture detentive nel napoletano, come Secondigliano. Per quanto riguarda il lavoro e le attività svolte nel carcere di Pozzuoli, il totale delle lavoranti ammonta a 35, di cui quattro in art.21. Le mansioni consistono in lavori domestici e di pulizia all’interno del carcere ma anche lavoro in cucina. C’è inoltre la sartoria dove le detenute lavorano in un’officina che produce cravatte per la nota azienda napoletana “Marinella”. Cravatte prodotte per le divise del personale della polizia penitenziaria. Presente inoltre la cooperativa “Le Lazzarelle” che cura la torrefazione del caffè; sono inoltre previste attività sportive, yoga, decoupage, canto e teatro. Sono presenti quattro educatori più un collaboratore e due psicologi. In merito alla Sanità dietro le sbarre, la direttrice Stella Scialpi ha evidenziato uno scollamento con i partner sanitari in merito alla gestione delle questioni di salute. Secondo la direttrice, il personale medico (provenendo dall’Asl e non essendo personale interno all’amministrazione penitenziaria) spesso fatica a tenere conto delle esigenze di gestione della struttura. Dal canto loro le detenute lamentano tempi di attesa troppo lunghi sia per le visite specialistiche che per i ricoveri presso ospedali cittadini. “Per un ricovero al reparto Palermo del Cardarelli ci vogliono almeno sei mesi per non dire due anni” ha detto il responsabile dell’area sanitaria del carcere di Pozzuoli. “Questo perché al padiglione Palermo sono previsti solo dodici posti per tutti i detenuti della città di Napoli e le donne sono ulteriormente svantaggiate poiché per ricoverare una detenuta è necessario adibire alle sue cure un’intera stanza perché sarebbe impensabile che condivida la stanza con altri detenuti uomini e questa circostanza rappresenta un problema grave.” Nel complesso la visita nella struttura di Pozzuoli ha avuto un esito positivo con celle luminose, pulite e abitabili anche se alcune hanno piccoli problemi di umidità alle pareti. Vi è un ottimo rapporto tra personale della polizia penitenziaria e detenute, il clima è apparso sereno e solidale: gli agenti sono quasi educatori o accompagnatori lungo il percorso di rieducazione e reintegrazione. Le detenute hanno la possibilità di impegnare le proprie giornate in maniera proficua, nonché l’occasione di accrescere il proprio bagaglio culturale o di imparare un mestiere. Questo quanto fatto sapere dalla delegazione in visita. Discorso molto diverso per il carcere salernitano di Fuorni dove i detenuti nella maggior parte dei casi soffrono, al punto che sono molto diffusi gli atti di autolesionismo, in una struttura dove scarseggiano attività di qualunque genere. Nel carcere salernitano di Fuorni, casa circondariale che risale al 1980, sono presenti 505 detenuti di cui 48 donne e 457 uomini. In attesa di primo giudizio sono 105, gli appellanti 52 e i ricorrenti 27 mentre i definitivi sono 239; detenuti in posizione mista con sentenza definitiva sono 57, quelli in posizione mista senza sentenza definitiva 25. I Semiliberi sono 8, i giovani adulti 44 e gli stranieri 71 (14%). Dal primo gennaio 2018 ad oggi ci sono stati 264 ingressi e 269 uscite. Il carcere è composto da sei sezioni più l’articolazione salute mentale che conta otto posti. 175 agenti polizia penitenziaria sono presenti su un organico di 177 tuttavia, secondo il comandante Lancellotta, il problema sta proprio nel calcolo errato dell’organico. Secondo il comandante per la struttura servirebbero infatti molti più agenti. Il comandante sottolinea inoltre un elevato livello di assenteismo: il 30% in media. Sono presenti sette educatori e tre psicologi. I detenuti lavoranti rappresentano un quinto del totale. Di questi 35 sono impiegati all’interno dell’istituto (m.o.f. e cucina) mentre i restanti sono impiegati nelle mansioni di pulizia e trasporto vitto all’interno delle singole sezioni. Come percorsi d’istruzione sono previsti il primo ciclo di studi (elementari e medie) e il secondo ciclo di studi dell’istituto alberghiero. Per i detenuti stranieri è previsto un corso di alfabetizzazione per la lingua italiana. Le uniche altre attività disponibili al momento sono il corso di decoupage per le donne ed un corso di legalità per i detenuti uomini. I Radicali hanno riscontrato la gravissima carenza di percorsi formativi per l’acquisizione di competenze di tipo professionale, la mancanza di un polo universitario e perfino quella di altri tipi di corsi, creativi o sportivi. La percezione è che la società civile sia completamente assente e scollata rispetto alla realtà carceraria di Fuorni. Più volte gli agenti hanno sottolineato la natura di “elemento di distrazione” dei percorsi scolastici, impostazione che i Radicali hanno definito non solo insufficiente ma profondamente errata. La detenzione non può essere un periodo di sterile permanenza all’interno di spazi ristretti, poiché ciò rappresenta un trattamento degradante nei confronti del detenuto. La permanenza in carcere andrebbe intesa alla luce del dettato dell’art. 27 della Costituzione e cioè tendere alla rieducazione del condannato, rieducazione intesa quale momento di formazione personale e professionale finalizzata ad una concreta e reale integrazione all’interno del tessuto sociale, integrazione che risulterebbe illusoria in assenza totale di possibilità di accedere al mondo del lavoro. Così ha commentato la delegazione dei Radicali al termine della visita. La totale insufficienza delle attività proposte influenza inevitabilmente il clima all’interno della struttura: i detenuti sono rancorosi ed inquieti, i pestaggi tra detenuti sono all’ordine del giorno, moltissimi detenuti hanno raccontato ai Radicali di aver pensato più volte al suicidio e di sentirsi impazzire non avendo nulla da fare e trascorrendo le proprie giornate rinchiusi in 6, 7, 8 all’interno di una sola cella con un unico bagno. Questo clima comporta che i rapporti con la polizia penitenziaria (soprattutto in relazione ai detenuti uomini) appaiono particolarmente tesi. In merito ai regimi di custodia, in Alta Sicurezza, i detenuti del primo piano B - art.32 dpr 230 del 2000 - sono in totale regime chiuso mentre al primo piano A, dove vi sono detenuti tossicodipendenti, le celle sono aperte solo un’ora al giorno; i detenuti in media sicurezza (uomini e donne) godono di regime con cella aperta per otto ore al giorno circa. Anche in questa struttura i detenuti denunciano enormi disfunzionalità sotto il profilo dell’assistenza sanitaria. Vi è innanzitutto una notevole carenza di personale medico. Nell’arco della giornata sono previsti unicamente tre medici all’interno di tutta la struttura, di cui uno per le visite programmate, uno per le urgenze ed un altro medico che invece svolge la funzione di coordinatore dell’ambulatorio. La situazione è ancora più grave dalle ore 16 alle ore 8 del mattino poiché, in quel lasso temporale, è presente un unico medico in tutta la struttura. Medico che risulta impossibilitato a far fronte a più episodi di emergenza in caso di bisogno. Ai detenuti spetterebbero due visite di check-up al mese ma queste si riducono ad una sola visita a causa della carenza di personale medico. Il cardiologo di turno ci racconta che a suo avviso l’Asl invia spesso nelle strutture detentive giovani medici alle prime armi, non navigati e certamente non idonei a gestire un simile numero di pazienti detenuti. Inoltre spesso i medici che vengono inviati in carcere ruotano e di conseguenza viene meno quel contatto fisso con il paziente che permetterebbe invece ad un medico di avviare il percorso trattamentale più idoneo e di seguire il paziente in maniera costante. La stessa carenza di organico riguarda anche gli infermieri, molto spesso c’è un unico infermiere presente e di conseguenza le terapie non arrivano agli orari prestabiliti ma tardano anche di dodici ore. La cucina della sezione femminile non viene utilizzata da più di due anni poiché i macchinari sono fuori uso e mancano i fondi per la sostituzione. Di conseguenza non solo le detenute vengono private di una delle mansioni meglio remunerate all’interno delle strutture carcerarie (cuoco e aiuto cuoco) ma ricevono il vitto non più caldo poiché il cibo viene preparato dall’unica cucina centrale dell’istituto che si trova in un edificio separato da quello femminile. Nella sezione femminile manca l’acqua calda da 15 giorni e le detenute sono costrette a farsi la doccia con l’acqua fredda. Le celle della sezione femminile sono decisamente meno umide e meno affollate rispetto a quelle delle sezioni maschili; i bagni sono grandi e ben attrezzati. Le celle sono da 4-5 letti. Le donne godono di un regime con cella aperta per otto ore al giorno. Nella prima sezione maschile (sezione accoglienza per i nuovi giunti più due celle per detenuti “problematici” o riottosi) i detenuti non hanno la possibilità di usufruire di alcun tipo di corso o di istruzione né di tipo professionale né ricreativo, non possono neanche recarsi in chiesa ad ascoltare la messa. Il regime è quello delle celle chiuse salvo un’ora di passeggio al mattino ed un’ora di passeggio al pomeriggio. Tuttavia, dal momento che non è consentito che il locale adibito al passeggio (una sorta di piccolo corridoio esterno) sia frequentato da più di due detenuti contemporaneamente, ne deriva che spesso alcuni detenuti non godano del passeggio se i tempi non lo consentono. In questo reparto non è presente alcuna stanza della socialità poiché non sono previsti spazi o momenti di condivisione tra i detenuti. I detenuti trascorrono le loro ore in cella, celle da 7-8 persone, e ingannano il tempo elaborando nuovi giochi con le carte o con dadi realizzati artigianalmente. I detenuti qui possono fare la doccia solo tre volte a settimana. Nella sezione giudicabili maschile, le stanze ospitano 6-7 detenuti con un unico bagno senza la doccia in stanza. L’intonaco è apparso scrostato e alcune celle presentano notevoli macchie di umidità. Il bagno delle celle è angusto e fatiscente. Le camere sono miste fumatori e non fumatori e le celle sono aperte per un totale di sette ore e mezzo circa, con due ore d’aria in un piccolo cortile interno. Nella sezione definitivi maschile vige l’apertura delle celle per otto ore al giorno con possibilità di accedere ad una stanza della socialità munita di tavolo e sedie. Sezione tenuta un po’ meglio e pitturata da poco ma le docce dell’intero reparto sono solo due. A maggior ragione per i detenuti definitivi appare grave la pressoché totale assenza di corsi e attività (salvo primo e secondo ciclo scolastico). Ultima tappa dell’ispezione, la sezione di transito. Sezione in teoria destinata a detenuti “di passaggio” destinati ad altre carceri ma che (dati i tempi di attesa piuttosto lunghi) finiscono per rimanere in questa sezione anche per mesi. Questa sezione prevede il regime delle celle chiuse, fatte salve due ore di aria una al mattino ed una al pomeriggio ma per i detenuti non è prevista alcun tipo di attività e nessun tipo di socialità. I detenuti passano tutte le ore della giornata in cella. Il direttore Stefano Martone non era presente (causa malattia) in struttura e la delegazione radicale è stata accolta e accompagnata dalla dottoressa Maria Parenti, vice direttrice del carcere di Secondigliano. Una struttura, quella di Fuorni, che ha lasciato parecchie perplessità alla delegazione radicale che ha riscontrato in alcuni reparti comuni la presenza di detenuti manifestanti squilibri comportamentali, pur senza patologie psichiche accertate. Lo scorso primo novembre una donna si è tolta la vita a Fuorni, dopo che nel 2017 non c’erano stati gesti estremi pur in un contesto dove sono diffusissimi gli atti di autolesionismo. Un carcere, insomma, su cui i Radicali avranno molto da lavorare. Brindisi: detenuto di 43 anni si toglie la vita impiccandosi con un asciugamano Gazzetta del Mezzogiorno, 12 novembre 2018 Il detenuto 43enne S.P., originario di Bari, si sarebbe impiccato nel bagno della cella che occupava all’interno del carcere di Brindisi. La macabra scoperta intorno alle 22.30 di sabato dagli agenti della Polizia penitenziaria che, non vedendolo dopo molto tempo dalla sua entrata nel bagno, hanno effettuato un controllo. Qui avrebbero trovato la porta bloccata. Una volta aperta, la scoperta dell’impiccagione, utilizzando un asciugamano, e il tentativo di strapparlo invano alla morte. Delle indagini si occupano i carabinieri del Nucleo operativo e radiomobile della compagnia di Brindisi sotto la regia del pm Giuseppe De Nozza intervenuto sul luogo della tragedia. L’uomo, sorvegliato speciale, sarebbe ritornato in carcere in seguito ad una condanna ad otto mesi dovuta alle frequenti violazioni degli obblighi della misura alla quale era sottoposto. Nei giorni scorsi, uno dei sindacati della Polizia penitenziaria, il Sappe, aveva denunciato due episodi di aggressione avvenuti il 3 e il 4 novembre scorsi proprio nella casa circondariale di Brindisi, per chiedere che anche gli agenti in servizio nelle carceri vengano dotati di Taser, in fase di sperimentazione da Carabinieri e Polizia. Parma: detenuto disabile muore in cella, aperta un’indagine per omicidio colposo di Giuseppe Lazzaro La Gazzetta del Sud, 12 novembre 2018 La Procura di Parma ha aperto un fascicolo d’indagine, sull’ipotesi di reato di omicidio colposo, in relazione al decesso, per cause naturali, di Francesco Cannizzo, 58 anni, di Capo d’Orlando, da tre anni ricoverato nel reparto del carcere di Parma, speciale sezione disabili e deceduto domenica della scorsa settimana. La notizia è stata confermata ieri mattina dall’avvocato Tommaso Autru Ryolo, del foro di Messina che, insieme al collega, avvocato Massimiliano Fabio, del foro di Patti, assiste Maria Antonia Caliò, moglie del Cannizzo e le figlie Elisa, Pamela e Roberta. A seguito di ciò è stata effettuata l’autopsia sul cadavere di Cannizzo e venerdì è arrivato il nulla osta della magistratura: come riportato nelle carte funerarie, la salma di Cannizzo arriverà a Capo d’Orlando nei prossimi giorni e mercoledì pomeriggio verranno celebrati i funerali nella chiesa di Maria Santissima della Catena di Bazia, a Naso, centro di origine della moglie. Da circa tre Cannizzo accusava problemi ad una gamba, per questo aveva subito una amputazione e si ipotizza che, a seguito dell’intervento chirurgico eseguito all’ospedale di Parma, possa avere contratto una infezione batterica che lo ha potuto portare alla morte. Franco (come era chiamato da tutti) Cannizzo, originario di Caronia, era conosciuto per essere uno chef a livello internazionale, tanto da avere rappresentato una volta l’Italia in una manifestazione culinaria in Giappone per conto di un noto ristorante di Fiumara di Naso dove lavorava. Poi le vicende umane e giudiziarie che ne avevano segnato la vita. La mattina del 29 ottobre 1991, uscendo da casa, la villa di contrada Marcaudo a Capo d’Orlando, poi confiscata, fu vittima di un agguato: due killer gli esplosero contro una decina di colpi di pistola, Cannizzo si finse morto ma si salvò rimanendo però paraplegico alle gambe. Successivamente venne coinvolto nell’operazione “Mare Nostrum” con l’accusa di associazione mafiosa finalizzata all’omicidio. Stando alla sentenza, diventata definitiva il 17 ottobre 2011, Cannizzo, quale componente del clan dei Bontempo Scavo di Tortorici, insieme al giovane orlandino Fabio Cozzupoli (scomparso l’8 maggio 1992 e rinvenuto cadavere, a Polverello di Montalbano, l’1 ottobre successivo), avrebbe partecipato all’omicidio di Calogero Franco, giovane operaio, avvenuto a Capo d’Orlando, lungo la provinciale da San Gregorio, la sera del 29 giugno 1990. Vicenda per quale Cannizzo era stato condannato all’ergastolo pur dichiarandosi sempre innocente e venendo accusato dai pentiti. Il 16 giugno 2005 Cannizzo venne arrestato, ritenuto a capo di una organizzazione dedita al traffico e alla cessione di stupefacenti, nell’ambito dell’operazione “Due Sicilie” che, coordinata dalla Dda di Messina, venne eseguita dalla polizia del Commissariato di Capo d’Orlando. Per questo fatto Cannizzo era stato condannato a 16 anni e 8 mesi. A causa delle condizioni di salute l’uomo aveva fatto la spola tra il carcere e i domiciliari ma, dopo la sentenza per la “Mare Nostrum”, era stato rinchiuso a Parma, dove esiste una speciale sezione per i diversamente abili. Ivrea (To): violenze in carcere, l’inchiesta verso l’archiviazione quotidianocanavese.it, 12 novembre 2018 Antigone ed il Garante del carcere di Ivrea, tramite i rispettivi legali, hanno presentato opposizione all’archiviazione. Antigone, l’associazione nazionale che si occupa dei diritti dei detenuti, ed il Garante del carcere di Ivrea, tramite i rispettivi legali, hanno presentato opposizione all’archiviazione chiesta dalla procura eporediese in merito ai pestaggi avvenuti in carcere. La procura aveva aperto un fascicolo per maltrattamenti e lesioni contro ignoti. Gli elementi, però, non sono stati sufficienti per chiedere dei rinvii a giudizio. Toccherà al Gip, nelle due udienze già fissate il 6 e l’undici di febbraio, decidere sulla richiesta di archiviazione. Al vaglio del tribunale alcuni episodi e una decina di persone finite sotto inchiesta tra agenti della polizia penitenziaria e detenuti. Sono tutti episodi che si sono verificati all’interno del carcere di Ivrea tra il 2015 e il 2017. Il caso più noto è quello di una rivolta andata in scena nelle celle la notte tra il 25 ed il 26 ottobre 2016: un detenuto, attraverso un sito internet, raccontò di pestaggi e violenze gratuite in una cella chiamata “Acquario”, poi dismessa in seguito ai sopralluoghi effettuati nella casa circondariale da parte del garante nazionale e di alcuni esponenti di diverse forze politiche. Palermo: “Morte per pena”, conferenza su sovraffollamento e sanità in carcere giornalelora.it, 12 novembre 2018 Oggi, 12 novembre, alle ore 16, presso l’Istituto P. Annibale Maria Di Francia, in Via Castellana 110, a Palermo, il Partito Radicale terrà una Conferenza dal titolo “MORTE PER PENA: sovraffollamento e sanità in carcere”. Alla Conferenza parteciperanno, tra gli altri, i dirigenti del Partito Radicale Rita Bernardini, Donatella Corleo e Sergio D’Elia, il sociologo e deputato regionale Vincenzo Figuccia, il medico ed ex detenuto Totò Cuffaro. Il tema resta scottante considerata l’escalation allarmante di suicidi. Alla Conferenza parteciperanno, tra gli altri, i dirigenti del Partito Radicale Rita Bernardini, Donatella Corleo e Sergio D’Elia, il sociologo e deputato regionale Vincenzo Figuccia, il medico ed ex detenuto Totò Cuffaro. Il tema resta scottante considerata l’escalation allarmante di suicidi. In questi giorni un altro detenuto di 29 anni si è tolto la vita al Pagliarelli. Per il caso, la camera penale di Palermo ha dichiarato essere “l’ultimo degli oltre 50 casi registrati nelle nostre carceri dall’inizio dell’anno. “Le carceri italiane vivono una situazione di criticità che negli ultimi anni si pensava potesse essere contrastata, seppure con un lungo percorso - dice Vincenzo Figuccia deputato dell’Udc all’Ars e leader del Movimento Cambiamo la Sicilia che prosegue - sembra ormai esaurirsi l’effetto Torreggiani e i dati aggiornati al 31 ottobre, forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, parlano di 59.803 persone detenute in Italia, contro una capienza regolamentare di 50.616 posti. Una differenza di oltre 9.000 persone e l’inevitabile conseguenza - dice il parlamentare - è quella di una vita tra le mura di un carcere priva delle minime condizioni di igiene e riservatezza”. Durante la Conferenza, aperta a tutti, sarà possibile firmare le “Otto proposte di legge di iniziativa popolare contro il regime” su amnistia, misure di prevenzione, informazioni interdittive, scioglimento dei comuni per mafia, ergastolo ostativo, riforma della Rai, leggi elettorali e incarichi extragiudiziari dei magistrati. Alessandria: incontro su detenuti e carcere all’Associazione Cultura e Sviluppo di Lia Tommi alessandria.today.it, 12 novembre 2018 Nell’ambito dei Giovedì Culturali, l’Associazione Cultura e Sviluppo, unitamente all’Associazione Don Angelo Campora, organizza un’iniziativa per riportare l’attenzione sulla realtà carceraria, troppo spesso dimenticata e non considerata al pari di altre istituzioni che operano sul territorio come l’Ospedale, l’Università o il Sindacato. In un momento storico in cui si tende a separare e allontanare piuttosto che ad unire e avvicinare, l’incontro - andando controcorrente - si pone invece in linea con il tracciato già a suo tempo indicato dalla Riforma Penitenziaria del 1975, i cui principi ispiratori e le cui finalità oggi devono essere confermati e, se necessario, difesi. Troppo spesso considerata una “città nella città”, slegata dal contesto che la circonda, Alessandria convive con una realtà carceraria composita, composta da due istituti con peculiarità differenti, la Casa Circondariale di piazza don Soria e l’Istituto Penitenziario di San Michele. L’iniziativa del prossimo 15 novembre, dunque, auspica di poter dare un contributo all’abbandono della concezione delle “due città”, per discutere, ragionare e progettare senza più tenere separate le Istituzioni Carcerarie dalla città dove sono ubicate. A collaborare a questa operazione di inclusione sociale sono chiamate le Istituzioni, gli Enti, le Associazioni, i Volontari, i mass media ed ogni altra Agenzia ed Organismo, a vario titolo interessati. Interverranno nel corso della serata, quali relatori: il Dr. Livio Pepino, già Magistrato ed oggi Direttore Editoriale di “Edizioni Gruppo Abele”; il Dr. Riccardo De Vito, Magistrato al Tribunale di Sorveglianza di Sassari e presidente di Magistratura Democratica; il Dr. Bruno Mellano, Garante dei Detenuti per il Piemonte e membro del Consiglio Regionale del Piemonte; la Dr.ssa Elena Lombardi Vallauri, Direttrice del complesso penitenziario di Alessandria. Arricchiranno il dibattito alcuni interventi qualificati di volontari e operatori. Di questi temi si parlerà appunto giovedì 15 novembre 2018, ore 19,00 - 22,30 (con pausa buffet alle 20,30) nell’incontro dal titolo “Detenuti e carcere, rapporti con la comunità del territorio; volontariato in carcere oggi”. Milano: “La partita con papà”. I bambini sono tutti uguali, anche i figli di genitori detenuti givingtuesday.it, 12 novembre 2018 Non escludiamoli dai giochi. C’è una partita da giocare, anche in carcere con papà. Il 1° dicembre 2018, per il quarto anno consecutivo, riparte l’iniziativa La partita con papà. Nel mese di dicembre, negli istituti penitenziari italiani, si gioca la partita di calcio dei papà detenuti coi loro figli. Organizzata da Bambinisenzasbarre in collaborazione con il Ministero di Giustizia-Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. La partita con papà è un’iniziativa unica in Europa, che vuole sensibilizzare le istituzioni, i media e l’opinione pubblica sulla situazione dei 100 mila bambini in Italia (2.1 milioni in Europa) che hanno il papà o la mamma in carcere e sono emarginati per questo. La Partita è un’occasione di festa, un momento eccezionale d’incontro, che rimane a lungo nella memoria di bambini e famiglie. Un’iniziativa per superare i pregiudizi di cui spesso sono vittime questi bambini, che vivono con un segreto per non essere stigmatizzati ed esclusi. Un evento per sensibilizzare circa il tema dell’inclusione sociale e delle pari opportunità per tutti i bambini. “La partita con papà” è nata nel 2015 con 12 istituti, 500 bambini e 250 papà detenuti. Oggi 50 partite in altrettante carceri e città, da Milano a Palermo a, coinvolgendo 1200 bambini e 900 detenuti. La novità di quest’anno è attivare la Tessera del tifoso, per regalare un momento speciale a questi bambini con una donazione sul sito dell’Associazione e in questo modo sostenere l’iniziativa. Chi è Bambinisenzasbarre Onlus - L’Associazione Bambinisenzasbarre Onlus è impegnata da oltre 15 anni per il mantenimento della relazione figlio genitore detenuto con il Sistema Spazio Giallo e in Campagne sociali di informazione. Il modello di accoglienza del Sistema Spazio Giallo rappresenta il punto di partenza per sviluppare un intervento organico di sostegno ai bambini e alle famiglie che entrano in carcere per incontrare il papà o la mamma. Lo Spazio Giallo è un ambiente protetto di attenzione e ascolto che attenua l’impatto del carcere sul bambino. È un sistema in cui si favorisce il mantenimento del legame affettivo tra figli e genitori, fornendo sostegno psicopedagogico. È un intervento che sensibilizza la polizia penitenziaria ogni giorno impegnata a ricevere i bambini che accedono in carcere riconoscendone i bisogni. Attualmente il sistema Spazio Giallo è presente negli istituti di Lombardia, Puglia, Toscana, Sicilia e Campania, ma l’obiettivo dell’Associazione è di diffondere questo modello in ogni carcere italiano, al fine di garantire a tutti i 100 mila bambini che fanno visita al genitore un luogo di relazioni fatto su misura per loro. In stretta connessione con l’intervento negli istituti penitenziari, l’Associazione ha sviluppato un forte impegno sul piano dell’advocacy, che ha portato nel 2014 alla firma col Ministro di Giustizia e il Garante nazionale dell’Infanzia e dell’adolescenza del Protocollo-Carta dei diritti dei Figli di genitori detenuti, la prima in Europa nel suo genere. La Carta riconosce formalmente i diritti di questi bambini, in particolare il diritto alla non discriminazione e alla continuità del legame affettivo con il proprio genitore in attuazione degli artt. 3 e 9 della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Da allora Bambinisenzasbarre è impegnata nella diffusione e nel monitoraggio dell’applicazione delle linee guida della Carta negli istituti penitenziari italiani, organizzando e partecipando a seminari e convegni, creando una rete di attenzione nazionale di realtà istituzionali e del Terzo Settore e fornendo consulenza sui temi della genitorialità in carcere. A rafforzare l’impatto del Protocollo - e del ruolo dell’Associazione a livello italiano ed europeo - si è anche imposta la Raccomandazione CM/Rec(2018)5, adottata ad aprile 2018 dal Consiglio d’Europa e rivolta al Comitato dei Ministri dei 47 stati membri, che ha assunto come modello il Protocollo italiano per preservare i diritti e gli interessi dei bambini e ragazzi figli di detenuti. Arezzo: “Encerrados”, mostra di Valerio Bispuri sulle carceri dell’America Latina arezzonotizie.it, 12 novembre 2018 Sabato 17 Novembre, alle ore 17.00 nella Pieve di San Giovanni Battista, sarà inaugurata l’edizione 2018 dell’evento fotografico “Obiettivo Masaccio”, che si svolgerà a San Giovanni Valdarno dal 17 novembre al 2 dicembre, con il patrocinio del Comune e della Regione Toscana. In occasione dell’inaugurazione, l’autore Valerio Bispuri sarà presente e incontrerà il pubblico sul tema della profondità in un racconto fotografico. Il dialogo si svilupperà a partire dal racconto diretto dell’esperienza del fotoreporter e sarà fondato sull’analisi dei suoi lavori e sullo scambio di impressioni con il pubblico. Ospite principale è il fotografo romano Valerio Bispuri con la mostra dal titolo “Encerrados” all’interno della Pieve di San Giovanni Battista, un toccante reportage fotografico incentrato su uno straordinario lavoro di indagine sulla condizione della persona nelle carceri dell’America Latina, durato ben 10 anni. Saranno ospiti in Casa Giovanni Mannozzi, con progetti fotografici diversi per tematiche, caratteri e linguaggio, i seguenti autori: Monica Bonacina, “marEmosso”; Stephen McMennamy, “Combophoto”; Aurelien Ernst, “Amorica Latina”. Incontro con gli autori Monica Bonacina e Aurelien Ernst. Domenica 18 Novembre alle ore 17.00, casa Giovanni Mannozzi, corso Italia 105. Bruti Liberati, 70 anni di storia raccontati attraverso la giustizia di Corrado Stajano Corriere della Sera, 12 novembre 2018 Esce il 15 novembre “Magistratura e società nell’Italia repubblicana” (Laterza). Ricerche d’archivio e la testimonianza dell’autore per tracciare la storia del Paese. È una storia d’Italia dalla fine della seconda guerra mondiale al tempo presente vista attraverso l’occhio della giustizia questo corposo saggio di Edmondo Bruti Liberati, Magistratura e società nell’Italia repubblicana, in uscita il 15 novembre da Laterza. L’autore, che è stato tra l’altro presidente dell’Associazione nazionale magistrati, componente del Consiglio superiore della magistratura, procuratore della Repubblica di Milano, ha affrontato l’arduo tema favorito dalla sua esperienza in ruoli differenti, dai palazzi di giustizia ai problemi dei magistrati alla politica dei governi e dei Parlamenti non certo omogenea nei decenni: settant’anni spesso tormentati in cui la magistratura è stata protagonista. Tra i leader di Magistratura democratica, la corrente progressista dei giudici e dei pm, Bruti Liberati non nasconde le sue opinioni, ma non nasconde mai le opinioni altrui, quasi anglosassone nella scrittura, nutrita da una documentazione rigorosa e di grande peso, atti, libri, giornali, convegni, tornate parlamentari, discussioni politiche, polemiche che si sono via via accumulati nel suo archivio. Essenziale, naturalmente, la sua testimonianza. A far da sfondo c’è sempre la società nazionale, l’opinione pubblica più o meno attenta ai problemi che la riguardano. La Repubblica, dopo i primi fervori del 46-48, nasce malata. La continuità dello Stato fa da padrona e non importa che il vecchio Stato sia la dittatura fascista con il suo carico di distruzione, di sangue e di dolore. La mancata epurazione, l’amnistia Togliatti, l’ossessiva autotutela gerarchica dell’alta magistratura, la sua ostilità nei confronti della Costituzione fanno da freno al nuovo. Già negli anni Cinquanta Piero Calamandrei definisce la Costituzione “l’Incompiuta”, la sinfonia di Schubert. L’Italia scettica e conformista del centrismo democristiano blocca la nascita degli istituti essenziali previsti dai costituenti, la Corte costituzionale, il Csm. Giorgio Balladore Pallieri, giurista che insegnava all’Università Cattolica, non sospettabile di preconcetta ostilità nei confronti dei governanti, parla di “spaventosa carenza costituzionale”. E la vicinanza della rinata Associazione magistrati ai nuovi valori della democrazia, scrive Bruti Liberati, rimane a lungo formale. I giudici, in maggioranza, sono cresciuti nel fascismo e tali sono rimasti. Fa rabbrividire la cronaca della cerimonia d’inaugurazione dell’anno giudiziario a Roma, nel 1940, a Palazzo Venezia, con i magistrati che indossano l’orbace del partito fascista: presenti la Suprema Corte al gran completo, i presidenti delle Corti d’appello, una marea di alti gradi. Quando si aprì la sacra porta della sala del Mappamondo e apparve Mussolini, il ministro della Giustizia Dino Grandi ordinò il saluto al Duce: “Rimbombò l’”A noi” e scoppiò una manifestazione di fede e di entusiasmo”. Quei magistrati plaudenti e i loro simili, dopo la Liberazione, rimasero tranquillamente al loro posto. Avevano servito anche nella Cassazione della Repubblica di Salò, presidenti del tribunale della razza, autori d’ignobili scritti inneggianti alla “rivoluzione mussoliniana e della romanità”, e divennero procuratori generali della Cassazione, primi presidenti, giudici costituzionali eletti dalla Suprema Corte, nominati dai presidenti della Repubblica - Gronchi, Saragat - e anche presidenti della Consulta. Bruti Liberati annota le loro non nobili carriere, Luigi Oggioni, Antonio Azara, Ernesto Eula, Antonio Manca, Sofo Borghese, Gaetano Azzariti. (Non mancarono, una minoranza coraggiosa, coloro che, con sacrificio, incuranti dei rischi, si schierarono dalla parte dell’ antifascismo e della Resistenza, tra gli altri Luigi Bianchi d’Espinosa, i fratelli Alessandro e Carlo Galante Garrone, Giorgio Agosti, Domenico Peretti Griva). Almeno per gli alti gradi sembra quasi che il fascismo e il razzismo siano, ancora dieci anni dopo la fine della guerra, un lasciapassare per far carriera. La magistratura non si comportò nello stesso modo nei confronti dei partigiani, presi di mira, condannati, angariati. Un illustre giurista come Giuliano Vassalli, vista l’aria che a quei tempi tirava, arrivò a chiedere ironicamente l’urgenza di configurare un delitto di “partecipazione alla Resistenza” in modo da consentire ai partigiani di godere dell’amnistia. Si comprende come sia stata ardua la rinascita democratica della magistratura, “ordine autonomo e indipendente da ogni potere”. Devono passare anni, una generazione o più, per cominciare a cancellare il cupo passato. È un buon segno che la prima sentenza della Corte costituzionale dichiari incostituzionale l’articolo 113, una delle norme più liberticide del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, ma la Suprema Corte di Cassazione seguita ad essere il dio in terra, ha un peso preponderante sul Csm, non tollera che l’ultima parola spetti alla Corte costituzionale. Il 1965 è l’anno della svolta. Otto donne entrano per la prima volta in magistratura (ora sono in maggioranza), ma è il XII Congresso nazionale dell’Anm di Gardone il congresso della rinascita: “Il giudice deve essere consapevole della portata politico-costituzionale della propria funzione di garanzia, così da assicurare, pur negli invalicabili confini della sua subordinazione alla legge, un’applicazione della norma conforme alle finalità fondamentali volute dalla Costituzione”. Sembra perfino ovvia questa mozione finale del congresso, approvata all’unanimità, ma è il frutto di una lunga lotta, una vittoria venuta dopo lacerazioni e sconfitte durate anni. Il saggio di Bruti Liberati è una sorta di atlante della giustizia. Negli anni Settanta sono i procuratori generali, con le loro “avocazioni”, a tenere il bandolo. L’alta magistratura difende le sue prerogative. Anche durante l’autunno caldo e la sua stagione riformatrice, riesce a far pesare il suo potere. Bruti Liberati racconta quel che avvenne nel clima golpista di piazza Fontana: il giovane sostituto Ugo Paolillo, subito dopo la strage, fece il suo dovere e fu tolto di mezzo dal procuratore Enrico De Peppo che seguì subito l’onda governativa della pista anarchica. Il processo per la strage finito a Catanzaro per decisione della Cassazione è una pagina nera. Furono non pochi i magistrati che non si rassegnarono davanti a quell’assurdità, un insulto all’intero Paese e soprattutto a Milano che aveva vissuto con coraggio e fermezza quel difficile momento. Il magistrato-scrittore riesce sempre a collegare l’azione di giustizia a quel che avveniva nella società. Gli anni Settanta-Ottanta sono turbolenti, un costante pericolo per lo Stato di diritto. Il golpe Borghese, la Rosa dei venti, il terrorismo, la P2 - sono coinvolti nella loggia segreta, con il vicepresidente del Csm Ugo Zilletti, ministri, generali capi dei servizi segreti, direttori di giornali. E poi il caso Sindona, l’assassinio di Moro, l’assassinio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, l’assassinio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, la bocciatura di Giovanni Falcone candidato naturale, dopo Antonino Caponnetto, alla carica di consigliere istruttore di Palermo. Fu bocciato dal Csm, anche da membri di Magistratura democratica, per una scelta ragionieresca, per ignoranza di quel che erano (e sono) i poteri criminali. La decisione, con la nomina al posto di Falcone di un magistrato ignaro, distrusse il pool di Palermo che con la sua sentenza-ordinanza del 1986 aveva messo in piedi lo storico maxiprocesso a 500 mafiosi, i capi di Cosa nostra, condannati poi nei tre gradi di giudizio. Sono anni sul filo della legge quelli in cui il terrorismo e la mafia uccisero un’impressionante catena di magistrati. La politica non è elevata, Craxi odia i giudici, Berlusconi, attento soprattutto, nei suoi governi, alle leggi ad personam, li definisce “matti, antropologicamente diversi dal resto della razza umana. Se fai quel mestiere devi essere affetto da turbe psichiche”. E poi le pericolose invenzioni del “picconatore” Cossiga, la stranezza di un grande Paese che ha avuto per sette volte presidente del Consiglio un uomo, Giulio Andreotti, accusato di associazione mafiosa, assolto per i fatti successivi al 1980 e prescritto per gli anni precedenti. E anche la passione e la generosità umana e politica di Sandro Pertini. Bruti Liberati racconta, sempre equilibrato, attento, senza dimenticare mai le ragioni degli altri. Talvolta critico, senza asprezze, a proposito di Mani pulite, ad esempio, non nei confronti del procuratore Francesco Saverio Borrelli che ha coordinato quel pool di magistrati “con straordinaria efficacia”. Riconosce senza riserve l’importanza liberatoria di quell’azione di giustizia, ma fa qualche rilievo. Proprio nelle ultime pagine del suo saggio scrive: “A un quarto di secolo dalle indagini di Mani pulite non sono utili celebrazioni, ma analisi. Vi furono, certo, taluni eccessi (in particolare nell’uso della custodia cautelare in carcere), errori, protagonismi, vi furono dolorose e tragiche vicende personali. Ma la storia di Mani pulite non è una storia di eccessi e di errori; è, al contrario, la storia del doveroso intervento repressivo penale di fronte ad un vero e proprio sistema di corruzione, ad una devastazione della legalità”. “Still recording”, l’orrore della guerra in Siria dai lati opposti della barricata di Francesca Caferri La Repubblica, 12 novembre 2018 Arriva in sala il documentario di Said Al Batal e Ghiath Ayoub, racconto in presa diretta di quello che è accaduto in quattro anni di assedio mortale nella periferia di Damasco. C’è una scena in Still recording, il documentario di Said Al Batal e Ghiath Ayoub, presentato alla Settimana della critica all’ultima Mostra del cinema di Venezia, che da sola spiega meglio di mille parole quello che è accaduto in Siria dal 2011 a oggi: grazie a una radio a onde corte, un ribelle e un soldato fedele al governo di Bashar al Assad si parlano, ai lati opposti del fronte che con un assedio feroce e sanguinoso per anni ha diviso la Ghouta orientale, una zona alle porte di Damasco, dalla capitale. I due condividono solo la lingua: “Da dove vieni?”, chiede il ribelle. “Dalla Siria”, risponde il soldato. “Quale zona della Siria?”, incalza il primo. “La Siria unica, indivisibile. La sola. La Siria del presidente Bashar al Assad”. E così i due vanno avanti per giorni, dialogando per lo più senza violenza, ma con due visioni opposte del mondo, della loro patria e del suo destino: e sparandosi, giorno dopo giorno. Still recording sbarca ora nelle sale italiane e porta agli spettatori il racconto parallelo di quattro anni di vita e di assedio mortale nella periferia di quella che era una delle città più belle del mondo arabo. C’è la Ghouta con i suoi giovani idealisti, che poi diventano ribelli e imbracciano le armi. E poi si dividono: per fame, per ambizione, per l’arrivo degli islamisti. E spesso muoiono, anche sotto gli occhi della videocamera che li riprende. E c’è Damasco, con la sua assurda normalità e la voglia di fuga notturna di chi, di notte, vuole dimenticare che rischia la vita ogni giorno per portare avanti il sogno di una rivoluzione abortita pochi mesi dopo la nascita: travolta dall’arrivo degli islamisti, delle loro armi e dei loro soldi arrivati dall’estero. E dalla violenza sanguinaria di un regime che ha ucciso migliaia di persone e ne ha cacciate dal Paese 11 milioni, la metà degli abitanti prima della guerra. Il tutto è narrato attraverso le storie parallele di due amici, che vivono ai lati opposti della barricata. Still recording è la sintesi di centinaia di ore di girato, opera dei registi, ma soprattutto dei giovani che, all’inizio della rivoluzione, i due hanno formato perché divenissero videomaker, è il racconto in presa diretta di ciò che è accaduto in Siria. Durissimo, non fa sconti a nessuno: per primi non ai miliziani, cui gli autori delle immagini si accompagnano spesso. Non c’è eroismo, non c’è retorica: solo un potentissimo inno alla vita, anche in condizioni estreme. Che ha il merito di non essere mediato, come tanti dei film e dei documentari sulla Siria usciti in questi anni: chi racconta lo fa perché era lì. E per esserci ha pagato un prezzo: emotivo, quando non fisico. Ma nonostante questo ha continuato a girare: sempre e comunque. Still recording appunto. L’elenco finale dei videomaker che hanno partecipato al progetto e della loro sorte è un pugno nello stomaco: si può scegliere di non vedere, di non sapere, di non condividere. Ma non si può restare indifferenti. La droga torna a uccidere: un morto di overdose ogni 2 giorni di Gianni Santucci Coriere della Sera, 12 novembre 2018 E le vittime dell’eroina sono anche adolescenti. Dopo un decennio di calo costante, crescono le morti di overdose. Nel 2017 il consumo di eroina è salito del 9,7%. Muoiono i “reduci” degli anni ‘80 e ‘90, ma anche gli adolescenti. Deboli per anagrafe: non sanno nulla dell’ecatombe di allora. Il turco aspettava da giorni a Roosendal, città olandese, confine col Belgio. Era l’unico a sapere. Sahin Karademir era già stato arrestato ad Ancona nel 2005. Collegato a un traffico di 80 chili d’eroina. Stavolta l’operazione era più sofisticata. Un carico di oltre 30 tonnellate di bentonite, un minerale per l’edilizia, affidato a una (ignara) agenzia marittima genovese. Container partiti da Bandar Abbas (Iran), in viaggio verso Amburgo, Valencia, Genova. Un camionista ucraino (anche lui non coinvolto) per il trasporto fino in Olanda. Sotto la bentonite, 268 chili di eroina. La polizia li ha bloccati in porto a Genova, intorno al 20 ottobre scorso. Era droga “in transito”. Ma resta il più imponente sequestro di eroina nella storia dell’antidroga in Italia. E dunque, in ogni caso, è un punto fermo. Che obbliga a sottolineare una frase dell’ultimo report della Direzione centrale servizi antidroga (Dcsa): “Crescono, invertendo un trend decennale che sembrava consolidato, le morti per overdose. Nel 2017, complice verosimilmente l’impennata nei consumi di eroina, tornano a segnare un sensibile aumento (più 9,7 per cento)”. Morte nelle stazioni - Centoquarantotto morti con la siringa in vena nel 2017. Centotrentotto fino ai primi di novembre 2018 (dati raccolti da geoverdose.it, progetto della Società italiana tossicodipendenze). Sono tre anni che questa cifra aumenta. Aumenterà ancora. Il cadavere numero 134 di quest’anno era accasciato dieci giorni fa in un bagno della stazione Centrale di Milano. Maschio, italiano, 43 anni. Di scene del genere s’era persa memoria. Le foto dei drogati morti nei bagni pubblici sembravano sigillate in un’epoca passata. Invece in un’altra stazione, a Udine, il 3 ottobre è morta anche una liceale, 16 anni. Si chiamava Alice Bros. E il suo nome sta oggi al centro del potenziale disastro più rimosso e sottovalutato d’Italia. Perché non muoiono più solo i reduci, i vecchi eroinomani come quello di Milano. Muoiono i ragazzini. Nuovi tossici. Adolescenti. Deboli per anagrafe: non hanno memoria storica, non hanno idea della devastazione sociale degli anni Ottanta e Novanta. Con un rischio in più: gli oppioidi sintetici. Da cento a duecento volte più potenti dell’eroina. Negli Stati Uniti provocano 30 mila morti l’anno. A Mestre, nel 2017, con sostanze sintetiche i pusher nigeriani hanno fatto una strage. È la nuova geopolitica dell’eroina: che rischia di abbattere una nuova generazione. Il canale albanese - Rotta “balcanica”. Turchi. Poi albanesi. La storia dell’eroina in Europa passa da quella direttrice. Sempre attiva. L’origine la racconta un carabiniere di Milano che ha indagato sui trafficanti dall’Est per decenni: “Anni 80 e 90. I carichi arrivavano tutti su gomma. Camion con la targa che iniziava per 39. Cioè, Istambul. Monopolio dei turchi. Un chilo d’eroina costava 90 milioni di lire, ed era purissima”. Ogni tanto i sicari della ‘ndrangheta ammazzavano un camionista, lo facevano sparire e tenevano il carico. “Poi iniziammo a sequestrare panetti avvolti in giornali albanesi. Nella “catena logistica” era entrata una nuova mafia. Gli albanesi iniziarono a “smezzare”, e portare in Italia eroina già tagliata al 50 per cento. Chi voleva ancora la qualità superiore andava a comprare direttamente dai turchi in Germania”. Oggi la struttura dei traffici è ancora quella. I grossisti in Italia sono soprattutto albanesi. Non spacciano un grammo. Vendono a chili. Al Sud hanno accordi stabili con i gruppi di camorra e con la criminalità pugliese. Nel 2017 un’operazione della Finanza (“Smoke snake”) ha stroncato un traffico che inondava l’hinterland napoletano di kobret, uno scarto dell’eroina. Al centro e a Nord invece gli albanesi sono autonomi e riforniscono di continuo le piazze di spaccio gestite soprattutto da marocchini: è quel che accade a Rogoredo, uno dei più vasti super market d’eroina in Italia, dove negli ultimi mesi i carabinieri di Milano e Monza hanno tagliato due canali di fornitura albanese. A febbraio 2018, a Ravenna, la polizia ha scoperto un appartamento/laboratorio dove un gruppo di albanesi stava tagliando e impacchettando quasi 50 chili di eroina. Le navi iraniane - Le Nazioni unite stimano che nel 2016 la produzione globale di oppio sia aumentata di oltre il 30 per cento, toccando le 6.500 tonnellate, da cui sarebbero state ricavate circa 450 tonnellate di eroina. Una super produzione, soprattutto in Afghanistan: che incombe sui mercati europei. Il primo Paese di transito è l’Iran. L’Esperto per la sicurezza italiano a Teheran ha comunicato che nel solo primo semestre 2017, nella Repubblica islamica, sono stati sequestrati 7.500 chili di eroina e 8 mila di morfina. Ogni frazione del viaggio, aumenta il valore. Al confine Afghanistan/Iran, un chilo d’eroina vale 1.200 dollari; al confine con la Turchia, il costo sale a 11 mila dollari; in Turchia, 11/12 mila euro; in Italia il prezzo arriva a 32 mila. Tagliata e messa sul mercato, il valore si triplica. Il gotha dei trafficanti turchi rifornisce gli albanesi sulla rotta balcanica, ma allo stesso tempo li “aggira” via mare. Ecco perché il porto iraniano di Bandar Abbas sta diventando lo snodo chiave da cui partono i grossi carichi d’eroina via nave, diretti nel Nord Europa dove vengono poi stoccati e smistati. È proprio il percorso della nave Arbataz, quella intercettata al porto di Genova. “Si trattava di un’operazione criminale di altissimo livello, con modalità sofisticate e complesse”, racconta Alessandro Giuliano, direttore del Servizio centrale operativo della polizia, che ha seguito l’indagine con gli investigatori e i magistrati genovesi. “Potevamo fermarci al sequestro - prosegue Giuliano - e invece abbiamo seguito il camion per mezza Europa, per capire chi stesse aspettando quel carico”. La traccia ha portato a Roosendal, in Olanda. Ed è stata la più importante conferma investigativa internazionale della filiera turco/iraniana, quella che muove le più imponenti quantità di eroina verso l’Occidente. Anche i grossisti albanesi che lavorano in Italia, spesso, vanno poi a comprare in Olanda. Eroina “sintetica” - I rifornimenti alimentano le “piazze”. E qui le nazionalità cambiano. In un anno, il 2017, in Italia sono stati arrestati circa 2.500 trafficanti e spacciatori d’eroina. Altri mille sono stati indagati. Più della metà sono stranieri. Tra questi, 430 tunisini, 243 marocchini, 91 gambiani. L’ultimo segmento dei traffici d’eroina, lo spaccio di strada, è soprattutto cosa loro. E dei nigeriani: quasi 400 arrestati nel 2017, più della metà dell’anno prima. Emergenti: hanno canali di traffico autonomi (sono fortissimi nel gestire i corrieri ovulatori, che ingoiano la droga); occupano “piazze” vuote o poco presidiate. A volte se le conquistano. Come è capitato alla stazione di Mestre. Ed è stata una strage. Volevano scalzare i tunisini. Hanno puntato sulla “concorrenza”. Hanno messo in vendita un prodotto “migliore”, che però ha provocato 18 morti in un anno. Eroina con principio attivo molto alto (fino al 30/35 per cento). E tagliata con metorfano, un oppioide. I nigeriani di Mestre sono stati arrestati in un’inchiesta della Mobile di Venezia e dello Sco. Resta un fatto: un gruppo criminale ha iniziato a tagliare eroina con un oppioide sintetico che ne aumenta la potenza. Negli Stati Uniti gli oppioidi (soprattutto “fentanili”), venduti come analgesici, hanno creato una base di dipendenza che sta provocando la più vasta epidemia di eroina della storia: 40 mila morti l’anno. E a Milano, nel 2017, un uomo è morto per overdose da “ocfentanil”. Segnali di un potenziale disastro. “Esigenze di salvaguardia della salute pubblica - avverte la Dcsa - richiedono un approfondimento per valutare se, come accaduto in altre parti del mondo”, nell’aumento di overdose mortali “possa aver giocato un ruolo determinante la circolazione di eroina mescolata con sostanze sintetiche, come il famigerato fentanil”. Un chilo di fentanil, al mercato nero cinese, costa 5 mila dollari. La sostanza è fino a 250 volte più potente della morfina. Tagliare l’eroina con oppioidi sintetici può moltiplicare i guadagni dei trafficanti. E il rischio di morte. Turchia. La matita spezzata di Zehra Dogan, rinchiusa nella fortezza di Tarso di Elettra Stamboul retekurdistan.it, 12 novembre 2018 Condannata per un disegno che esponeva le distruzioni dell’esercito turco, l’artista curda Zehra Dogan ha continuato a esprimersi con ogni mezzo durante la detenzione. Ma il trasferimento in un carcere militare fa temere il peggio a coloro, da Ai Weiwei a Banksy, che si sono mobilitati per lei. Tarso è una città amata dal turismo religioso. Da qui veniva l’apostolo delle genti, quel Paolo che pensò di predicare il cristianesimo ai non ebrei, rendendo questa piccola comunità di seguaci di Gesù di Nazareth, la religione più importante dell’Europa. Ma oltre al pozzo di San Paolo e ad altri monumenti che ricordano quanto la storia ami passare spesso per gli stessi vicoli, c’è anche una prigione il cui nome torna spesso sulle pagine dei bollettini delle Ong che si occupano di diritti umani. Parliamo delle carceri turche, tristemente note per la leggerezza con cui vi si dimenticano i diritti dei detenuti e soprattutto delle detenute. È qui che pochi giorni fa è stata trasferita la giornalista e artista curda, di nazionalità turca, Zehra Dogan insieme ad altre venti carcerate. Per capire di che luogo di detenzione stiamo parlando, basta scorrere le notizie sulle morti in cella della scorsa estate: Safak Demir, una delle migliaia di insegnanti rimosse dal proprio posto di lavoro e imprigionate perché accusate di essere in qualche modo sostenitori del movimento di Gülen, è deceduta per emorragia cerebrale in luglio. Le circostanze sono ancora poco chiare, ma l’inchiesta indipendente non è stata autorizzata. La prigione di Tarso, sottoposta alla legge marziale, organizzata per comparti stagni dove possono stare pochissime detenute per evitare i contatti in una situazione di semi isolamento, non è una buona notizia per il futuro della giovane artista che ha mobilitato l’interesse della comunità non solo politica, ma anche artistica internazionale. Oggi Zehra ha poco più di 28 anni, ma grazie alla sua breve attività di giornalista e artista è diventata un’icona conosciuta internazionalmente, in particolare dopo che Ai Weiwei le ha scritto una lettera simbolica, nel giorno dedicato agli scrittori incarcerati da Pen International, per chiedere il suo immediato rilascio, ma soprattutto dopo che Banksy a marzo scorso le ha consacrato il suo ritorno sui muri di New York e ha dedicato alla giovane attivista curda il Bowery Wall, uno dei muri più desiderati dagli Street Artist della Grande Mela. Una sequenza ritmica di sbarre verticale, un pattern che si ripete, con un’unica concessione figurativa, l’immagine di Zehra che insieme ad una sbarra tiene una matita, la sua unica arma, quella per cui è stata condannata per “propaganda terrorista”. E l’immagine incriminata proiettata ogni sera, come a dire “Non potete farla tacere”. L’opera del misterioso artista inglese ha contribuito sicuramente a togliere la polvere dagli occhi della pigra opinione pubblica internazionale, anche se non è bastata a rendere giustizia all’artista che ha già scontato gran parte della sua pena, 2 anni, 9 mesi e 22 giorni che in teoria dovrebbero concludersi a febbraio del 2019. Ma la sua dislocazione nel carcere a controllo militare di Tarso non fa ben sperare. Portarla a più di 500 km di distanza dal carcere di tipo T in cui era reclusa, senza avvisare i suoi avvocati, è uno di quei gesti simbolici che dicono molto più dei silenzi stampa governativi. Dogan ha sempre usato parola e disegno come strumenti di comunicazione etica, sociale, politica. E la sua condanna è proprio legata ad un disegno, fatto partendo da una foto postata su Twitter dall’esercito turco durante gli scontri a Nusaybin che nel 2016 hanno praticamente raso al suolo gran parte della città. Gli attivisti che la sostengono dicono che è forse l’unica condannata e detenuta per un disegno: purtroppo la verità è un’altra, sono numerosi gli artisti, in particolare quelli che usano l’arte come strumento di analisi del presente, di interpretazione della realtà, che sono dietro le sbarre. Lei stessa, mentre era in carcere a Mardin in attesa di processo, si è paragonata a Mani, il fondatore del manicheismo. Si tramanda infatti che il mitico fondatore del manicheismo, che è vissuto a Mardin a lungo, abbia propagato la propria rivelazione grazie ai disegni e che proprio per questo poi abbia pagato un duro conto. Purtroppo del manicheismo abbiamo solo lacerti di papiri, qualche malandata pergamena di periferia, mentre i meravigliosi libri di cui parla il critico S. Agostino sono andati perduti nel naufragio della storia. Nei suoi diari, pubblicati nel catalogo della mostra Les Yeux Grands Ouverts (Grandi occhi aperti) che sta girando in varie città francesi, Zehra ricorda come altri artisti hanno testimoniato il loro impegno, ma non sono stati condannati alla galera, come Picasso, oppure hanno deciso di tacere, come la comunità artistica turca, da cui non si è levato una sola parola di protesta: “Possiamo considerare gli artisti che sono schiavi del potere dei veri artisti? E se loro lo sono, che cosa sono io?”, si chiedeva mentre era a Mardin. Quando alla fine il processo è stato celebrato e soprattutto è stata inflitta la condanna, Zehra è rimasta per 141 giorni in clandestinità. In quel periodo ha scritto, ma soprattutto dipinto, anche con materiali di recupero. Come fare altrimenti, si chiedeva, a raccontare quello che aveva visto? Prima del suo definitivo arresto, è stata anche organizzata una mostra a Diyarbakir, intitolata appunto 141. Quando nel luglio del 2017 entra in carcere per scontare la pena, le opere vengono spedite fuori dalla Turchia per permetterne l’esposizione e soprattutto l’integrità. “È un pezzo di me che circola, un pezzo di me in libertà”, dice l’artista. Nel penitenziario di Diyarbakir, un carcere D per detenuti politici, le viene tolto tutto, non solo la libertà, ma soprattutto la possibilità di dipingere e disegnare. Sappiamo che per mesi ha usato qualsiasi mezzo per continuare a creare: in particolare l’utilizzo del sangue mestruale ha destato scandalo e ha risvegliato la flebile attenzione sul suo caso da parte della stampa turca, ovviamente in senso fortemente critico. Sappiamo anche che lavora coinvolgendo le altre detenute, che ha creato una sorta di atelier collettivo, come era riuscita a fare in parte a Mardin. Il suo trasferimento coatto a Tarso è quindi un’azione punitiva per chi non desiste dal voler esprimere la propria voce. Di fronte alla domanda più antica, “Non hai paura?”, risponde semplicemente. “Certo che ho paura. Però l’affronto. È il mio dovere”. Così come aveva sentito il dovere, quando era a Nusaybin sotto assedio, di comunicare cosa stava accadendo in quel momento con gli strumenti che aveva. Non si poteva uscire per strada a fotografare, non si poteva uscire a filmare. Ma disegnare, sì, quello lo poteva fare anche nel rifugio. Così aveva ripreso una foto pubblicata su Twitter dalla polizia speciale turca e l’aveva ridisegnata digitalmente, inserendo le bandiere turche e qualche colore: tanto è bastato per trasformare un’immagine reale, che voleva comunicare la vittoria, in un’immagine vera, in cui quello che si vede è la distruzione del dopo guerra. Ovviamente l’aveva pubblicata sui social e aveva avuto moltissime visualizzazioni e condivisioni, perché non c’era altra informazione diretta su quanto stata avvenendo al confine turco in quei giorni del giugno 2016. Quello è stato il suo capo d’accusa e il motivo della sua condanna. Nella mostra itinerante francese compaiono i lavori del 2016 e soprattutto del 2017, realizzati nel carcere di Mardin e poi in clandestinità, che esprimono la forte vocazione alla testimonianza (martire vuol dire proprio questo in greco, testimone) che ricorre anche nel titolo: “Gli occhi dei personaggi che disegno sono più grandi del normale. Sono estremamente aperti e grandi. Perché gli occhi sono testimoni di tutto… Parlare non basta, lo so già. Sono gli occhi dei personaggi che raccontano tutto”. Disegni che partono con i pastelli su carta e poi via via si trasferiscono su fogli di giornale, e divengono un elemento narrativo e giornalistico unitario. Le forme sono diventate più espressive e il segno di Dogan più espressionista. Sono chiari i riferimenti visivi di questa ex allieva dell’Accademia di Belle Arti, ma è anche chiara la sua voce e la riflessività sul proprio lavoro e la propria pratica. La sua determinazione e consapevolezza sono evidenti non solo negli scritti dei diari pubblicati nel catalogo della mostra dei disegni fatti uscire fortunosamente dalla Turchia, ma anche nelle parole che ha pronunciato quando le hanno conferito il premio giornalistico “Metin Göktepe” nel 2015 per il suo reportage sulle donne Yazide, realizzato per l’agenzia giornalistica femminista Jinha fondata da lei e da altre, e chiusa nel 2016. Ora si trova lontana dalla città di Nusaybin, dove in un certo senso si è fermato il suo tempo e dove sembra quasi che tutto si sia fermato al 2016. Meno famosa di Babilonia, tuttavia è una delle città più antiche della mezzaluna fertile, quelle che si studiano sulle cartine nei primi anni delle superiori. Città aramaica, conquistata da assiri, babilonesi, persiani, ovviamente da Alessandro Magno, per poi diventare nell’immenso impero romano città di confine. Urbs inexpugnabilis, la definisce Ammiano Marcellino. Lo è stata a lungo, e poi è diventata una delle sedi principali del cristianesimo di confine, quello più esigente e rigoroso, in particolare nestoriano. La comunità armena ed ebraica era presente fino alla Primaa Guerra Mondiale, quando lo sfaldamento dell’impero ottomano impose nuovi confini. E di nuovo questa città si troverà ad essere posizionata su un confine di carta, in un certo senso divisa come Gorizia, con Qamishli, la sua estensione più urbana, in territorio siriano, e un’altra metà in territorio turco, e un unico fiume che le attraversa. Qui per 21 mesi un cosiddetto conflitto a bassa intensità ha provocato la morte di quasi 3.000 persone, la distruzione di circa 100.000 abitazioni, il dislocamento “temporaneo” di oltre 400.000 abitanti. Anche se la narrazione delle cause del conflitto è spesso discordante (nel senso che sia la versione governativa che quella del Pkk, il partito curdo che ha di fatto guidato la rivolta, sono spesso diverse da quella della popolazione locale) tuttavia a due anni dal termine dell’uso delle armi la situazione non è certo risolta: al referendum del 16 aprile il 79% della popolazione della zona ha votato no, cosa che ha provocato l’estensione di tre mesi dello stato di emergenza da parte del governo. Di sicuro una scelta che non favorisce il rapporto di fiducia tra cittadini e governanti. Nel frattempo, in questo tempo svuotato, 77.081 persone sono incarcerate, secondo le fonti ufficiali, dopo il tentativo di colpo di Stato del luglio 2016, mentre 170.000 persone almeno sono state sottoposte a procedimenti legali. Perché ci sono le carovane di migranti in America Centrale? ilpost.it, 12 novembre 2018 In paesi come El Salvador e Honduras è sempre più difficile vivere, a causa delle violenze delle potentissime gang criminali. Nelle ultime settimane si è parlato in tutto il mondo delle cosiddette “carovane di migranti” partite dall’America centrale e dirette verso gli Stati Uniti. Le attenzioni mediatiche che hanno ricevuto sono dipese in parte dal grande numero di persone - diverse migliaia - che hanno partecipato alle ultime carovane, ma soprattutto perché il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il Partito Repubblicano ne hanno fatto un tema centrale della campagna elettorale per le elezioni di metà mandato. Trump e diversi suoi sostenitori e media vicini alla sua amministrazione hanno sostenuto che le carovane fossero una minaccia imminente e molto pericolosa per la sicurezza nazionale statunitense, anche per la presunta presenza (mai provata e anzi smentita dai giornalisti sul posto) di terroristi provenienti dal Medio Oriente. Al di là dell’uso che ne ha fatto Trump per la sua campagna elettorale, le carovane di migranti hanno fatto tornare di attualità il problema della violenza in Centro America, in particolare in El Salvador, Honduras e Guatemala. La presenza di potenti gang criminali in questa zona di America non è una novità, ma negli ultimi anni il fenomeno sembra essersi aggravato, provocando conseguenze molto rilevanti sulla vita quotidiana dei normali cittadini. Se prima le gang criminali uccidevano soprattutto per conquistare pezzi del mercato della marijuana, della cocaina e dell’eroina, rimanendo legate per lo più ai meccanismi tradizionali dei cartelli della droga, oggi sono qualcosa di diverso, di più violento, ha raccontato un recente articolo del Wall Street Journal: invece che fare soldi facendo affari all’estero, rubano alle loro stesse comunità, imponendo sistemi di estorsione molto duri. La situazione è particolarmente grave a El Salvador, dove circa un terzo della popolazione guadagna meno di 5,50 dollari al giorno. Funzionari governativi salvadoregni citati dal Wall Street Journal hanno stimato che una delle principali gang, MS-13, compia sistematiche estorsioni in 248 delle 262 municipalità del paese, senza subire grandi pressioni dalle autorità. MS-13 si divide il controllo del territorio con un altro gruppo criminale molto violento, Barrio 18: entrambe sono organizzazioni criminali transnazionali, cioè operano in diversi paesi del Centroamerica ma anche negli Stati Uniti e in Canada. A San Salvador, la capitale del paese, le gang controllano la distribuzione dei beni di consumo e accumulano denaro minacciando i lavoratori di ristoranti e call center, e i proprietari di negozi. Nelle aree rurali minacciano di bruciare le piantagioni di zucchero a meno che i contadini non accettino di pagare. Il ministro della Giustizia e della Sicurezza di El Salvador, Mauricio Ramírez Landaverde, ha detto che le gang sono diventate così pervasive che “non sai dove finisce lo stato e dove iniziano le organizzazioni criminali”. Per dare una dimensione del fenomeno: funzionari salvadoregni sostengono che le gang criminali del paese guadagnino circa 20 milioni di dollari all’anno dalle attività di estorsione, a cui vanno aggiunti i soldi ottenuti da altre attività, legali e illegali. Secondo il ministro della Difesa salvadoregno, le gang criminali MS-13 e Barrio 18 impiegano circa 60mila persone nelle loro varie attività, molte di più delle due principali aziende del paese, Hanesbrands e Fruit of the Loom, che danno lavoro a circa 20mila persone. Amilcar Rivera, direttore di una scuola elementare a San Salvador, ha raccontato al Wall Street Journal che diversi suoi alunni hanno iniziato a lavorare per una o per l’altra gang quando avevano 10 anni: utilizzati come scaricatori di camion nel mercato più grande della città, o per altri incarichi simili, i giovani guadagnano circa 300 dollari a settimana; facendo estorsioni per le gang criminali, possono arrivare a guadagnare fino a mille dollari a settimana: “Cosa pensate che scelgano questi giovani?”. La situazione a El Salvador è peggiorata negli ultimi anni. Nell’aprile 2012 il governo dell’allora presidente salvadoregno Mauricio Fuentes firmò una tregua con le gang MS-13 e Barrio 18, allo scopo di ridurre il numero di omicidi nel paese: tra le altre cose, il governo accettò di spostare i leader dei gruppi criminali dalle celle d’isolamento a carceri di massima sicurezza con regole più flessibili. Era per esempio permesso loro di comunicare con l’esterno, ordinare cibo e alcol “a domicilio” e ricevere visite dalle prostitute. All’iniziò la mossa funzionò - gli omicidi scesero del 42 per cento - ma la fiducia della popolazione nel governo e nello stato di diritto crollò. Poco più di un anno dopo, e sotto la pressione degli Stati Uniti, El Salvador decise di fare un passo indietro: mise fine alla tregua, ma nel 2015 fece registrare un tasso record di omicidi per abitanti, 103 ogni 100mila. Oggi è di 60,1 ogni 100mila abitanti, il più alto del mondo e quasi 12 volte quello registrato negli Stati Uniti, uno dei paesi sviluppati in cui il problema è più grave. Da allora, inoltre, il potere delle gang sembra essere aumentato ulteriormente, come se la tregua avesse dimostrato come la violenza possa essere usata dai gruppi criminali per raggiungere certi politici. Appena dietro a El Salvador, nella classifica dei paesi più violenti del mondo c’è l’Honduras, da dove sono partite la maggior parte delle carovane di migranti dirette verso gli Stati Uniti. Anche in Honduras, la principale ragione che nelle ultime settimane ha spinto migliaia di persone a emigrare verso nord è la violenza: e anche qui, come in El Salvador, la responsabilità è soprattutto delle gang criminali rivali, tra cui MS-13 e Barrio 18. In un rapporto diffuso nel 2017 da Medici senza Frontiere, si legge che l’Honduras sta sperimentando dei “livelli di violenza senza precedenti per una zona non in guerra” e che “i cittadini sono uccisi con impunità, e i sequestri e le estorsioni sono all’ordine del giorno”. Per le donne la situazione è spesso ancora più critica: nel suo rapporto, MSF ha parlato di numerosissimi casi di stupro e di “uso della violenza sessuale come strumento di intimidazione e controllo”. Secondo il Centro per i diritti delle donne dell’Honduras, nel paese viene uccisa una donna ogni 16 ore, il tasso più alto registrato nel mondo. Molte delle persone che nelle ultime settimane si sono unite alle carovane di migranti dirette verso gli Stati Uniti, quindi, l’hanno fatto principalmente per scappare dalle violenze subite nei loro paesi. Le principali responsabili di queste violenze sono le gang criminali che operano ormai da molti anni in diversi paesi centroamericani e che impiegano decine di migliaia di persone nelle loro attività illegali. Per il momento non sembra che la forza di queste gang possa essere messa in discussione dai governi locali, bloccati dalla corruzione e incapaci di trovare delle soluzioni per ridurre il potere dei gruppi criminali.