“Fine pena mai”, il nostro ospite fisso e indesiderato di Carla Chiappini Avvenire, 11 novembre 2018 Il carcere è proprio strano: segue i ritmi della scuola ma non ha niente di formativo. La pausa estiva è lunghissima e, quando si riaprono i cancelli, bisogna quasi fare mente locale. Siamo in un’istituzione totale, bisogna ricordare tutto per bene: niente telefoni, il documento pronto, la borsa sotto il metal detector e poi l’armadietto e poi quattro sbarramenti. E infine la redazione. Quest’anno siamo ripartiti a pieno ritmo con un seminario di formazione per i giornalisti sul tema dell’ergastolo; in particolare con diverse testimonianze sull’ergastolo ostativo. Qualcosa di incomprensibile, una condanna senza fine e senza alcun beneficio. Una pena che mortifica ogni sforzo di cambiamento e di crescita, una pena che ha tutte le caratteristiche della vendetta. Nella nostra redazione l’ergastolo è l’ospite indesiderato, quello sempre presente, il pensiero fisso. Per fortuna riusciamo anche a parlare d’altro, a ricercare altri pezzi di storia, a incontrare persone speciali come Manlio e tutti gli ospiti che abbiamo accolto finora. Ma a un certo punto cala il velo nero e si ritorna lì. Con il pensiero a un futuro che sembra chiuso per sempre, con la forza di resistere e reagire, con l’impegno di studiare, il desiderio e il bisogno di confrontarsi con il mondo libero. Con la visione della realtà distorta dalla televisione, la nostalgia delle famiglie, le telefonate sempre quel giorno, sempre a quell’ora. Dopo circa due anni di impegno con la redazione di Ristretti Orizzonti nel carcere di Parma, sono sempre più convinta della inutile crudeltà di una pena che non prevede sbocchi e vie di uscita se non attraverso una collaborazione che, nella gran parte dei casi, sarebbe totalmente inutile per l’enorme distanza temporale dai reati commessi. Oppure una provata impossibilità di collaborazione, percorso complesso e molto in salita. Tutto il resto sembra non contare niente: gli studi, l’impegno, la buona condotta, il lavoro. Niente; tutto questo non vale niente. E allora a volte è così difficile motivare le persone alla fiducia nella giustizia perché le esperienze di mala giustizia sono tanto evidenti e imbarazzanti. E a tratti è persino difficile crederci noi stessi a questa giustizia, proprio noi volontari che superiamo i cancelli e le attese e le lentezze e la burocrazia per testimoniare la presenza di una cittadinanza vigile e responsabile. Per aprire spiragli di incontro e di dialogo. E ogni volta che vedo Nino, Claudio, Gianfranco, Aurelio, Gianmarco, Antonello, Luigi, Carmelo, Tonino, Giovanni avviarsi lungo il corridoio verso le scale che portano in sezione, sempre lo stesso corridoio, le stesse scale, lo stesso cancello, mi chiedo quale sia il senso. Venti, trenta anni così. Cambiando solo - ogni tanto - luoghi di reclusione. Forse è tempo di riflettere sui circa 1.600 ergastolani rinchiusi nelle carceri italiane. Se solo il Papa ha avuto il coraggio di svelare l’estrema ipocrisia di una pena che è “pena di morte nascosta”. La nostra redazione sente forte l’impegno di sollevare dubbi, produrre riflessione, raccogliere testimonianze come quelle riportate in queste pagine. Vita Nuova ci ha aperto una porta e noi con serietà e senso di responsabilità abbiamo deciso di varcare la soglia. Come “rimanere famiglia” se sei in Alta Sicurezza 1 di Gianmarco Avarello Avvenire, 11 novembre 2018 Avere una condanna all’ergastolo, specialmente se è ostativo, è come vere una condanna a morte. La mia prima condanna all’ergastolo risale al 1994. Allora l’aggravante dell’ostatività non esisteva, pertanto il mio “fine pena mai” una scadenza temporale avrebbe potuta avercela, dopo lunghi anni di carcere e con un buon trattamento rieducativo. Ma quella sentenza di ergastolo fu ugualmente una mazzata in testa. Ero ancora molto giovane e non potevo accettare di finire il resto della mia vita rinchiuso in una cella. Quella parola pesava nella mia testa come un macigno, specialmente nelle notti passate in bianco. La mia ragazza, la mia famiglia, la mia stessa vita, la libertà, tutto perduto per sempre. Era la fine di tutte le mie speranze. Avevo ucciso i miei sogni. Non potevo avere un futuro. Eppure sapevo a che cosa andavo incontro, sapevo cosa rischiavo ma non pensavo che potesse accadere veramente proprio a me; pensavo di farla franca. Le cose non andarono così. Nel 1991 mi arrestarono e nel giro di pochi anni mi ritrovai con il primo ergastolo definitivo. Quando il giudice pronunciò la condanna mi guardai in faccia con la mia ragazza, non dicemmo nemmeno una parola ma i nostri occhi disperati parlavano chiaramente: la speranza che era morta. Al momento della sentenza notavo con dolore che lei aveva lo sguardo fisso alla corte, attentissima alle parole che il presidente avrebbe pronunciato. In cuor suo le preghiere erano rivolte a tutti i santi in paradiso ma in quell’aula di giustizia non ci furono santi che potessero miracolarmi, la condanna all’ergastolo fu pronunciata con molta chiarezza, convinti della mia colpevolezza. E non si sbagliavano. Lei però non poteva saperlo, credeva nella mia innocenza, sicurissima che si trattava di un errore giudiziario e che si sarebbe chiarito tutto. Nei giorni a venire mi ripresi dallo sconforto e iniziai a non ragionare più col cuore ma con la testa. Pensai che non potevo permettere che il mio ergastolo si ripercuotesse sulla mia ragazza, dovevo lasciarla libera. Avevo distrutto il nostro futuro assieme, ma lei meritava di averne uno migliore. Ho cercato di convincerla in tutti i modi possibili di lasciarmi perdere, prospettandole che seguire me per moltissimi anni in carcere sarebbe stato un inferno. Ma lei era molto determinata, diceva che la sua vita senza di me non avrebbe più avuto un senso e che si sentiva abbastanza forte da starmi accanto per tutta la durata della pena. E così non ci lasciammo e andammo incontro al nostro destino, con tutte le difficoltà che negli anni si presentarono: 12 anni di 41bis e 13 di Alta sicurezza (Asl), allontanamento nelle carceri del Nord e disagi economici. Ma se da un lato la cattiva sorte ci martellava inesorabilmente, dall’altro la resistenza del nostro legame ci teneva uniti; un amore determinato e sempre in crescita. Da lì, un bel giorno, la decisione di coronare il nostro sogno, sposandoci. Certo, celebrare un matrimonio in carcere non era nei nostri piani ma dentro di noi la gioia era davvero incontenibile. Finalmente marito e moglie. Nel 2003 nasceva nostro figlio: eravamo genitori. La responsabilità di crescerlo bene era ora una priorità, e così mia moglie si dedicò a lui, mettendoci anima e corpo. Anch’io ho cercato di fare del mio meglio per essere un ottimo papà, ma il circuito di Alta sorveglianza 1 a cui sono ancora oggi sottoposto non mi ha mai permesso di stare vicino alla mia famiglia per la distanza territoriale che tale circuito impone. Nonostante ciò, gli anni passavano e la speranza di riunire la nostra famiglia sembrava vicina. Ma nel 2008 alcuni giudici introducevano l’ostatività sull’ergastolo. Era la fine delle nostre aspettative: non sarei più uscito dal carcere. Io e mia moglie ci chiedevamo come fosse possibile che venisse trasformata una legge, peggiorandola, dopo una sentenza passata in giudicato. Recentemente, però, a salvarmi la vita ci ha pensato il Tribunale di sorveglianza di Bologna, il quale circa otto mesi fa ha accolto favorevolmente un’istanza di impossibile collaborazione - ritenuta essenziale per superare l’ostatività - e mi ha riammesso ai benefici penitenziari (l’impossibile collaborazione è riferita all’impossibilità a collaborare con la giustizia per ottenere benefici, che possono comunque essere concessi una volta accertata l’insussistenza di legami attuali con la criminalità organizzata, ndr). Il mio ergastolo è tornato come prima, senza ostativita, e presto potrei ottenere i benefici dei permessi premio, semilibertà e liberazione condizionale, in modo graduale. Ma ad oggi mi trovo ancora in AS1: binario morto. Prescrizione bloccata? Servono però due rimedi di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 11 novembre 2018 In Germania la legge si pone anche il contestuale problema di scongiurare che una persona giudicata in Tribunale resti poi in indefinita attesa di un verdetto d’Appello o Cassazione per colpa di lentezze patologiche della macchina giudiziaria. “Truffatruffambuiguità”, sigla 25 anni fa della parodia tv di un certo tipo di comunicazione, é il jingle dei promotori pentaleghisti di una riforma della prescrizione tanto necessaria quanto semplicistica nel solo fermarla dopo la sentenza di primo grado, sia di condanna sia assolutoria. Quando infatti dicono che in Paesi come la Germania si fa così, non dicono però che lì la legge si pone anche il contestuale problema di scongiurare che una persona giudicata in Tribunale resti poi in indefinita attesa di un verdetto d’Appello o Cassazione per colpa di lentezze patologiche della macchina giudiziaria. Rischio a cui la Germania dal 2008 non risponde (come il “governo del cambiamento”) con la sola evocazione dei futuribili benefici di annunciate riforme e assunzioni, ma con un rimedio compensativo che, se la sentenza finale é di condanna, consiste nel detrarre dalla pena una quota proporzionale all’accertata irragionevole durata del processo non addebitabile a manovre dilatorie dell’imputato; e che invece, se c’è assoluzione, consiste in un indennizzo all’imputato, a ristoro della “pena” in sé già subita con il protrarsi dei giudizi. Non solo. A prescrizione bloccata, lì la collettività si pone in una ottica solidaristica rispetto all’altro danno rappresentato per l’imputato già dal dover continuare (pur dopo una prima assoluzione) ad affrontare le spese di difesa: poiché é lo Stato a chiedere all’individuo quel sacrificio necessario a un accertamento giudiziario compiuto nell’interesse della collettività, é poi lo Stato a farsene carico, pagando le spese legali quantomeno a chi infine sia pienamente assolto. Nulla di ciò sta nelle tre righe “epocali” vantate dalla maggioranza pentaleghista. Che, curiosamente, un rimborso di spese legali sta invece varando: ma solo nei processi a chi spara ai ladri per “legittima difesa”. Caiazza (Ucpi): “Il garantismo rinato grazie alla prescrizione” di Errico Novi Il Dubbio, 11 novembre 2018 “Non per eccedere in trionfalismi, ma il blocco della prescrizione ha chiarito alle persone i rischi del giustizialismo e dato straordinaria centralità a noi penalisti”, dice Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Ucpi. “È una cosa enorme. Che mi mette in difficoltà anche sul piano professionale. Basta guardare all’attenzione dedicata dai giornali alla nostra astensione: mai visto nulla di simile in 25 anni. È una fatica, a cui però non possiamo sottrarci”. Nemmeno venti giorni: tanto è durato il rodaggio di Gian Domenico Caiazza. Eletto il 21 ottobre scorso a Sorrento presidente dell’Unione Camere penali italiane, dopo meno di tre settimane si è trovato nel vortice della più grande crisi politica mai scatenatasi sulla giustizia dalla discesa in campo di Berlusconi. Forse nemmeno il decreto Biondi aveva avuto, per la maggioranza di allora, un potenziale distruttivo pari a quello sprigionato ora dalla prescrizione. E certo allora sui penalisti non si rivolse l’attenzione data ai quattro i giorni di assenza dalle udienze appena proclamati da Caiazza. Come fa, si sdoppia? È una fatica, è un’impresa, ma lo avevo detto nel mio discorso pro- grammatico al congresso di Sorrento: l’Ucpi non è semplicemente una associazione forense, è un soggetto politico. Perché? Semplice: ci occupiamo di temi che incrociano i diritti dei nostri assistiti e che nello stesso tempo sono questioni politiche pure, diventate centrali. E sguarnite: perché i vecchi partiti in Parlamento si sgretolano... È l’altra enorme difficoltà. In Parlamento non ci sono più sponde. C’è una maggioranza, orientata purtroppo da una cultura vendicativa del processo penale, e priva di una vera opposizione. Ci sono alcuni singoli parlamentari, certo. Li conosciamo di persona: in Forza Italia per esempio, Sisto e Costa, ma li contiamo sulle dita di una mano. In questo contesto è plausibile che avvocati e magistrati siano protagonisti del confronto, come auspica e chiede il presidente del Cnf Mascherin? Dico di più: il protagonismo di noi avvocati e dei magistrati, nel dibattito sulla giustizia penale, è già in atto. È in tempo reale. Apro una parentesi: io credo che sarebbe positivo un tavolo a cui confrontarsi. Ma mi chiedo: è possibile fare una grande riforma del processo in un anno? Giovanni Maria Flick ha opportunamente ricordato che solo per portare a termine la riforma del giudice monocratico impiegò 5 anni. E parliamo di una delle migliori menti giuridiche del Paese. Però è giusto presumere che davvero la prescrizione entri in vigore solo dopo e solo se prima sarà varata una riforma complessiva: lungo tale percorso, cosa si aspetta dalla magistratura? La refomatio in peius che piace a Davigo o i tempi di fase inderogabili nel processo condivisi da Canzio? Mi pare che la magistratura sia attraversata anche da divisioni. Però registro alcuni dati di fatto. Nei dibattiti in cui ci siamo confrontati nelle ultime ore, il presidente di Magistratura democratica Riccardo De Vito, per esempio, ha dimostrato di essere su posizioni sostanzialmente analoghe alle nostre, sulla prescrizione. A Radio Rai mi sono incrociato con il presidente dell’Anm Francesco Minisci: non gli ho sentito affatto invocare la reformatio in peius ma dire innanzitutto che non si può rifare il processo a partire dalla coda, cioè dalla prescrizione, e che serve per esempio un forte ricorso ai riti alternativi. Idea giusta, da condividere. Ma in netta controtendenza rispetto alle scelte dell’attuale maggioranza. Che ha appena eliminato il rito abbreviato per i reati da ergastolo. E sa perché? Lo dica... In ossequio a quell’idea vendicativa del processo appena ricordata. Non concepisce di scambiare uno sconto di pena con un risparmio di almeno 9 anni sulla durata del procedimento. Non è nella cultura di questi signori. Sono oppressi dall’impulso di dover rispondere alla platea digitale che subito urlerebbe all’infamia di un imputato condannato ad appena 23 anni anziché a stare in galera fino alla morte. Ma sulla posizione della magistratura un dubbio ce l’ho. Quale? Riguarda il fallimento dell’udienza preliminare. Sono pronti a riconoscerlo? Dopo 30 anni dal varo del modello accusatorio, dopo il tentativo di riforma del 2000, è chiaro come l’udienza preliminare sia fallita. Non è mai diventata il filtro che dovrebbe mandare a dibattimento solo i casi per i quali è necessario. È per il timore dei giudici di litigare coi pm? Temo sia così: è per la mancanza di una cultura terza del giudice. Direte: ma allora voi siete fissati con la separazione delle carriere? E sì: l’aspetto appena considerato è una prova scientifica di quanto quella riforma sia necessaria. Ora, io credo che siano questi i nodi su cui ragionare. Se invece l’attuale maggioranza vuole coltivare l’illusione che con qualche cancelliere in più i processi saranno fulminei, impiegherà poco a capire che non può essere così. Mai si era sfiorata una crisi di governo sulla prescrizione: l’impatto dello scontro sulla giustizia può scuotere gli italiani dall’ipnosi giustizialista? È quanto vedo già avvenire in queste ore. Non vorrei scivolare in facili trionfalismi. Ma a me pare che l’argomento prescrizione sia un clamoroso autogol, per il giustizialismo. È un tema chiaro, comprensibile: le persone capiscono che si rischia di restare sotto processo per tutta la vita, riflettono su cosa voglia dire vedere i propri beni messi per anni sotto sequestro. È come per la separazione delle carriere: pare una disputa dottrinale, invece tutti comprendono di cosa si tratti. L’argomento opposto da chi propone il blocco della prescrizione è liquidarla come lo strumento dei ricchi per sfangarsela. È l’unico che hanno, ma è debolissimo: perché ci vuol poco a far capire alle persone che noi avvocati non abbiamo alcuna possibilità di dilatare i tempi, e che la prescrizione non può essere confusa con la lunghezza irragionevole dei processi. La bolla giustizialista che esplode come la bolla speculativa di fine anni Novanta in America... Il giustizialismo è minoranza almeno nella comunità dei giuristi. Anche tra i magistrati. I cosiddetti giustizialisti della politica hanno alle loro spalle Davigo, Ardita, Di Matteo. Figure dalla storia professionale importante e che vanno rispettate, come magistrati. Ma sul piano dottrinario sono assolutamente isolati. Io sfido a scovare un solo docente universitario disposto a condividere per esempio la tesi di Davigo secondo cui non vale la pena ascoltare un testimone in dibattimento perché tanto ha già reso dichiarazioni al pubblico ufficiale. È ovvio, è indiscutibile che noi avvocati e i magistrati, la maggioranza dei magistrati che non condivide quelle visioni estreme, siamo diventati centrali. Si sente parlare di giustizia solo per slogan. E allora i giornali, ma gli italiani in generale, ogni giorno di più dicono: sentiamo cosa dice chi davvero sa di che parla, quando è interpellato sulla giustizia. Sindaci, giudici e libertà di Lucia Annunziata huffingtonpost.it, 11 novembre 2018 Congratulazioni alla sindaca Virginia Raggi per la sua assoluzione. È sempre una ottima notizia per i cittadini sapere di essere governati da un politico impeccabile. Congratulazioni anche ai giudici della Procura della Capitale perché la velocità e la equanimità del loro giudizio ha impedito di creare un nuovo percorso giudiziario di polemiche dentro questo paese che ne ha fin troppi. Una condanna avrebbe avviato una contesa politica inquinata dal più vecchio sospetto di ogni azione in Italia - l’uso della giustizia ad orologeria. A Roma, insomma, oggi si è affermato un principio di giustezza (oltre che di giustizia) in base al quale gli amministratori si giudicano per quello che fanno. Una buona notizia che libera un po’ tutti. Libera intanto Virginia Raggi. Senza il peso di questa inchiesta che ha certamente pesato sui suoi umori e sulle sue prospettive di vita politica, il sindaco oggi potrà dunque finalmente rispondere ai suoi cittadini, che, cocciuti loro, continuano a bestemmiare contro le buche, i disservizi, la pessima qualità di vita e la destabilizzazione strisciante della città. E per identico verso, la “liberazione” del Sindaco di Roma forse incoraggerà altri sindaci sotto assedio, come oggi nella città di Torino, o i tanti ministri che non hanno tenuto fede alle loro stesse promesse, a rispondere dei loro doveri e delle loro mancanze senza riversare su chi gliene chiede conto accuse di complotti, collusioni con le élite e il grande capitale. Borsette e cagnolini inclusi. Congratulazioni, dunque, anche a tutti i cittadini che a oggi, forse, possono tornare a mugugnare come è diritto e ruolo dei cittadini fare. Gli unici che perdono in questa partita, ahi noi, sono i soliti giornalisti. Corrotti pennivendoli, puttane, addirittura. Luigi Di Maio che ormai d’abitudine perde ogni freno sia quando ha un successo che quando ha un insuccesso - per dire, sia quando annuncia di aver sconfitto la povertà dal balconcino di Palazzo Chigi, sia quando qualcuno scopre che la Lega gli ha tolto il reddito di cittadinanza dalla finanziaria spostandone l’attuazione all’anno prossimo - ha avuto un’altra crisi ed ha minacciato di fare immediatamente la legge sugli editori impuri. Per punire insomma i padroni dell’editoria che evidentemente frenano il movimento. A parte che Di Maio dovrebbe piuttosto dirci se erano invenzioni le notizie sul caso Raggi. Non è stato considerato un reato, secondo i giudici, l’intervento a favore di Marra, ma non era una fake news, di sicuro. Ed era un fake anche la preoccupazione del quartiere generale pentastellato sulla condanna di Raggi? E le feroci critiche di incompetenza all’operato del sindaco romano non sono state formulate anche da esponenti dello stesso M5S? Ma va bene. Non vediamo l’ora di vedere la proposta di legge con cui M5s ristabilirà la verità (come quando ha sconfitto la povertà?) promuovendo una azione per rendere pura l’editoria. I giornalisti italiani si augurano da tanto tempo che l’editoria evolva in un sistema privo di conflitti di interessi. Questa legge dunque non è una minaccia. Ci auguriamo che Luigi ci lavori da subito. Sperando che stavolta almeno questo intervento se lo studi bene in maniera da non fare come con la nazionalizzazione delle Autostrade, con la Tap, forse con la Tav, e con l’Alitalia. Tutti casi in cui dopo tre mesi circa di studi ha denunciato l’impossibilità di fare quel che voleva fare. Personalmente sono curiosa di leggere - via legge, ovviamente - l’elenco dei buoni e dei cattivi editori. E di vedere elencati i conflitti di interessi. Da queste parti, da dove scrivo, sappiamo che il gruppo Gedi (ex Espresso) è nella lista dei cattivi, e poi? Non vedo l’ora di leggere l’elenco, appunto. La curiosità maggiore è quanto campo ha la definizione di conflitto di interessi: include banche, include tv private, intrecci societari, oltre al puro business? E, a proposito di business, come sarà considerata la guida di siti privati, via strumenti di informazione, su un movimento politico da cui si ricava sostegno economico? Chissà, magari alla fine anche in questo caso Luigi di Maio scoprirà che non può farci niente. Infine due righe per Di Battista. Chi scrive ha lavorato per otto anni, come free lance, senza giornali alle spalle, nelle stesse zone dove da alcune settimane gira il leader politico pentastellato. In quei paesi hanno lavorato decine di giornalisti, moltissimi italiani, quando la situazione era grave e difficile lavorare. E alcuni ci sono morti. Di Battista può insultare - I giornalisti italiani ma dovrebbe evitare di usare quelle zone del mondo come sfondo fotografico esotico per la sua campagna elettorale. Quando ci lavoravo (dal 1980 al 1988, prego verificare) gente come lui veniva chiamata sandalisti, terzomondisti, neoimperialisti, voyeur del sottosviluppo. Sono sufficienti questi appellativi, Di Battista? Nessuno, di nessuna nazionalità, avrebbe osato fare di quei paesi ragione di autopromozione politica. Che è quello che il pentastellato sta facendo. Torna a casa, Di Battista, mettici la faccia sull’Italia e vieni a darci delle puttane di persona. Magari qualcuno ti prenderà, per una volta, sul serio. “I pericoli di una mafia che non spara” di Dacia Maraini Corriere della Sera, 11 novembre 2018 Il pubblico ministero Nino Di Matteo, 25 anni in campo contro Cosa nostra: “Per sopravvivere la mafia deve avere legami con la politica e Messina Denaro latitante è uno scandalo per lo Stato”. A farmi incontrare il pm Antonino Di Matteo è stato un comune amico, un altro magistrato, dal nome impegnativo, Giordano Bruno. E così mi sono trovata una calda mattina di ottobre nella saletta spoglia della Direzione antimafia e antiterrorismo di via Giulia. Vedendolo tendermi la mano con una certa compunta serietà, ho avuto un momento di imbarazzo. Di cosa posso parlare con un uomo che rischia la vita per il suo lavoro, che ha pochissimo tempo da perdere, che conosce a fondo una materia a me poco conosciuta? Ma poi ho incontrato i suoi occhi e ogni imbarazzo si è dissolto. Il procuratore Antonino Di Matteo ha uno sguardo gentile, curioso e direi quasi timido. Lo sguardo di un uomo che non si è fatto inasprire e irrigidire dagli ostacoli e dalle difficoltà che il suo lavoro comporta. La domanda è: perché lo vogliono morto più di tanti altri magistrati che hanno indagato sulla mafia? La risposta è semplice: perché Di Matteo ha osato penetrare in quella zona grigia di cui si preferisce tacere, quella zona inquietante, tenuta sempre nascosta, che si trova fra la malavita organizzata e le istituzioni dello Stato. Prendo coraggio e gli espongo come prima domanda una questione che mi inquieta. In un momento di confusione e frammentazione dei principi e delle idee, che potrei addirittura chiamare di paralisi etica, in un momento in cui le ideologie sono scomparse, i partiti sono in agonia, e la gente è disorientata e scoraggiata, sembra che l’ultimo punto di riferimento a cui tutti si rivolgono aspettandosi risposte sicure, sia la magistratura. È così? E non le sembra pericoloso questo trasferire ogni giudizio morale alle leggi e a chi le applica? “Se oggi una parte della popolazione considera la magistratura come un punto di riferimento etico direi che ciò non dipende dalla magistratura ma dai vuoti che colpevolmente ha lasciato la politica. È stata la politica a fare un passo indietro, specialmente sulla lotta alla mafia che, ricordiamolo, è nata nel dopoguerra con sindacalisti e politici siciliani come Pio La Torre, coraggiosi oppositori che denunciavano con nomi e cognomi i misfatti mafiosi, quando i procuratori generali negavano l’esistenza della mafia”. Cosa sta succedendo secondo lei nel nostro Paese? È vero che destra e sinistra non significano piu niente, come dice qualcuno? “Sento che siamo diventati, come dice lei, un ancoraggio possibile per chi si sente nelle nebbie, ma dobbiamo sempre ricordare che il punto di riferimento più alto rimane la nostra Costituzione”. La parola popolo ha ancora un senso? Chi e cosa è il popolo secondo lei? Crede che qualcuno possa decidere di rappresentare da solo il popolo di un Paese, arrivando a considerare pericolosi nemici coloro che credono nella libertà di critica? “Per me la parola popolo ha ancora un senso alto e nobile, soprattutto contro le spinte che vogliono trasformarci in una massa di individui separati, ciascuno chiuso a difendere i propri interessi personali. Da magistrato so che quando amministriamo la giustizia, lo facciamo in nome del popolo italiano, come dice la legge”. Pare che Riina dicesse che “bisogna fare la guerra per guadagnare la pace”? Ma di quale pace parlava? E la sua guerra, che ha provocato tanti morti e tante rovine, ha poi prodotto una pace mafiosa? “L’esperienza di 25 anni di processi di mafia mi ha convinto che non esiste al mondo una forza criminale che ha fatto costantemente politica come Cosa nostra. Si pensano i mafiosi come rozzi e illetterati, incapaci di elaborare un pensiero politico. Non è così. Loro sanno benissimo che la sopravvivenza sta nel mantenere un rapporto con lo Stato. A noi il compito di recidere questo legame”. Lei dice che Riina chiedeva tante cose in cambio della cessazione delle azioni di guerra: l’abolizione dell’ergastolo, la chiusura del supercarcere dell’Asinara e di Pianosa, l’ammorbidimento del carcere duro, la modifica della legge Rognoni-La Torre sul sequestro e la confisca dei patrimoni mafiosi, una nuova legislazione sul pentitismo. È per ottenere questi privilegi che ha ucciso e sparso terrore? “Quando Riina capì che il tradizionale rapporto col vecchio potere politico era entrato in crisi, cercò altri riferimenti politici. Intanto punì con mezzi violenti quei politici che non avevano mantenuto le promesse fatte. E, a colpi di bombe e attentati, cercò di trovare nuovi referenti. Oggi, una sentenza di primo grado, dopo 5 anni di dibattimento, ci dice che Riina raggiunse questo scopo”. E possiamo dire chi furono gli altri referenti? “La mafia aveva già constatato che negli anni 70 Marcello Dell’Utri aveva svolto un ruolo da mediatore fra la mafia e Silvio Berlusconi. Oggi, dal processo delle trattative, emerge che la perpetuazione di questo ruolo di mediazione è continuato anche in un periodo successivo”. Lei dice che ci sono due anime nella mafia: una più pacifista e portata ai compromessi e una più guerriera che crede di risolvere le cose solo coi delitti e le intimidazioni. È vero che Provenzano era della prima idea e Riina della seconda? “Credo che la mafia sia sempre la stessa e che sia caratterizzata da una finalità precisa: l’acquisizione e la conservazione del potere. Nei vari momenti storici, in seno a Cosa nostra sono prevalsi sia l’idea dell’attacco violento che quella della mediazione e del compromesso. Tuttora non sono tra coloro che credono che la mafia abbia rinunciato per sempre all’opzione stragista”. Ho letto il libro che lei ha scritto con il preparatissimo Saverio Lodato, “Il patto sporco”, pubblicato da Chiarelettere. Le chiedo: perché tante persone che lei cita nel libro hanno sostenuto che la trattativa Stato mafia era una pagliacciata? “Condurre sottotraccia una trattativa con la mafia non è solo eticamente riprovevole per uno Stato di diritto. C’è qualcosa di più: rafforza agli occhi della gente il prestigio e l’autorevolezza della mafia, attribuisce a essa la capacità micidiale di esercitare ricatti e pressione nei confronti del Paese. Fin quando i mafiosi saranno a conoscenza dei segreti delle trattative con lo Stato e taceranno quella conoscenza, potranno sempre ricattare le istituzioni”. Cosa voleva di preciso Ciancimino? Non pare fosse favorevole ai metodi guerreschi di Riina. È possibile che sia stato lui, d’accordo con alcune forze dei servizi segreti deviati, a fare arrestare Riina? “Vito Ciancimino rappresentava l’anello di collegamento ideale fra lo Stato e Riina. Era stato un esponente importante della Dc, oltre a rivestire delle cariche politiche rilevanti. Ma nello stesso tempo era un mafioso, un corleonese puro, un amico personale di Provenzano che a Ciancimino da tempo aveva affidato le consulenze e le scelte politiche più delicate per Cosa nostra”. Quindi è possibile che questa doppia appartenenza lo abbia portato a un certo punto a scegliere fra i due? “L’emblema della doppia appartenenza rappresenta la tragedia e la difficoltà di distinguere i rapporti fra mafia e politica”. Ma perché Ciancimino scelse Provenzano? “Dal processo alla trattativa emerge che Ciancimino capì che la mediazione non poteva essere raggiunta se in Cosa nostra avesse prevalso la linea di Riina e per questo offrì ai carabinieri il suo aiuto per catturare Riina”. Perché Andreotti smette di trattare con la mafia nell’80? C’entra la nuova politica antimafia di Falcone? “Furono molte e complesse le ragioni che portarono al cambiamento di rotta nel rapporto fra Cosa nostra e Andreotti. C’è un dato che dobbiamo sottolineare però: Andreotti non è stato assolto. È stato dichiarato prescritto il reato per quei rapporti ad alto livello che aveva avuto fino al 1980 con esponenti di vertice di Cosa nostra. Rapporti che si sono concretizzati perfino in incontri diretti con quei mafiosi per discutere dei danni che l’azione moralizzatrice di Pier Santi Mattarella stava provocando alla mafia. Ancora oggi, gran parte dell’opinione pubblica italiana ignora che quei rapporti e quegli incontri sono consacrati in una sentenza definitiva”. Oggi, a quanto si dice, è rimasto solo Messina Denaro a dirigere la mafia. Ma è vero? “Matteo Messina Denaro ha tutte le caratteristiche del capomafia di rilievo. Ha tradizioni familiari, conoscenze di alto livello, curriculum criminale di assoluto rispetto, avendo partecipato in prima persona alla campagna stragista del 1993 a Roma, Firenze e Milano”. Insomma è il degno erede di Riina. Anche lui fa precedere gli interessi di Cosa nostra a quelli privati? “Non è una persona trascurabile. Bisogna conoscere i nemici per stanarli. Certo Messina Denaro ha la forza che gli deriva dalla conoscenza dei segreti più reconditi di quelle stragi”. Ma come è possibile che sia latitante da tanti anni? “In effetti è scandaloso che da 25 anni si protragga la sua latitanza. Spero solo che questo lungo buco nero non sia frutto di ricatti e condizionamenti che Messina Denaro può essere in grado di esercitare nei confronti di ambienti deviati dello Stato”. Possiamo dire che la tratta degli esseri umani, la grande industria della vendita dei rifiuti, il mercato della droga siano ancora in mano alla mafia? “Anche se la mafia oggi non spara, la sua pericolosità è intatta. È riuscita infatti a conquistare ampi spazi nell’economia apparentemente legale sfruttando perfino rilevanti flussi di finanziamento pubblico anche europeo”. Codici identificativi per le forze di polizia: l’appello di Amnesty International di Riccardo Noury Corriere della Sera, 11 novembre 2018 Sono già 25.000 in meno di una settimana le persone che hanno firmato l’appello rivolto da Amnesty International Italia al ministro dell’Interno Matteo Salvini e al capo della Polizia Franco Gabrielli per chiedere che le forze di polizia siano dotate di codici identificativi alfanumerici individuali durante le operazioni di ordine pubblico. Diciassette anni dopo il G8 di Genova del 2001, benché le violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani commesse in occasione di quell’evento siano state accertate in giudizio, molti fra gli appartenenti alle forze di polizia coinvolti sono rimasti impuniti, in parte proprio perché non fu possibile risalire all’identità di tutti gli agenti presenti. Già nel 2012 il Parlamento europeo aveva approvato una risoluzione sulla situazione dei diritti fondamentali nell’Unione europea (2010-2011) in cui, alla raccomandazione n. 192, si sollecitavano gli stati membri “a garantire che il personale di polizia porti un numero identificativo”. La maggior parte degli stati dell’Unione europea ha dato seguito a questa richiesta, ma non l’Italia. Nel corso delle passate legislature, numerose iniziative parlamentari hanno sottolineato la necessità di rendere più agevole l’individuazione, laddove necessaria, dei singoli agenti adibiti a funzioni di ordine pubblico in occasione di manifestazioni. Tuttavia, queste proposte non hanno avuto esito positivo. Amnesty International ritiene ormai urgente che sia varata una normativa in linea con gli standard internazionali, che preveda l’utilizzo di codici identificativi alfanumerici ben visibili sulle uniformi degli agenti impegnati in attività di ordine pubblico e che stabilisca che l’inosservanza di detto obbligo venga sanzionata. L’introduzione di misure come i codici identificativi per gli agenti impegnati in operazioni di ordine pubblico rappresenterebbe non solo una garanzia per il cittadino, ma anche una forma di tutela per gli stessi appartenenti alle forze di polizia. Dunque, non si tratta di una campagna “contro le forze di polizia”, di cui Amnesty International riconosce il ruolo chiave nella protezione dei diritti umani. Affinché questo ruolo sia riconosciuto nella sua importanza e incontri la piena fiducia di tutti, è però fondamentale - sottolinea l’organizzazione per i diritti umani - che eventuali episodi di uso ingiustificato o eccessivo della forza siano riconosciuti e sanzionati adeguatamente, senza che si frappongano ostacoli all’accertamento delle responsabilità individuali. Quella norma che autorizza l’Arma a “ tradire” i pm di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 11 novembre 2018 Sono incostituzionali le informative ai superiori, ma non per i Carabinieri. La Consulta ha bocciato il decreto che estese a tutte le Forze di polizia la “licenza” concessa ai militari, tuttora “viva”. “Ma ha le ore contate”, per i giuristi. “Non potrà non subire medesima sorte”, dichiara il professore Giovanni Cordini, ordinario di Diritto pubblico comparato all’università di Pavia, a proposito dell’articolo 237 del Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare, che disciplina “obblighi di polizia giudiziaria e doveri connessi con la dipendenza gerarchica”. “Indipendentemente - questo il testo della norma - dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale, i comandi dell’Arma dei carabinieri competenti all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria, danno notizia alla scala gerarchica della trasmissione, secondo le modalità stabilite con apposite istruzioni del comandante generale dell’Arma dei carabinieri”. L’articolo in questione, contenuto nel decreto 90 del 15 marzo 2010, può essere considerato il “padre” dell’articolo 8 comma 5 del decreto legislativo 177 del 2016, recentemente dichiarato incostituzionale dalla Consulta. “I vertici delle Forze di polizia - recita la norma bocciata dalla Corte costituzionale - adottano istruzioni affinché i responsabili di ciascun presidio di polizia interessato trasmettano alla propria scala gerarchica le notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale”. Praticamente due norme sovrapponibili quanto al dettato letterale e al merito. “In casi del genere - prosegue il professor Cordini - la norma va disapplicata dai destinatari della norma stessa. Non è necessario attendere che il legislatore, in questo caso il presidente della Repubblica, provveda a modificarne il testo in aderenza al dettato costituzionale”. Secondo la Consulta - la sentenza sarà depositata nei prossimi giorni - la disposizione “è lesiva delle attribuzioni costituzionali del pubblico ministero, garantite dall’articolo 109 della Costituzione”. Sotto i riflettori dei giudici è dunque “la specifica disciplina della trasmissione per via gerarchica delle informative di reato, pur riconoscendo le esigenze di coordinamento informativo poste a fondamento della disposizione impugnata meritevoli di tutela”. Il procuratore di Bari Giuseppe Volpe, colui che sollevò il conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato, interpellato sul punto dal Dubbio, ha affermato che “biso- gnerà comunque attendere le motivazioni della sentenza per comprendere l’iter interpretativo dei giudici costituzionali prima di esprimere giudizi”. Quando venne approvata la norma nel 2016, furono molte le voci critiche. Il Csm dedicò alla discussione del parere sul testo un intero Plenum. Si era nel pieno dell’indagine “Consip”, condotta dal Noe dei carabinieri coordinati dal pm napoletano Henry John Woodcock. A causa di questa disposizione, si disse, venne svelato il contenuto dell’indagine ai vertici della centrale acquisti della Pa. A posteriori si può però affermare che tale norma non avrebbe cambiato di una virgola quanto già previsto per i carabinieri circa il dovere di informare i propri superiori. Se poi i vertici dell’Arma, iniziando dall’allora comandante generale Tullio Del Sette, come ipotizzato dalla Procura di Roma, avvertirono i capi di Consip, lo deciderà il gip della Capitale nelle prossime settimane pronunciandosi sulla richiesta di rinvio a giudizio per favoreggiamento e rivelazione del segreto d’ufficio. L’assurda storia di Aldo Bianzino, morto in carcere senza un perché di Marco Cedolin sinistrainrete.info, 11 novembre 2018 In queste ultime settimane si è parlato molto della morte di Stefano Cucchi, pestato da un gruppo di carabinieri mentre si trovava in stato di detenzione, e la tragica fine del ragazzo romano è stata raccontata perfino in un film uscito nelle sale il 12 ottobre scorso. Così come molto a suo tempo si è parlato della morte di Federico Aldrovandi durante un fermo di polizia, omicidio per il quale nel giugno 2012 sono stati condannati in via definitiva i 4 poliziotti responsabili. Ma purtroppo le morti apparentemente inspiegabili di cittadini, intervenute mentre albergano in carcere o si trovano in stato di fermo sono davvero tante e la maggior parte di esse non ha sicuramente avuto l’esposizione mediatica dei casi di Cucchi o di Aldrovandi. Un caso su tutti è quello di Aldo Bianzino che colpisce profondamente sia per la tragicità della sua fine, viene lasciato morire fra atroci dolori alla sua seconda notte di detenzione, sia per l’atmosfera kafkiana che permea l’intera vicenda all’interno della quale ogni cosa sembra non avere un perché. Aldo Bianzino è un falegname (ebanista) che dopo essersi separato dalla moglie decide di cambiare radicalmente il proprio stile di vita e si trasferisce a Pietralunga, un piccolo borgo nel verde delle colline umbre ad un’ora di auto da Perugia, dove acquista un casolare nel quale inizia a vivere con la nuova compagna Roberta Radici, l’anziana madre di lei ed il figlioletto Rudra. Aldo è amante delle filosofie orientali, da sempre pacifista e sperimenta attivamente la decrescita, vivendo a stretto contatto con la natura e rifuggendo i ritmi frenetici della città. Ha un orto dove pratica l’autoproduzione e all’interno di quell’orto coltiva anche una decina di piante di marijuana, esclusivamente per uso personale, dal momento che sia lui che la sua compagna sono incensurati ed assolutamente estranei a qualsiasi giro di spaccio e sarebbe folle anche solo pensarlo. Proprio alla porta del casolare, una sera di ottobre 2007, vengono a bussare 4 poliziotti ed un finanziere, con lo scopo di eseguire una perquisizione domiciliare che in tutta evidenza era stata ordinata da un giudice. Nel corso della perquisizione gli agenti rinvengono una decina di piantine di marijuana e nonostante Aldo insista nel sostenere che si tratta solamente di “erba” per uso personale e terapeutico (Roberta è afflitta da un tumore che la porterà a morire un anno dopo) procedono all’arresto di entrambi i coniugi, abbandonando in casa il figlioletto Rudra quattordicenne e l’anziana madre di Roberta 91enne. Una volta tradotti nelle patrie galere Aldo e Roberta vengono ovviamente divisi, uno nell’ala maschile e l’altra in quella femminile e ad entrambi viene assegnato un avvocato d’ufficio. Due giorni dopo l’arresto Roberta viene portata in un ufficio, dove una persona che si presenta come vice ispettore capo della polizia le domanda se Aldo abbia problemi di cuore o soffra di svenimenti. Roberta risponde di no e chiede la ragione di quella domanda, le viene intimato di essere sincera, perché Aldo lo stanno portando all’ospedale Silvestrini e possono ancora salvarlo. Lei ribadisce che Aldo è in perfetta salute e viene riportata in cella. Tre ore dopo Roberta viene tradotta nuovamente nello stesso ufficio, dove alla presenza dell’ispettore capo e di un uomo in borghese che non si presenta le vengono fatti firmare dei fogli, annunciandole che è scarcerata. Per prima cosa domanda quando potrà rivedere Aldo, ma la risposta è agghiacciante: “martedì dopo l’autopsia”. In realtà Aldo, quando vengono fatte le prime domande a Roberta è già steso su un tavolo di obitorio. Ha urlato per tutta la notte domandando aiuto, ma nessuno gli ha prestato soccorso. Solo al mattino le guardie entrano nella sua cella e trovandolo esanime, seminudo e con la finestra aperta nonostante il freddo, praticano un tentativo di rianimazione, ma non lì in cella, bensì dinanzi all’infermeria la cui porta rimane inspiegabilmente chiusa. Secondo le indagini condotte dal medico legale nominato dall’ex moglie di Aldo Gioia Toniolo, intervenuta immediatamente al fianco di Roberta nella ricerca della verità su quanto accaduto, il corpo presenta ematomi alla testa, evidenti danni al fegato e alla milza e alcune costole rotte. Un quadro del tutto incompatibile con la tesi dell’aneurisma che è stata scelta come causa ufficiale della morte. Ma piuttosto che secondo il medico legale avvalora l’ipotesi di un pestaggio messo in atto con tecniche militari utilizzate per danneggiare gli organi vitali senza lasciare traccia. Nonostante ciò il pm Giuseppe Pietrazzini, lo stesso magistrato che aveva ordinato la perquisizione nel casolare, ora incaricato dell’indagine per omicidio, archivia l’inchiesta due volte in quanto a suo dire le indagini non avrebbero fornito prove di aggressioni a Bianzino, né alcuna ragione perché si potessero verificare. E quando nel 2015 si arriva ad una sentenza definitiva si conclude che Aldo è morto per cause naturali in seguito ad un aneurisma, mentre l’unica condanna (ad un anno di reclusione) riguarda la guardia carceraria Gianluca Cantoro, colpevole di omissione di soccorso, non essendo intervenuto nel corso della notte alle grida di Aldo. Oggi il figlioletto Rudra, ormai ventiquattrenne, che non ha mai smesso di cercare la verità sulla tragica fine di suo padre, sta chiedendo a gran voce la riapertura delle indagini ed i suoi legali stanno agendo in questo senso sulla base di nuove importanti analisi e rivelazioni medico legali. La speranza naturalmente è che ci riesca, non solamente nel suo interesse e nella memoria di Aldo, ma anche in quello delle stesse forze dell’ordine che dovrebbero in primo luogo tutelare l’incolumità dei cittadini e non certo metterne a repentaglio la vita nel buio di una prigione. Ma sullo sfondo di questa drammatica vicenda continua ad aleggiare un’atmosfera da romanzo kafkiano, con troppi punti oscuri e troppe domande senza risposta. Perché mai un magistrato avrebbe ordinato la perquisizione di un casolare di campagna, dove vivevano due coniugi incensurati dediti alla decrescita e all’autoproduzione e non certo legati a qualche clan malavitoso o allo spaccio di droga? Perché mai due coniugi incensurati sono stati immediatamente incarcerati con la sola colpa di coltivare nel proprio orto una decina di piante di marijuana ad evidente uso personale e terapeutico? Perché mai Aldo, un uomo pacifico e tranquillo, in sede d’interrogatorio o chissà in quale altra circostanza sarebbe stato pestato a morte con tecniche militari degne di Guantánamo? Perché infine l’indagine sulla morte di Aldo è stata affidata allo stesso magistrato che già aveva ordinato quella curiosa perquisizione, concedendogli d’ignorare le drammatiche perizie medico legali e concludere che si trattasse di una morte per cause naturali, pur contro ogni evidenza? La speranza naturalmente è che una volta riaperta l’indagine almeno qualcuna di queste domande possa finalmente trovare una risposta, perché le forze dell’ordine e la giustizia dovrebbero far paura ai “cattivi” ma continuare a rappresentare un punto fermo e non certo un elemento di terrore per le persone perbene di cui Aldo senza ombra di dubbio faceva parte a pieno titolo. Napoli: Poggioreale sempre nel degrado, va meglio a Secondigliano di Fabrizio Ferrante linkabile.it, 11 novembre 2018 I Radicali tornano nelle carceri di Napoli. I militanti dell’associazione Radicali per il Mezzogiorno Europeo hanno condotto quattro visite ispettive tra il nove e il dieci novembre, in altrettante carceri campane: venerdì nove a Poggioreale e Secondigliano, l’indomani a Pozzuoli e Fuorni. Per quanto riguarda le ispezioni nelle due carceri napoletane di Poggioreale e Secondigliano, ecco i numeri emersi nella giornata di venerdì nove novembre. Si parte da Poggioreale dove i detenuti sono 2284 (in circa 1.700 posti) di cui 277 stranieri. Un dato più alto rispetto a quello rilevato dai Radicali durante l’ultima visita ispettiva nel periodo di Pasqua, quando i ristretti erano 2193. Vi sono inoltre 17 educatori e 711 agenti della Polizia Penitenziaria. Se per i detenuti si può ancora parlare di sovraffollamento, le guardie sono in numero inferiore rispetto ai 928 che compongono la pianta organica. Sul fronte strutturale, la sala colloqui è in fase di ristrutturazione ed è stato previsto un meccanismo di distribuzione automatica dei biglietti per accedere agli incontri coi detenuti. Tutto ciò col fine di rendere più agevole il flusso dei parenti in visita ai ristretti. Inoltre, dopo l’inaugurazione del Padiglione Genova (94 posti) avvenuta un anno fa, anche il Padiglione Venezia sta vedendo conclusa la ristrutturazione. I lavori dovrebbero terminare a febbraio 2019 e a quel punto ci saranno 65 nuovi posti in celle totalmente rimesse a nuovo. Alla ristrutturazione hanno contribuito due docenti della facoltà di Architettura della Federico II di Napoli. Sono inoltre disponibili fondi per ristrutturare (segnatamente intonaci e pittura delle pareti) i padiglioni Salerno, Napoli (tra i peggio messi assieme al Milano) e il centro clinico San Paolo. Per quanto riguarda i lavoratori dietro le sbarre, al momento sono impegnati 270 detenuti (di cui cinque in articolo 21, tre presso il provveditorato e due all’esterno, a Portici in una scuola e ad Ercolano presso la cooperativa Siani). Finanziato inoltre il progetto della pizzeria (attesa per la prossima estate) con annessa formazione per 43 ristretti. I corsi avverranno nel padiglione Firenze, in cui vi sono lavori che impiegano altri due detenuti, col fine di creare il salone per formare i pizzaioli. In cantiere un progetto per la nascita di una lavanderia, sempre con l’obiettivo di dare lavoro al più alto numero possibile di detenuti. Infine, grazie all’aiuto di padre Valletti, ci sono due borse lavoro destinate ad altrettanti detenuti che coltiveranno un piccolo appezzamento di terreno interno alla struttura. L’istruzione a Poggioreale conta al momento su scuola elementare, due corsi di scuola media e due corsi per i primi tre anni dell’istituto tecnico, che diventano cinque per i detenuti del padiglione Avellino. Si segnala infine un’iniziativa dell’Associazione Nazionale Magistrati, rivolta a giovani magistrati col fine di avvicinarli, tramite una serie di incontri in struttura, al mondo carcerario. La visita ha comunque messo a nudo (ancora una volta) aspetti drammatici: muffe alle pareti, nelle stanze come nei bagni; docce fatiscenti al padiglione Milano in un ambiente sporco e malsano; recenti episodi di ratti rinvenuti nelle celle e un aumento dei suicidi nel 2018. Non a caso c’è chi come Pietro Ioia ha recentemente inaugurato una raccolta di firme con la sua associazione degli ex detenuti, con l’obiettivo (forse velleitario ma degno di nota) di chiudere “il mostro di cemento”. Al termine della visita, la direttrice Maria Luisa Palma ha confermato che, al netto di una struttura fatiscente, i problemi più annosi da risolvere riguardano il sovraffollamento e un numero ancora insufficiente di progetti di avvio al lavoro. Il sovraffollamento causa malessere fra i detenuti che reclamano celle singole, finendo talvolta per preferire l’isolamento anche a seguito di sanzioni disciplinari per il rifiuto di rientrare in cella. La direttrice di Poggioreale ha rivolto infine un appello alla società civile, ribadendo il ruolo chiave di associazioni, imprese e singoli cittadini nel successo delle iniziative volte al reinserimento dei detenuti, affermando che “c’è tanto su cui investire qui a Poggioreale”. Per quanto riguarda il carcere di Secondigliano, la situazione è apparsa migliore rispetto a Poggioreale non solo dal punto di vista strutturale, quanto da un clima sereno che difficilmente si può riscontrare nell’ambiente descritto sopra. Eppure anche a Secondigliano c’è sovraffollamento: in 1021 posti (620 stanze) ci sono 1400 detenuti. Quasi tutte le celle sono da due, eccetto che nel reparto Mediterraneo dove alcune celle sono da quattro con due letti a castello. La struttura impiega dodici educatori e 595 agenti, la metà rispetto a una pianta organica di 1080. Circa il 10% dei detenuti sono stranieri. I detenuti in regime di media sicurezza godono del regime delle celle aperte dalle 8 alle 19:45, mentre quelli in alta sicurezza solo dalle 9 alle 15:30 con in più l’ora di socialità tra le 17 e le 18. L’istruzione a Secondigliano è presente con scuola media e superiore, segnatamente con i cinque anni di commerciale e alberghiero. Partirà inoltre un polo universitario con dipartimenti in giurisprudenza, economia e commercio, scienze politiche, scienze della formazione, erboristeria e scienze dell’educazione. Un progetto che non vuole limitarsi a fornire un’istruzione di tipo universitario ai detenuti ma vuole fornire loro gli strumenti culturali per emanciparsi tramite l’elevazione culturale. Ai 76 ristretti che sono iscritti ai corsi, infatti, sarà chiesto di condividere spazi come biblioteca, aula studio e sala lettura ma anche un percorso di vita. I ristretti saranno seguiti da docenti della Federico II e da alcuni studenti tutor. A commento dell’iniziativa, la direttrice Giulia Rossi ha dichiarato che: “Vogliamo dare quel quid in più alla mera istruzione”. Sul fronte lavoro, al momento sono impegnati 250 detenuti circa. In particolare nella lavorazione dell’orto, nella gestione dei rifiuti e della raccolta differenziata nel carcere. Secondigliano si avvia ad essere un’eccellenza nel settore della lavorazione dei rifiuti e a tal proposito sono previste tre piattaforme esterne per ferro e legno, materiali elettronici e compostaggio di qualità. Nel reparto Adriatico è inoltre attivo un corso per elettricisti, finanziato con la cassa ammende. La magistratura di sorveglianza è presente nei limiti del possibile ma occorrono sollecitazioni da parte del carcere, poiché c’è preoccupazione per le autorizzazioni in materia di ricoveri sanitari. A Secondigliano è presente l’unica articolazione di salute mentale a Napoli che comprende 18 posti. Anche la dottoressa Rossi, come la sua collega Palma di Poggioreale, si è rivolta ai privati, alle associazioni e alle aziende affinché investano nei progetti di rieducazione e reinserimento sociale dei detenuti, puntando sulla loro formazione come forza lavoro specializzata. Roma: chiusa la struttura dell’Ospedale “Pertini” dove vengono ricoverati i detenuti quotidianosanita.it, 11 novembre 2018 La chiusura temporanea è stata disposta dalla Asl Rm2 per inagibilità e verifiche strutturali. La denuncia del Sindacato. “Siamo oltremodo preoccupati per le ripercussioni che tale decisione potrà avere per il personale sanitario, che deve essere assegnato alle stesse mansioni, e per gli agenti di polizia”. Chiude per inagibilità e verifiche strutturali la struttura complessa di medicina protetta dell’ospedale Pertini di Roma, destinata al ricovero dei pazienti detenuti. Ma le rappresentanze sindacali denunciano di “non essere state coinvolte per un confronto sulle ricadute di gestione e organizzazione del servizio”. “La nostra preoccupazione - denuncia la Fp Cgil di Roma e Lazio - riguarda la continuità della cura dei pazienti ricoverati, da garantire comunque in condizioni di sicurezza, oltre che la destinazione del personale, sia sanitario che di polizia penitenziaria. Sono 29 gli agenti assegnati alla struttura, incluse le 3 agenti della sezione femminile di Rebibbia, e 10 gli infermieri della struttura. I pazienti sono già stati trasferiti in altri reparti non protetti e serve più personale per i piantonamenti: un aggravio insostenibile per le già critiche condizioni di lavoro degli altri istituti del Lazio, data la sofferenza di organico di tutto il corpo di polizia penitenziaria”. “Siamo oltremodo preoccupati - si prosegue nella nota - per le ripercussioni che tale decisione potrà avere per il personale sanitario, che deve essere assegnato alle stesse mansioni, e per gli agenti di polizia”. “In attesa di capire per quanto tempo la struttura resterà chiusa - conclude la Fp-Cgil - riteniamo essenziale il confronto immediato con le rappresentanze sindacali e sociali per trovare soluzioni condivise a difesa della tutela della salute, della sicurezza, delle condizioni di lavoro e dei livelli occupazionali”. Aversa (Ce): detenuti dal carcere ai lavori di pubblica utilità di Ignazio Riccio Il Mattino, 11 novembre 2018 Un nuovo organismo per la tutela dei dipendenti del Comune di Aversa, L’esecutivo, guidato dal sindaco Enrico De Cristofaro, ha istituito, attraverso una delibera di giunta, il Comitato unico di garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni. Il regolamento - A formare la nuova commissione saranno un presidente, scelto tra i dipendenti comunali, otto componenti effettivi, eletti tra i lavoratori e i rappresentanti sindacali e otto supplenti. Il provvedimento ha come obiettivo quello di riunificare le competenze del Comitato paritetico sul fenomeno del mobbing e del Comitato pari opportunità. Entro sessanta giorni i componenti dell’organismo comunale adotteranno un regolamento per la disciplina delle modalità di funzionamento del comitato stesso, che garantirà un controllo più oculato nei rapporti di lavoro stabiliti dal contratto nazionale. Sempre in tema di occupazione, l’amministrazione comunale firmerà, a breve, una convenzione con il Tribunale di Napoli Nord per permettere ai condannati di lavorare in Comune per periodi di messa alla prova o per lavori di pubblica utilità. Un’opportunità - I carcerati non riceveranno alcun salario, ma a carico dell’ente locale ci sarà l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni, le malattie professionali e per la responsabilità civile verso terzi. I fondi saranno ricavati, per gli anni 2019 e 2020, nel bilancio pluriennale. L’iniziativa concordata tra il Comune e il Tribunale di Napoli Nord ha un importante valore sociale, poiché lo scopo è quello dì “consentire di trasformare la sanzione per un comportamento non corretto e a rischio in una opportunità di crescita e in un’occasione per conoscere il mondo del volontariato che opera nel sociale”. In questo modo, inoltre, i detenuti potranno acquisire nuove competenze ed esperienza che potranno tornare loro utili una volta scontata la pena. Milano: l’esercito dei 43mila poveri salvato dal volontariato di Zita Dazzi La Repubblica, 11 novembre 2018 Il bilancio della Caritas: in un anno 6,6 milioni di euro per mense, dormitori, centri lavoro. Milano vola, ma i poveri non diminuiscono, anzi crescono. Come aumentano i volontari che se ne occupano e i soldi che vengono spesi per aiutarli. È questa la sintesi del bilancio sociale della Caritas Ambrosiana che viene presentato stamattina alla presenza dell’arcivescovo Mario Delpini, alla Casa Cardinal Schuster, in via Sant’Antonio 5, durante un’assemblea con 500 delegati in rappresentanza di 800 Caritas parrocchiali e 380 centri di ascolto che in un anno si sono occupati di 43mila poveri, tremila in più dell’anno precedente. Pacchi viveri, vestiti, medicine, mense, soldi per pagare le bollette e le rate dell’asilo, centri d’accoglienza per migranti, case per i profughi, progetti per aiutare le donne vittime di tratta che si vendono sulla strada: per fare tutto questo nel 2017 sono stati spesi 6,6 milioni di euro, una cifra simile a quella investita nel 2016 per far fronte a tutte le richieste d’aiuto che arrivano alle chiese e dai vari servizi territoriali ad esse legate. In particolare quest’anno si è lavorato molto sul tema della povertà alimentare con cinque “empori della solidarietà” (tre nuovi) per sostenere le famiglie che non riescono ad arrivare alla fine del mese con tessere d’acquisto gratuite: nel 2017 hanno aiutato 3.964 famiglie, il 52 per cento in più dell’anno prima, distribuendo 370 quintali di prodotti, il 26 per cento in più del 2016. Accanto agli empori, sono partite anche le botteghe solidali che hanno aiutato altre 1.401 persone. L’assemblea di oggi si svolge alla vigilia della Giornata mondiale dei poveri, istituita per la prima volta lo scorso anno da papa Francesco. Domani le parrocchie sono invitate ad organizzare momenti di incontro con tutti gli operatori delle realtà caritative, di raccogliere offerte per opere e a dare voce alle famiglie in difficoltà durante le celebrazioni liturgiche domenicali. Nel volume del bilancio sociale si capisce come la Caritas, braccio operativo della Curia per l’assistenza sociale, sia un tassello fondamentale nella rete della solidarietà. E come sia ramificata e articolata: i 380 centri d’ascolto hanno tremila volontari che si occupano di distribuire cibo e abiti, di ascoltare le necessità e di fornire un primo orientamento. Il passo successivo è quello del Sam, servizio accoglienza milanese, che in un anno ha preso incarico 865 persone (35 per cento senza fissa dimora, 20 per cento disoccupati, e il resto persone con problemi di dipendenza, di alcol, di malattia mentale, di carcerazione). Di questi, 488 erano nuovi utenti e a 185 è stato anche offerto un tetto. Il Siloe, che si occupa dell’inserimento lavorativo, ha aiutato 638 persone in un anno a trovare un’occupazione o a mettersi in condizione di poterlo cercare con corsi professionali, borse lavoro, tirocini. In ogni quartiere c’è una Caritas e nella periferia di Greco da tre anni c’è il Refettorio Ambrosiano, che accoglie poveri e anziani della zona (24.180 pasti in un anno per 306 ospiti indigenti, in maggioranza anziani italiani). Caritas è in tutte le aree del disagio, dai malati di Aids agli over 85enni soli e poveri. C’è un ufficio che si occupa del carcere e il progetto Avenida che in 82 uscite ha contattato 252 donne sulla strada. In via Sammartini 114 c’è un rifugio per senzatetto che ha avuto 171 ospiti in un anno - molti qui gli stranieri - pari a 17mila pernottamenti gratuiti con colazione inclusa 365 giorni all’anno. Milano: “Guardami!”, a Bookcity i ritratti del carcere chiesadimilano.it, 11 novembre 2018 Il Girasole, associazione impegnata in ambito penitenziario a favore di detenuti e familiari, organizza un dibattito a partire dal volume che raccoglie gli scatti realizzati da Margherita Lazzati a Opera. Per la prima volta l’Associazione Il Girasole Onlus partecipa al grande evento di Bookcity Milano. Impegnata da 12 anni in ambito penitenziario a favore di detenuti e familiari, l’Associazione organizza venerdì 16 novembre alle 18, in via San Vittore 49 a Milano, una serata di dibattito a partire dal libro fotografico di Margherita Lazzati Ritratti in carcere (edito da La Vita Felice) curato da Galleria l’Affiche di Milano. La serata è intitolata “Guardami!”, prendendo spunto da uno dei tanti scatti in chiaro scuro che esprime a modo suo la partecipazione delle persone fotografate. Al dibattito interverrà Giacinto Siciliano, direttore della Casa circondariale di San Vittore e già di Opera, dove Lazzati ha scattato le 32 fotografie (pubblicate nel volume in bianco e nero) a detenuti e volontari del Laboratorio di lettura e scrittura creativa condotto da Silvana Ceruti il sabato mattina e a cui partecipa anche lei da sette anni. “Era il tavolo a interessarmi - spiega la fotografa -. Il grande tavolo che, alla fine, compare soltanto in un’immagine. I posti non erano prestabiliti, ma ci siamo accorti che nel tempo si diventava compagni di banco: per mesi, a volte per anni”. E aggiunge: “Ho cominciato a vedere analogie tra dentro e fuori. Si è acceso un interesse. L’idea era: guardandoci da fuori, chi può dire: “Questa persona è detenuta, questa no?”. Scommettevo che quasi nessuno ci sarebbe riuscito. Scommessa vinta”. A parlare sarà anche Jacqueline Ceresoli, storica e critica dell’arte contemporanea, che si chiede: “Cos’hanno in comune questi ritratti fotografici rigorosamente in bianco e nero di uomini reclusi nel carcere di massima sicurezza? Ebbene, sembrano implorare: “Guardami… ci sono anch’io, non dimenticarmi”. Dopo gli sguardi “dentro” il carcere, la parola passerà a chi come Sara Santi, pedagogista dell’Associazione Il Girasole, è impegnata ogni giorno nei percorsi di reinserimento sociale dei detenuti e nella mediazione familiare, incrociando gli sguardi di chi vive “fuori” la detenzione, perché ammesso alle misure alternative al carcere. Il dibattito sarà moderato da Luisa Bove, giornalista e presidente de Il Girasole. Info: tel. 02.48199373; info@associazioneilgirasole.org; www.associazioneilgirasole.org. Parma: un seminario sull’esperienza del teatro in carcere comune.parma.it, 11 novembre 2018 Alla Casa della Musica una riflessione sulla lunga esperienza di Parma. Da oltre un decennio Comune, Istituto Penitenziario di Parma, Università e Progetti & Teatro hanno attivato una sinergia che porta il teatro all’interno dell’istituto penitenziario di Parma. Il giorno dopo le ultime repliche, e il grande successo, di “Tito Andronico” che ha visto in scena otto detenuti/attori impegnati nella tragedia shakespeariana, frutto del laboratorio teatrale promosso dagli assessorati al Welfare e alla Cultura del Comune di Parma e condotto da Carlo Ferrari e Franca Tragni di Progetti & Teatro, Casa della Musica, è stato promosso un momento di confronto sull’esperienza svolta. Al seminario che ha avuto per tema il “Teatro in Carcere” e si è svolto presso la Casa della Musica ha partecipato Vito Minoia, presidente del coordinamento nazionale Teatro in Carcere” ed è stato introdotto dall’assessora Laura Rossi. “Una mattinata che fa il punto su un’iniziativa che ha una lunga storia e che proseguirà in futuro. Nonostante le difficoltà che comporta, continueremo ad assicurare il sostegno a questa iniziativa che, passo dopo passo, abbiamo fatto crescere. Questa esperienza che vede anche le particolarità e gli ostacoli date dallo svolgersi in un carcere di massima sicurezza, rappresenta davvero una grande occasione per gli operatori e per i detenuti che partecipano ai laboratori”. Il laboratorio teatrale, inserendosi all’interno di una vera rassegna, crea una rete di sensibilità esterna, di curiosità, di approccio al luogo/carcere e amplifica il desiderio di essere spettatori di un evento speciale che riesce ad emozionare i protagonisti che in scena “liberi” agiscono e rendono il teatro ancora più magico. “Non si tratta di un’attività amatoriale, ma di una pratica formativa con una funzione e un significato importante che in un futuro potrebbe anche essere spendibile in campo artistico o di tecniche teatrali. I laboratori sono mutati di anno in anno grazie alle competenze dei conduttori che hanno saputo alzare sempre un po’ di più le aspettative e il livello” Ha sottolineato Lucia Monastero Vice Direttrice del Carcere di Parma. Il Seminario ha visto gli interventi anche di Michalis Traitsis regista e pedagogo teatrale, responsabile del progetto Passi Sospesi degli Istituti Penitenziari di Venezia e di Valeria Ottolenghi Critica Teatrale. Viterbo: Ludwig van Beethoven accolto con cori da stadio al carcere di Gaetano Alaimo newtuscia.it, 11 novembre 2018 “Nessuno potrà mai toglierci la libertà di provare emozione nell’ascolto della buona musica, soprattutto di quella classica che spesso sottintende da parte dell’autore sofferenze e dolori.” Con questa battuta del console Touring Club Vincenzo Ceniti si è conclusa oggi pomeriggio (9 ottobre) la conferenza-concerto su Beethoven, voluta dal consolato di Viterbo e dell’Associazione Musicale “Muzio Clementi” nel teatro della Casa Circondariale di Mammagialla davanti ad un pubblico multi etnico, soprattutto giovanile, di un centinaio di detenuti (fra cui alcuni ergastolani) che hanno rinunciato a l’ora dell’aria aperta per esser presenti, e di una trentina di soci e simpatizzanti Touring. Al pianoforte il maestro Sandro De Palma. direttore artistico del festival viterbese “I Bemolli sono blu 2018” dedicato a Ludwig van Beethoven che ha raccontato talune vicende della vita del grande compositore di Bonn ed eseguito due Sonate, la n° 17 in do min. (“La tempesta”) e la n° 14 in do diesis min. (detta “Al chiaro di luna”). Applausi a scena aperta e un po’ fuori tempo che avrebbero fatto inorridire il pubblico ingessato delle sale da concerti, ma che sono apparsi festosi nella loro ingenuità e del tutto spontanei, quasi come in un concerto jazz. Tanto che De Palma ha donato loro a richiesta il “rondò” della Sonata alla turca di Mozart che alcuni hanno detto di conoscere per sentirlo nella suoneria del cellulare. Ci hanno sorpreso le considerazioni di un detenuto su “La tempesta” in cui ha avvertito una “struttura musicale ben articolata tra i bassi plumbei del primo movimento e il sublime andamento del secondo”. Il concerto - fuori programma del festival “I Bemolli sono blu” conclusosi domenica scorsa con un crescendo di ascolti ben augurante - è stato possibile per la cordiale ospitalità della Casa Circondariale con il direttore Pierpaolo D’Andria e la collaboratrice tuttofare Natalina Fanti. Particolare da non trascurare. Alla notizia del concerto è stato dato ampio risalto sul sito del Ministero di Grazia e Giustizia. La rassegna di musica classica ha avuto il sostegno della Regione Lazio e la collaborazione del Touring Club Italiano e dell’Università della Tuscia, con il patrocinio della Provincia di Viterbo, del Comune di Viterbo e l’appoggio tecnico di Carramusa Group, Alfonsi Pianoforti, Balletti Park Hotel, Il Borgo di Bagnaia e ProgettArte3D. Il Festival “I Bemolli sono blu” è stato ideato, promosso e organizzato dall’Associazione Musicale Muzio Clementi. Direttore artistico, Maestro Sandro De Palma. Migranti. Decreto Salvini, spot ingannevole di Roberto Saviano L’Espresso, 11 novembre 2018 Oltre mezzo milione di immigrati. Che non si possono espellere. Ora gettati per legge nell’illegalità. Il risultato: meno sicurezza. Senato, discussione sul Ddl Sicurezza e immigrazione. Ancora non è chiaro perché sicurezza e immigrazione siano nello stesso disegno di legge, ma magari è lo stesso principio che ha portato l’ex ministro Minniti a mettere insieme, nel sottotitolo del suo nuovo libro, le parole terrorismo e immigrazione. Forse la risposta ce l’ho: i sondaggisti dicono che parlare di immigrazione paga, paga in termini di attenzione e di consenso. Sia chiaro, però, non parlarne per provare a portare il discorso sul terreno della normalità, ma l’esatto opposto, ovvero presentare il fenomeno come un pericolo cui l’Italia è esposta e da cui solo una politica forte e autoritaria potrà salvarla. Naturalmente in Parlamento c’è chi affronta il nodo immigrazione e pone domande legittime che resteranno come sempre senza risposa. Emma Bonino interviene a Palazzo Madama e vale la pena riassumere brevemente il suo punto di vista perché pone questioni semplici e dimostra, ancora una volta, come il fenomeno migratorio si debba gestire senza illudersi, e soprattutto illudere il proprio elettorato, che si possa cancellare con un colpo di spugna o votando un decreto destinato a creare più problemi di quanti finge di risolverne. Se si potesse qualificare un atto legislativo come si qualificano a volte alcuni disturbi comportamentali, dice Emma Bonino, si potrebbe dire che questo decreto è un decreto autolesionista, come accade per quelle persone che si procurano tagli. È un decreto masochista, che nel suo svolgersi contraddice esattamente il titolo che si è dato. Il Ddl sicurezza non farà che aumentare l’illegalità e l’insicurezza. In Italia ci sono circa 500 mila stranieri immigrati irregolari che Salvini in campagna elettorale aveva promesso di rimandare a casa, non si sa con quali fondi e soprattutto non si sa come, mancando gli accordi bilaterali con i Paesi di origine. Li espelleremo tutti, disse, ma oggi sa che si era lasciato prendere la mano e che in realtà oltre i 6/7mila espulsi nel 2017 non si potrà andare. L’Italia ha quattro accordi bilaterali - con Tunisia, Marocco, Egitto e Nigeria - e questi sono gli unici quattro Paesi verso cui è in qualche modo possibile rimpatriare migranti. Tutti gli altri stranieri che si trovano oggi in Italia da irregolari sono non solo destinati a restarci, ma devono essere regolarizzati: ne va della sicurezza del Paese e delle sue finanze. Con la regolarizzazione arrivano i contratti di lavoro e con i contratti di lavoro arriva il pagamento di contributi. Tutto questo è di facile comprensione. Cosa intendiamo fare, domanda Emma Bonino alla maggioranza, di questo esercito di irregolari? Il decreto non fa che aumentare l’esercito di irregolari gettando il Paese ancora di più nell’illegalità. Che cosa vuol fare il governo? Chiudere gli Sprar? Ha trovato questa come soluzione da dare in pasto al malcontento degli italiani? Ma gli Sprar sono l’esperienza più vicina alle singole realtà territoriali e meglio gestibile rispetto a tutte le altre che abbiamo visto essere fallimentari e facilmente infiltrabili dalle organizzazioni criminali. Dati ufficiali ci dicono che negli Sprar sono oggi ospitati e avviati all’integrazione circa 35 mila immigrati, in circa mille comuni su tutto il territorio nazionale: cosa ne facciamo dei 500 mila che già sappiamo essere irregolari cui si aggiungono questi ulteriori 35 mila, cui si aggiunge chi è appena arrivato o arriverà nei prossimi mesi? Possiamo permetterci di avere un tale esercito di immigrati irregolari in Italia? Non è questo un rischio maggiore rispetto a regolarizzare e gestire il fenomeno? Indietro non si può rimandare che una piccolissima parte dei disperati che arrivano, dunque ci si metta l’anima in pace e si inizi a lavorare per rendere l’Italia un Paese dove vengono rispettati i diritti di tutti, non solo quelli di chi fa politica e con qualche video e qualche post contro gli immigrati vede aumentare il proprio consenso. I grandi centri, quelli nei quali si vorrebbero mettere a parcheggio gli immigrati, saranno giocoforza mal gestiti perché è sui grandi numeri che ci sono i grandi guadagni, ed è sui grandi guadagni che si getta a capofitto la criminalità organizzata. Questo lo sanno tutti, ma conviene fingere che tutto vada bene. Conviene posare a favore di telecamera, sguardo perso nel vuoto. Ecco a voi, signori, la pubblicità ingannevole. Migranti. Roma invasa, ma dagli antirazzisti di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 11 novembre 2018 Uno, cento, mille Riace. Attese 20 mila presenze. Ma i manifestanti erano almeno il doppio. “Umano”, in tutte le sue declinazioni, è la parola che ha risuonato di più alla grande manifestazione antirazzista contro il decreto-sicurezza che ha invaso ieri pomeriggio le strade di Roma. Umano contrapposto a “Salvini”, sempre nelle varie accezioni di decreto e di esternazioni del ministro dell’Interno. E di varia umanità ce n’era davvero tanta, da tutte le parti d’Italia, dietro lo striscione di testa della piattaforma “Indivisibili”. Il corteo ha sfilato per più di due ore tra Termini, via Cavour, via Merulana e ha riempito piazza San Giovanni oltretutto priva di palco: alla fine solo comizi improvvisati dai camion del corteo disposti nei vari angoli attorno alla Basilica. Rispetto alle 20 mila persone attese nei migliori pronostici, i manifestanti - nonostante i blocchi dei pullman ai caselli - si sono rivelati molti di più, forse persino il doppio. Una sinistra diffusa che ha raccolto l’appello sulla piattaforma e si è riversata nella capitale “con ogni mezzo necessario” - come recitava un grande striscione - senza l’adesione di alcuna grossa organizzazione. “Si è replicato un po’ lo stesso schema della manifestazione di Macerata - dice Simone Vecchioni del centro sociale Sisma ricordando i fatti del febbraio scorso - anche allora la nostra città, dopo la tentata strage di Traini, fu invasa da 30 mila antifascisti e antirazzisti che avevano risposto alla nostra convocazione con un passaparola, perché ce n’era bisogno. Anche oggi è così, di fronte all’attacco di Lega e Cinque Stelle contro i migranti e contro le fasce più deboli della società, un attacco ai diritti che alla fine toccherà tutti. I circoli di base e i singoli sono venuti a prescindere da qualsiasi diktat dall’alto”. Per Simone è la prova che “il movimento antirazzista e antifascista è unito”. La novità più rilevante rispetto ad altre analoghe manifestazioni - visibile a colpo d’occhio - è stata ieri la presenza massiccia di migranti. Sorridenti, felici, e molto più autorganizzati, non soltanto in comunità su base etnica. È il caso di un gruppo di africani del Molise che hanno scandito per tutto il tempo lo slogan del loro striscione: “United we stand, divided we fall”. “Siamo nigeriani, maliani, ghanesi, facciamo lavori diversi in agricoltura o come mediatori culturali e ci organizziamo via internet”, spiega uno di loro. Alcuni vanno in giro con sulla schiena pannelli di cartone scritti a mano: rispondono alla domanda sottesa su cosa sia la “pacchia”. Esempio: “La pacchia non è quando hai uno nodo alla gola per la nostalgia”. Oppure: “La pacchia non è svegliarsi all’alba per un lavoro sfruttato nei campi”. Tantissimi poi quelli venuti da Caserta. Alcuni dietro l’enorme striscione del l’ex Canapificio “Lasciateci passare”, portato quasi di corsa. In questo spezzone, anche la polisportiva “Caserta antirazzista” che fa parte del circuito “We want to play, nessuno è illegale per giocare a pallone”. “Ci eravamo costituiti due anni fa - racconta Marco Proto, fondatore della squadra di calcio Rfc Lions - insieme al St Ambroeus di Milano, AfroNapoli e S. Precario di Padova per denunciare la discriminazione dei cittadini extra Ue nelle norme per il tesseramento della Fgci e avevamo ottenuto l’abrogazione del famigerato articolo 40quater ma ora il decreto-sicurezza impedendo l’iscrizione all’anagrafe, richiesta per il tesseramento Figci, rimette tutto in discussione”. Ci sono tante realtà che non ti aspetti, che sfuggono ai sondaggi di opinione o di propensione al voto sui media mainstream. Come Officina 47, altra rete di tutrici e tutori di minori migranti non accompagnati, nominati dai tribunali dei minori in base alla legge 47 o legge Zampa. “Soltanto a Roma siamo cento - dicono - e ci concepiamo come genitori sociali, non siamo affidatari, seguiamo i ragazzi che stanno nei Centri e li accompagniamo nella crescita”. Ci sono singoli progetti Sprar, come il coordinamento di Cosenza, i salernitani che vendono le magliette “Tu nun sì razzista, sì strunz” e gli ombrelli, e una parte dei proventi li devolvono al Baobab di Roma. E romani con la scritta “E anche ‘sta rottura di cazzo dei fascisti”. C’è la madre di Dora, che nasce a gennaio, e porta sulla pancia il cartello: “Attenzione pericolosa cittadina del mondo sta per nascere”. In mezzo a tutta questa varia umanità ci sono naturalmente anche tante sigle e bandiere della sinistra antagonista, dei Cobas, dell’Usi, di Diem25, di giornali - da Left a La Comune - e in coda un nutrito spezzone rosso di Rifondazione e, a pochi metri di distanza, quello di Potere al Popolo. Quando passa Jacopo Fo l’unica cosa che gli viene da dire è: “Abbiamo cambiato il mondo e lo cambieremo ancora”. Una speranza e un augurio. Pullman bloccati, schedati migliaia di manifestanti Manifestazione antirazzista a Roma. Leu: il governo riferisca in Parlamento sui controlli di massa dei manifestanti. I carabinieri fanno cenno all’autista di deviare nell’area dell’autogrill, tutti i passeggeri del pullman vengono fatti scendere e in fila devono mostrare il contenuto di borse e zaini.ù “Ma ci sono solo panini..”, fa una signora con i capelli bianchi e un fazzoletto annodato al collo, “guardi che c’è il diritto di manifestare ancora in questo Paese, sa?”. “Roba da matti, non mi era mai successo in tanti anni..”, fa un’altra. Non finisce qui. I passeggeri vengono filmati da una telecamera portata in spalla da un carabiniere che appoggiato davanti alla porta del pullman, li filma tutti mentre risalgono, identificati e schedati. “Spudorati - dice un signore - neanche si nascondono”. È ciò che si vede in un video fatto con il telefonino che documenta uno dei blocchi che hanno interessato ieri decine e decine di pullman fin dal mattino, messi in atto dalle forze di polizia nei confronti degli autobus a noleggio che stavano cercando di raggiungere la manifestazione antirazzista di Roma provenienti tanto da Sud quanto da Nord. “Sì, abbiamo avuto decine di segnalazioni di blocchi - dice Stefano di Melting Pot, dell’organizzazione e tra promotori del corteo - tutti i mezzi dei centri sociali del Nord Est sono stati fermati al casello, con foto-segnalamento dei passeggeri e lo stesso è successo a quelli delle Marche, ma anche da Firenze, da Torino, da Pisa”. La manifestazione era già partita e ancora mancavano all’appello due pullman provenienti da La Spezia, fermati a lungo. Nella maggior parte dei casi - hanno raccontato - ai passeggeri è stato ordinato di esibire il documento, la carta d’identità o il permesso di soggiorno, e di portarlo vicino al volto per essere poi fotografati così. Simone del centro sociale Sisma di Macerata racconta che la polizia ha tentato di sequestrargli lo striscione della storica manifestazione antirazzista del febbraio scorso con la scusa che aveva i pali e potevano essere usati per chissà cosa. La Questura di Roma dice di aver sequestrato 400 aste di legno e che i controlli erano stati disposti per “facilitare l’accesso al luogo della manifestazione onde evitare possibili criticità”. Sui blocchi stradali e le fotosegnalazioni preventive protestano sia Maurizio Acerbo, segretario di Rifondazione comunista, sia Nicola Fratoianni, coordinatore nazionale di Sinistra italiana. “Immagino - scrive, sferzante, Fraioianni - che l’8 dicembre i pullman che porteranno a Roma i militanti leghisti subiranno il medesimo trattamento, con il controllo certosino di striscioni, magliette, documenti, con i bus bloccati in campagna alle porte della capitale, come è successo ai pullman della manifestazione antirazzista”. “Il governo riferisca in Parlamento perché da quel che appare ci troviamo di fronte ad una grave limitazione delle libertà democratiche”, protesta il senatore di LeU Francesco Laforgia. E Roberto Speranza, deputato di Leu e coordinatore di Mdp, si associa, giudicando i blocchi “un fatto molto grave che non si può sottovalutare”. Migranti. Passa dal Marocco la nuova rotta dei trafficanti di Alessandra Ziniti La Repubblica, 11 novembre 2018 Per effetto degli accordi Roma-Tripoli la pressione si è spostata verso la Spagna. Gli accordi con Tripoli hanno avuto un innegabile effetto deterrente. Dalla Libia si parte di meno, 12.500 gli arrivi quest’anno in Italia, 15.000 i migranti riportati indietro dalla Guardia costiera libica (meno 80 per cento), ma in Europa il numero di migranti arrivati quest’anno dall’Africa ha superato comunque quota 100.000, un numero ancora considerevole, seppure inferiore ai flussi degli anni scorsi. I trafficanti di uomini, dunque, si sono già attrezzati. Visto che la Libia si è trasformata in una enorme trappola dalla quale centinaia di migliaia di migranti non sanno più come uscire, hanno riaperto la vecchia rotta che dal Centroafrica porta dritto al Marocco. È dalle spiagge marocchine che, affrontando poche decine di miglia di mare, piccole pateras prendono il largo verso le Canarie o le coste spagnole. Ogni giorno le motovedette del Salvamento marittimo, aiutate dalla flotta europea (di cui fanno parte anche navi militari italiane) traggono in salvo una media di 500 persone e, al 31 ottobre, i migranti approdati in Spagna sono già 53.000, più del doppio dello scorso anno e più del doppio dei 22.500 sbarcati in Italia. Niente “vasi comunicanti”. Non sono i migranti detenuti nell’inferno dei lager libici quelli che riescono ad imbarcarsi dalle coste del Marocco né, ovviamente, i gommoni che vengono soccorsi nel Mediterraneo occidentale possono partire dalle lontane spiagge di Libia e Tunisia. È una rotta tutta terrestre quella che dall’Africa subsahariana porta fino al Marocco, con i pick-up dei trafficanti che partono da Guinea, Costa d’Avorio, Gambia, Senegal, Mauritania e confluiscono in Mali e da lì verso l’Algeria e il Marocco. A gestirla sono le stesse bande che fino a qualche mese fa raccoglievano i migranti nei loro villaggi e, passandoseli di mano in mano, li rivendevano ai nigerini per l’ultimo tratto fino al confine meridionale della Libia. Una strada che adesso sembra essere stata abbandonata sia per la chiusura del Niger sia perché la Libia, con i suoi conflitti interni tra tribù e milizie, è ormai ingovernabile e i trafficanti non riescono più a garantire partenze (e soprattutto approdi) verso l’Italia. Spiega Fabrice Leggeri, direttore di Frontex, che adesso “il territorio di transito è il Marocco perché i trafficanti di esseri umani del Niger offrono ai migranti di portarli in Europa non più attraverso la Libia, ma passando per il Marocco. Questa nuova rotta sta diventando la più importante per l’immigrazione africana in Europa”. Le nazionalità più rappresentate tra chi sbarca in Spagna confermano il quadro: al primo posto la Guinea, poi Mali, Costa d’Avorio, Gambia, Marocco e Algeria. Tutti migranti economici che non avrebbero diritto ad ottenere lo status di rifugiato. Troppo lontane le spiagge marocchine per chi scappa dai Paesi in guerra- Siria, Eritrea, Etiopia, Somalia- da cui arriva la maggior parte dei rifugiati. Chi è entrato in Libia è in trappola e in condizioni sempre più difficili. I migranti censiti dalle agenzie dell’Onu sono 700.000. Di questi, solo 30.000 sono detenuti nelle carceri governative; alcune decine di migliaia (ma il numero ovviamente è indefinibile) sono “sepolti” nei lager in mano alle bande dei trafficanti e la maggior parte è sparsa per il Paese cercando di mettersi in salvo, e senza alcuna intenzione di imbarcarsi verso l’Europa. L’Oim, negli ultimi mesi, ha incrementato il numero dei rimpatri volontari assistiti verso i Paesi d’origine. Quello che invece segna il passo sono i corridoi umanitari verso l’Europa che l’Unhcr aveva avviato negli ultimi mesi del governo Gentiloni. La prossima settimana, un aereo porterà in Italia 51 persone evacuate in Niger nei mesi scorsi (quasi tutte donne e minori) ma il grande centro di transito realizzato a Tripoli per ospitare i migranti in particolari condizioni di vulnerabilità evacuati dalle carceri non è mai stato inaugurato. Le autorità libiche non collaborano. “Il centro è ancora vuoto - dice Vincent Cochetel dell’Unhcr - da 4 mesi aspettiamo una decisione delle autorità competenti per autorizzare il trasferimento di mille tra rifugiati e richiedenti asilo: 4 mesi di sofferenze non necessarie per queste persone”. Libia. Il vertice di Palermo è inutile di Alberto Negri Il Manifesto, 11 novembre 2018 Nessuno, tranne l’Onu, madre di tutti i fallimenti, ha intenzione di metterci il cappello sopra e presenta il piano già esposto a New York al Consiglio di sicurezza dall’inviato Ghassem Salamè. I capi veri stanno a Parigi per l’incontro Putin-Trump, a margine delle celebrazioni della vittoria nella prima guerra mondiale. La Libia, per la comunità internazionale, è come un territorio Comanche, in cui scambiare la pelle dei migranti in cambio di petrolio, gas e pascoli militari dove far crescere l’erba di nuovi conflitti. Il resto sono vittime nere che nessuno reclama e tante chiacchiere. L’inutilità della conferenza libica di Palermo si percepisce dall’assenza in blocco dei leader internazionali, fatta eccezione forse del premier russo Medvedev, che Putin usa come un jolly quando non vuole calare l’asso Lavrov. Nessuno, tranne l’Onu, madre di tutti i fallimenti, ha intenzione di metterci il cappello sopra e presenta il piano già esposto a New York al Consiglio di sicurezza dall’inviato Ghassem Salamè. I capi veri stanno a Parigi per l’incontro Putin-Trump, a margine delle celebrazioni della vittoria nella prima guerra mondiale. E non andrà a Palermo neppure il segretario di Stato Usa Mike Pompeo. L’unica cosa certa è che verranno rinviate al prossimo anno le elezioni di dicembre volute dalla Francia e dal riottoso generale Khalifa Haftar, riacciuffato per la gita a Palermo da una missione a Mosca del capo dei servizi esterni Alberto Manenti che ha così evitato un flop clamoroso alla Farnesina. Ci crede poco persino il ministro degli Esteri Moavero Milanesi che qualche giorno fa ha connotato l’appuntamento come una conferenza di “servizio”, una definizione finora mai sentita nel gergo diplomatico. Ambizioni decisamente ridimensionate per un Paese che in cambio del Tap, dell’acquisto degli F-35, di qualche barile di greggio iraniano in scadenza per le sanzioni e del Muos - il sistema elettronico di sorveglianza di Niscemi - aveva chiesto a Trump, con il viaggio del premier Conte a Washington, la “cabina di regia” sulla Libia. Cosa che aveva fatto anche Renzi da Obama con effetti nulli: agli americani in Libia interessa contenere l’influenza dei russi e dare la caccia con i droni a qualche capetto dell’Isis, portando a casa uno scalpo, come si faceva appunto in territorio Comanche. E questo con buona pace anche dell’onda blu nelle elezioni di mid-term americane dove non c’era un candidato che si sia degnato di dare uno sguardo decente sul mondo e che cosa fa davvero l’America dalle nostre parti. Forse questo meeting di Palermo doveva essere preceduto da un vertice di chiarimento Italia-Francia, che da anni sono insieme alle fazioni libiche i veri protagonisti di questo derby del disfacimento nel Nordafrica e intorbidano più degli altri - in compagnia di Turchia monarchie del Golfo ed Egitto - le acque del Mediterraneo, litigando anche sulla pelle di centinaia di migliaia di migranti. Uno spettacolo indegno per chi guardava all’Europa come alternativa alle superpotenze. Anzi si può dire che da oltre un secolo questo match sanguinante tra Roma e Parigi si possa definire il vero “classico” della Sponda Sud. Cominciato alla fine dell’Ottocento quando con lo “schiaffo di Tunisi” i francesi si presero il protettorato tunisino ambito dall’Italia monarchica e garibaldina, continuato con lo sbarco italiano in Libia del 1911, la decimazione da parte del generale Graziani della popolazioni libica in Cirenaica (80mila morti su una popolazione di 800mila persone), proseguito con la disfatta nella seconda guerra mondiale e la successiva reazione italiana. Mentre la Francia nel dopoguerra si inventava l’area del franco Cfa dopo Bretton Woods e cercava di mantenere la sua mano sulle colonie, l’Italia dell’Eni di Mattei finanziava l’Fnl algerino nella più sanguinosa guerra di liberazione coloniale del Nordafrica: un milione di morti. Fummo ricompensati dagli algerini con il primo grande gasdotto del Mediterraneo, il Transmed. Persino durante gli anni 90 in Algeria Francia e Italia qui sulla Sponda Sud si guardavano in cagnesco: i nostri servizi avevano (e hanno tuttora) un’ottima collaborazione con i generali algerini. Non è un caso che il premier Conte sia appena andato ad Algeri dove con le elezioni presidenziali del prossimo anno sta per cominciare la corsa alla successione all’anziano e malato Bouteflika. I francesi tutte queste cosette se le sono legate al dito e non perdono occasione per una rivincita. La più recente opportunità francese è stata la guerra di Sarkozy a Gheddafi del 2011, dopo che la Francia aveva visto cadere il suo alleato storico Ben Alì (ci rimise il posto la ministra degli esteri francese Alliott-Marie) che per altro era stato insediato da un colpo di stato medicale dei servizi italiani che avevano liquidato negli anni Ottanta il leader storico Bourghiba. Per l’Italia la caduta di Gheddafi è stata la peggiore sconfitta dalla seconda guerra mondiale: soltanto pochi mesi prima, il 30 agosto 2010, il Colonello veniva omaggiato a Tor di Quinto da 5mila dignitari della repubblica, politici e uomini d’affari, euforici per la firma di decine di miliardi di contratti. L’ondata migratoria ha poi fatto il resto destabilizzando l’intero quadro politico. Ma la cosa peggiore è stata la decisione di accodarsi ai bombardamenti della Nato, consegnando le nostre basi militari per i raid sulla Libia ad americani, francesi e britannici. La nostra credibilità sulla Sponda Sud è affondata e per recuperarla ci vorranno anni, altro che la cabina di regia vagheggiata negli ovatti corridoi romani. Siamo di “servizio” come dice il ministro degli Esteri, cioè apparecchiamo la tavola per la spartizione delle risorse in territorio Comanche dove un tempo, con Andreotti, Prodi, D’Alema, l’Eni e il baciamano di Berlusconi, eravamo gli ospiti d’onore sotto la tenda del Capo. Stati Uniti. Ti inietti droghe? L’assicurazione non paga la cura di Elvira Naselli La Repubblica, 11 novembre 2018 I tossicodipendenti americani esclusi dai trattamenti per eradicare il virus Hcv. Sarebbero poco diligenti nel seguire le cure, secondo chi deve pagare. Ma uno studio presentato al congresso mondiale per le malattie del fegato sostiene il contrario. Arrivando da un paese come l’Italia, dove le cure sono universali e quindi garantite a tutti, fa sempre impressione la logica americana che fa pesare in modo per noi incomprensibile, almeno dal punto di vista etico, il fattore economico. Una logica che spesso discrimina i malati più fragili, quelli che non hanno una assicurazione che copra tutti i trattamenti necessari, soprattutto se sono costosi. E gli studi scientifici in qualche modo risentono di questo clima, e cercano di dare risposte a quelle compagnie assicurative che tentano di non pagare le cure. Adducendo pretesti, o altri studi scientifici. All’Aasld, il congresso americano per le malattie del fegato, appena cominciato a San Francisco, uno studio - lo Anchor - racconta un Paese in piena emergenza oppioidi e le assicurazioni che non pagano il trattamento per eradicare il virus Hcv perché ritengono che questi malati - tossicodipendenti iniettivi - siano poco affidabili nell’aderenza alla terapia. In una parola, sarebbero soldi sprecati. Ma è davvero così? Facciamo un passo indietro. Chi si inietta droghe ha un alto rischio di infettarsi con HCV e poi di trasmetterlo attraverso il sangue, magari con l’uso di una stessa siringa o attraverso un rapporto sessuale. Molti pazienti sono stati esclusi dai programmi di trattamento HCV perché ritenuti poco affidabili. Lo studio Anchor - condotto da ricercatori dell’Istituto di Virologia umana dell’Università del Maryland - ha deciso così di valutare l’efficacia della terapia in pazienti con HCV cronico e uso di droghe iniettive. Analizzando le percentuali di aderenza, quanti hanno completato il trattamento e la risposta alla terapia. Lo studio è ancora in corso, ma i primi dati sono chiarissimi: non solo l’aderenza alla terapia è buona ma i risultati sono sovrapponibili a quelli dei non tossicodipendenti. Se questi pazienti non vengono trattati è solo per una questione di stigma. “Abbiamo cercato di capire se chi si inietta droga può essere trattato efficacemente con i farmaci di nuova generazione - ha spiegato Elana Rosenthal, coautore dello studio e condirettore del programma clinico di ricerca sulle epatiti dell’Università del Maryland - e questo perché molte assicurazioni impongono restrizioni nei requisiti di ammissione al trattamento. Chiedono che ci sia astinenza da droga e alcol prima di cominciare o anche trattamenti specifici. E così abbiamo deciso di studiare la popolazione a più alto rischio - quelli che continuano a iniettarsi droghe - per capire se possono essere curati con i trattamenti standard. Cosa che oggi viene loro negata senza alcun fondamento scientifico”. Cento arruolati, età media 57 anni, il 76% maschio, il 93 nero, il 51% non aveva un alloggio stabile. Oltre la metà, il 58 per cento, riferiva di iniettarsi oppioidi almeno una volta al giorno. A questi pazienti è stato dato il trattamento sofosbuvir/velpatasvir per oltre dodici settimane. In confezioni da 28 pillole consegnate ogni mese. Ai 60 (su 66) che hanno raggiunto la ventiquattresima settimana di trattamento è stato consegnato un altro flacone di trattamento prima di uscire dallo studio, e a 58 anche una terza confezione. Alla quarta settimana di trattamento sono stati esaminati 62 pazienti e 59 avevano carica virale di meno di 200 IU/ml. Segno che la terapia stava funzionando. Oltre la metà, 59, ha concluso l’intero ciclo di cure di dodici settimane, seppure con qualche ritardo dovuto ad assunzioni non costanti. Ciononostante 52 dei 58 visitati a 24 settimane dal trattamento sono riusciti ad ottenere la Svr, ovvero la non individuazione del virus nel sangue per 12 o più settimane. Persino coloro che avevano finito il trattamento in ritardo. Portando la percentuale di successo all’89,7 per cento. “Un risultato comparabile a quello della popolazione generale - ha precisato Rosenthal - anche se l’aderenza non era perfetta. E quindi non solo non c’è alcun motivo per escludere chi si inietta droghe dal trattamento per HCV ma anzi dovrebbe essere una priorità visto che negli Stati Uniti è la maniera più frequente di trasmissione del virus. Trattare questa popolazione aiuterebbe quindi a prevenire nuovi casi di Hcv”. Medio Oriente. Il dolore della “guerra al terrore” ha un numero: 500mila morti di Emanuele Giordana Il Manifesto, 11 novembre 2018 La “guerra al terrore” Usa. Human Cost of the Post-9/11 Wars, curato da Neta C. Crawford, docente del Department of Political Science della Boston University and Co-Director del Costs of War Project della Brown University, non tiene infatti conto delle stime dei decessi della guerra in Siria (oltre 500mila) o di altre guerre (Yemen) o conflitti minori. Il documento, che si basa su fonti aperte, guarda a quanto fatto dagli Usa nelle sue guerre, per così dire, ufficiali. Quanti morti è costata e sta costando la guerra al terrore scatenata dopo l’11 settembre? Se il dolore ha un numero, nel novembre del 2018 questo numero ha superato quota 500mila. E solo in Afghanistan, Pakistan e Irak, i luoghi ormai iconici della guerra infinita. Lo dice un progetto della Brown University, università privata americana, che studia il costo umano delle guerre scatenate contro il terrore. Guerre iniziate e mai finite come se il crollo delle Torri gemelle avesse generato un mostro a più teste. Tra 480 e 507.000 persone - dice l’aggiornamento del novembre di quest’anno - sono state uccise dalle guerre scatenate dopo quella data fatidica in tre soli Paesi: Irak, Pakistan e Afghanistan (147mila nel Paese dell’Hindukush come già riferivamo ieri). Human Cost of the Post-9/11 Wars, curato da Neta C. Crawford, docente del Department of Political Science della Boston University and Co-Director del Costs of War Project della Brown University, non tiene infatti conto delle stime dei decessi della guerra in Siria (oltre 500mila) o di altre guerre (Yemen) o conflitti minori. Il documento, che si basa su fonti aperte, guarda a quanto fatto dagli Usa nelle sue guerre, per così dire, ufficiali. Cifre che in realtà hanno a che vedere anche con i loro alleati, dunque con l’Italia, ancora partecipe a pieno titolo della guerra afgana con il terzo contingente più importante presente in Afghanistan. Nelle tre guerre citate i civili conquistano un triste primato: tra 244 e 266mila. Seguono - entrambi con oltre 100mila caduti - militari e forze di polizia locali assieme agli “Opposition Fighters” (per una volta non si usa l’odioso termine “insurgent”). Ma un dato impressionante riguarda le forze Usa: a fronte di 6.951 caduti con la divisa americana, 7.820 sono i paramilitari (contractor) uccisi durante l’ingaggio per combattere o lavorare a fianco dei soldati “regolari”. Una novantina sono morti in Pakistan (dove formalmente la guerra non c’è) mentre quasi 4mila sono morti sia in Irak sia in Afghanistan, un Paese dove le compagnie private vorrebbero ora addirittura in appalto tutte le operazioni militari, uno scenario ricorrente e tenuto molto sotto traccia dall’Amministrazione. Gli alleati degli Usa hanno perso 1.464 uomini (tra cui oltre 50 sono soldati italiani) ma un tributo importante è stato pagato anche da operatori umanitari di Onu e Ong: 566 (di cui 409 in Afghanistan) e giornalisti: 362 (di cui 245 nel solo Irak). Accanto alla fredda e drammatica aritmetica della guerra, non vanno dimenticati gli effetti dei conflitti sugli spostamenti di popolazione: al 2017, risultavano 4 milioni e 780mila gli afgani sfollati interni o con lo status di rifugiati. Tre milioni e 250mila gli iracheni e 12 milioni i siriani per un totale di 20 milioni di individui. Un bilancio inevitabilmente per difetto perché non tiene conto delle migliaia di “clandestini”, senza alcuno status, fuggiti dai conflitti per tentare il viaggio della speranza sulle rotte verso l’Europa. Carceri latinoamericane, mancano politiche di reinserimento dei detenuti di David Lifodi labottegadelbarbieri.org, 11 novembre 2018 Gli Stati privilegiano il sistema punitivo e spesso sono gli stessi gruppi criminali a dettare le regole all’interno degli istituti di pena. “Le carceri con il più basso indice di violenza tra i detenuti e dove minori sono gli episodi di violenza compiuti dagli agenti della polizia penitenziaria sono quelle controllate in gran parte dai reclusi”. A giungere a queste conclusioni è Gustavo Fondevila, docente argentino del Centro de Investigación y Docencia de México (Cide), uno dei maggiori studiosi delle tematiche carcerarie in America latina. Ritenuta la zona del pianeta dove si verificano il maggior numero di omicidi su scala mondiale, l’America latina è nota per il problema del sovraffollamento carcerario, eppure, paragonando la situazione di Brasile, Argentina, Cile, Perù, El Salvador e Messico, Fondevila evidenzia che dove è maggiore il potere delle pandillas o delle bande criminali, per quanto possa risultare paradossale, avviene un minor numero di episodi di violenza. A sostegno della sua tesi i dati dell’Encuesta a Población en Reclusión de Latinoamérica. In Cile e in Argentina, la percentuale di detenuti che hanno subito violenze da parte della polizia oscilla tra il 14% e il 18% rispetto al Brasile e ad El Salvador, paesi dove non si supera il 2,6% e buona parte degli istituti penitenziari sono controllati dalla stessa malavita. Spiega provocatoriamente il docente del Cide: “Il governo criminale fa un uso della violenza più oculato rispetto al governo dello Stato”. Si tratta di un pesante atto d’accusa nei confronti dei governi, che spesso agiscono secondo una logica esclusivamente repressiva. Ovviamente, la forte influenza delle pandillas non è necessariamente sinonimo della pacificazione carceraria, non a caso spesso giunge la notizia di violenti scontri tra bande rivali nelle carceri salvadoregne o brasiliane, ma nel caso in cui si debba far fronte comune contro il potere costituito, in questo caso gli stati tramite i loro agenti, si verifica un paradosso come quello del Cile, dove il tasso di omicidi si avvicina molto a quello europeo, ma è ben più alto all’interno delle prigioni. La pace sociale è garantita fin quando non arrivano all’interno del carcere detenuti di clan rivali. Fin quando ci sono reclusi appartenenti principalmente alla pandilla salvadoregna Salvatrucha - 13 non c’è alcun problema, ma la situazione diventa difficilmente gestibile se arrivano pandilleros di Barrio 18 e lo stesso accade in Brasile tra Primeiro Comando da Capital e il Comando Vermelho. In generale, tuttavia, le condizioni di vita dei detenuti nelle carceri latinoamericane restano infernali, a meno che i reclusi non siano uomini politici spesso finiti in cella per ragioni legate al narcotraffico o ex repressori dei regimi militari degli anni 70-80: in questi casi si può parlare di carcerati di lusso, come ad esempio l’ex senatore colombiano Juan Carlos Martínez, che celebrò la sua festa di compleanno invitando numerosi amici (paramilitari e narcotrafficanti) in cella. Non si tratta dell’unico privilegiato: i leader delle organizzazioni criminali dispongono anche di sale dove ricevere i visitatori, il televisore e addirittura saloni per le feste, come nel caso del Cárcel La Picota di Bogotá. La ricercatrice messicana Elena Azaola, nel suo lavoro intitolato Situación de las prisiones en América Latina, sottolinea che in gran parte dei paesi sudamericani, come del resto altrove, mancano politiche dedicate al reinserimento dei detenuti nella vita civile e la giustizia assume spesso un ruolo esclusivamente repressivo, motivo per cui le carceri sono piene di condannati per reati minori per i quali non sarebbe necessario il carcere. In Venezuela ed El Salvador, ad esempio, la popolazione carceraria è assai superiore al numero massimo consentito. Nelle celle delle carceri salvadoregne, spesso si dorme su tre livelli: per terra coloro che sono appena arrivati, su un tavolo coloro che già da un po’ sono detenuti, infine su un’amaca, quasi a tetto, i reclusi più importanti. Inoltre, la mancanza di programmi di reinserimento nella società fa si che molti detenuti tornino di nuovo a delinquere, soprattutto coloro che escono dagli istituti penitenziari prima dei 30 anni. Sono significativi i costi che si accolla lo stato per ciascun detenuto. Soltanto per restare nel continente americano, se negli Stati uniti la spesa oscilla tra gli 80 e gli 85 dollari per ciascun recluso, la cifra diminuisce decisamente in paesi come il Messico ed El Salvador, dove non vengono superati, rispettivamente, i 12 e i 4 dollari. In definitiva, l’assenza dello Stato, la sua attitudine esclusivamente repressiva e il proliferare del crimine organizzato rendono le carceri latinoamericane tra le peggiori al mondo. La prossima settimana questa Finestra latinoamericana si occuperà della situazione altrettanto drammatica delle recluse negli istituti penitenziari femminili. Yemen. Il bilancio delle vittime è cinque volte superiore alla stima precedente controinformazione.info, 11 novembre 2018 Almeno 56.000 persone sono state uccise in violenze armate nello Yemen da gennaio 2016, secondo i dati raccolti da un gruppo di ricerca indipendente, un riscontro che è più di cinque volte superiore rispetto al numero di vittime riportato in precedenza. La nuova stima comprende la morte di combattenti e civili nello Yemen tra gennaio 2016 e il 20 ottobre 2018, ha spiegato Andrea Carboni, analista di ricerca presso il sito di analisi dei conflitti regionali ed eventi (Acled). Il bilancio ufficiale non teneva conto degli yemeniti che sono morti a causa della crisi umanitaria che ha travolto il paese e dei suoi problemi correlati, come le malattie e la malnutrizione. “I numeri della mortalità si riferiscono al numero di persone uccise come conseguenza diretta della violenza armata”, ha detto Carboni al Middle East Eye. Quella violenza include attacchi aerei e fuoco di artiglieria da parte delle forze della coalizione guidate dai sauditi che attualmente combattono nello Yemen, così come scontri armati tra varie fazioni che combattono all’interno del paese, come gli Houthi. Middle East Eye non ha potuto verificare in modo indipendente il numero di 56.000. L’Arabia Saudita ha lanciato una campagna militare nello Yemen all’inizio del 2015 per sradicare i ribelli Houthi, che avevano preso in consegna la capitale, Sanaa, e ha deposto l’allora presidente, Abd Rabbuh Mansour Hadi. La coalizione a guida saudita è stata accusata di aver commesso crimini di guerra nello Yemen, come il deliberato bombardamento di ospedali, scuole, autobus e altre infrastrutture civili. Gli Houthi sono anche stati accusati di aver preso ostaggi e detenuto arbitrariamente e torturato gli oppositori - tutti i potenziali crimini di guerra. Tuttavia, poiché lo Yemen è diventato sempre più zona chiusa fuori da osservatori e giornalisti esterni nel mezzo di un conflitto devastante, è stato difficile ottenere informazioni affidabili sul numero di morti. Giornalisti e operatori umanitari hanno spesso citato una cifra di 10.000 morti, ma il totale è rimasto statico dal 2016 nonostante la guerra in corso. Il numero era anche sottostimato quando è stato rilasciato, ha detto Carboni, dato che si basava sui decessi riportati nelle strutture mediche del paese. “La maggior parte delle persone, le vittime, non arrivano ai centri medici. A quel numero mancavano in realtà molte delle violenze e delle vittime correlate “, ha detto. Sulla base di una stima di circa 2.000 morti ogni mese nello Yemen, il totale dei decessi tra l’inizio del conflitto nel 2015 e la fine di quest’anno è previsto tra 70.000 e 80.000, ha detto Carboni. I numeri sono raccolti da fonti secondarie, ha detto, come agenzie di stampa internazionali, agenzie di stampa locali affidabili e rapporti di ONG. Ha detto che avere una figura precisa è importante perché “il numero delle vittime sono la singola informazione più difficile che si possa ottenere in un contesto di conflitto”. Tuttavia, Carboni ha detto che il numero di 56.000 è probabilmente anche una sottostima. “Queste sono stime basate sulla metodologia che abbiamo applicato altrove. Probabilmente saranno anch’essi una sottostima “, ha detto. Ha aggiunto che tre quarti di tutte le morti civili nello Yemen sono attribuibili alla coalizione guidata dai sauditi. “Se si confronta la portata della violenza e della distruzione che si riflette anche nella crisi umanitaria e in tutte le altre forme di devastazione che lo Yemen ha sofferto, avendo un numero di fatalità che riflette [questo] nel modo più corretto possibile, penso che sia importante, “ Egli ha detto. La scorsa settimana, la Oxfam ha riferito che, dal mese di agosto, almeno un civile è stato ucciso ogni tre ore nei combattimenti nello Yemen. Inoltre, più di 1,1 milioni di casi di colera sono stati segnalati negli ultimi 18 mesi, inclusi 2.000 che si sono dimostrati fatali, ha detto l’organizzazione benefica. “Ogni singola vita persa in questo vergognoso conflitto, sia attraverso attacchi armati, sia attraverso la fame e le malattie, dovrebbe essere un oltraggio internazionale”, una enrome lista di crimini di guerra, ha detto Muhsin Siddiquey, direttore nazionale di Oxfam nello Yemen, in una dichiarazione. “I sostenitori di tutte le parti in conflitto dovrebbero rendersi conto di essere complici di questa crisi provocata dall’uomo”. Marocco. Le espulsioni forzate mascherate da rimpatri volontari di Lorenzo De Blasio e Serena Chiodo Il Manifesto, 11 novembre 2018 Le associazioni per i diritti umani denunciano le azioni del governo contro i migranti. Si terranno a Marrakech, l’11 e 12 dicembre, l’undicesimo Forum globale sulla migrazione e lo sviluppo e la Conferenza intergovernativa sull’immigrazione, durante la quale gli stati membri delle Nazioni Unite adotteranno il “Patto globale per una migrazione sicura e regolare”. Due appuntamenti che confermano la centralità sempre maggiore che il Marocco va assumendo all’interno della cosiddetta questione migratoria, complice anche il blocco della rotta balcanica e la politica di chiusura adottata dall’Italia. Una centralità per cui Rabat è diventata in poco tempo un interlocutore privilegiato per l’UE, con la Spagna a fare da capofila in trattative e discussioni. È in vista di questi appuntamenti internazionali che alcune associazioni locali - Association Marocaine des Droits Humains in primis - hanno diffuso un comunicato congiunto per denunciare le gravi azioni che il Marocco sta compiendo contro i cittadini migranti, con “il silenzio complice dell’Unione europea”. Violazioni dei diritti umani secondo le organizzazioni, “tentativi di far fronte ai flussi sempre più importanti di migranti” secondo il governo di Rabat. Tra questi “tentativi” ci sono anche numerosi rimpatri forzati, spesso mascherati da rimpatri volontari. Lo denuncia con forza il Gadem - Gruppo antirazzista di difesa di stranieri e migranti - nell’analisi Expulsions gratuites, appendice del rapporto Coûts et blessures diffuso a ottobre. Secondo quanto raccolto dall’associazione, il seminterrato del commissariato centrale di Tangeri è stato trasformato in un luogo detentivo dalle condizioni inumane. Non viene rilasciata alcuna notifica dell’arresto. Le persone, private di documenti e telefonini, attendono anche per settimane o mesi, ammassate, dormendo per terra, senza alcun tipo di assistenza medica. Ogni giorno si apre con un appello: le persone chiamate vengono ammanettate e condotte via bus all’aeroporto di Casablanca. Lì sono imbarcate su aerei di linea e rimpatriati. Le autorità consolari dei paesi d’origine sono coinvolte attivamente nelle procedure: le persone ascoltate dall’associazione riferiscono di aver incontrato, presso il commissariato centrale o in un ufficio situato nello stadio di Tangeri, dei rappresentanti dell’autorità consolare del proprio paese. “Dopo un mese di detenzione illegittima nel commissariato, MMC, cittadino camerunense, è stato rimpatriato, nonostante il suo netto rifiuto, e dunque contraddicendo la dichiarazione ufficiale circa una pratica di rimpatrio volontario”, denuncia il Gadem, che segnala come l’espulsione sia stato accompagnata da violenze e minacce. Proprio con il Camerun sembrerebbe infatti esserci in atto una pratica che maschererebbe da rimpatri volontari quelle che in realtà sono espulsioni forzate: “Il foglio che la polizia ti consegna fa intendere alle autorità del tuo paese che hai chiesto un ritorno volontario: tuttavia si tratta di un rimpatrio forzato, in complicità con i rappresentanti dei nostri paesi”. Così un cittadino camerunense, raggiunto telefonicamente dall’associazione Gadem. Nei mesi tra luglio e settembre, quando il Gadem ha redatto il dossier, erano 142 le persone presenti nel commissariato centrale di Tangeri, di cui almeno 10 minori. Ad oggi, dopo più di due mesi, 38 di loro sono ancora detenuti. Tra loro 8 minori, di cui un richiedente asilo.