Fiammetta Borsellino a Parma incontra i detenuti per mafia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 novembre 2018 La figlia del giudice ucciso in via D’Amelio ha accettato l’invito della rivista “Ristretti Orizzonti”. In carcere dove ci sono detenuti per reati di mafia possono accadere eventi quasi inaspettati, commoventi e di forte impatto emotivo. Accade che Fiammetta Borsellino, la figlia più giovane del giudice Paolo dilaniato dal tritolo della mafia nell’ormai lontano 19 luglio del 1992, è stata invitata dalla redazione di Ristretti Orizzonti del carcere di Parma, dove era recluso al 41 bis Totò Riina. Ha accettato l’invito e ad accoglierla, oltre alle giornaliste Ornella Favero e Carla Chiappini che coordinano il giornale, ci sono stati una decina di detenuti che hanno già oltre 20 anni di carcere alle spalle ed alcuni di loro sono ergastolani ostativi, coloro che sono davvero in fine pena mai. Frutto di leggi emergenziali nate proprio come risposta alle stragi di mafia, compresa quella di Via D’Amelio. Fiammetta è stata lì con loro, guardandosi negli occhi per parlare di mafia, carcerazione dura, vendetta inutile e riparazione. La figlia di Paolo Borsellino ha detto di credere nella riparazione, nella possibilità che anche un mafioso possa redimersi, prendere le distanze e, appunto, riparare al danno. Non mette in discussione il car- cere, ma ci tiene a sottolineare che l’inasprimento delle condizioni detentive sono dovute dal fatto che la violenza genera risposte violente, ed “è per questo che va rifiutata a monte”, ha detto Fiammetta. “Io non ho mai pensato che il dolore che provo sia diverso da quello del figlio di un mafioso ucciso”, ha tenuto a ribadire davanti ai detenuti. Parole che hanno generato momenti di commozione. Ma non solo. Come ha detto in una intervista a Il Dubbio l’ex ergastolano Carmelo Musumeci, un detenuto che ha commesso crimini come quelli mafiosi, si rende conto di essere colpevole solo quando ha i contatti con le persone esterne. “Questo accade quando una parte della società ti prende in considerazione e vuole aiutarti nonostante il danno che hai causato”, aveva detto Carmelo. Figuriamoci quando a prenderli in considerazione è la figlia del magistrato Borsellino. Non è un caso che, proprio all’intervista pubblicata su Il Dubbio, a proposito della sua visita ai fratelli Graviano al 41 bis (poi negata dalle procure), Fiammetta dichiarò: “Questa mia scelta non l’hanno capita. Probabilmente fa più paura agli altri che a me, perché per me invece è una sconfitta averli interrotti. Alla luce di questo vuoto che c’è attorno a questa storia dell’attentato, pensare che le persone che probabilmente sanno, siano state confinate in un regime così tremendo, è per me una sconfitta”. Sempre Fiammetta - si apprende da una bella ricostruzione dell’evento pubblicata sulla Gazzetta di Parma a firma di Chiara Cacciani - ha ricordato ai detenuti che suo padre gli aveva dato un insegnamento importante. Ovvero che si può morire con dignità, quando si vive con dignità. “E si può morire con dignità anche quando, dopo aver fatto cose gravissime, si arriva a riconoscere i propri sbagli, a prendere le distanze e a cercare di riparare”, ha aggiunto Fiammetta. Neanche a farlo apposta, la figlia di Borsellino ha evocato la giustizia riparativa, una pratica che teoricamente esiste nel nostro Paese, ma concretamente da qualche anno si svolge attraverso delle sperimentazioni di incontri di mediazione reo/ vittima mediante l’intervento di un terzo indipendente rispetto agli operatori deputati al trattamento, su autorizzazione specifica del ministero attraverso la stipula di convenzioni ad hoc con centri e uffici di mediazione sparsi sul territorio nazionale. Queste attività devono necessariamente conservare le caratteristiche loro proprie legate ai principi di confidenzialità, volontarietà e gratuità degli interventi. Un esempio virtuoso è il “Progetto Sicomoro”, patrocinato dal ministero della Giustizia. Il nome si ispira al brano evangelico in cui Zaccheo si nasconde fra i rami dell’albero, ma viene riconosciuto da Gesù, che lo chiama per nome e suscita in lui un ravvedimento. La giustizia riparativa era anche contemplata dalla riforma originale, oramai depennata per sempre. Ma nella giornata dell’incontro con i reclusi per reati mafiosi, diversi “Zacchei” ravveduti hanno potuto dialogare e confrontarsi. Fiammetta poi ha lasciato il carcere, promettendo la condivisione di un progetto comune, magari coinvolgendo le scuole del sud. Da oggi in vigore la riforma penitenziaria di Gabriele Patti Quotidiano di Sicilia, 10 novembre 2018 Le principali novità in materia di Ordinamento penitenziario. Casellario giudiziale, spese di giustizia funzionali alle operazioni di intercettazione ed esecuzione delle pene per i condannati minorenni. Reinserimento sociale attraverso la partecipazione a corsi di formazione professionale: sul piatto 4 milioni € nel biennio 2019-20. Entrano in vigore oggi i decreti legislativi attuativi della riforma penale dell’ordinamento penitenziario approvata nel 2017 (cd Riforma Orlando). I testi, pubblicati in Gazzetta ufficiale n. 250 del 26 ottobre 2018 (Suppl. Ordinario n. 50), introducono importanti novità in materia di ordinamento penitenziario, casellario giudiziale, spese di giustizia funzionali alle operazioni di intercettazione ed esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni. Assistenza sanitaria e trattamento penitenziario (Dlgs 123/2018) - Dei cinque provvedimenti varati lo scorso 26 ottobre dal Consiglio dei Ministri, il decreto inerente l’ordinamento penitenziario è il più corposo. Il testo reca modifiche in tema di assistenza sanitaria e semplificazione delle procedure. L’art 1 del provvedimento sottolinea l’importanza del servizio sanitario nazionale operante negli istituti penitenziari e negli istituti penali per minorenni: esso deve garantire le esigenze profilattiche e di cura della salute dei detenuti e degli internati, la ricezione di prestazioni sanitarie tempestive, appropriate ed efficaci che garantiscano l’umanità del trattamento penitenziario assicurando il rispetto della dignità della persona e conformandosi a modelli che favoriscano l’autonomia, la responsabilità, la socializzazione e l’integrazione. Vita detentiva e lavoro penitenziario (Dlgs 124/2018) - In questa direzione si muove la disposizione di cui l’art. 1 n.1 lett. a): “Gli edifici penitenziari devono essere dotati di locali per le esigenze di vita individuale e di locali per lo svolgimento di attività lavorative, formative e, ove possibile, culturali, sportive e religiose”. Si punta a favorire la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro e la loro partecipazione a corsi di formazione professionale in un ambiente che stimoli la collaborazione e permetta lo sviluppo individuale in condizioni dignitose. Per tali finalità è autorizzata la spesa di due milioni di euro per ciascuno degli anni 2019 e 2020. Detenuti e internati potranno inoltre chiedere di essere ammessi a prestare la propria attività a titolo volontario e gratuito nell’ambito di progetti di pubblica utilità. L’obiettivo è far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale. Minorenni e misure penali di comunità (Dlgs 121/2018) - Il decreto attuativo detta una disciplina compiuta delle misure penali di comunità quali l’affidamento in prova al servizio sociale, l’affidamento in prova con detenzione domiciliare, la detenzione domiciliare, la semilibertà e l’affidamento in prova in casi particolari. Queste saranno disposte, ove idonee a favorire l’evoluzione positiva della personalità e un proficuo percorso educativo e di recupero, sempre che non vi sia il pericolo che il condannato si sottragga all’esecuzione o commetta altri reati. Intercettazioni e liquidazione delle spese di giudizio (Dlgs 120/2018) - Il provvedimento si occupa di velocizzare la liquidazione delle spese relative a prestazioni ai fini di giustizia effettuate a fronte di richieste di intercettazioni e di informazioni da parte delle competenti autorità giudiziarie. L’ufficio del pm che ha richiesto o eseguito l’autorizzazione a disporre le operazioni di intercettazione dovrà emettere, senza ritardo, il decreto di pagamento delle spese relative alle suddette prestazioni e quelle funzionali all’utilizzo delle stesse. Casellario giudiziale (Dlgs 122/2018) - Le modifiche sono volte all’adeguamento rispetto alle più recenti modifiche in materia di diritto penale, anche processuale, e nel diritto dell’Unione europea in materia di protezione dei dati personali per cui l’art. 2 dispone che “Le iscrizioni nel casellario giudiziale sono eliminate decorsi quindici anni dalla morte della persona alla quale si riferiscono e, comunque, decorsi cento anni dalla sua nascita”. Cassazione: per i detenuti allergici diritto a cibo “alternativo” Ansa, 10 novembre 2018 In carcere deve essere fornita, ai detenuti, una dieta varia ed equilibrata che assicurando la tutela del diritto alla salute tenga presente eventuali allergie alimentari dei reclusi: in tal caso gli alimenti in “black list” devono essere sostituiti con altri ben tollerati e dello stesso genere. Lo sottolinea la Cassazione accogliendo il ricorso di un detenuto, Umberto O. di 46 anni, recluso nel carcere di Terni ed originario di Torre Annunziata, afflitto da una documentata e certificata allergia al pesce azzurro. L’amministrazione del carcere aveva preso atto della sua intolleranza alimentare e aveva eliminato ogni tipo di pesce dalla sua dieta, nonostante il personale sanitario del penitenziario avesse indicato il pesce ‘alternativo’ al pesce azzurro che doveva essere preparato almeno due volte a settimana per Umberto. In prima istanza, il magistrato di sorveglianza aveva dato ragione al detenuto mentre in seguito il Tribunale di sorveglianza di Perugia aveva sostenuto la tesi della “piena fungibilità della carne con il pesce a fini nutrizionali” e la conseguente assenza di lesione al diritto alla salute. Adesso la Suprema Corte ha dato piena ragione al reclamo del difensore di Umberto e ha fatto presente che l’art. 9 dell’Ordinamento penitenziario stabilisce che ai detenuti “sia assicurata un’alimentazione sana e sufficiente, adeguata, tra l’altro, allo stato di salute”. “La particolare dieta di Umberto O., nell’escludere taluni alimenti, ricomprende tipi di pesce assolutamente comuni, notoriamente reperibili sul mercato anche a prezzi economici. A fronte di ciò - rileva la Cassazione - e di una tabella vittuaria che dovesse includere una o più porzioni settimanali di pesce nella dieta, l’Amministrazione dovrebbe dare adeguato conto delle contingenti ragioni, di ordine organizzativo, finanziario, o di altra natura, che le impediscano di adeguarvisi, imponendo il bando totale dell’alimento dai pasti del detenuto”. In nessun modo il giudice di sorveglianza - afferma la Cassazione prendendo le distanze dalla sentenza del magistrato di Perugia che aveva “condannato” Umberto a un vitto di sola carne - si può sostituire “agli organici tecnici ed amministrativi a ciò espressamente deputati e stabilire lui stesso ciò che rientri o non rientri nella nozione di alimentazione sana ed equilibrata”. Ora il Tribunale di sorveglianza perugino - conclude la Cassazione nel verdetto 51209 depositato oggi dalla Prima sezione penale e relativo all’udienza svoltasi lo scorso 25 settembre - deve rivalutare il caso “nel rispetto dei principi enunciati”. Salvini: “Carceri piene? Ne costruiremo di nuove, non si fa uscire nessuno” tgcom24.mediaset.it, 10 novembre 2018 “Carceri piene? Non si fa uscire nessuno, no svuota carceri, no indulti!”. Lo ha scritto su Twitter il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, parlando del problema del sovraffollamento degli istituti penitenziari italiani. Il vicepremier ha quindi sottolineato che “ne costruiremo di nuove con i soldi risparmiati dalla riduzione degli sbarchi”. Sondaggio: Governo promosso sulla giustizia di Nando Pagnoncelli Corriere della Sera, 10 novembre 2018 Chi vota M5S o Lega ha linee comuni. Tra le riforme, sembra “sdoganarsi” il tema della legittima difesa. Il rapporto tra gli italiani e la giustizia è molto cambiato negli ultimi anni, da un lato infatti la fiducia nella magistratura è diminuita, passando dal 67% nel 2011 al 44% odierno, dall’altro aumenta l’insoddisfazione dei cittadini per i tempi dei processi e per l’esito delle sentenze. D’altra parte sarebbe stato illusorio immaginare che questo campo potesse rimanere indenne dal calo generalizzato di fiducia nelle istituzioni e dalla crescente attitudine a mettere in discussione tutto. Il sondaggio odierno intende indagare le reazioni dell’opinione pubblica riguardo alle proposte avanzate dal governo in materia di giustizia. I provvedimenti annunciati nel complesso sono giudicati efficaci per migliorare il funzionamento della giustizia, a partire da quelli in materia di contrasto della corruzione: l’inasprimento delle pene è giudicato utile dal 70% e l’impiego di agenti di polizia in incognito dal 68%. La percezione di efficacia prevale tra tutti gli elettorati, sia pure con valori più elevati tra quelli della maggioranza (da 84% a 87%). Anche la riforma della legittima difesa è giudicata in termini positivi dal 63%, con la quasi unanimità tra i leghisti (93%) e valori elevati tra pentastellati (82%) ed elettori dell’opposizione di centrodestra (67%). Ma si registrano aperture anche in una quota rilevante di elettori del centrosinistra (43%). Il potenziamento dell’organico degli uffici giudiziari per il 62% migliorerà il sistema e su questo tema le valutazioni degli elettori del centrosinistra (67%) non sono dissimili da quelle dei leghisti (71%), mentre prevale la diffidenza nel centrodestra non leghista. Da ultimo, il tema che è stato al centro delle polemiche degli ultimi giorni: la riforma della prescrizione. Il 54% lo giudica un provvedimento che può giovare al sistema mentre il 33% è di diverso parere. Il tema è piuttosto controverso ma, nonostante le divisioni tra le due forze della maggioranza, i due rispettivi elettorati esprimono pareri positivi (74% i pentastellati, 64% i leghisti). Interessante notare come tra gli elettori di centrosinistra le opinioni si dividano (48% negativi, 46% positivi) e tra quelli dell’opposizione di centrodestra prevalga il dissenso (61%). Tra le cinque proposte quella giudicata più importante riguarda l’inasprimento delle pene per i reati di corruzione (citata dal 26%), seguita dalla riforma della legittima difesa (21%), dall’aumento dell’organico degli uffici giudiziari (16%), quindi dall’impiego di agenti infiltrati (10%) e infine dalla riforma della prescrizione (9%). A proposito di quest’ultimo provvedimento, quasi un italiano su due è convinto che Lega e M5S riusciranno a trovare un accordo. In conclusione, dal sondaggio emergono tre elementi: innanzitutto nell’opinione pubblica non accenna a diminuire la riprovazione per i reati di corruzione; inoltre sembra “sdoganarsi” un tema da tempo sottotraccia, la legittima difesa; infine le limitate reazioni ai dissidi nella maggioranza sulla riforma della prescrizione. Tra i cittadini si conferma l’idea che “si troverà una quadra” e gli impegni presi con il contratto di governo ancora una volta prevarranno su malumori e divisioni. Il contratto, sigillo e mantra del governo Conte. Il governo della paura e l’abitudine al razzismo di Alessandro Dal Lago Il Manifesto, 10 novembre 2018 Decreto sicurezza. L’astuzia di Salvini consiste precisamente nel dare concretezza drammatica al governo mediante la paura, che pure, da sempre, è attivo nella gestione della questione migratoria. Da questo punto di vista Minniti e, prima di lui, gli altri leader di centrosinistra e di destra, si sono rivelati dei dilettanti. Gli effetti letali del Decreto sicurezza, voluto da Salvini e votato dall’attuale maggioranza con poche e trascurabili eccezioni, sono stati ampiamente discussi e criticati da giuristi, associazioni laiche e cattoliche, per non parlare dei movimenti anti-razzisti. In poche parole, l’abolizione della protezione umanitaria per richiedenti asilo, la restrizione della cittadinanza e l’eventuale revoca in caso di reati di terrorismo ed “eversione”, per non parlare dell’aumento della detenzione sino a 6 mesi nei Cpr, avranno l’effetto di moltiplicare l’irregolarità dei migranti e richiedenti asilo. Insomma, di aumentare in modo parossistico l’incertezza e la disperazione della loro condizione. Si può pensare quello che si vuole di Matteo Salvini, ma non che sia privo di un tipo elementare ed efficace di astuzia politica (diversamente da gran parte dei suoi alleati di governo). Salvini sa benissimo di non poter mantenere la promessa di espellere i “clandestini”, sia perché l’iter è lungo e complesso anche dopo questa legge, sia perché non esistono accordi con gran parte dei paesi d’origine degli stranieri (a parte Nigeria, Egitto, Marocco e Tunisia), sia soprattutto per mancanza di quattrini. Proprio come la grottesca promessa elettorale di Berlusconi (l’espulsione di 600 mila “clandestini”), gli obiettivi di Salvini e Di Maio sono pura propaganda, naturalmente sulla pelle di migranti e richiedenti asilo. Sta qui la doppia infamia del decreto, che da una parte rende ancora più drammatiche le condizioni di vita degli stranieri e, dall’altra, avvelena ulteriormente l’atmosfera politica e sociale del nostro paese. L’astuzia di Salvini consiste precisamente nel dare concretezza drammatica al governo mediante la paura, che pure, da sempre, è attivo nella gestione della questione migratoria. Da questo punto di vista Minniti e, prima di lui, gli altri leader di centrosinistra e di destra, si sono rivelati dei dilettanti. Non c’è provvedimento salviniano e governativo che non miri a tener viva le paure del corpo sociale: dalla giustizia sommaria fai da te sino al rigetto della timida riforma delle carceri. Vivendo nella paura e nell’illusione di neutralizzarla con l’odio per stranieri, marginali e devianti, l’elettorato moderato, privo di informazioni e incapace di valutazioni equilibrate, sarà al seguito, finché durerà l’imbonimento nazional-populista, di questi leader spregiudicati. È la stessa logica di Bolsonaro e della sua crociata in Brasile contro la corruzione e di Donald Trump quando mobilita l’esercito contro poche migliaia di potenziali migranti che arrancano nelle strade del Messico. Ed è in fondo, con tutte le distinzioni del caso, la stessa logica paranoica, alimentata contro nemici interni ed esterni, dei movimenti fascisti tra e due guerre. Ridotti allo stato di fuori legge sociali, gli stranieri sono oggetto inesauribile della propaganda fascistoide di Salvini e soci. Ecco l’ineffabile ministro, ormai padrone incontrastato del governo, accorrere con il suo armamentario di slogan razzisti là dove, come a Macerata o San Lorenzo, qualche straniero sia coinvolto in un fatto di cronaca nera. Senza che mai siano ricordate le donne italiane uccise in famiglia, o quelle straniere uccise nelle strade o le vittime di caporali, estremisti di destra o semplici idioti. Ogni giorno, le cronache riportano episodi di xenofobia e razzismo, privi di eco nello strepito dominante della paura alimentata dall’alto. Più di altri Paesi occidentali, l’Italia si sta abituando a questo strabismo politico e morale. Non si tratta di un fenomeno estemporaneo. Solo ora si rivelano i frutti avvelenati della campagna di criminalizzazione delle Ong e l’accoglienza degli stranieri, una campagna a cui anche l’ultimo governo di centro-sinistra ha stoltamente partecipato. Quello che Minniti ha seminato, Salvini raccoglie. Un fenomeno che non si annuncia temporaneo. Ideale per stornare la rabbia sociale dalle promesse non mantenute, dalla crisi finanziaria alle porte e dall’isolamento politico del paese, il governo attraverso la paura, che ha ispirato il decreto Salvini, è destinato a durare, fin quando la miseria politica e strategica di questa maggioranza non si rivelerà agli occhi dell’opinione pubblica. Si tratta di capire se una qualche sinistra sarà in grado o no di intervenire contro il disastro sociale che ne deriverà. Prescrizione, tregua finita. È già scontro Bonafede-Lega di Barbara Acquaviti Il Messaggero, 10 novembre 2018 Una coperta troppo corta per tutta la maggioranza gialloverde. Sono bastate poche ore e già l’accordo raggiunto giovedì mattina sulla giustizia ha cominciato a essere tirato da una parte e dall’altra, lasciando scoperti nuovi fianchi. Perché M5S e Lega quell’intesa la raccontano, anzi la vivono, in modo diverso. Su due punti tutti concordano: si è deciso di approvare subito la modifica della prescrizione all’interno del ddl anticorruzione, pur con la clausola che ne prevede l’entrata in vigore a gennaio 2020, e dare vita allo stesso tempo a una riforma del processo penale. Tutto lineare, se non fosse che sul rapporto tra i due provvedimenti le visioni divergono letteralmente: viaggiano slegati per i pentastellati, simul stabunt simul cadent per il Carroccio. È il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, principale sponsor dell’emendamento che prevede lo stop alla prescrizione dopo il primo grado di giudizio, a fornire la lettura grillina. “L’accordo politico è che va fatta la riforma del processo penale e che la delega deve avvenire entro dicembre 2019” ma “nella legge anticorruzione che entra in vigore a gennaio non c’è alcun collegamento con altre leggi, entra in vigore comunque”. Per la Lega, però, l’ipotesi che l’una sopravviva senza l’altra semplicemente non esiste perché in quel caso si materializzerebbe quella “bomba atomica” sotto i processi paventata da Giulia Bongiorno. Matteo Salvini lo mette in chiaro: “Se non entra in vigore la riforma del processo penale, la prescrizione non ci sarà”. Non si tratta di una sfumatura semantica. Punge un esponente di spicco del Carroccio: “Bonafede aveva fretta di fare la sua diretta su Facebook. Dico solo che al Senato si è discusso un mese in commissione sul decreto sicurezza e invece adesso su una riforma così importante bisogna sbrigarsi”. L’aria insomma resta tesa, nonostante Luigi Di Maio dica che l’accordo lo “soddisfa pienamente”. La legge delega di riforma del processo penale dovrebbe essere presentata a breve al Senato: va detto, peraltro, che questa materia nel governo è tutta da affrontare. Da martedì a Montecitorio si cominciano a votare gli emendamenti al ddl anticorruzione: ma se sulla prescrizione l’accordo dovrebbe tenere, è sulle altre parti del provvedimento caro a Bonafede che si potrebbero aprire nuovi fronti. Molto dipenderà da quanto i relatori grillini recepiranno le proposte di modifica già presentate dall’alleato. Calma e prescrizione di Annalisa Chirico Il Foglio, 10 novembre 2018 “Non si interviene in modo frettoloso e improvvisato sulla giustizia”, ci dice il vice di Bonafede, il leghista Morrone. L’altra sera, ospite a “Otto e mezzo”, Marco Travaglio appariva un tantino nervoso. “Lei dice? Non so, io Travaglio non lo leggo, non lo guardo”. Sì, le assicuro: il direttore del Fatto quotidiano l’altra sera era un tantino nervoso. “Allora è una fortuna non averlo al governo”, soggiunge sornione Jacopo Morrone, sottosegretario leghista alla Giustizia. In zona pentastellata, qualche motivo di preoccupazione c’è. Il leader della Lega Matteo Salvini incassa il decreto sicurezza, invece Luigi Di Maio una riforma della prescrizione in vigore dal 2020 e i cui primi effetti si vedranno a partire dal 2024. “Un governo serio non interviene sulla giustizia in modo frettoloso e improvvisato” incalza. “Il tavolo sulla magistratura onoraria che ho istituito insieme a una squadra di esperti, giudici di pace e avvocati, ha fissato un fitto calendario d’incontri per i dovuti approfondimenti”, prosegue Jacopo Morrone. “Vuole sapere quante audizioni hanno tenuto i colleghi responsabili dell’emendamento al ddl anticorruzione? Neanche una”. Non è solo questione di metodo. Il ministro Giulia Bongiorno ha evocato l’effetto “bomba atomica” sui processi, con l’accordo finale voi leghisti l’avete depotenziato. “Il blocco della prescrizione dopo il primo grado di giudizio significa procedimenti eterni, cittadini perseguibili a vita, una spada di Damocle francamente inaccettabile in uno stato di diritto. Noi vogliamo tempi celeri e certi, i processi infiniti non sono giustizia”. La Lega ritirerà gli emendamenti che abbassano la pena per il peculato e cancellano Daspo a vita per i corrotti e agente sotto copertura? “No, gli emendamenti restano in piedi, ne discuteranno le commissioni competenti”. Insomma, tregua apparente. “Noi vogliamo vincere la guerra, non una battaglia”. Resta da capire chi sia il vero nemico. “Siamo il governo dei fatti, non delle parole”. Secondo il consigliere del Csm Piercamillo Davigo, gli effetti della prescrizione si manifesteranno quando lui sarà già morto. “Auguriamo lunga vita a lui e a tutti, però mi lasci dire: i magistrati non sono un corpo monolitico. Forse Davigo si riferisce ai governi precedenti, esprime un’opinione personale e noi ce ne facciamo una ragione. Molti suoi colleghi la pensano come noi”. Per i Cinque stelle il Davigo-pensiero è una stella polare. “Ognuno si sceglie la propria. Per noi le garanzie di indagati e imputati non sono barattabili, nondimeno vogliamo pene certe e senza sconti. Le vittime e i loro familiari hanno il diritto di vedere i colpevoli in galera, i processi veloci servono a questo”. Ricette per imprimere un’accelerazione? “Vanno affrontati alcuni snodi organizzativi. Le sembra normale che nell’epoca della posta elettronica certificata s’impieghino sette mesi per una notifica? E che dire della regola per cui, se cambia un giudice, il processo ricomincia daccapo?”. Davigo ha fondato la propria corrente, e lei è allergico alle correnti. “Mi metto nei panni del cittadino che davanti a un giudice ha sempre le gambe che gli tremano. I magistrati non devono fare paura. Vogliamo che le persone sappiano di poter contare su un giudice imparziale e sul giusto processo”. Tornando alla prescrizione, la Lega ha precisato che la modifica è condizionata alla riforma organica del processo penale. “I due interventi sono inscindibili. Se cade l’uno, cade pure l’altro”. Mettiamo, per ipotesi, che dopo le elezioni europee, preso atto dei mutati rapporti di forza, il governo cessi di esistere: addio riforma. “Il governo dura cinque anni”. I malumori grillini sono crescenti. “Luigi Di Maio si sta comportando benissimo. Sull’Ilva è stato impeccabile”. Ma la chiusura dello stabilimento siderurgico era un loro cavallo di battaglia, adesso la base è in rivolta. Lei, sottosegretario, ha voglia di provocare. “Io non provoco, dico che Di Maio sta rispettando i patti”. E perdendo consensi. “I sondaggi lasciano il tempo che trovano. Mentre i giornali annunciavano la caduta imminente del governo sulla prescrizione, i due vicepremier si sono incontrati e hanno risolto l’impasse nel giro di mezz’ora”. Dica la verità: come Guardasigilli, tra Bongiorno e Alfonso Bonafede, chi avrebbe preferito? “Io ho un debole per la Bongiorno, sono un suo fan da tempi non sospetti”. Meglio un innocente in cella o un colpevole libero? di Paolo Guzzanti Il Giornale, 10 novembre 2018 Quando andai a vivere a New York nel 1966 vidi che cosa significa una giustizia veloce e senza sprechi: il tizio che aveva sfondato a martellate la vetrina dell’orologiaio, arrestato alle tre del mattino, prima di mezzogiorno era di fronte al suo giudice: una donna nera dall’aria cattivissima. “Colpevole o non colpevole?”, chiese all’arrestato. E aggiunse: “Non oserà sfidare l’ira degli onesti cittadini che pagano le tasse e le spese di un processo, dichiarandosi innocente quando sa di essere colpevole, o la pagherà carissima. Allora?”. “Colpevole, vostro onore”. Sette processi su dieci finiscono in America senza cominciare, perché nei Paesi che non discendono dagli eterni fasti del Diritto Romano il giudice giudica sempre. Come i pompieri. O i pronto soccorso. Siede in tribunale 24 ore al giorno. Da noi c’è invece una giustizia paralizzata dalla mancanza di cortesia, orari, cancellieri, conoscenza dei dossier, stanze, computer, nella generale incertezza del diritto di cui ci consideriamo sia la culla che la bara. Tutte le smargiassate pentastellate sulla prescrizione sono scorciatoie rabbiose che simulano una procedura rivoluzionaria, perché costoro non hanno la più pallida idea di come riprendere il controllo dei tribunali e di chi ci lavora, cosa fattibile erogando la spesa necessaria per fornire tutto quel che serve, senza ledere i diritti della difesa. Per loro è sempre meglio un innocente in galera che un colpevole libero, perché sono i nemici della società liberale. Tutti i rischi della legittima difesa “allargata” di Matteo Marcelli Avvenire, 10 novembre 2018 Dalla società civile al sindacato di polizia Siulp fino all’Anm, ecco le voci contrarie. Beretta (Opal): già ora è più facile ottenere il porto d’armi che la patente. La riforma della legittima difesa? Non è necessaria e rischia di portare a una silenziosa corsa all’acquisto delle armi da parte degli italiani. C’è un vasto fronte della società civile che si oppone alla riforma approvata per la prima volta dal Senato il 24 ottobre scorso a tutela di chi ha reagito a un’aggressione subita in casa, ma la maggioranza di governo intende andare avanti, forte anche del sostegno di quella parte della cittadinanza che si considera sotto minaccia della criminalità comune. In realtà, la percezione di insicurezza non si spiega con i numeri: stando ai dati diffusi dal Servizio studi del Senato, i casi giunti in dibattimento per eccesso colposo di legittima difesa sono stati appena cinque in quattro anni (dal 2013 al 2016): non proprio quella che si definirebbe un’emergenza. Se poi si allarga lo sguardo sul più ampio orizzonte della sicurezza nel nostro Paese, che la narrazione di chi ha promosso questa legge vorrebbe sempre più violento, si può notare come il tasso di omicidi sia calato costantemente dal 1992 al 2016, passando dai quasi 2mila casi del 1991 ai 397 del 2016 (numeri del ministero dell’Interno elaborati dal sociologo Marzio Barbagli). Stesso discorso per furti e rapine, in continua diminuzione dal 2014 al 2017 (dati Istat). Eppure, secondo quanto riportato dal Censis, tra gli italiani sta crescendo la voglia di sicurezza “fai da te” e circa il 39% dei nostri concittadini è favorevole all’introduzione di criteri meno rigidi per il possesso di arma da fuoco. Per il New York Times, che in prima pagina ieri ha dedicato un’analisi alla strategia del vicepremier Matteo Salvini, l’Italia sta allentando le regole in materia di armi. Ora, considerando che il ddl in arrivo alla Camera vincolerà la sempre riconosciuta proporzionalità della difesa al possesso legale di un’arma, il rischio sembra essere davvero quello di un aumento vertiginoso dei cittadini armati, tanto più che il prezzo di una pistola usata è generalmente inferiore a quello dell’installazione di una porta blindata o di un sistema di allarme. “In sostanza, prima lo Stato diceva al cittadino: “Ti permetto di armarti, ma se usi le armi per difenderti in casa dovrai dimostrare la legittimità e la proporzionalità della difesa” - spiega ad Avvenire Giorgio Beretta, analista dell’Opal, l’Osservatorio permanente sulle armi leggere. Ora invece, introducendo una sorta di presunzione di legittimità della difesa, l’utilizzo delle armi sarà sempre giustificato dalla legale detenzione”. E il pericolo sta proprio qui perché, continua Beretta, “oggi è molto più facile ottenere una licenza per detenzione di arma da fuoco che la patente di guida: basta essere incensurati, non soffrire di problemi psichici, non avere dipendenze da droga o alcol, fare un esame alla Asl e un breve corso di maneggio delle armi”. Con una licenza per tiro sportivo, per caccia o con un nulla osta si possono tenere in casa tre armi comuni, 12 armi di tiro sportivo (e cioè armi vere e proprie), un numero illimitato di fucili da caccia, e un’ingente quantità di munizioni. Sono ammessi anche fucili semiautomatici Ar-15, come quello usato dal 19enne Nicholas Cruz per il massacro della scuola di Parkland, in Florida. La proposta dell’Opal è quindi quella di introdurre una licenza dedicata alla difesa in abitazione e negli esercizi commerciali, che preveda una formazione specifica e l’utilizzo di proiettili non letali, oltre al divieto di detenzione di munizioni in casa per le altre licenze. C’è poi un’altra questione: nel 2016 gli omicidi compiuti per furto o rapina sono stati 19 (16 nell’anno successivo), mentre quelli per lite o rissa, sommati a quelli in ambito familiare, sono più di sei volte tanto: 128. Vista la spinta che il provvedimento potrebbe produrre nella corsa all’acquisto di un’arma, il rischio, ragiona ancora l’analista Opal, “è quello di armare un ambito criminogeno che appare di gran lunga più letale di quello riferito alle rapine in casa”. Il paradosso è ancora più evidente se si confrontano gli omicidi per furto con quelli commessi da legali detentori di armi o con armi legalmente detenute. In questo caso parliamo almeno di 40 episodi solo nel 2017 (quelli compiuti a scopo mafioso sono 44 secondo l’Istat), ma si tratta di un numero non ufficiale che Beretta ha raccolto con la semplice analisi di fonti aperte. “Prima di apportare delle modifiche alla legge - conclude Beretta - sarebbe necessario avere dal Viminale un rapporto ufficiale sugli omicidi e tentati omicidi compiuti da legali detentori di armi e con armi legalmente detenute: solo in questo modo si può capire se le attuali norme sono sufficienti a salvaguardare la sicurezza dei cittadini. Allo stato attuale possiamo dire che le armi nelle case degli italiani uccidono quasi quanto i mafiosi”. Opal a parte, sono molte le istituzioni che si sono opposte al disegno di legge. Oltre alla posizione dell’Anm - di cui Avvenire ha già dato conto - e della Rete disarmo, c’è anche il Siulp, il sindacato della Polizia di Stato, che pur riconoscendo la necessità di una risposta al sentimento diffuso di insicurezza, resta convinto che la legittima difesa non possa prescindere dal principio di proporzionalità. D’altro canto, a rilevare alcune storture dell’attuale normativa è l’Osservatorio nazionale sostegno vittime che ha invece appoggiato il ddl proponendo quattro suggerimenti di modifica (tutti accolti). “Abbiamo chiesto che a un aggressore ferito in casi poi riconosciuti come legittima difesa sia preclusa la possibilità di chiedere i danni in sede civile - chiarisce la presidente Elisabetta Aldrovandi -. Si tratta di procedimenti molto lunghi, un vero e proprio calvario giudiziario”. Si deve all’Osservatorio anche la misura che sposta il costo delle spese legali a carico dalle Stato, indipendentemente dai limiti imposti dal gratuito patrocinio, per tutti i casi in cui l’indagato venga prosciolto o assolto, oltre alla creazione di corsie preferenziali nelle procure. “È chiaro che il principio di proporzionalità sempre riconosciuto è una forzatura - ammette però Aldrovandi - ma c’è una discrezionalità troppo ampia nell’interpretazione dei singoli fatti ed è necessaria più uniformità di giudizio”. Legittima difesa. Morrone (Lega): “non vogliamo creare il Far West” di Diego Motta Avvenire, 10 novembre 2018 Il sottosegretario leghista alla Giustizia: la riforma della legittima difesa non parla di armi. Maggiore sicurezza anche con nuovi agenti in campo. “L’Italia non sarà mai l’America” assicura Jacopo Morrone, sottosegretario leghista alla Giustizia. Nessun Far West, nessuna corsa al riarmo dei cittadini, assicura l’esponente di governo che risponde così alle perplessità crescenti della società civile. “Il rischio è che chi ha subito un’intrusione in casa diventi vittima due volte, dovendo subire anche l’onta di procedimenti infiniti a suo carico” spiega Morrone. In realtà, i numeri dicono che i procedimenti penali per eccesso colposo in materia di legittima difesa sono stati appena cinque in tre anni. C’era proprio bisogno di una legge? Vogliamo tutelare la persona che in casa si è trovata davanti un delinquente e ha provato a difendersi, ma il mio auspicio è chiarissimo: spero che i casi di legittima difesa in futuro siano pari a zero. I dati contano relativamente, a noi interessa solo aumentare la sicurezza dei cittadini. Magari attraverso la corsa all’acquisto delle armi per uso personale... Attenzione: la riforma della legittima difesa non va ad armare i cittadini. Il nostro impegno semmai è aumentare le forze dell’ordine in campo a difesa dei quartieri, come stiamo facendo. Più risorse e più uomini. Quanto alla norma, ribadisco che non si vuole creare un Far West. Anche dai sindacati di polizia sono emersi dubbi: l’uso della forza contro delinquenti e criminali non dovrebbe essere una prerogativa esclusiva dello Stato? Allo Stato resterà il monopolio in materia, ci mancherebbe. Però non possiamo dimenticare che, nella maggioranza dei casi, ad avere la meglio spesso è proprio il delinquente, con molte irruzioni nelle abitazioni finite con l’omicidio. Con le nuove regole, si punta a un segnale di deterrenza. La maggior parte degli italiani è dalla nostra parte. Il tema della proporzionalità della reazione ha già sollevato polemiche durissime. Non c’è dubbio che debbano esserci determinate condizioni perché l’intrusione in casa risponda ai canoni della legittima difesa: le condizioni psicologiche di chi subisce l’aggressione, ad esempio, il possibile stato di grave turbamento determinato dalla violazione del domicilio. Non teme che arrivi un messaggio culturale devastante all’indirizzo soprattutto dei giovani? Gli Stati Uniti, con le loro sparatorie quotidiane, non sono un caso da temere? Non saremo mai come gli Usa. Ottenere un’arma in America resterà molto più facile rispetto all’Italia. Non ci sarà un’impennata nella vendita delle armi: se avverrà, sarà perché lo Stato avrà fallito nel suo compito di difesa dei cittadini. Può promettere almeno un’intensificazione dei controlli su chi ha già il porto d’armi? Le statistiche sui reati compiuti in questi casi non sono affatto tranquillizzanti... Possiamo impegnarci a monitorare chi le armi le ha già, anche il porto d’armi sportivo. Vanno prese tutte le informazioni del caso, va capito l’iter burocratico. Più in generale, l’obiettivo è rispondere al bisogno di sicurezza senza alimentare nuove tensioni. Quei politici in mano alle toghe di Nicola Porro Il Giornale, 10 novembre 2018 Negli ultimi venti anni la magistratura ha rappresentato un contrappeso alla politica, anche superiore alla sua legittimità. Almeno dal decreto Biondi in poi (pensato dal primo governo Berlusconi del 1994) una parte, la più rumorosa, della magistratura ha capito che la sua alleanza con la stampa le avrebbe permesso di esercitare una forte pressione. A differenza delle alte burocrazie di Stato, senza le quali è tecnicamente difficile governare a Roma, l’influenza della magistratura è stata più politica. Una sorta di terza Camera, etica, del Parlamento. Oggi con il governo a trazione grillina il vero cambiamento è proprio nel rapporto con questa parte della magistratura. Che è diventato fluido. L’emendamento sulla cancellazione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio è un intervento simile e opposto al decreto Biondi. Con quest’ultimo, dicevano i giustizialisti riscaldati da Mani pulite, avremmo scarcerato centinaia di malfattori: forse. Con l’emendamento Bonafede, terremo sotto processo senza fine milioni di innocenti e qualche colpevole: è certo. La politica, con Berlusconi, con Prodi, con Renzi, ha sperimentato il potere giudiziario, nella sua vulgata mediatica, sulla pelle. Al contrario i rappresentanti del mondo grillino parlano la stessa lingua di questa componente giudiziaria: che per carità dice di non voler fare politica, perché ha capito bene come farla, senza ridursi lo stipendio e il ruolo. Cioè non abbandonando la toga. Il caso Di Pietro, Ingroia insegnano. Ma rintuitus personae riguarda anche altri fronti. La Corte costituzionale, sì proprio quella di Amato e company, ha bocciato una norma fondamentale del Jobs Act di Renzi. Prima il licenziamento illegittimo veniva punito con una sanzione di due mesi di multa per ogni anno di anzianità. I supremi giudici hanno deciso che non basta: o meglio che saranno i loro colleghi magistrati ordinari a decidere l’entità del risarcimento. Insomma un’altra materia che il legislatore voleva consegnare ad un automatismo soggetto ad una legge generale e valida per tutti, e che i magistrati hanno deciso di riassegnarsi. Questo è l’impasto pericoloso di questa Terza Repubblica. In cui la politica e un élite di magistrati dettano le regole. Tra qualche anno dovremmo preoccuparci non più della separazione delle carriere (sogno che mai si realizzerà) ma della separazione dei poteri. Caso Cucchi, un altro carabiniere indagato nell’inchiesta-depistaggi di Fulvio Fiano Corriere della Sera, 10 novembre 2018 Il passaggio di consegne fra i due ultimi comandanti della compagnia Montesacro dei carabinieri si ripete idealmente nell’inchiesta sui depistaggi seguiti alla morte di Stefano Cucchi. Così, mentre Luciano Soligo compariva davanti al pm Giovanni Musarò per essere interrogato, il nome di Nico Blanco si aggiungeva alla lista degli indagati che sta allungandosi grazie anche alle dichiarazioni del loro sottoposto, il comandante della stazione di Tor Sapienza, Massimiliano Colombo Labriola. È lui che li chiama in causa entrambi in merito prima alla falsificazione delle annotazioni di servizio redatte dai piantoni della sua stazione sulle condizioni di Cucchi, che lì passò la notte in cui fu fermato. Poi sulla parziale consegna di questa documentazione agli inquirenti quando sono partite le indagini del processo bis. Venerdì a piazzale Clodio, Soligo si è avvalso della facoltà di non rispondere. Una scelta, motivata con delle dichiarazioni spontanee, fatta non per la volontà di sottrarsi al suo dovere di uomo delle istituzioni a cui ha ribadito fedeltà, ma come strategia processuale imposta dal suo legale, l’avvocato Gianluca Tognozzi. Che spiega: “Le contestazioni riguardano fatti ai quali il mio assistito ha partecipato solo indirettamente e che nove anni dopo non può ricordare. Abbiamo quindi chiesto di poter prima leggere tutte le carte dell’inchiesta”. Soligo era nel 2009 il comandante del carabiniere scelto Francesco Di Sano, il quale ha ammesso in aula di aver modificato su richiesta di Colombo e di suoi superiori l’annotazione di piantone in cui descriveva le condizioni di salute di Cucchi. Nella memoria del pc di Colombo gli agenti della squadra mobile hanno rinvenuto mail di nove anni fa in cui il luogotenente riceveva da suoi superiori (e la trasmetteva a Di Sano) l’indicazione di modificare i documenti relativi a Cucchi. Tra queste ce n’è anche una di Soligo. Ha raccontato a verbale Colombo Labriola: “La mattina del 27 ottobre 2009 il maggiore Soligo mi disse che le annotazioni di Colicchio (l’altro piantone, ndr) e Di Sano non andavano bene. Entrò nel merito di ciascuna annotazione, parlando prima con me e poi con i due militari, contestandone il contenuto. Durante quella discussione Soligo ricevette telefonate dai suoi superiori. Rispondeva “Comandi, signor colonnello” e ogni volta mi faceva segno di uscire. I suoi superiori erano il colonnello Alessandro Casarsa, all’epoca comandante del Gruppo Roma (oggi comandante del reggimento corazzieri del Quirinale ndr.) e il suo Capo Ufficio, il tenente colonnello Francesco Cavallo. Dopodiché mi chiese di trasmettere i file con le due annotazioni dei militari in formato word alla mail di Cavallo, cosa che feci. Dopo un’ora, ricevetti la risposta con allegate le modifiche che aveva fatto delle due annotazioni originali con la frase “meglio così”. Lo stesso Soligo avrebbe poi convocato i piantoni per far loro firmare la versione modificata. Quanto al suo successore, Nico Blanco, viene coinvolto quando, tre anni fa, la procura inviò il Nucleo investigativo da Colombo per acquisire la documentazione del caso Cucchi. I militari presero le annotazioni nella doppia versione, ma scelsero di lasciare la mail in cui Cavallo aveva apportato le “correzioni”. Di questa acquisizione documentale non venne redatto verbale. Colombo descrive così l’intervento di Blanco nella vicenda: “Chiamai il comandante Blanco per chiedere conferma del fatto che quella fosse la procedura corretta e lui mi diede conferma”. Avellino: morto il detenuto che il 31 ottobre si era impiccato in cella Omicidio Sensale, muore il killer Quotidiano del Sud, 10 novembre 2018 Pellegrino Pulzone è deceduto dopo nove giorni di agonia. Condannato a vent’anni in Cassazione per l’omicidio di Clorinda Sensale, assassinata al centro storico di Avellino nel 3013. Lo scorso 31 ottobre l’uomo aveva tentato di impiccarsi in cella con un lenzuolo. Gli agenti lo avevano trovato accasciato sul pavimento. Era stato rianimato e ricoverato in ospedale. Ma le condizioni di Pulzone sono rimaste critiche, ieri il suo cuore ha smesso di battere. Pulzone, autore dell’efferato omicidi proprio nella città di Avellino, la sua città natale. con un fine pena fissato al 2033, ieri mattina è stato salvato dalla Polizia Penitenziaria della Casa Circondariale di Avellino. Scattato l’allarme immediatamente il detenuto è stato soccorso 3 condotto dai sanitari del distretto della Casa Circondariale di Avellino. Subito è partito il protocollo di rianimazione ed il cuore è ripartito. Già sottoposto a vari ricoveri a disposizione degli specialisti psichiatrici ed osservato particolare il detenuto voleva farla finita con un lenzuolo, ma gli Agenti della Polizia Penitenziaria sono riusciti a salvargli la vita. L’insano gesto - posto in essere mediante impiccamento - non è dunque stato consumato per il tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari. L’ennesimo evento critico accaduto nel carcere di Avellino è sintomatico di quali e quanti disagi caratterizzano la quotidianità penitenziaria, denuncia Emilio Fattarello, segretario nazionale per la Campania del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. Donato Capece, segretario generale del Sappe, il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri, evidenzia che “per fortuna delle Istituzioni, gli uomini della Polizia Penitenziaria svolgono quotidianamente il servizio in carcere - come ad Avellino - con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità, pur in un contesto assai complicato per il ripetersi di eventi critici. È solamente grazie a loro, agli eroi silenziosi del quotidiano con il Basco Azzurro a cui va il ringraziamento del Sappe per quello che fanno ogni giorno, se le carceri reggono alle costanti criticità penitenziarie. La situazione delle carceri si è notevolmente aggravata. Basterebbe avere l’onesta di esaminare i dati sugli eventi critici accaduti in carcere negli ultimi anni e negli ultimi mesi”. Genova: la Corte Costituzionale entra nel carcere “lo Stato crede in voi” di Francesca Forleo Il Secolo XIX, 10 novembre 2018 A Marassi l’incontro con il giudice Viganò. Il libero convincimento d’accordo con il principio dell’oltre “ogni ragionevole dubbio” affermato dalla nostra Costituzione?. Quando Claudio Borgarelli, condannato a 30 anni per l’omicidio dello zio Albano Crocco a Lumarzo, porge questa domanda al giudice costituzionale Francesco Viganò, il giurista gli fa i complimenti. E la platea lo applaude. Applaudono anche, per ben 20 secondi, l’intervento dello stesso giudice Viganò arrivato in carcere a Marassi a parlare della Costituzione. Siamo nel teatro dell’Arca, affollato da un centinaio di detenuti: si riconoscono molti volti. Ma stiamo parlando di rieducazione: il testo dell’articolo 27 della Costituzione, che fa riferimento proprio al fine rieducativo della pena, è stato anche trascritto su alcuni muri interni del carcere. “Ho cominciato a studiare, mi sono iscritto a Storia e ho già dato due esami: Letteratura italiana e Geografia umana - racconta Borgarelli - perché qui in carcere, più di tutto, il problema è quello di come riempire il tempo”. E recente un’intervista comprensibilmente dura della cugina, Daniela Crocco, figlia dello zio ucciso da Borgarelli. “Capisco il suo dolore e che cerchi di ottenere giustizia”, confida soltanto. La mattinata con il giudice Viganò è densa, intensa, a tratti commovente. Quando il giudice della Corte Costituzionale fa il suo ingresso sul palco del teatro interno al carcere, gli archi suonano l’inno nazionale. Tutti in piedi, i detenuti lo cantano. Si sono preparati per settimane, insieme al giudice Maria Eugenia Oggero, presente al dibattito insieme al direttore di Marassi, Maria Milano. E finita la relazione del giudice costituzionale, i detenuti gli porgeranno una ventina di domande. Viganò nasce professore di diritto: “Provai a fare l’avvocato ma non mi prendevano sul serio perché avevo la faccia da ragazzino - racconta - poi ho capito che la mia strada poteva essere l’insegnamento. Non ho mai fatto lezioni frontali, stimolavo gli studenti a porsi domande fra di loro, li portavo spesso in carcere e nascevano anche amori, ai miei corsi”. Al corso preparatorio dell’incontro di ieri mattina, i detenuti studenti sono stati avvisati di non portare la loro esperienza all’interno degli studi sulla Costituzione. Le riflessioni sulla vita carceraria, invece, quelle erano ammesse. “Quando entriamo qui, viene interrotta la nostra vita affettiva e anche procreativa”, si alza a chiedere Emanuele Tavotta. “Il detenuto conserva i diritti fondamentali tranne quelli incompatibili con la condizione”, spiega Viganò prima di citare i Paesi dove sono previsti gli incontri familiari. Altri chiedono del diritto di voto, qualcuno si emoziona leggendo le domande al microfono, apparentemente tecniche ma importantissime per la loro vita in carcere. Fuori, intanto, la protesta del sindacato della penitenziaria Sappe contro le aggressioni agli agenti: 11 nel primo semestre dell’anno a Marassi. Genova: il condannato interroga, il giudice risponde di Erica Manna La Repubblica, 10 novembre 2018 A Marassi un giudice della Corte Costituzionale ha incontrato i detenuti: “La pena non sia solo afflizione ma anche occasione”. Si alzano in piedi e cantano l’inno di Mameli, i detenuti del carcere di Marassi, seguendo la melodia eseguita al violoncello, quando nel teatro dell’Arca entra il giudice della Corte costituzionale Francesco Viganò. Lui confessa subito di essere emozionato, e cerca di scrollarsi di dosso la patina istituzionale: “La mia presenza rappresenta il fatto che la Costituzione entra anche all’interno da queste mura. Ma il senso della nostra giornata qui è un incontro: dunque bisogna sapere chi siamo. E io intendo mettermi un po’ a nudo”. Inizia così, il faccia a faccia tra il giudice e chi quella legge l’ha infranta: il “Viaggio in Italia - La Corte costituzionale nelle carceri”, progetto realizzato con la collaborazione tra Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e Dipartimento della Giustizia minorile e di comunità, oggi ha fatto tappa a Genova, dentro il teatro costruito all’interno della casa circondariale dai detenuti stessi, unico esempio di questo tipo in Europa. Il tema è un frammento dell’articolo 27 della Costituzione: la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. I detenuti lo hanno riscritto parola per parola sui muri principali dell’istituto, annuncia la direttrice del carcere Maria Milano, coordinati dai docenti di grafica pubblicitaria. Viganò si racconta, e confessa che lui stesso incarna la metafora del cambiamento, “da giovane studente sfigatello a giudice”. Ripercorre la sua infanzia “in un paesino sul lago di Como”, spiega di essere stato “il tipico secchione, timido, balbuziente, collezionavo un sacco di due di picche con le ragazze”, in una famiglia dalle “condizioni economiche non brillanti”, con una “Cinquecento scassatissima”. Poi, la carriera da professore, le visite in carcere con gli studenti, da cui “uscivamo diversi da come eravamo entrati”. E poi, la telefonata che gli ha cambiato la vita, la nomina a giudice della Corte. “La pena - entra nel vivo Viganò - deve guardare necessariamente al futuro, non è solo afflizione ma deve risolversi in una opportunità per la persona: per ricominciare da capo. La rieducazione non è il lavaggio del cervello. Al condannato deve essere offerta opportunità di revisione critica del suo passato”. E ancora: “Il condannato non è il suo reato: deve essere visto come una persona aperta a cambiare”. I detenuti si alternano sul palco, hanno preparato le proprie domande con cura, alcune sono molto tecniche, l’emozione è tanta. “Perché se la Costituzione è la legge più importante a volte il parlamento non la rispetta?”, chiede Giuseppe. Salvatore: “Non viola la Costituzione un sistema che emette sentenze di condanna non uguali per gli stessi reati?”. “Il libero convincimento - scandisce Claudio Borgarelli, condannato per il delitto di Lumarzo - va oltre ogni ragionevole dubbio?”. E ancora: “Questi incontri con noi saranno utili al Parlamento?”, incalza un altro detenuto. “Lo saranno di certo a me”, risponde Viganò. Genova: Viganò a Marassi “il carcere deve preparare al rientro nella società” di Laura Santini mentelocale.it, 10 novembre 2018 Prima c’è stato il Viaggio in Italia nelle scuole. Lo scorso maggio (2018), poi, è stato presentato un nuovo percorso che porta la Corte Costituzionale a incontrare le persone. In entrambi i casi l’intenzione è quella di “diffondere la conoscenza della Costituzione e farne condividere i valori, allo scopo di costruire una solida “cultura costituzionale”“ come descritto nel progetto del presidente della Corte costituzionale Giorgio Lattanzi. La quinta tappa di questa nuova impresa civile e culturale ha toccato Genova portando nel carcere di Marassi, negli spazi del Teatro dell’Arca, Francesco Viganò, giudice della Corte Costituzionale nominato direttamente dal Presidente della Repubblica Mattarella lo scorso febbraio. Ad accoglierlo Maria Milano, direttrice della Casa Circondariale del centro città, il provveditore degli istituti penitenziari Liberato Guerriero e Maria Eugenia Oggero, consigliera della Corte di Appello di Torino che ha accompagnato alcuni dei detenuti di Marassi in una serie di incontri preparatori all’evento dall’agosto scorso. Evidentemente emozionato e motivato da una sensibilità personale molto spiccata, il giudice Viganò introdotto ufficialmente dall’inno italiano suonato dal vivo, ha affermato: “Infrangendo il protocollo, comincio con il raccontarvi qualcosa di me e qualcosa dell’istituzione che rappresento, perché il senso è quello di un incontro e quindi sapere chi siamo e quali esperienze abbiamo fatto ci permette di guardarci negli occhi e di realizzare davvero quello che succede comunemente quando ci si incontra tra persone la prima volta”. Con grande amabilità e coraggio il giudice si è dunque “messo a nudo” raccontando della sua famiglia: “Sono originario di un paesino di migranti vicino a Como dove non c’era lavoro”. Si è soffermato sulla sua formazione e sulle sue debolezze di giovane: “Sono cresciuto in una pluriclasse, non proprio ideale per formare una persona. Ero il tipico secchione, timido, con un po’ di balbuzie e collezionavo tanti due di picche con le ragazze; le condizioni economiche non erano ideali, vivevamo tutti insieme anche con la nonna”. Delle esperienze forti della sua vita: “Incontrai un professore che mi prese per mano, mi spedì a studiare a Monaco, non sapevo il tedesco ma piano piano me la cavai. Lì ho scoperto la mia vocazione, ho fatto un po’ l’avvocato ma poi avevo la faccia da bravo ragazzo e non ero molto credibile. Quindi ho fatto il ricercatore e poi sono diventato professore. Ci vuole creatività per affrontare il diritto come ho sempre detto ai miei studenti - a cui non ho mai proposto una lezione formale ma lunghi dibattiti, tanto lavoro di gruppo e alla fine di ogni anno si andava sempre a mangiare una pizza tutti insieme”. Fino al suo impegno militante per un impatto concreto nel diritto penale: “Ho fondato la rivista online Diritto Penale Contemporaneo in cui ho cercato di portare fuori dell’accademia i dibatti sul diritto. Lì ho fatto battaglie civili sui diritti dei detenuti”. Poi un giorno, lo scorso febbraio (2018) una telefonata la posto di fronte a una grande svolta: “Non avevo fatto niente perché mi arrivasse un tale riconoscimento. È stata una grande emozione. Non ho risposto subito, ho preso tempo dicendo “Fatemi sentire mia moglie”. In un intervento al contempo estremamente umano, quasi confessionale, quasi un colloquio rivolto individualmente a una platea gremita di detenuti, polizia penitenziaria, operatori e rappresentati della società civile con cui trovare punti di contatto e svelarsi per essere accolti, il giudice si è anche addentrato negli aspetti tecnico-formali del ruolo che ricopre e dell’istituzione che rappresenta. “La Corte Costituzionale è un legislatore negativo - ha ricordato più volte Viganò - che non può migliorare o modificare la legge, ma può lanciare un monito rispetto ai risultati applicativi della norma che vanno contro i principi della Costituzione, in un principio di collaborazione con il legislatore perché possa intervenire” e superare l’eventuale irragionevolezza della norma. E ha aggiunto: “Compito specifico della Corte Costituzionale, suo criterio fondamentale è che in una democrazia è il legislatore primariamente eletto, il Parlamento che deve decidere, per esempio nel diritto penale, quali e in che misura i reati debbano essere puniti. Però, in Italia se si volesse legiferare a favore della pena di morte non sarebbe possibile perché la Costituzione lo nega nel principio della difesa dei più deboli, ovvero di coloro che non hanno la possibilità di far sentire la propria voce contro la maggioranza. Si tratta dunque di un compito defilato, non sotto i riflettori, svolto in sobrietà ed equilibrio”. La parte centrale dell’intervento è stata dedicata al tema dell’incontro: Tendere alla rieducazione. Ovvero come e perché la Costituzione ci ricorda che il carcere deve proporre ai detenuti un percorso che restituisca loro un’occasione e alla società sicurezza e nuovi componenti attivi pronti a dare il loro contributo. “Cosa dice la Corte Costituzionale a proposito della pena e della pena detentiva? Le pene devono tendere alla rieducazione, articolo 27. La Costituzione dà per scontato che la pena sia legittima e che sia necessaria per tutelare i diritti fondamentali delle persone e delle vittime dei reati. Una volta che la pena è stata sancita e comminata, il condannato deve potersi proiettare nel futuro, la pena non deve essere inflizione di sofferenza, deve risolversi in un’opportunità per ricominciare da capo. La finalità è che la persona possa diventare migliore, essere reintegrata e contribuire al miglioramento della società tutta. No dunque al lavaggio del cervello, no a quel processo per un adeguamento assoluto ai valori imposti dal partito al governo. Al condannato deve essere offerta una revisione critica del proprio passato in un appello alla libertà interiore, in cui possa comprendere le ragioni e le responsabilità rispetto ai reati compiuti. Prepararsi per tornare nella società per dare il proprio contributo e non a chiedere significa infatti rimboccarsi le maniche ma a partire da date condizioni oggettive che lo permettano come sancito dalla riforma penitenziaria del 1975 con cui in Italia si è concretizzato il percorso di rieducazione”. “È la prima volta che un giudice della Corte Costituzionale esce dal Palazzo della Consulta in piazza del Quirinale e va a incontrare i cittadini”. Come ha ricordato il magistrato Oggero, il Viaggio nelle Carceri cominciato il 4 ottobre a Roma dal Carcere di Rebibbia è proseguito nelle tappe di Milano a San Vittore, Nisida (Istituto penale per minorenni), Terni ora tocca Genova quindi sarà a Lecce e rappresenta una grande occasione: “È un incontro simbolico e fisico, perché i giudici sono usciti per la prima volta dal Palazzo della Consulta (vicino al palazzo del Quirinale) dunque c’è una simbologia forte, ma al contempo riconosciamo un gesto concreto. Un’esperienza dinamica anche per i detenuti per dibattete e confrontarsi perché diritti e doveri, quelli sanciti dalla Costituzione, hanno senso se connessi all’essere umano, la costituzione è bella perché è antropocentrica, si capisce tutto quello che c’è scritto. Dal latino: homo sum et nihil humani alienum puto, ovvero io sono umano e non mi è alieno nulla di ciò che pertiene all’umano. Un principio che ci viene dalla latinità classica, anche se è spesso stato attribuito a Sant’Agostino e che guarda al diritto alla speranza un concetto che mutiamo invece dalla legge sui diritti umani della corte europea”. A chiudere la lunga ma ricca mattinata le domande dei detenuti. Salendo sul palco, ognuno presentandosi con il proprio nome ha proposto domande estremamente puntuali e sempre più sofisticate al giudice Viganò che ha avuto così l’opportunità di completare e perfezionare gli aspetti più tecnici del suo intervento. Per esempio Carlo Rebaudi ha domandato: “La Corte Costituzionale ha gli strumenti per comunicare al parlamento se una norma è incostituzionale?”. Sempre con grande entusiasmo ed equilibrio la risposta di Viganò è arrivata con la solita naturalezza e capacità comunicativo-empatica: “Non in maniera preventiva. Sarebbe scorretto che facessimo conoscere la nostra opinione su leggi che si stanno discutendo in Parlamento. Anche perché il controllo preventivo è riservato al solo presidente della Repubblica, che non firma una legge, ma solo in casi macroscopici ovvero se c’è un dubbio importante, il Presidente chiede al Parlamento di ripensarci. Il nostro intervento - prosegue Viganò - è solo su caso concreto. Aspettiamo che la legge venga applicata a un caso concreto, quindi quando la legge fa sentire i suoi effetti sulle persone e si svela incompatibile con i diritti della costituzione. Noi non ci contrapponiamo al Parlamento e aspettiamo un momento concreto per non esprimere un giudizio politico”. Tra le altre, quella di Alessio Sicari riflette proprio sul senso del progetto Viaggio in Italia: “Questi incontri saranno utili perché il Parlamento faccia qualcosa per migliorare la condizione detentiva?” Con la chiara cautela ma intenzione di non evadere mai il quesito, Viganò ha soddisfatto anche in questo caso la platea: “Esiste un dovere di leale collaborazione con le istituzioni a cui dobbiamo rispetto tutti e io in qualità di rappresentante dell’istituzione di cui faccio parte. L’utilità di questo Viaggio forse andrà a vantaggio anche della polizia penitenziaria e di tutti gli operatori che sono altrettanto reclusi, servirà forse a dare la sensazione che si sta pensando a voi. Questo viaggio si inquadra in un orientamento culturale volto a continuare a parlare di carcere: argomento che non piace a nessuno, non troppo popolare tra chi fa politica perché non porta voti. L’intento è di mettere in evidenza che la rieducazione possa giocare sulla sicurezza collettiva e portare un reale contributo che faccia l’interesse di tutti”. Come accade ogni volta che si entra al Teatro dell’Arca nel carcere di Marassi, anche questa è stata un’occasione unica per un evento davvero corale, intenso, ed estremamente significativo in particolare per il percorso svolto dai detenuti all’interno della Casa Circondariale di Marassi. Tra i vari progetti atti alla risocializzazione e rieducazione la direttrice Maria Milano ne ha promosso uno che ha previsto di dipingere sulle pareti dei corridoi “l’articolo 27 della Costituzione con il supporto dei docenti di grafica e con la partecipazione di detenuti e di parte del personale di polizia. Anche questa è un’attività che favorisce integrazione e percorsi rieducativi”. Benevento: il Garante “in carcere serve presidio sanitario, liste d’attesa lunghe” di Stefania Repola Il Mattino, 10 novembre 2018 Dopo aver incontrato i detenuti nei giorni scorsi, incontro dal quale erano già emerse diverse criticità in tema sanitario e di carenza di personale penitenziario, il garante campano Samuele Ciambriello ha lanciato un nuovo allarme dinanzi ai cancelli della casa circondariale di contrada Capodimonte per chiedere più attenzione per il sostegno sanitario fornito ai detenuti, Ciambriello ha riportato diversi esempi dì detenuti che da mesi o anni sono in lista di attesa anche per un’operazione di routine. Una situazione che secondo il Garante lede il diritto alla salute che deve essere garantito a tutti. La Campania è una delle regioni più affollate come popolazione carceraria per cui è molto complicato anche venire incontro a tutte le esigenze, A questo si aggiunge che Benevento è l’unica provincia campana che non ha un presidio dedicato a ospitare anche solo 4 o 5 detenuti in degenza o per visite sanitarie e operazione. “In questo carcere ci sono 382 detenuti di cui 72 donne e 4 nell’articolazione psichiatrica, Ho deciso di accendere i riflettori sul pianeta sanità prima di tutto perché ci troviamo nell’unica provincia in Campania, dove non esiste in ospedale un reparto detentivo. Se in tutta la regione ci sono 36 posti che sono riservati, qui non ci sono. In questo carcere ci sono 50 detenuti che per delle operazioni al calcolo renale aspettano oltre 3 anni. Abbiamo un detenuto che da 5 anni attende per un’operazione alla fistola, un’altra ancora da novembre 2017 attende l’esito di un esame istologico. Serve un protocollo, un accordo per aumentare il numero dei medici nel carcere o accelerare le visite. Ivrea (To): i progetti della nuova Garante dei detenuti Paola Perinetto di Carlo Maria Zorzi risvegliopopolare.it, 10 novembre 2018 “Non mostri, ma esseri umani”. Paola Perinetto dal 20 settembre scorso è stata nominata “garante” per i diritti dei detenuti, in sostituzione di Armando Michelizza che ha terminato il suo mandato di cinque anni. Anche lei viene dal volontariato attivo in carcere per tanti anni, ed è forse per questa la ragione che il Consiglio comunale di Ivrea l’ha votata e scelta tra gli altri che pure avevano presentato la loro candidatura per ricoprire l’incarico nel prossimo lustro. Classe 1968, originaria di Caluso, Paola Perinetto vive ad Ivrea. Al volontariato in carcere ci era arrivata “quasi per caso”; camminando per strada è attirata da un manifesto che pubblicizza la conferenza di Michelizza (suo predecessore) e di altri volontari della “Beiletti”. Entra, ascolta, aderisce e ne “esce” dopo 5 anni di attività. Cioè il 20 settembre scorso, quando ha rassegnato le dimissioni da vicepresidente della “Beiletti” per assumere il mandato di “garante”. Abbiamo incontrato anche lei per conoscerla e per farci dire su quali basi poggerà il suo lavoro. Paola Perinetto, come inizia la sua avventura di garante dei diritti delle persone private di libertà? È un ruolo un po’ una continuità rispetto a quello che facevo prima. Sicuramente il fatto di essere garante mi offre la possibilità di avere degli strumenti per intervenire in modo più decisivo su alcune situazioni. Figura riconosciuta, c’è la possibilità di dare un maggiore aiuto perché si viene ascoltati. Che visione ha, dopo anche tanti anni di volontariato, del carcere di Ivrea dove interverrà? C’è tanto da fare. Il problema sono sempre le risorse e la formazione, e soprattutto la possibilità di inserimento delle persone quando escono dal carcere. La responsabilità, quindi, non è soltanto quella di garantire i diritti delle persone in carcere, ma anche garantire i diritti di queste persone quando escono, in modo che possano essere inserite di nuovo nella società e non ritornino a delinquere. Ci sarà continuità con il mandato del suo predecessore Michelizza o avrà un’altra linea di intervento? Sicuramente ci sarà continuità, anche perché ci sono delle attività iniziate proprio durante il suo mandato. Cito quella di incontrare i detenuti nelle celle, con la direttrice o il comandante, e questo la direzione mi ha chiesto di continuare a farlo, perché i detenuti si sentono ovviamente più ascoltati. Così come è, il carcere è utile o no? Non tanto. Il carcere come è impostato oggi è un luogo dove le persone soffrono, non vedono una via d’uscita, dove “vengono penalizzate”. Il carcere corrisponde un po’ alla nostra società; quindi potrà migliorare la sua funzione nel momento in cui ci saranno sempre più persone che nella società, spinti da un’azione di altruismo vogliono aiutare queste persone che hanno sbagliato. Persone che è giusto paghino la pena, ma è anche giusto abbiano poi una seconda opportunità, volta a favorire il loro reinserimento. Ma si fa sempre più largo l’idea che oltre alla pena sia bene “buttare via la chiave”… Esatto. Molti media non parlano di carcere, e quando ne parlano è sempre una condanna. In questo modo la popolazione pensa che all’interno del carcere ci siano dei mostri, mentre invece coloro che “questi mostri” li incontrano, si rendono conto che i mostri sono soltanto mentali e che di fronte ci sono degli esseri umani. Quindi in che direzione bisogna andare? Bisogna agire come essere umani nei confronti di altri esseri umani, e non sentirsi diversi ovvero separati. Finché c’è il pregiudizio, finché c’è un tenere distante la persona, sentire che quella persona è pericolosa o che ha sbagliato e che quindi non è degno di… allora non ci può essere un aiuto concreto. Qual è la cosa del suo mandato che le dà più apprensione? Mi conforta pensare di essere pronta e aperta ad ascoltare tutti i suggerimenti. Ciò che mi piace molto è che in Piemonte è stato organizzato un gruppo di collaborazione tra i garanti delle altre carceri e quindi quello che magari si verifica a Ivrea è già stato affrontato in un altro carcere negli anni precedenti. Questa collaborazione è una marcia in più. Immagina di scuotere anche un po’ la società civile eporediese sul tema del carcere? Ogni opportunità sarà valida. A fine mese avrò un intervento nelle scuole di Pavone Canavese, insieme alla direzione, ai volontari e con i detenuti che hanno fatto un percorso e si sono ravveduti e ora stanno facendo di tutto per condurre una vita che molto spesso persone fuori dal carcere non conducono, con sani principi… Io credo molto che parlando ai giovani, questi porteranno il messaggio a casa, ai genitori, ai nonni, alle famiglie e lo diffonderanno. Vedrà adesso il volontariato da un altro punto di vista? Io collaborerò sempre con il volontariato, da sola non potrei fare proprio nulla. La politica sta intervenendo in modo favorevole per il carcere, o no? Si è sempre parlato molto di carcere, ma si è fatto poco. È un argomento che non porta voti, e quindi se ne parla in alcuni momenti e poi dopo si dimentica. C’è così tanto da fare che la politica non potrà non prendersi in carico delle decisioni importanti riguardo al mondo carcerario. Quali attività sarebbero utili? Qui ad Ivrea vengono già fatte diverse attività, ma il limite è la struttura perché non ci sono degli spazi adeguati. Si potrebbe anche pensare a qualche forma di lavoro, ma non è possibile perché non ci sono gli spazi e la logistica non lo permette. Il suo predecessore, nella sua relazione finale, scrive che la punizione non è tanto la privazione della libertà quanto il passare vuoto del tempo, giornate interminabili e senza nessuna visione... Certo. Siamo soliti dire che il tempo è denaro: in questo caso è una vita buttata via, perché quando una persona sta nella cella e per interi giorni non incontra nemmeno uno psicologo (che ha pochissime ore e cura già le persone più bisognose) allora non può da solo fare quel salto, vedere che cosa ha fatto, migliorare e tornare a essere utile in qualche modo. Abbiamo tantissime persone che dal punto di vista operativo potrebbero fare delle cose, e sentirsi utili di nuovo alla società. Per chi esce dal carcere il tasso di recidiva è molto alto… Purtroppo si parla del 70% a livello nazionale. Ho incontrato tanti detenuti presi dall’angoscia quando sapevano che si avvicinava la scarcerazione; quando una persona non sa dove andare e non sa di che cosa vivere, la prima cosa che fa è tornare a fare la cosa che faceva prima di entrare in carcere. Il carcere diventa un po’ una casa per alcuni, dove trovano delle persone a disposizione, dove può esserci un volto amico, un ambiente che conoscono che alla fine diventa familiare. Intende che sono più protetti all’interno che all’esterno? Molti non vogliono affittare un alloggio a un ex detenuto e se anche hai pagato la tua pena molti non ti assumono. Per un ex-detenuto tutto è più difficile. Padova: la raccolta dei rifiuti “cella a cella” estesa a tutto il Due Palazzi di Cristiano Cadoni Il Mattino di Padova, 10 novembre 2018 Firmato il protocollo con Comune e multiutility. “Così ci liberiamo dai gabbiani”. E il direttore annuncia: “In arrivo due milioni per rifare la copertura dell’istituto”. Per ogni rifiuto un colore, per ogni cella un sacchetto, per ogni sezione un bidone, per tutto il carcere un grande punto di raccolta. L’obiettivo è la libertà. Dall’immondizia che vola dalle sbarre e trasforma il giardino in una discarica. E dai gabbiani che mangiano al piano terra e campeggiano sul tetto, corroso dagli escrementi. È questa la prima causa delle infiltrazioni d’acqua ai piani di sotto. Perciò si può considerare fortunata, non meno che sorprendente, la coincidenza di ieri: mentre il Due Palazzi si mette in gioco per arrivare al 60% di differenziata, al direttore Claudio Mazzeo arriva la notizia che due milioni sono stati stanziati dal ministero per rifare la copertura della casa di reclusione. C’è un accordo a tre - e la firma è stata messa proprio ieri, dietro le sbarre - all’origine del progetto “Utili alla società - I Due Palazzi fanno la differenza” (titolo scelto dai detenuti con un concorso di idee che ha prodotto anche una campagna di sensibilizzazione). Casa di reclusione, Comune, AcegasApsAmga lavoreranno insieme - anzi lo stanno già facendo da qualche mese, in via sperimentale e in due sezioni del carcere - per promuovere le buone pratiche ambientali. In pratica si tratta di fare la raccolta differenziata dei rifiuti come si fa in tutta la città, ma in teoria c’è dietro un lavoro di sensibilizzazione e di responsabilizzazione dei detenuti - circa seicento - al rispetto dell’ambiente e del vivere collettivo che acquista importanza anche nell’ottica del loro reinserimento sociale. I primi mesi di sperimentazione sono incoraggianti. Il direttore Mazzeo, in accordo con Comune e AcegasApsAmga ci ha aggiunto il carico di qualche promessa: premi per tutti, sotto forma di “materiale ludico- ricreativo”, se la raccolta andrà bene. E perfino un futuro lavorativo nel settore, se il progetto avrà gli sviluppi che tutti sperano. Salvo poi avvitarsi nel suo ruolo e far immaginare rimproveri o addirittura sanzioni per chi non rispetterà le regole dei rifiuti. Di fronte a velate minacce, i detenuti hanno risposto con proteste composte, per esempio facendo notare che fanno la doccia gelata e che l’acqua calda sarebbe gradita non meno di un ambiente pulito. All’integrazione e al senso di comunità ha fatto appello l’assessore comunale Chiara Gallani, che su questo progetto ha investito mesi di lavoro. “Siamo la stessa comunità, la stessa città e a tutti è chiesto un contributo. È un momento di integrazione. E poi c’era un vuoto: colmarlo farà crescere Padova. Ci aspettiamo ottimi risultati che faranno fare progressi a tutti”. Anche per AcegasApsAmga è una prova d’esame. “È un progetto complicato ma ci stiamo provando con entusiasmo perché ci farà crescere”, ha detto il direttore generale Roberto Gasparetto. “Abbiamo costruito un modello confidando nella disponibilità delle persone. I primi mesi hanno dato ottimi risultati e crediamo che alla lunga possa essere un modello per altre realtà come il Due Palazzi che non hanno ancora avuto il coraggio di mettersi sulla stessa strada”. Ascoli: inaugurazione dell’Orto sociale al carcere del Marino cronachepicene.it, 10 novembre 2018 Verrà inaugurato venerdì 16 novembre alla presenza della vice presidente della Regione, Anna Casini. Intanto l’Unione europea delle cooperative (Uecoop) rilancia l’allarme. Ad Ascoli “esubero” al minimo (2%), mentre a Fermo (+61%) va la “maglia nera”. Limiti rispettati solo al Barcaglione (Ancona) e Fossombrone. Venerdì 16 novembre (ore 13) verrà inaugurato al carcere ascolano di Marino del Tronto l’orto sociale per la riabilitazione dei detenuti, realizzato nell’ambito del progetto regionale “Agricoltura sociale” che coinvolge l’Amministrazione penitenziaria Emilia Romagna-Marche. L’iniziativa è già stata avviata nel carcere “Barcaglione” di Ancona nel 2014 e ora viene triplicata con nuove esperienze a Montacuto (Ancona) e ad Ascoli. Al carcere del Marino ci sarà una cerimonia di inaugurazione alla quale parteciperà anche Anna Casini, vice presidente della Regione Marche. Il carcere di Marino del Tronto - Questo proprio nei giorni in cui l’Unione europea delle cooperative Uecoop Marche (presidente nazionale è l’ex magistrato Gherardo Colombo) lancia l’allarme del sovraffollamento delle carceri al quale, nel caso specifico, non si sottraggono le Marche. In base ai dati del Ministero della Giustizia - in relazione all’allarme lanciato dal Garante nazionale dei diritti delle persone provate della libertà personale per il picco di 53 detenuti suicidi dall’inizio del 2018 - emerge infatti che nelle Marche, su sei penitenziari, a fronte di una capienza di 856 posti, sono presenti 934 detenuti: 9,1% in più di quanto previsto. Solo le carceri di Ancona (Barcaglione) e Fossombrone rispettano i limiti. Tutti gli altri, Ascoli quindi compreso, soffrono di sovraffollamento. “La situazione più grave - dice Uecoop Marche - si registra a Fermo con 66 detenuti contro i 41 previsti dalla capienza con uno sforamento del 61%, e in quello di Pesaro con 223 reclusi, il 46% in più del previsto. Ancona (Montacuto) con 301 detenuti fa registrare un +17,6% e quello di Ascoli Piceno un +2%”. A livello nazionale, a fronte di una capienza di 50.622 posti, ci sono 59.275 detenuti, dei quali uno su tre straniero. Milano: “l’arte è la dove è l’artista, quindi anche in un carcere” di Annamaria Braccini chiesadimilano.it, 10 novembre 2018 Il Vaticano ha scelto, per i suoi francobolli di Natale, due immagini realizzate da un detenuto della Casa di Reclusione di “Opera”. Per l’occasione, alla presentazione ufficiale, è intervenuto l’Arcivescovo che ha anche visitato la Mostra filatelica allestita in una delle galleria del carcere. Una visita particolare per una mostra filatelica ancor più particolare. L’Arcivescovo arriva nella Casa di Reclusione di Opera, non per presiedere una Celebrazione, amministrare le Cresime o festeggiare il Natale o la Pasqua, ma per due francobolli. Anzi, in realtà, molti di più, oltre un centinaio, messi in mostra, così come era accaduto nel 2016 per la raccolta donata dal Papa ai detenuti. Ma questa volta c’è, però, una ragione di più: appunto i due francobolli scelti per il Natale 2018 dal Vaticano e presentati per l’occasione. Realizzati da Marcello D’Agata, settantenne condannato all’ergastolo, i due disegni originari raccontano non solo della maestria dell’artista, ma anche di una storia bella in tutti i sensi. Come racconta lo stesso autore, il quale, dopo il Giubileo della Misericordia e la facoltà concessa ai reclusi da Papa Francesco di attraversare la Porta Santa e ottenere l’indulgenza plenaria, si sentì in debito. Quindi, da sempre appassionato di disegno, riprese in mano i pennelli, realizzando due quadri donati proprio al Santo padre, un “Gesù Crocifisso” e “Papa Francesco che aspetta che alcuni detenuti oltrepassino la Porta Santa”. “Ho interrogato il mio cuore e questa esperienza mi ha portato da un passato oscuro alla bellezza che salva”: questa, la sintesi delle emozioni di Marcello. In una cella al piano terra della sezione Alta sicurezza trasformata in bottega artistica, D’Agata ha creato, così, le immagini - una Annunciazione e una Natività - poi trasposte sui due francobolli, con valori rispettivamente da 1.10 (lettere e cartoline a destinazione interna) e 1.15 euro (per plichi diretti in Europa e nel Bacino del Mediterraneo). “Un segno di speranza, fiducia e fede nel prossimo e nella sua possibilità di comprendere il male fatto e di recuperare”, dice Mauro Olivieri, direttore dell’Ufficio Filatelico del Governatorato della Città del Vaticano. Concorde con lui anche il direttore di “Opera”, Silvio Di Gregorio che ha parlato della speranza di un recupero “reale, effettivo e definitivo” che si può concretizzare in carcere. L’Arcivescovo, da parte sua, ringrazia della cordiale accoglienza. “Sono veramente contento di questa attività e di quelle come il Laboratorio di Scrittura Creativa e di Fotografia che, qui, già conosco. Forse tutto questo autorizza a cambiare una certa immaginazione sul carcere che si coltiva, magari, per inerzia. Siamo qui per rendere omaggio alla capacità artistica che si produce là dove c’è l’artista. Quindi, l’arte supera il “dentro” e il “fuori”. È un invito ad elevarsi a livello della contemplazione della bellezza e della capacità comunicativa che riabilita”, prosegue il vescovo Mario che racconta di avere, da giovane, coltivato il gusto dei francobolli “quasi come fosse una sorta di esplorazione del mondo. Con i francobolli e le loro immagini si può costruire una specie di geografia e di zoologia. Noi ragazzi che non avevamo internet, avevamo il mondo in casa con i francobolli”. Insomma, i francobolli che, in tutti, i sensi superano le frontiere, anche delle sbarre, rendendo più bello il mondo e la vita dei reclusi, come quella di Antonio e Corrado che, in conclusione, donano all’Arcivescovo rispettivamente un mosaico fatto di francobolli e una culla per Gesù Bambino. Il Natale è anche il filo conduttore della mostra, allestita con la collaborazione del Centro Italiano Filatelia Resistenza, al centro della quale figura la collezione realizzata dal Gruppo filatelia della Casa di reclusione. Laura Boldrini: “Una legge contro l’odio in rete, sullo stampo di quella tedesca” di Diletta Parlangeli La Stampa, 10 novembre 2018 La parlamentare di Liberi e Uguali presenterà una proposta. Il primo tavolo con gli esperti entro fine anno: all’interno, saranno specificati i reati in caso di revenge porn. “Se le piattaforme fanno abbastanza contro le molestie online? Dipende da dove si trovano, per questo presenterò una legge di contrasto all’odio in rete sullo stampo di quella tedesca”: così l’onorevole Laura Boldrini, a poche ore dalla sua partecipazione alla Festa della Rete (Perugia, fino all’11 novembre), spiega come intende intervenire sul problema che, sottolinea, vede una responsabilità condivisa dell’Italia da un lato e dell’industria tech dall’altro. “Al di là dei principi che va sbandierando in giro Mark Zuckerberg, il più importante per lui resta quello del profitto. Questo comporta soluzioni diverse a seconda del posto in cui l’azienda opera. Dove ci sono leggi rigorose, che puniscono con severe multe la mancata rimozione di contenuti violenti entro 24 ore, si creano hub di moderazione, mentre in Italia, con tutti gli iscritti che abbiamo, sa quante persone sono deputate? Otto”. Il problema però resta l’assenza di un quadro normativo dedicato. Quindi, entro la fine dell’anno si riunirà un tavolo di esperti per la stesura della proposta. Il tempo di riorganizzarsi dopo aver presentato le proposta “Misure per il sostegno alla genitorialità e alla occupazione e imprenditoria femminile”, che vuole portare il congedo parentale a 15 giorni. Obiettivo ambizioso, visto che l’attuale manovra finanziaria ha appena tagliato i giorni che i padri potevano trascorrere a casa per l’arrivo di un figlio. “Questo la dice lunga sul tipo di Governo che abbiamo. Lo stesso che con le idee del senatore leghista Pillon ci propone di tornare indietro di decenni, con la mediazione in caso di violenza domestica. Mediazione con chi ti massacra, capito? Il che peraltro va completamente contro la convenzione di Istanbul. Altro che governo del cambiamento, questo è il governo del recesso”. La proposta di legge a contrasto dell’odio in rete, si occuperà “doverosamente di revenge porn, una delle piaghe più preoccupanti”. Laura Boldrini, che insieme alla scrittrice Giulia Blasi all’interno dell’evento perugino ha partecipato all’incontro dal titolo “La rete contro le molestie”, ricorda che l’iniziativa legislativa che vuole portare avanti è frutto di un lungo iter. La campagna “#BastaBufale”, poi confluita nell’iniziativa di educazione civica digitale nelle scuole, e l’istituzione della Commissione Internet. “Mi batto contro l’odio in ogni sua forma. Ho espresso solidarietà a Salvini davanti alle minacce di morte a lui rivolte, ma non ho visto il contrario. Lui ha istigato allo stupro, io non l’ho mai ripagato con la stessa medaglia. E anche Grillo, con quel che fu “cosa fareste alla Boldrini in macchina?” ha fatto la sua parte: quando due leader politici usano l’istigazione allo stupro, significa che siamo arrivati oltre l’accettabile. L’ho visto fare in Ruanda e in Ex Jugoslavia, ma non in un paese democratico”. Una sorta di strategia mirata a scoraggiare le donne, spiega Boldrini: “Sai quante ragazze nelle scuole mi hanno detto che vorrebbero fare politica, ma si sentono scoraggiate da quello che hanno fatto a me? Ecco, bingo. Ecco il gioco che vuole il governo, rimetterci in cucina. Mogli e madri, come vuole il Ministro Fontana. Ora ci daranno anche un pezzo di terra...”. La parlamentare di Liberi e uguali continua a denunciare chi la insulta online: “Ritengo sia doveroso non trascurarlo, in uno stato di diritto. Non posso andare nelle scuole a spronare i ragazzi a non soccombere e poi essere la prima ad abbassare la testa”. I processi sono in corso, come quello con Matteo Camiciottoli, sindaco di Pontinvrea (Savona), che in un tweet suggerì di far trascorrere i domiciliari dei responsabili dello stupro di Rimini a casa della allora Presidente della Camera. Malta aiuta migranti a raggiungere Lampedusa, Salvini: “Altro atto ostile” Corriere della Sera, 10 novembre 2018 Secondo fonti del Viminale, la Guardia costiera maltese, ha intercettato una imbarcazione con 13 immigrati a bordo: anziché portarla al sicuro ha fornito all’equipaggio una bussola per indicare la rotta verso l’Italia. Poi ha dato acqua, due taniche di benzina e giubbotti di salvataggio di marca “Mecca Marine”, azienda maltese e che produce anche le uniformi della Marina de La Valletta. L’imbarcazione con 13 persone è quindi arrivata a Lampedusa, dove gli immigrati (dieci tunisini e tre del Corno d’Africa, nel gruppo ci sono due donne) hanno raccontato l’episodio. Ci sono indizi che, secondo gli investigatori, rendono credibili le testimonianze. Il barchino, arrivato la mattina di venerdì 9 novembre in Sicilia, era stato avvistato la notte prima da un velivolo della Guardia di finanza in acque sar maltesi. Tra le 21 e le 22, infatti, l’imbarcazione partita dalla Tunisia aveva finito il carburante: solo dopo qualche ora, verso le 4 e grazie alla segnalazione italiana, erano intervenuti i maltesi. Una nave si era fermata a un centinaio di metri dalla barca alla deriva, facendo partire un gommone. A bordo alcune persone che, secondo i racconti degli africani, avevano divise “come quelle della guardia costiera” de La Valletta. “Italia sotto attacco” - Dopo aver riempito il serbatoio, il barchino era stato scortato verso l’Italia per almeno un’ora di navigazione. Peraltro, i giubbotti della Mecca Marine erano stati dati dai maltesi anche agli immigrati poi saliti a bordo della Diciotti, lo scorso 15 agosto. “Troppi indizi ci fanno credere d’essere di fronte a un vero e proprio atto ostile di un altro Paese dell’Unione europea: dopo quanto emerso a Claviere nelle ultime settimane, c’è la sensazione che l’Italia sia sotto attacco. Alcuni Paesi membri dell’Ue si disinteressano degli immigrati e ce li rifilano, mentre Bruxelles ci minaccia di sanzioni per la manovra: non ci faremo intimidire” spiega il ministro dell’Interno Matteo Salvini. Migranti. Denuncia dalla Mare Jonio: ritardi della Ue sulle morti in mare di Giansandro Merli Il Manifesto, 10 novembre 2018 Operazione Mediterranea. Gli attivisti accusano: il segnale d’allarme per un’imbarcazione in difficoltà con a bordo 80 persone, tra cui sei bambini, diffuso da La Valletta con 9 ore di ritardo. Dopo l’”anomalo silenzio”, i pericolosi ritardi nelle comunicazioni. È la nuova denuncia che arriva dal Mediterraneo Centrale. Il rimorchiatore Mare Jonio, impegnato nella missione Mediterranea, ha reso pubblici ieri i messaggi navtex scambiati con la guardia costiera maltese e italiana nel tardo pomeriggio di giovedì. Secondo queste informazioni, il segnale d’allarme per un natante in difficoltà con a bordo 80 persone, tra cui sei bambini, sarebbe stato diffuso da La Valletta con notevole ritardo. “Un lasso di tempo di nove ore in cui autorità di paesi dell’Ue erano a conoscenza di una barca in pericolo e non ne hanno dato segnalazione né hanno approntato interventi di soccorso” denuncia la Mare Jonio. Gli attivisti, impegnati a monitorare le acque internazionali tra Italia e Libia, chiedono provocatoriamente se prassi di questo tipo siano state utilizzate già in passato. Si tratterebbe di un “comportamento irresponsabile, oltre che illegittimo”, che mette in pericolo la vita di decine di persone. Nella notte tra l’8 e il 9 novembre sono sbarcati a Lampedusa circa 150 migranti. Segnale che partenze e arrivi continuano, nonostante il silenzio politico e mediatico calato sul tema dopo il blocco della nave Diciotti. Da allora, per l’Unhcr ci sono stati 30.606 nuovi sbarchi sulle coste italiane. Gli ostacoli all’azione di Mediterranea sono forse funzionali a tenere bassa l’attenzione pubblica? E se questo provocasse nuove vittime? Stati Uniti. Migranti messicani, Trump ora gli toglie il diritto di asilo di Victor Castaldi Il Dubbio, 10 novembre 2018 La Casa Bianca ha firmato un ordine restrittivo. La campagna elettorale è finita, le elezioni di midterm ormai digerite ma lo slancio dichiaratamente xenofobo di Donald Trump non si arresta, come se avesse in mente di tenere alta della propaganda da qui alle presidenziali del 2020. Così ieri il presidente americano ha firmato l’ordine che impedisce ai migranti entrati illegalmente dalla frontiera col Messico di chiedere asilo agli Stati Uniti, revocando d’imperio un diritto esistente. “La continua e minacciosa migrazione di massa di stranieri senza titoli per il loro ingresso negli Stati Uniti attraverso la frontiera meridionale ci ha precipitato in una crisi che mina l’integrità dei nostri confini”, ha tuonato Trump nel giardino della Casa Bianca, prima di partire in visita per Parigi. Il provvedimento era stato anticipato giovedì da una regolamento dei dicasteri della Giustizia e la Sicurezza Interna. Il ministero della Giustizia e quello della Sicurezza interna hanno comunque già annunciato che ai migranti che passeranno illegalmente il confine con il Messico sarà negato il diritto d’asilo: tutti i richiedenti devono arrivare da punti d’accesso legali. Trump ha cavalcato il tema della carovana di migranti in arrivo dal Sudamerica durante l’ultima fase della campagna per le elezioni di midterm, insistendo sulla minaccia da loro rappresentata. La carovana, fra cui vi sono donne e bambini, è però ancora a Città del Messico, ben lontana dal confine e di sicuro non costituisce nessuna minaccia. La nuova stretta contro i migranti non mancherà di provocare una serie di ricorsi legali, perché l’Immigration and Nationality Act (Ina) del 1969 prescrive chiaramente che tutti possono fare richiesta d’asilo, indipendentemente da come sono entrati negli Stati Uniti. Un passaggio molto chiaro con le associazioni per i diritti civili che si preparano a ingaggiare l’ennesima battaglia con l’inquilino della Casa Bianca. L’amministrazione Trump ritiene tuttavia che altri parti dell’Ina conferiscano all’amministrazione l’autorità necessaria “per sospendere l’ingresso” di migranti se ciò “va a detrimento degli interessi degli Stati Uniti”. La stessa giustificazione, accolta poi dalla Corte suprema, è stata usata per il “travel ban” contro l’ingresso di migranti provenienti da alcuni paesi di confessione musulmana. Inoltre il tycoon può confidare nella benevolenza del giudice Brett Kavanaugh che ha recentemente rafforzato la maggioranza conservatrice della Corte la quale potrebbe accogliere con favore le restrizioni dei diritti dei migranti messicani. Pakistan. Caso di Asia Bibi, c’è un giudice a Islamabad di Valter Vecellio Il Dubbio, 10 novembre 2018 Diritto e conoscenza salvano la vita. Libera. Asia Bibi, la donna pakistana di religione cristiana condannata a morte per blasfemia, e successivamente assolta dalla Corte suprema, è libera. Finalmente, dopo un interminabile, doloroso calvario. Lo fa sapere uno dei legali che segue la vicenda. Due funzionari del governo pakistano, in forma anonima, comunicano che Asia Bibi, trasferita da Islamabad, ora si trova in una località segreta per tutelare la sicurezza, sua e della famiglia. Una buona notizia. Con la soddisfazione, anche punte di amarezza. Asia Bibi è stata assolta per un non reato: la blasfemia, che in Pakistan comporta perfino la pena di morte. Offendere il credo religioso di chiunque è certamente qualcosa di pessimo gusto: ognuno ha pieno diritto di credere o non credere in quello che vuole. Ma quand’anche si cada nel cattivo gusto dell’offesa a un credo religioso, e quale possa essere l’offesa, non è tollerabile che sia punita con la pena di morte. È quello che invece accade in Pakistan (e non solo in Pakistan). Asia Bibi l’ha scampata, altri non sono stati così fortunati. Il settimanale Economist ha “censito” 62 casi di condanne a morte eseguite per questo “reato”- non reato. Ancora: l’avvocato che ha difeso Asia Bibi ha dovuto abbandonare il paese: rischiava di essere vittima della furia di fanatici islamici. Anche l’identità dei giudici della Corte Suprema deve restare segreta. Non è un’esagerazione, non sono timori infondati. Il governatore del Punjab Salmaan Taseer, musulmano, compie il simbolico gesto di visitare Bibi in carcere. Il 4 gennaio 2011 una delle sue guardie del corpo lo uccide: “punizione” per quel gesto pietoso. Proprio per schivare la rabbia dei fanatici islamici, Asia - che pure era stata assolta - non è stata immediatamente scarcerata; e ora, pur libera, è costretta a vivere in “località segreta”; gli stessi funzionari che hanno comunicato la notizia della liberazione, lo devono fare in forma anonima… Tutto questo è semplicemente terrificante. La felice conclusione della vicenda si deve a un combinato disposto: da una parte la paziente, certosina azione “diplomatica” esercitata dal Vaticano, dal mondo cristiano e cattolico. Una “lezione” per tutte le cancellerie e le diplomazie dei paesi che si dicono e vogliono essere “civili”. Quando si vuole, si può; e se si può, si deve. Dall’altra il fatto che del caso di Asia si è avuta conoscenza: giornali e televisioni ne hanno scritto, parlato; si è “saputo”. Tutti i dittatori, i despoti, i tiranni, i fanatici hanno una cosa in comune: non vogliono che si sappia dei crimini di cui si rendono responsabili. Hanno paura della “conoscenza”. Questa è la prima lezione. La seconda: anche in un paese che concepisce il reato di blasfemia punibile con la morte, esistono dei giudici: il diritto, in cui confida il famoso mugnaio; e un magistrato, a Berlino, che riconosce l’abuso dell’imperatore. Anche a Islamabad ci sono dei giudici che hanno agito in base al diritto. Giudici che forse hanno pensato (e agito) come i giudici del tribunale di Norimberga chiamato a decidere la sorte dei gerarchi nazisti sopravvissuti. C’era già la “guerra fredda”, e molte ragioni di opportunità “consigliavano” di non umiliare la Germania, non calcare troppo la mano: anche i nazisti potevano servire. Quei giudici, a Norimberga, ascoltarono quei “buoni”, “saggi” consigli di opportunità e convenienza; convennero che sì: “tutto era logico. Ma non era giusto”. E ci furono quelle sentenze. Anche i giudici pakistani probabilmente avranno ascoltato “buoni” e “saggi” consigli: che forse era meglio sacrificare la vita di Asia Bibi, per ragioni di “opportunità”, di convenienza. E forse anche quei giudici alla fine avranno pensato: “È tutto logico. Ma non è giusto”. E c’è stata quella sentenza. Una decisione coraggiosa, favorita dalla “conoscenza”. Qui, si deve un doveroso riconoscimento a un leader che ci ha lasciato: quel Marco Pannella che negli ultimi anni della sua vita ha dedicato ogni suo sforzo a una battaglia ancora tutta da combattere e vincere: per quello che definiva: “l’universale diritto civile e umano alla conoscenza”. Fateci caso: “Diritto” e “Conoscenza”… I due elementi che hanno portato alla liberazione di Asia Bibi. Una bandiera che attende d’essere raccolta. È con il Diritto e con la Conoscenza che si può sperare di contrastare e vincere il fanatismo di ogni tinta e latitudine. Nel mondo ci sono tanti casi, tantissime vicende simili a quelle di Asia Bibi. Amnesty International recentemente ha segnalato il caso di quattro persone condannate solo perché cristiane e praticanti. Questa è la colpa di Victor Bet-Tamraz, Amin Afshar-Naderi, Shamiram Issavi e Hadi Asgari; sono stati arrestati dopo che le forze di sicurezza in borghese iraniane hanno fatto irruzione nelle loro abitazioni a Teheran, durante un privato raduno natalizio. “Avvenire” ha riferito del caso di Tuti Tursilawati, uccisa senza pietà in una cella della città di Taif, in Arabia. Dopo sette anni di carcere, Tuti, di nazionalità indonesiana è stata “giustiziata” senza che famiglia, legali e autorità indonesiane fossero avvertite. La donna era accusata di aver ucciso il suo padrone di casa. Ha sempre sostenuto di essere stata costretta a farlo per reazione a un tentativo di stupro. Non ha avuto nessuna possibilità di difesa, i suoi legali hanno dovuto subire boicottaggi e soprusi di ogni tipo. Tuti è stata uccisa in silenzio. Nessuno ha saputo, nessuno si è mobilitato. Nessun giudice si è neppure sognato di pensare: “Sì, è tutto logico. Ma non è giusto”. Abbiamo un preciso dovere: far conoscere casi come quelli di Asia Bibi, di Tuti Tursilawati; solo così, dei giudici potranno trovare il coraggio di dire: “È tutto molto logico. Ma non è giusto”. Myanmar. Appello di 42 Ong: pericoloso il rimpatrio dei Rohingya di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 10 novembre 2018 Ben 42 organizzazioni non governative e associazioni umanitarie impegnate sul campo, tra cui Oxfam e Save the Children, hanno lanciato un appello alle autorità di Bangladesh e Myanmar, affinché l’eventuale rimpatrio dei profughi Rohingya avvenga nel pieno rispetto dei loro diritti e con garanzie di sicurezza nelle regioni birmane in cui torneranno. Il 30 ottobre i governi di Dakha e Naypyidaw hanno siglato un accordo lungamente negoziato, per avviare da metà novembre il rimpatrio in Myanmar degli oltre 700mila profughi di etnia rohingya residenti sul territorio bengalese. I difensori dei diritti umani denunciano che, a fronte di questa intesa, non siano state implementate misure per ripristinare la sicurezza nelle regioni da cui sono fuggite queste persone. A innescare l’esodo, l’ondata di attacchi da parte dell’esercito birmano a fine agosto 2017 nello Stato di Rakhine, a maggioranza rohingya. Le Nazioni Unite hanno fatto richiesta più volte alle autorità birmane di avviare un’inchiesta per individuare i responsabili delle stragi, ma a oggi nulla è stato fatto. Inoltre, secondo le Ong, ai profughi non sarebbe stata data nessuna garanzia di ottenere aiuti per reinserirsi in aree distrutte dagli attacchi, libertà di movimento e soprattutto la cittadinanza. Il fatto di non avere regolari documenti, in quanto storicamente considerati “profughi dal Bangladesh”, fa sì che da decenni i Rohingya in Myanmar non godano di alcun tipo di diritto, tra cui accesso a sanità e istruzione. Infine, secondo le testimonianze raccolte dagli operatori umanitari e rilanciate dalle testate internazionali, i rifugiati in Bangladesh si dicono “terrorizzati” all’idea di tornare in patria, dopo essere fuggiti da violenze tra cui stupri, torture e uccisioni indiscriminate da parte dei militari, nonché dalla distruzione dei propri villaggi. Messico. “La cannabis sarà legale”: la maggioranza presenta la bozza di legge in Senato Avvenire, 10 novembre 2018 Ad “aprire la porta” era stata, il 31 ottobre, la Corte Suprema, definendo “incostituzionale” il consumo e la produzione di marijuana per fini cosiddetti ricreativi. In quanto quinto verdetto, esso obbligava il Parlamento ad adeguare la legislazione di conseguenza. Ieri, però, i rappresentanti di Morena, partito maggioritario del presidente eletto Andrés Manuel López Obrador, sono andati oltre. Olga Sànchez Cordero e Ricardo Monreal hanno presentato in Senato un progetto di legge che, oltre a depenalizzare consumo e produzione, disciplina anche la vendita della cannabis. La bozza - che potrebbe essere approvata entro dicembre - propone un modello misto tra la vendita libera adottata in 10 Stati Usa e il monopolio statale di stampo uruguayano. La normativa consente di coltivare cannabis - soli o in cooperative di massimo 150 soci - entro il limite di 480 grammi annui a adulto. Al contempo, viene autorizzata la compravendita da parte di soggetti che abbiano ottenuto un’apposita licenza. Restano vietati pubblicità e acquisti da parte di minori. Gli autori giustificano il provvedimento con la necessità di ridurre i livelli di violenza, giunta ormai al tragico record di 24.769 omicidi tra gennaio e settembre, per una media di 91 vittime al giorno. In effetti, l’approccio “militarista-securitario” che, negli ultimi dieci anni, ha portato alla cosiddetta narco-guerra si è rivelato inefficace. Il punto, però, è un altro. I sequestri di cannabis, in Messico e alla frontiera con gli Usa, sono al minimo storico - 70 per cento in meno dal 2013 - per la progressiva liberalizzazione negli Usa. Lo stesso periodo in cui, dall’altro lato del confine, c’è stata un’escalation di ferocia. Il business dei narcos, del resto, si concentra su cocaina e pasticche. Allora perché tanto interesse sulla cannabis? Proprio come ai tempi della “guerra alla droga” nixoniana, è Washington a dettare la linea. Se prima premeva per la proibizione, ora il mercato spinge nella direzione opposta. Ai venditori regolari Usa non conviene avere la concorrenza - per quanto limitata - di marijuana illegale dal Messico.