Carcere, la riforma si allontana. È il primo effetto del 4 marzo di Piero Sansonetti Il Dubbio, 9 marzo 2018 C’è il rischio concreto, molto concreto, che il primo effetto collaterale del risultato elettorale sia la morte della riforma penitenziaria. Su questo giornale ne abbiamo scritto molte volte. È una riforma con molti limiti, ma che introduce degli elementi importanti di novità nel funzionamento e nella funzione del carcere. In particolare prevede un aumento della possibilità di usare le pene alternative alla detenzione. Questa riforma è stata approvata dal Parlamento ed è stata consegnata al governo la delega per emanare i decreti attuativi. È il risultato di un grande lavoro di ricerca e di discussione, al quale hanno partecipato istituzioni, giuristi, intellettuali, esperti. Ora mancavano solo questi benedetti decreti. Il governo li ha rinviati due, tre, quattro volte. Pochi giorni prima delle elezioni il ministro Orlando e il Presidente del Consiglio Gentiloni hanno giurato che comunque avrebbero emanato questi decreti, prima di lasciare. Poi, all’ultimo momento, i decreti sono slittati. Li si aspettava per l’ultima riunione del consiglio dei ministri prima del voto, ma non sono arrivati. Abbiamo pensato tutti che fosse un gesto di prudenza, alla vigilia del voto, nel timore di una campagna anti governativa e manettara, probabilissima, visto che già i giornali della destra populista, insieme al “Fatto”, avevano sparato a palle incatenate contro il rischio del cosiddetto “svuota-carceri”. E abbiamo sperato che il governo si fosse limitato a rinviare i decreti. Invece ieri il Consiglio dei Ministri si è riunito nuovamente e non ha neanche preso in considerazione il problema. Naturalmente possono essere valutati moltissimi argomenti contrari alla riforma. Il primo è che c’è un pezzo della magistratura - non maggioritario, ma molto rumoroso e potente - che è contrario. E lo è sulla base di una ideologia. L’ideologia che immagina la punizione come lo strumento decisivo della Giustizia e della convivenza civile, e immagina il carcere - il carcere più possibile duro - come lo strumento fondamentale della punizione. È una idea in contrasto con i principi della Costituzione, ma è diffusa, e non soltanto nei settori reazionari della magistratura: ha una presa molto forte nell’opinione pubblica e di conseguenza un appeal fortissimo sulla stampa e la Tv. Una parte della stampa, quella più estremista, è schierata a corpo morto contro la riforma; la parte più moderata sarebbe anche favorevole, invece, ma teme di dirlo, e scriverlo, a voce alta. E poi c’è la pressione di alcuni partiti politici. In particolare del movimento 5Stelle e della Lega. Che sono proprio i due partiti che hanno vinto le elezioni. È giusto tenere conto dei pareri della Lega e dei 5Stelle (che addirittura hanno definito “criminale” questa riforma). Però bisogna anche tenere conto del volere e degli atti del Parlamento. Questa riforma è stata approvata dal Parlamento, e non emanare i decreti, per i quali si ha un mandato del Parlamento, non è un atto di prudenza ma di arroganza. E poi c’è un altro elemento. Si chiama Costituzione. La riforma penitenziaria si assume il compito di avvicinare un pochino il funzionamento del carcere e l’uso delle pene detentive allo spirito della Costituzione. Del resto, appena qualche giorno fa, la Corte Costituzionale ha emanato una sentenza che va esattamente nella direzione dell’applicazione della riforma carceraria. Possiamo continuare a considerare come inapplicabili quelle parti della Costituzione che impongono lo Stato di diritto? Comunque la partita non è chiusa. Sono rimasti ancora alcuni giorni per salvare la riforma. Le Camere sono in carica fino al 23 marzo. E il governo ha tempo per approvare i decreti attuativi fino a 10 giorni prima della decadenza di questo parlamento. Quindi il termine ultimo è il 13 marzo, cioè martedì prossimo. Noi vogliamo essere ottimisti: credere che Gentiloni e Orlando manterranno la parola. La riforma del carcere resta appesa a un filo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 marzo 2018 Nel Consiglio dei Ministri di ieri non era all’ordine del giorno: ultima data utile il 13 marzo. L’approvazione definitiva di una parte consistente della riforma dell’ordinamento penitenziario è oramai sul filo del rasoio. Ieri il Consiglio dei Ministri, a sorpresa, si è riunito ma non ha affrontato i decreti delegati. Potrebbe farlo o in una eventuale riunione di oggi oppure, il 13 marzo che rappresenterebbe l’ultima e improrogabile data utile. Secondo alcune indiscrezioni, la riunione si sarebbe dovuta fare oggi per esaminare almeno l’unico decreto che era già stato licenziato in via preliminare e già sottoposto alle commissioni giustizia di entrambe le camere. Parliamo di quello approvato preliminarmente il 22 dicembre scorso riguardante in particolar modo le misure alternative, l’assistenza sanitaria e la modifica del 4 bis. Se oggi non dovesse riunirsi, come vociferato, nuovamente il Consiglio dei ministri per varare il decreto principale, le speranze oramai rischierebbero di essere vane. Per capire bene il perché, bisogna far fede al comma 83 della legge delega che delinea i tempi e il procedimento per l’attuazione della riforma. Quanto ai termini, al livello teorico, la disposizione prevede che tale delega debba essere esercitata entro un anno dall’entrata in vigore della stessa legge e dunque entro il 3 agosto 2018. Ma il 23 marzo si insedierà un altro Parlamento e quindi è lecito pensare che la riforma non trovi nessuna luce, così come è accaduto per altre leggi delega del passato. Quanto al procedimento per l’attuazione della delega, gli schemi di decreto legislativo devono essere trasmessi alle competenti commissioni parlamentari per il parere, da rendere entro 45 giorni, decorsi i quali i decreti potranno essere comunque adottati. Si tratta del caso dei decreti già esaminati e che superato questo passaggio. La legge delega poi prevede che se il governo non intenda conformarsi ai pareri parlamentari, dovrà trasmettere nuovamente gli schemi alle Camere con i necessari elementi informativi e le motivazioni delle scelte legislative. La Commissioni dovranno poi esprimersi nei successivi 10 giorni. Decorso tale termine, i pareri potranno comunque essere adottati. Ecco perché quella parte della riforma che è sul filo del rasoio. Sono i 10 giorni che fanno la differenza. Se oggi il consiglio dei ministri non dovesse esaminare il decreto, in teoria se ne riparlerebbe la prossima settimana. Ma entro il 13 marzo, perché basterebbe un giorno in più è il decimo giorno scade esattamente quando si è già insediato il nuovo Parlamento. Al livello teorico, ci sarebbe ancora un margine di circa cinque giorni dall’insediamento della nuova legislatura e il Consiglio dei ministri attualmente in carica potrebbe avere una remota possibilità per dare l’ok definitivo. Però si entra nel campo dell’improbabilità. In tutto questo, secondo alcune fonti interne attendibili, lo scenario potrebbe apparire ancora più fosco: l’ufficio legislativo del ministero della Giustizia ancora non avrebbe pronte le risposte alle osservazioni poste dalle commissioni giustizia. Quindi, se confermato, ciò spiegherebbe perché il Consiglio dei ministri ancora non si è riunito per visionare il decreto principale della riforma. L’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini, da almeno due anni in prima fila per chiedere la più rapida approvazione della riforma, alla notizia di ieri, ha esclamato pubblicamente: “Buoni a niente, capaci di tutto!”. Raggiunta da Il Dubbio, la Bernardini ci spiega l’origine di questa esclamazione: “Marco Pannella definiva i responsabili del centrodestra come “capaci di tutto”, mentre quelli del centrosinistra li apostrofava come “buoni a niente”. Oggi, in quest’ultimo scorcio di mesi del governo Gentiloni, credo che occorra tornare alla versione originale di Leo Longanesi che i “buoni a niente” li riteneva contemporaneamente “capaci di tutto”“. Prosegue sempre l’esponente del Partito Radicale: “Anche ieri, infatti - dopo tutti gli impegni presi pubblicamente - il Consiglio dei ministri ha depennato dall’ordine dei lavori l’ordinamento penitenziario e, per l’esattezza, l’unico decreto legislativo “maturo”, cioè quello riguardante le misure alternative alla detenzione e la modifica del 4bis”. Perché allora buoni a nulla e capaci di tutto? “Perché spiega l’esponente del Partito radicale - non riescono a fare quello che pubblicamente affermano di voler fare; ma capaci di tutto perché dimostrano di credere che in democrazia sia facoltativo uniformarsi o meno alla Costituzione e che quindi la dignità umana dei reclusi possa continuare ad essere calpestata, così come la loro risocializzazione essere cancellata anche come speranza futura. Firmare l’appello al governo pubblicato sul sito giurisprudenzapenale.it - conclude Rita Bernardini - lo ritengo indispensabile perché è “civile” insistere fino all’ultimo istante utile nella direzione della legalità costituzionale, togliendo ogni alibi a coloro che fino ad oggi sono stati incapaci di dar seguito alla parola data”. L’esponente del Partito Radicale si riferisce alla rivista on line giurisprudenzapenale.com che ha pubblicato il testo dell’appello sottoscritto da diverse associazioni in rappresentanza dei mondi dell’università, dell’avvocatura, della magistratura e del volontariato, nonché da autorevoli giuristi e da personalità della società civile. Tra i firmatari, figurano l’Unione camere penali italiane, il Consiglio nazionale forense, Magistratura democratica, Antigone, nonché personalità come Edmondo Bruti Liberati, Giovanni Fiandaca, Carlo Federico Grosso, Tomaso Montanari, Valerio Onida, Armando Spataro, Vladimiro Zagrebelsky. L’appello, indirizzato al Governo, auspica l’approvazione definitiva della riforma penitenziaria, onde evitare una definitiva battuta d’arresto per via della fine della legislatura. La rivista on line dà la possibilità a tutti i cittadini di poterlo sottoscrivere e già sono state aggiunte diverse decine di persone comuni. Digiuno nazionale contro l’ergastolo, venerdì 30 marzo 2018 di Carmelo Musumeci agoravox.it, 9 marzo 2018 L’associazione Liberarsi ha organizzato il secondo giorno di digiuno nazionale, venerdì 30 marzo 2018, contro la pena dell’ergastolo. Ci rivolgiamo a tutte le comunità cristiane d’Italia e a tutti i credenti nelle varie religioni e a coloro che pur non credenti operano per il rispetto dell’umanità. Vi chiediamo di prendere posizione contro l’ergastolo: venerdì 30 marzo 2018 è una giornata particolare per molti cristiani, ma non ci rivolgiamo solo a loro. Vogliamo sentire vicini a noi anche i cristiani ortodossi, che celebreranno la passione e morte di Cristo una settimana dopo, vogliamo sentire accanto a noi anche gli ebrei, i mussulmani, gli induisti, i buddhisti, gli atei. Sappiate che siamo 1.677 persone attualmente condannate all’ergastolo in Italia, alcuni nell’isolamento delle sezioni a 41 bis, altri nelle sezioni ad alta sicurezza, altri ancora nel sovraffollamento delle celle comuni. Con noi migliaia di detenuti e detenute, migliaia di nostri familiari e di volontari, venerdì 30 marzo 2018, digiuneranno per la vita, perché il nostro nuovo Parlamento si pronunci contro l’ergastolo che ci condanna fino alla morte perché per legge siamo cattivi e colpevoli per sempre. Siamo né morti né vivi. Siamo uomini ombra (così si chiamano gli ergastolani fra loro) prigionieri dell’Assassino dei Sogni (così i prigionieri chiamano il carcere) condannati alla “Pena di Morte Viva” (così è chiamata da noi la pena dell’ergastolo). Per molti di noi non c’è più nessuna speranza, nessun futuro e nessuna compassione. Non c’è più nulla. Solo il dolore, perché il tempo passa e non abbiamo nulla da aspettare. Siamo destinati per tutta la vita a stare nell’ombra e a morire di vecchiaia murati vivi nelle nostre celle. Nel medioevo ti ammazzavano, ti cavavano gli occhi, ti tagliavano un braccio, ma il dolore non durava per sempre. Ora, invece, l’ergastolo è nello stesso tempo una pena di morte, una tortura e un dolore all’infinito. Un vero e proprio incubo a occhi aperti, da cui non è possibile svegliarsi. Sembra che gli uomini ergastolani siano umani azzerati, non più figli di Dio, ma figli della malvagità degli uomini. E, condannati ad essere cattivi e colpevoli per sempre, molti di noi vivono ormai una vita vegetativa, senza volontà, né desideri, né sogni. Per questo vi chiediamo di partecipare venerdì 30 marzo 2018, (venerdì santo) alla giornata di digiuno nazionale per l’abolizione dell’ergastolo in Italia! Potrete aderire nel sito liberarsi.net. Corte costituzionale, eletto Lattanzi. Sfuma la prima presidenza “in rosa” di Sara Menafra Il Messaggero, 9 marzo 2018 La coincidenza con la giornata internazionale delle donne, la citazione nel video dedicato alle donne costituenti al Quirinale proprio in mattinata. Erano tanti i segnali che avevano fatto pensare che per la prima volta il palazzo della Consulta avrebbe scelto di farsi guidare da una donna, Marta Cartabia, in pole position fino all’ultimo. E invece, la votazione ha premiato all’unanimità Giorgio Lattanzi (ma la cerimonia dei supremi giudici prevede una lunga tessitura prima del voto vero e proprio), giurista esperto di diritto e procedura penale, presidente di sezione in Cassazione fino al 2010, quando è stato eletto giudice della Consulta. Dodici i voti a suo favore, visto che al momento il collegio è sotto di un’unità e che Giuliano Amato - che peraltro caldeggiava l’elezione di Marta Cartabia - era impegnato all’estero. Cartabia è stata invece nominata vice presidente insieme a Mario Morelli e Aldo Carosi. Lattanzi, che ha 79 anni, resterà in carica un anno e 9 mesi, quando terminerà il mandato come giudice della Consulta. Una scelta, quella del suo nome, che si pone in continuità con la tradizione di nominare il giudice più anziano tra i presenti (Cartabia, più giovane anagraficamente, è anche entrata a palazzo dopo di lui) e contrasta dunque l’idea degli “innovatori” che avrebbero preferito una presidenza non solo rosa ma anche lunga, visto che Cartabia sarebbe rimasta in carica per circa tre anni. Ieri mattina, davanti al presidente della Repubblica ha giurato un nuovo giudice, scelto proprio da Mattarella con l’obiettivo di rafforzare la presenza di “penalisti”: Francesco Viganò, docente alla Bocconi di Diritto penale. Con lui il collegio è salito a 14 componenti, ma resta sempre sotto di un’unità, visto che il Parlamento dopo oltre un anno non è ancora riuscito a indicare un giudice in sostituzione del penalista Giuseppe Frigo, che si dimise il 7 novembre 2016 e l’impressione è che l’attesa sarà ancora lunga. L’altro giudice entrato di recente alla Corte è Giovanni Amoroso, già presidente della sezione Lavoro e componente delle Sezioni Unite civili della Cassazione, eletto dai colleghi della Suprema corte nell’ottobre scorso in sostituzione del giudice Alessandro Criscuolo. Lattanzi guiderà la Consulta nella scelta di temi eticamente importanti. Fra tutte: il “suicidio assistito” di dj Fabo e dunque le accuse all’esponente radicale Marco Cappato, oltre alla legittimità della legge Merlin, sollevata dal tribunale di Bari e al dubbio sulla legittimità del cosiddetto “riclassamento” delle rendite catastali da parte dell’agenzia delle entrate. Forse proprio la presenza di casi delicati sul piano etico e morale hanno indotto i giudici a scegliere un profilo più “laico” di quello di Cartabia, da sempre vicina al mondo cattolico, autrice di un libro sui discorsi di Benedetto XVI. Più laico Lattanzi, che ha un passato anche da capo degli Affari penali del ministero della giustizia e di membro della corrente dei Movimenti per la giustizia, i cosiddetti “verdi” ai quali apparteneva anche Giovanni Falcone. Il patto firmato da 14 città: “più Centri contro la violenza di genere e case rifugio” di Alessia Rastelli Corriere della Sera, 9 marzo 2018 Quattordici città italiane unite attorno a undici punti programmatici. E stato lanciato ieri a Milano dal sindaco Giuseppe Sala, promotore e primo firmatario, il “Patto dei Comuni per la parità e contro la violenza di genere”. La presentazione si è svolta alla fiera dell’editoria Tempo di Libri, che ha dedicato la sua prima giornata, l’8 marzo, proprio alle donne. “Lo scorso dicembre - ha spiegato Sala - ho invitato sindache e sindaci di alcune città a condividere un impegno concreto in vista dell’8 marzo e del 25 novembre, giornata mondiale contro la violenza sulle donne: due momenti in cui riaffermare la necessità di azioni ancora più incisive per la parità di genere e contro ogni violenza, fisica e psicologica. Anche grazie alla collaborazione dell’Associazione nazionale comuni italiani (And), ora lanciamo il Patto, per aprirlo alla partecipazione di tutti i comuni d’Italia”. “Questi ultimi - ha aggiunto Daria Colombo, delegata alle Pari opportunità del Comune di Milano - sono i presidi istituzionali più vicini ai cittadini e possono fare la differenza nella vita delle persone”. Tra i punti sottoscritti c’è l’impegno a promuovere, favorire e sostenere i centri antiviolenza e le case rifugio. Così come a fare un ampio lavoro culturale, che coinvolga anche gli uomini in campagne di comunicazione, convegni, formazione e manifestazioni. Lo stesso sindaco Sala ha espresso la sua “promessa personale”, della sua giunta e dei cittadini milanesi: “Siamo con le donne”. Il documento abbraccia infatti, oltre al sostegno all’emancipazione femminile, anche l’idea di una società più equa che offra a tutti, indipendentemente dal genere, di sviluppare talenti e potenzialità, lontano da pregiudizi e stereotipi. Previsti anche, annualmente, momenti di verifica con i cittadini su quanto realizzato. Insieme con Milano hanno aderito al Patto i Comuni di Varese e Padova e le città metropolitane di Torino, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Reggio Calabria, Messina, Palermo, Catania e Cagliari. “La giustizia militare non va soppressa. Anzi...” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 marzo 2018 La relazione del Presidente vicario della Corte Militare di Appello, Gioacchino Tornatore. Il sistema ha le sue carceri, la sua amministrazione penitenziaria, i suoi tribunali, magistrati e consiglio superiore della magistratura annesso. ad occuparsi di tutta l’organizzazione non è però il ministro della giustizia, ma quello della difesa. È successo che un maresciallo dell’Esercito è stato citato in giudizio con l’accusa di aver piazzato delle microcamere nascoste in due spogliatoi di una palazzina adibita al personale militare femminile e di averne piazzate un paio anche nei singoli alloggi delle soldatesse. Come se non bastasse, il maresciallo è accusato anche di aver sottratto dagli alloggi di tre soldatesse - nei quali si introduceva clandestinamente - la loro biancheria. Ora dovrà presentarsi davanti ai giudici. Ma a giudicarlo non sarà un tribunale ordinario, ma quello militare. Sì, perché esiste una giustizia e un sistema penitenziario parallelo. Ha le sue carceri, la sua amministrazione penitenziaria, i suoi tribunali, magistrati e Consiglio superiore della magistratura annesso. Ad occuparsi di tutta l’organizzazione non è però il ministro della Giustizia, ma quello della Difesa. Parliamo della giustizia militare in tempo di pace che da molti anni attende di essere riformata. I corpi militari hanno un loro organo di autocontrollo, il Consiglio della magistratura militare (Cmm) - equivalente del Consiglio superiore della magistratura (Csm). Il Cmm. è, infatti, competente a deliberare su ogni provvedimento di stato riguardante i magistrati militari e su ogni altra materia ad esso devoluta dalla legge. In particolare, delibera sulle assunzioni della Magistratura Militare, sull’assegnazione di sedi e di funzioni, sui trasferimenti, sulle promozioni, sulle sanzioni disciplinari, sul conferimento ai magistrati militari di incarichi extragiudiziari; esprime pareri e può fare proposte al ministro della Difesa sulle circoscrizioni giudiziarie militari e su tutte le materie riguardanti l’organizzazione o il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia militare; dà pareri su disegni di legge concernenti i problemi del settore giudiziario. Sulle materie di competenza del Consiglio, il ministro della Difesa può avanzare proposte e osservazioni e può intervenire alle adunanze del Consiglio, quando ne è richiesto dal Presidente o quando lo ritenga opportuno, per fare comunicazioni o per dare chiarimenti. Il ministro, tuttavia, non può essere presente alle deliberazioni. Fanno parte del Consiglio - che dura in carica 4 anni - il primo presidente della Corte di Cassazione, che lo presiede; il procuratore generale militare presso la Corte di Cassazione; quattro componenti eletti dai magistrati militari - di cui almeno uno magistrato militare di Cassazione - un componente estraneo alla magistratura militare, scelto d’intesa tra i Presidenti delle due Camere fra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati con almeno quindici anni di esercizio professionale, che assume le funzioni di Vice Presidente. Durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario, il presidente vicario della Corte Militare di Appello Gioacchino Tornatore ha presentato una relazione affrontando il delicato tema della eventuale soppressione dell’Organo di giustizia militare per esiguità dei procedimenti. Ha colto l’occasione per lanciare un appello al futuro governo affinché alla magistratura militare sia affidata una giurisdizione più ampia. In molti casi si tratta di fattispecie di reato già note da tempo nel mondo delle divise, in molti casi invece sono illeciti nuovi: è il caso delle diffamazioni sui social, o degli insulti sessisti nei confronti delle donne militari in un ambiente ancora a forte presenza maschilista. In molti casi si sono conclusi con condanne, in altri i procedimenti sono ancora pendenti. I dati statistici sull’operato dei tribunali militari risultano talmente insignificanti che se venissero valutati secondo i parametri del ministero della Giustizia, i conti salterebbero. Sì, perché secondo il ministero della Giustizia si calcola che ogni tribunale debba coprire un bacino di utenza di 382.191 cittadini: la giustizia militare invece può contare su tre tribunali, a Verona, Roma, Napoli, e giudica su un totale di 310mila persone. Molti infatti sostengono che sia meglio accorpare i magistrati militari nella magistratura ordinaria costituendo magari delle apposite sezioni specializzate. Il dottor Tornatore su questo punto però non è d’accordo e lancia un appello al futuro governo. “Nell’ultimo scorcio di legislatura - ha affermato - si è registrata un’attenzione verso la magistratura militare pressoché univocamente diretta a prevedere la soppressione di tale ordine giudiziario speciale, con conseguente attribuzione della sfera di attuale competenza riservata allo stesso alla magistratura ordinaria, in un’ottica di unità della giurisdizione e con l’eventuale creazione di sezioni specializzate per materia che possano continuare a occuparsi dei reati attualmente riservati alla competenza dei Tribunali militari”. Tornatore si dice contrario e trova la soluzione, ovvero “che si dia e restituisca ai giudici militari competenze giurisdizionali di cui oggi si occupa la magistratura ordinaria “. Il dibattito sulla soppressione o no, è ancora aperto L’Ordine del Tribunale a giornali e siti: sentire l’altra campana di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 9 marzo 2018 Per la prima volta il Tribunale di Milano ha ammesso di far pubblicare un aggiornamento della notizia lamentata da qualcuno come lesiva. Sequestrare in sede cautelare una testata giornalistica o inibire un articolo, mai e poi mai. Ma per la prima volta il Tribunale civile di Milano - con una ordinanza firmata dal suo presidente Roberto Bichi con la relatrice Martina Flamini e la giudice Loretta Dorigo, e in parziale scostamento dalle Sezioni Unite di Cassazione penali del 2015 e civili del 2016 - ammette che il giudice civile, come ricorso d’urgenza (art. 700 c.p.c.), possa arrivare a ordinare a un giornale o a un sito online “un “aggiornamento” della notizia” lamentata da qualcuno come lesiva: in modo che, a quanti chiedono una rettifica non pubblicata, subito sia “garantito il diritto di far conoscere al lettore la “loro verità”, informandolo dell’esistenza di elementi ulteriori e contrastanti, di “voci contrarie”, della “verità soggettiva” della persona, di successivi sviluppi d’indagine”. Un avvocato, citato da “l’Espresso” nei “Panama Papers”, aveva fatto reclamo contro il no della I sezione civile a una tutela cautelare rispetto all’articolo asserito diffamatorio: e ora il collegio apre alla possibilità di imporre subito alle testate “rimedi di tipo integrativo e correttivo, che, peraltro, svolgono un ruolo di promozione del pluralismo (art. 21 Costituzione)”. E ciò per una ragione: perché “il carattere pervasivo e diffusivo” dell’online, “e la sua idoneità a causare danni potenzialmente irreparabili”, di fatto “precludono la tutela effettiva di un diritto fondamentale” se la si rimandasse solo alla fase di merito nella quale i danni potrebbero essersi ormai “consolidati irreversibilmente”. Da qui l’opzione per un intervento già anche cautelare. Che, nel caso di specie, il Tribunale non adotta perché, nel frattempo, già il settimanale ha spontaneamente scelto di inserire un link con le precisazioni dell’interessato. Dell’Utri resta in cella: respinta l’istanza di revisione di Valentina Stella Il Dubbio, 9 marzo 2018 Lo ha deciso la seconda sezione della Corte d’Appello di Caltanissetta. La seconda sezione della Corte d’Appello di Caltanissetta ha rigettato ieri, dopo 4 ore di camera di consiglio, la richiesta di revisione, presentata dagli avvocati Francesco Centonze e Tullio Padovani, per l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, condannato a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa con sentenza ormai definitiva. Respinta di conseguenza anche la richiesta di sospensione dell’esecuzione della pena avanzata dalla stessa procura generale di Caltanissetta. A caldo abbiamo raccolto il commento della moglie di Dell’Utri, la signora Miranda Ratti: “Purtroppo quando le persone sono prevenute non ci si può aspettare nulla di buono. Questo provvedimento rappresenta una nota dolente per tutta la giustizia italiana”. La decisione, inizialmente fissata per il 18 gennaio, era stata rinviata perché, a sorpresa, la Corte si era vista sollevare un conflitto di competenza su input della Procura Generale di Palermo dopo l’istanza di incidente di esecuzione chiesto dai legali di dell’Utri alla Corte d’Appello del capoluogo siciliano. L’incidente di esecuzione nel frattempo però è stato respinto per le gravi condizioni di salute in cui versa l’ex senatore, che deve scontare ancora un altro anno e mezzo di reclusione e che nelle scorse settimane è stato posto in detenzione ospedaliera a Roma, presso il Campus Bio Medico piantonato giorno e notte, per l’aggravarsi del suo tumore. Tutta la vicenda ha origine dalla sentenza della Cedu che tre anni fa condannò l’Italia per avere processato ingiustamente l’ex numero due del Sisde Bruno Contrada, condannato, come Dell’Utri, per concorso in associazione mafiosa. Il caso dell’ex numero due del Sisde e quello di Dell’Utri, anche lui ritenuto colpevole per fatti commessi prima del 1992, presentano dunque importanti somiglianze, tali da aver spinto i legali dell’ex senatore a rivolgersi alla Cedu, che non si è ancora pronunciata, e contemporaneamente a provare anche la strada dell’incidente di esecuzione davanti alla Corte d’Appello di Palermo. I giudici del capoluogo, però, avevano rigettato il ricorso. Gli avvocati si sono rivolti pertanto alla Suprema Corte che, pur non accogliendo l’istanza ritenendo che la sentenza Contrada non potesse essere direttamente estesa e applicabile a dell’Utri, “indicarono” la strada della revisione come l’unica percorribile. A quel punto la difesa dell’ex senatore ha presentato istanza di revisione davanti alla Corte d’Appello di Caltanissetta, ieri respinta. Per questo arriva un duro commento dai legali Centonze e Padovani, che abbiamo ascoltato a margine della decisione: “Siamo costretti a constatare che la sentenza della Cedu non ha valore per Marcello Dell’Utri. Eppure è chiaro che la sentenza Contrada esprime un principio di natura oggettiva, ovvero la non conformità del reato di concorso esterno in associazione mafiosa con il principio di legalità convenzionale e costituzionale, in quanto l’interpretazione giurisprudenziale di quel tipo di condotta all’epoca dei fatti contestati a Dell’Utri non era prevedibile. Al momento le uniche strade percorribili sono due: l’istanza alla Cedu già presentata e in attesa di essere decisa e l’impugnazione in Cassazione avverso la decisione della Corte di Appello di Caltanissetta. Il problema è che in entrambi i casi i tempi della decisione saranno molto lunghi”. Prevenzione antimafia con misure più tassative di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 9 marzo 2018 Corte di cassazione - Relazione 15/2018. Le ultime modifiche al Codice antimafia vanno nel segno di una maggiore precisione e prevedibilità. Lo sottolinea al Corte di cassazione, con la relazione n. 15 del 2018, dedicata alla materia in una chiave di attenzione particolare alla disciplina comunitaria. La Corte così, nell’ambito di un ampio approfondimento sulla più recente giurisprudenza su un tema assai delicato, fa anche il punto sulle ultime novità normative che hanno interessato la categoria della pericolosità sociale. Due gli interventi, in particolare, entrambi accomunati da una costruzione più tassativa del sistema della prevenzione. Innanzitutto l’articolo 15 del decreto legge 15 del 2017, con il quale il legislatore è intervento nella determinazione degli elementi di fatto da considerare nel giudizio di prevenzione, facendo riferimento a precisi comportamenti come le ripetute violazioni del foglio di via obbligatorio e dei divieti di frequentazione di determinati luoghi. Sono poi state estese, con le modifiche al Codice antimafia introdotte dalla legge 161 del 2017, le categorie di pericolosità qualificata, prevedendo che vi possano essere comprese anche gli indiziati di associazione a delinquere finalizzata alla commissione di una serie di reati contro la pubblica amministrazione, dal peculato alla corruzione, alla concussione, alla malversazione. Introduzione che è stata oggetto di contestazioni, ammette la Corte, soprattutto per i possibili risvolti negativi sul sistema economico per l’ampliamento della platea dei destinatari. E tuttavia, tra le prime interpretazioni da parte della dottrina, si segnala che l’intervento legislativo è in linea con le censure mosse dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. La nuova disciplina infatti delineando con precisione le condotte da reato rilevanti, rende assolutamente prevedibile l’applicazione di misure di prevenzione nei confronti dei consociati. Aspetti problematici restano però sul versante degli indiziati dei reati di violenza sportiva e atti persecutori, per la difficile identificazione di un collegamento tra il bene o i patrimoni oggetto della misura di sequestro o confisca e la specifica tipologia del delitto. Maltrattamenti, ricalcolo soft. Pena alleggerita per il condannato in più processi di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 9 marzo 2018 La Corte costituzionale ha salvato l’articolo 671 del codice di procedura penale. Ricalcolo della pena più favorevole al condannato in più processi per reiterati maltrattamenti in famiglia. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 53, depositata l’8 marzo 2018, ha salvato l’articolo 671 del codice di procedura penale. La norma non ha lacune, dice la Consulta, e si applica anche nel caso di pluralità di condanne intervenute per il medesimo reato permanente in relazione a distinte frazioni della condotta. Questo significa che il giudice ha il potere di rideterminare una pena unica, che tenga conto dell’intero fatto storico accertato nelle plurime sentenze irrevocabili, e anche di concedere o revocare la sospensione condizionale. Nel caso che ha dato l’avvio alla vicenda arrivata alla Consulta, una persona è stata condannata più volte, per periodi diversi, per il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare, aggravata dall’aver fatto mancare i mezzi di sussistenza ai fi gli minori. Siamo di fronte a un reato che in termini tecnici si chiama permanente, per il quale sono intervenute condanne per frazioni di condotta. Si può applicare l’articolo 671 del codice di procedura penale e, in particolare, si può applicare l’istituto della continuazione, che porta a un calcolo della pena più favorevole al condannato? Secondo il giudice che ha sollevato la questione di incostituzionalità, la strada alla continuazione è sbarrata, perché l’istituto della continuazione richiede una pluralità di reati distinti, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso; mentre nel caso concreto non avremmo più reati distinti, ma un unico reato permanente, giudicato a rate. Diversa l’opinione della Consulta. Di fronte a condanne relative a frazioni di tempo del medesimo reato si è verificata l’interruzione della permanenza e i reati sono, quindi, distinti. Questo vale ai danni del reo, che può subire più processi senza violazione del divieto di giudicare due volte per lo stesso fatto; ma vale anche per la possibilità di applicare, in sede di esecuzione della pena, un ricalcolo più leggero della pena, come conseguenza dell’applicazione dell’istituto della continuazione. Con questa regola si calcola in modo unitario la pena per tutti i fatti di reato, come se le frazioni dello stesso fossero state giudicato in unico processo. Contrariamente a quanto dubitato dal giudice di merito, l’articolo 671 del codice di procedura penale si applica anche all’ipotesi di pluralità di condanne intervenute per il medesimo reato permanente, in relazione a distinte frazioni della condotta e, quindi, non c’è nessuna incostituzionalità. Tentato abuso d’ufficio per chi si fa aiutare all’esame di abilitazione da avvocato di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 9 marzo 2018 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 8 marzo 2018 n. 10567. Concorre come “estraneo” nel reato di tentato abuso di ufficio l’aspirante legale che si fa passare le tracce scritte per l’esame di abilitazione professionale, grazie all’aiuto di pubblici ufficiali. Il reato scatta anche se l’obiettivo viene mancato, non per desistenza volontaria, ma perché il candidato viene bocciato. La Corte di cassazione, con la sentenza 10567, respinge il ricorso della candidata che aveva deciso di farsi dare un “aiutino” da una cancelliera presso il tribunale di sorveglianza che, nello specifico, doveva vigilare sul corretto svolgimento della prova e dalla sorella di quest’ultima. Alla ricorrente era stato consegnato il “compito” già fatto nei bagni della sede in cui si teneva la prova. Ma ad incastrarla erano state le intercettazioni delle telefonate tra la cancelliera-vigilante e l’aspirante legale. E proprio sull’inutilizzabilità delle intercettazioni si spende la difesa della ricorrente, ricordando che l’autorizzazione alle “registrazioni” era stata data per verificare l’ipotesi del reato di atti falsi, confezionati in favore di noti pregiudicati sempre dalla cancelliera con un altro indagato, oltre che per abuso di ufficio e rivelazione del segreto d’ufficio. Reati ai quali la ricorrente era certamente estranea. La tesi difensiva però non passa. La Suprema corte precisa, infatti, che le intercettazioni legittimamente autorizzate sono utilizzabili, se da queste emergono elementi di prove relativi da un reato totalmente svincolati da quello per il quale era stato dato il via libera. Né è utile ad escludere il reato il fatto che la candidata avesse tenuto il cellulare spento, perché il telefono doveva servire come estrema ratio nel caso “l’accordo di assistenza ad ampio spettro” non fosse stato sufficiente. La ricorrente è condannata anche alle spese del processo e non passa neppure l’esame, circostanza che poco c’entra con la desistenza volontaria affermata dalla difesa. Beni di interesse culturale, retroattiva l’esportazione più facile di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 9 marzo 2018 Corte di Cassazione - Sezione III - Sentenza 8 marzo 2018 n. 10468. La legge sulla concorrenza dell’agosto scorso che è intervenuta sul codice dei beni culturali ampliando la possibilità di esportare liberamente opere di autori non più in vita, ha modificato la struttura stessa del reato di “esportazione illecita di cose di interesse culturale”, e dunque si applica anche ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore. Il chiarimento arriva dalla Terza sezione penale della Corte di cassazione, sentenza 10468/2018, chiamata a giudicare sul ricorso proposto da un artista italiano condannato in primo e secondo grado per aver tentato di trasferire all’estero, senza la - all’epoca - prescritta autorizzazione, un quadro a firma del pittore Carlo Carrà, qualificata “opera di interesse artistico”. Peraltro la Cassazione dichiara subito che il reato è ormai prescritto. I giudici però si dilungano sulla recente riforma ricordando che la legge 4 agosto 2017 n. 124 ha modificato il Dlgs n. 42 del 2004, “nel senso che non è (più) soggetta ad autorizzazione l’uscita delle cose che presentino interesse culturale, che siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre settanta anni (non più cinquanta), il cui valore sia inferiore ad euro 13.500, e non siano (Allegato A, lettera B, numero 1) reperti archeologici, quelli derivanti dallo smembramento di monumenti, gli incunaboli e manoscritti, qualunque sia il valore”. In precedenza, invece, “tutte le opere di autore non più vivente, la cui esecuzione risaliva ad oltre cinquanta anni, che presentavano interesse culturale, non potevano uscire dal territorio della Repubblica senza attestato di libera circolazione, a prescindere dal loro valore”. “Normalmente, dunque - prosegue la decisione, tutte le cose che presentano interesse culturale e che rispettano i requisiti del novellato art. 65, comma 3, lett. b), Dlgs n. 42 del 2004 possono circolare liberamente ed uscire dal territorio della Repubblica, a meno che non presentino un interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico eccezionale per l’integrità e la completezza del patrimonio culturale della Nazione”. In tale eventualità la cosa, qualunque valore abbia, “deve essere dichiarata al competente ufficio di esportazione che potrebbe negare il rilascio dell’attestato della licenza”. Tornando al caso specifico, dunque, prosegue la Corte, ferma restando l’attribuzione a Carlo Carrà (che pure il ricorrente ha contestato) e la datazione ad oltre settanta anni prima del fatto, “potrebbero non essere necessari né l’attestazione di libera circolazione, né la licenza di esportazione”. Al momento del fatto il valore non venne accertato, ancorché sollecitato dal Nucleo di tutela del patrimonio artistico, in quanto non rilevante perché, comunque, l’esportazione del bene rendeva obbligatorio il rilascio dell’attestato di libera circolazione. Così stando le cose però la Cassazione non ha potuto procedere alla restituzione dell’opera, come richiesto dalla difesa, proprio in quanto manca sia la valutazione del valore che l’eventuale rilevanza eccezionale dell’interesse artistico. In questi casi infatti, conclude la sentenza, la confisca è obbligatoria. Sarà dunque il giudice dell’esecuzione, ove richiesto, a dover provvedere in merito. Torino: il Garante nazionale dei detenuti visita carcere delle Vallette Askanews, 9 marzo 2018 In particolare la sezione di salute mentale e quella di isolamento. Il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale ha condotto una visita alla Casa circondariale Lorusso e Cotugno (“Vallette”) di Torino. In particolare, il Garante nazionale ha visitato la sezione di articolazione di salute mentale denominata “sestante” e la sezione di isolamento denominata “filtro”. Una visita di follow-up, cioè che ha fatto seguito ad altre effettuate in passato, per “verificare lo stato di attuazione di precedenti raccomandazioni inviate alle autorità competenti”. Alla visita erano presenti il Presidente, Mauro Palma e la componente del Collegio del Garante, Emilia Rossi, insieme ad alcuni membri dell’ufficio del Garante. Il Garante nazionale redigerà un rapporto sulla visita, che invierà alle autorità interessate e che sarà successivamente pubblicato sul sito web garantenazionaleprivatiliberta.it. Sassari: i detenuti studiano e l’ateneo turritano riceve un premio di Gabriella Grimaldi La Nuova Sardegna, 9 marzo 2018 Il Miur ha trasferito 220mila euro per le attività didattiche Sono 35 gli iscritti ai corsi di laurea in quattro penitenziari. Da Roma arriva un fondo speciale (220mila euro) destinato alla didattica in carcere. Il ministero dell’Istruzione premia così l’università di Sassari, unico caso in Italia di attribuzione specifica, per l’attività all’avanguardia svolta da anni nei penitenziari del Nord Sardegna a beneficio degli studenti detenuti. Ci sono tante persone, infatti, che stanno scontando una pena e che hanno deciso di intraprendere un corso di studi a livello universitario. Una forma rilevante di riabilitazione sociale che viene promossa e incoraggiata nelle prigioni che hanno adottato un progetto sperimentale di questo tipo. Sono 35 - nel 2018 - gli iscritti a vari corsi di laurea che si trovano detenuti nelle carceri di Bancali (Sassari), Alghero, Tempio-Nuchis e Nuoro. Proprio per questo l’ateneo sassarese ha approvato lo scorso maggio un regolamento per l’istituzione e il funzionamento del Polo Universitario Penitenziario (che opera in collaborazione con l’Amministrazione penitenziaria e l’Ersu) e ora il ministero riconosce questa attività con un corposo finanziamento che andrà a implementare la didattica fra i detenuti-studenti. Il Pup Uniss è uno dei 17 poli italiani che coinvolgono complessivamente venti atenei. Poco meno della metà della popolazione carceraria italiana risiede in istituti penitenziari inseriti in un Polo Universitario Penitenziario. La rete dei Pup nazionali vede iscritti alle università italiane oltre 450 studenti nel 2017. “Tra le realtà nazionali, quella di Sassari è l’unica insulare e l’unica in cui una università eroga servizi didattici a studenti detenuti in quattro diversi istituti penitenziari - dichiara il delegato rettorale al Polo Universitario Penitenziario Emmanuele Farris, docente del Dipartimento di Chimica e Farmacia -. Sassari è la quarta realtà italiana sia per numero di iscritti (38 nel 2017, 35 nel 2018), sia per incidenza sulla popolazione carceraria locale: 4 per cento contro una media nazionale dell’1,9 per cento”. Gli studenti in regime di detenzione iscritti all’università di Sassari studiano in 14 corsi di laurea differenti, ripartiti nei dipartimenti di Agraria, Giurisprudenza, Scienze economiche e aziendali, Storia, scienze dell’uomo e della formazione, Scienze umanistiche e sociali. Alcuni di loro vantano un profitto talmente elevato, da risultare vincitori di borse di studio erogate da Ersu Sassari. Inoltre, il regolamento messo a punto nel 2017, considerato dall’ateneo molto inclusivo, oltre agli studenti in regime di detenzione comune, a quelli in alta sicurezza e addirittura ad alcuni in regime di 41bis (carcere duro), tutela anche tutte le persone con qualunque limitazione alla libertà personale (arresti domiciliari, libertà vigilata) e per tutta la durata del corso di studi, anche qualora fosse conclusa la pena. Infine, per meglio radicare la presenza nelle quattro carceri in cui opera, il Pup dell’ateneo turritano, dal 2017-18 è la prima realtà italiana ad avere istituzionalizzato un’attività di “terza missione” in carcere, in particolare con un ciclo seminariale annuale tematico, concepito con i detenuti e la direzione carceraria, avviato in via sperimentale nel carcere di Alghero sul tema della “Ruralità: criticità e opportunità”. Dall’estate 2017 è on line una pagina web dedicata www.uniss.it/polo-penitenziario che viene aggiornata continuamente. Milano: in carcere come narcos per 17 mesi. Ma il latitante intercettato non era lui di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 9 marzo 2018 Errore di persona. Serbo 48enne assolto e risarcito a Milano con 130 mila euro. Figlio del procuratore di Sarajevo: stesso nome ed età del trafficante, che però è croato. In carcere 17 mesi, e poi condannato in primo grado a 6 anni e 6 mesi, come trafficante di droga. Per un errore nell’identificazione di un intercettato, però: stessi nome e cognome e data di nascita, quelli sì, ma da subito si sarebbe potuto vedere che il passaporto dell’ignaro arrestato era serbo, quello del latitante (vero) narcos risultava invece croato, e faceva riferimento a un differente numero identificativo allorché era stato usato per attivare i telefoni cellulari le cui intercettazioni avevano poi costituito l’unica prova a carico. Per questo un serbo di 48 anni - incidentalmente figlio dell’ex procuratore della Repubblica di Sarajevo e sposato con la figlia di un ex primo ministro -, che il 25 novembre 2012 alla frontiera con la Slovenia aveva “scoperto” di essere latitante per la giustizia italiana, ed era stato perciò prima catturato in esecuzione di un mandato di arresto europeo e poi estradato in Italia, ora si è visto riconoscere dalla Corte d’appello di Milano 130.000 euro, indennizzo stimato equo dai giudici Ichino-Brat-Curami (anziché i 300.000 chiesti dalla difesa) per l’”ingiusta detenzione” di oltre 1 anno e 5 mesi tra dicembre 2012 e aprile 2013. Nell’estate 2012 il gip di Bari, in un’indagine della GdF, emette una serie di misure cautelari chieste dai pm di Bari per grossi trafficanti internazionali di hashish, ma nel contempo si ritiene territorialmente incompetente e trasmette il fascicolo a Milano, dove tocca dunque a un altro gip dover rinnovare di corsa gli arresti: i cui motivi, nel caso di tal Ivan Bozovic (rimasto latitante), poggiavano “esclusivamente su intercettazioni” di una persona identificata “attraverso il monitoraggio di due cellulari”, attivati da una persona che aveva presentato un passaporto intestato a un Ivan Bozovic nato in Croazia il 28 dicembre 1970. Quando il Bozovic in carne e ossa (che invece è serbo e ha un passaporto diverso non solo per nazione ma anche per numero identificativo) viene arrestato in Slovenia ed estradato a Gorizia, qui la corposa ordinanza d’arresto non gli viene tradotta nella sua lingua, e nell’interrogatorio di garanzia gli viene in qualche modo riassunta da un interprete non serbo ma croato. Nel corso della custodia cautelare prova a spiegare di essere venuto in Italia come commerciante, di non conoscere alcuno dei coindagati, di non essere mai stato latitante per la semplice ragione che nessuno l’aveva mai cercato nel suo domicilio serbo. Chiede la scarcerazione tre volte, gli viene negata due volte dal Tribunale del riesame e una volta dal giudice che in rito abbreviato lo condanna a 6 anni e 6 mesi. Lo salva solo la III Corte d’appello milanese (presidente Gamacchio) che, esaminando l’ennesimo ricorso del suo difensore Ivano Chiesa, nel 2014 lo assolve perché prende atto non soltanto che il narcos con il nome e la data di nascita di Bozovic aveva usato un passaporto della Croazia, mentre il passaporto dell’imputato era della Serbia e aveva un altro numero; ma anche che “negli atti processuali erano mancanti quei documenti (una lista passeggeri del volo Belgrado-Malpensa del 21 aprile 2008 e il noleggio di un’auto poi prestata a un complice) pur indicati nell’informativa di polizia giudiziaria” quali “riscontri della sua esatta identificazione”. Terni: non vuole straniero in cella, detenuto da fuoco alle suppellettili di Valentino Clementoni ternioggi.it, 9 marzo 2018 Si è sfiorata la tragedia, ieri, nel carcere di Terni. “Colpa e conseguenza della protesta sconsiderata e incomprensibile di un detenuto italiano, che non voleva venisse messo nella sua cella un detenuto nordafricano e per questo ha appiccato un incendio nella cella dov’era ristretto, dando fuoco a tutto quello che vi era all’interno”, spiega Fabrizio Bonino, segretario nazionale per l’Umbria del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo della Categoria. “Sono stati momenti di grande tensione e pericolo, gestiti però con grande coraggio e professionalità dai poliziotti penitenziari. Poteva essere una tragedia, sventata dal tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari di servizio nel Reparto e dal successivo impiego degli altri poliziotti penitenziari in servizio nel carcere”. Bonino aggiunge che “Il tutto è accaduto presso il Padiglione Media Sicurezza del carcere ternano. Il responsabile è un detenuto italiano di 33 anni, che già nel passato si è reso responsabile di gravi fatti che hanno alterato l’ordine e la sicurezza interna. È sotto gli occhi di tutti che servono urgenti provvedimenti per frenare la spirale di tensione e violenza che ogni giorno coinvolge, loro malgrado, appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria nelle carceri italiane e di quelle umbre in particolare”. Donato Capece, segretario generale del Sappe, sottolinea le difficoltà operative della Polizia Penitenziaria in servizio nella Regione Umbria: “La situazione nelle carceri dell’Umbria, dove oggi sono detenute circa 1.400 persone è sempre tesa ed allarmante”, denuncia. “I numeri riferiti agli eventi critici avvenuti nelle celle delle carceri umbre nell’intero anno 2017 sono inquietanti: 272 atti di autolesionismo, 19 tentati suicidi, 190 colluttazioni e 33 ferimenti. Due sono state le morti in carcere, per suicidio in cella. Le evasioni sono state 7 a seguito della concessione di permesso premio o licenza ad internati. E la cosa grave è che questi numeri si sono concretizzati proprio quando sempre più carceri hanno introdotto la vigilanza dinamica ed il regime penitenziario ‘aperto’, ossia con i detenuti più ore al giorno liberi di girare per le Sezioni detentive con controlli sporadici ed occasionali della Polizia Penitenziaria”. Il Sappe sottolinea che “è proprio nel carcere di Terni che si è contato il più alto numero di atti di autolesionismo, 132 - seguito da Perugia Capanne (91) e Spoleto (43) - e di tentati suicidi, 13, sventati in tempo dagli uomini della Polizia Penitenziaria: a seguire Perugia con 4 casi. Quello di Terni è anche è il penitenziario che ha anche il record regionale di colluttazioni (85) e ferimenti (14), stesso numero di Spoleto”. Per il primo Sindacato della Polizia Penitenziaria “lasciare le celle aperte più di 8 ore al giorno senza far fare nulla ai detenuti - lavorare, studiare, essere impegnati in una qualsiasi attività - è controproducente perché lascia i detenuti nell’apatia: non riconoscerlo vuol dire essere demagoghi ed ipocriti”. E la proposta è proprio quella di “sospendere la vigilanza dinamica”: sono infatti state smantellate le politiche di sicurezza delle carceri preferendo una vigilanza dinamica e il regime penitenziario aperto, con detenuti fuori dalle celle per almeno 8 ore al giorno con controlli sporadici e occasionali, con detenuti di 25 anni che incomprensibilmente continuano a stare ristretti in carceri minorili”. Capece torna a sottolineare l’alto dato di affollamento delle prigioni italiane: “oggi abbiamo in cella 58.163 detenuti per circa 45mila posti letto: 55.761 sono gli uomini, 2.402 le donne. Gli stranieri sono il 35% dei ristretti, ossia 19.765. Mancano Agenti di Polizia Penitenziaria e se non accadono più tragedie più tragedie di quel che già avvengono è solamente grazie agli eroici poliziotti penitenziari, a cui va il nostro ringraziamento. Un esempio su tutti: negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 18mila tentati suicidi ed impedito che quasi 133mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze”. Ferrara: gli infermieri del carcere “siamo pochi e i turni non sono adeguati” estense.com, 9 marzo 2018 La Fials ha incontrato gli operatori che svolgono la loro attività di assistenza penitenziaria. Rilanciate le richieste all’Ausl. Il sindacato Fials, in carcere, ha incontrato gli infermieri che svolgono la loro attività di assistenza penitenziaria e che, in base alla normativa nazionale e regionale, sono chiamati a realizzare in un contesto multidisciplinare importanti programmi di promozione della salute, della prevenzione delle infezioni e delle malattie croniche. Infermieri passati alle dipendenze dell’Azienda Usl da circa 10 anni, da quando le competenze sanitarie sono state trasferite dal Ministero della Giustizia al Servizio Sanitario Nazionale e ai Servizi Sanitari Regionali. Riuniti in assemblea, gli infermieri hanno manifestato il loro crescente disagio lavorativo per il mancato avvio di interventi correttivi da parte dell’Ausl, da mesi sollecitati, in materia di organizzazione del lavoro, di orario di lavoro e di dotazioni organiche. Hanno condensato tutta la loro amarezza e le loro perplessità in una domanda: “È veramente convinta, l’Ausl che si possano concretamente ed efficacemente realizzare programmi di promozione della salute, di prevenzione per i detenuti e un’assistenza sanitaria penitenziaria adeguata, con un organico infermieristico risicato a cui sempre più frequentemente vengono imposti sacrifici? Si analizzano le misure a cui di volta in volta e sempre più spesso il coordinamento fa ricorso: dalla riduzione del numero di operatori in turno, ai cambi di turni repentini, al turno spezzato, agli ordini di servizio, alla revoca delle ferie programmate, all’aumento del ricorso ai “Progetti Emergenza” a cui ormai ben pochi operatori aderiscono, al ricorso alle “deroghe all’orario di lavoro”, appare evidente che “la coperta è corta” anche per l’attività di base. Il timore di incorrere in errori nella somministrazione dei farmaci è molto forte, soprattutto nel turno pomeridiano, quando in servizio si ritrovano due soli operatori, che devono effettuare oltre 600 somministrazioni alle ore 20, a cui si aggiungono la terapia prescritta “al bisogno”, nonché i trattamenti terapeutici per bisogni rilevati al momento previo consulenza medica, per una popolazione carceraria di circa 360 detenuti, da completare in tempi ristretti e condizionati dall’organizzazione dell’apparato di sicurezza. L’assemblea è terminata con la riconferma della piena disponibilità da parte degli infermieri a collaborare per individuare e attuare concretamente e in tempi brevi interventi di miglioramento inerenti l’organizzazione del lavoro. “Gli infermieri - spiega la Fials attraversole parole della segretaria provinciale Mirella Boschetti - vogliono essere ascoltati, hanno tante proposte da fare. Solo partendo dalle osservazioni e dalle proposte dagli operatori che materialmente fanno funzionare i servizi si possono realizzare concreti miglioramenti organizzativi, della qualità delle prestazioni erogate, del clima e del benessere nei luoghi di lavoro. Si ripropongono le richieste già avanzate: di rivedere le dotazioni organiche al rialzo e la stabilizzazione della terza unità pomeridiana, oltre alla rivisitazione dell’articolazione oraria giornaliera, più aderente all’organizzazione del lavoro degli altri operatori della sanità che afferiscono alla struttura carceraria”. Milano: “la mia anima femminile è la mia forza a San Vittore” di Paola Fucilieri Il Giornale, 9 marzo 2018 La comandante delle guardie penitenziarie: “Il Papa mi ha detto che noi donne abbiamo una marcia in più”. “In dieci anni che faccio il comandante qui non è mai successo che un detenuto mi mancasse di rispetto. Hanno capito tutti la mia disponibilità e hanno deciso di affidarsi. La persona che soffre riconosce l’umanità e la sensibilità, non guarda al sesso del suo interlocutore”. Manuela Federico, calabrese di Reggio Calabria, 44 anni, dal 2007 è comandante della polizia penitenziaria e del carcere di San Vittore. Prima donna a ricoprire questo ruolo nel penitenziario milanese, originaria di Reggio Calabria, figlia di un ingegnere e di una professoressa di liceo, Manuela ha frequentato l’Università Cattolica a Milano e si è laureata in giurisprudenza. Sposata con un civilista, pratica da avvocato in un prestigioso studio cittadino, proprio quando aveva tutte le stimmate per diventare una tranquilla professionista e poi mamma borghese (ha una figlia di 4 anni, Sara), la signora ha avuto una sorta di “svolta rock”, che ha lasciato a dir poco attonita la sua famiglia e l’ha portata poi fino ai vertici di piazza Filangieri. Che cos’è successo? Nessuno dei suoi parenti è nelle forze dell’ordine o appartiene all’amministrazione penitenziaria... “Dopo aver sostenuto l’esame da avvocato ho frequentato un master in diritto penale e sistemi penitenziari. In quell’occasione ho saputo che per la prima volta era uscito un concorso che istituiva il ruolo direttivo della polizia penitenziaria”. Ma che cosa l’ha affascinata di questo lavoro per molti ritenuto durissimo, anche per un uomo? “Da una parte il pensiero di ricoprire un ruolo istituzionale, di fare qualcosa rappresentando lo Stato; dall’altra quello di lavorare in un contesto difficile, stando a contatto con il disagio, con la possibilità di esprimere la mia sensibilità. All’epoca non immaginavo certo di fare il comandante di una casa circondariale, ma già quando ero ancora una studentessa della Cattolica, mi capitava spesso di passare davanti a San Vittore ed ero sempre affascinata da una realtà così complessa”. Il disagio... Voleva mettersi alla prova come professionista e come essere umano? C’è riuscita, visto che da dodici anni ha il comando di circa 600 unità (550 uomini e 100 donne) ed è anche comandante dei detenuti, un migliaio in tutto. “Sia con il personale che con i detenuti, pur non transigendo sul lei, posso esprimere la mia personalità, contribuendo alla sicurezza non solo interna ma anche esterna e favorendo percorsi di rieducazione e socializzazione nei quali io credo molto. Papa Francesco, quando è venuto in visita a San Vittore un anno fa, mi ha fatto i complimenti. Pensi: mille detenuti fuori dalle celle davanti a lui e io in mezzo a loro con me accanto... Il Pontefice mi ha confessato che per lui noi donne in questa professione abbiamo una marcia in più rispetto agli uomini. Credo volesse dire che riusciamo a coniugare sensibilità e concretezza”. Qui a San Vittore però, prima di lei, il comandante della polizia penitenziaria è sempre stato un uomo... “C’erano operatrici ed educatrici ma il comandante era sempre stato un uomo, in un ambiente maschile e maschilista. In generale, nelle carceri c’è sempre stata una tradizione di uomini comandanti con i capelli corti. Si sa, un uomo al comando tende a far sentire peso e centralità, spesso dando molto spazio al proprio individualismo. La donna invece è più disposta a coinvolgere il contesto, a valorizzare, ed è avvolgente anche nell’approccio, compreso quello strategico. Posso dirlo? Secondo me una donna in quest’ottica si rivela più generosa”. In un simile ambiente non saranno state proprio tutte rose e fiori, soprattutto all’inizio. “Dopo un anno da vicecomandante, il mio superiore è stato promosso e mi sono trovata a doverlo sostituire senza esperienza. Mi ero arruolata nel 2005 e sono diventata comandante nel 2007. L’essere donna, però, mi ha aiutata moltissimo, la componente femminile è stata ed è la mia forza. Prima con Gloria Manzelli, l’ex direttrice, con la quale ci siamo subito comprese e stimate a vicenda, ma anche ora con Giacinto Siciliano, un direttore veramente intelligente, una persona speciale. Mi sono resa conto subito del contesto nel quale avrei dovuto muovermi e, lo ammetto, con il personale all’inizio non è stato facile, così pensavo che anche con i detenuti avrei avuto problemi. E invece no”. Ci racconti. “San Vittore è una casa circondariale, il che significa che abbiamo un turn over elevatissimo, persone molto diverse tra loro, che stanno qui anche una notte sola. Le criticità di questo posto sono moltissime, lavoriamo sempre in emergenza, le risorse economiche non ci sono, quelle umane scarseggiano e se pensa che un terzo dei nostri detenuti è tossicodipendente e molti altri hanno disturbi psichiatrici può comprendere cosa significhi lavorare qui. Inoltre siamo un carcere con il 65% di extracomunitari, detenuti che provengono da culture per le quali la donna rappresenta poco e nulla. Però questo è un luogo dove si soffre. E chi soffre cerca comprensione, senza alcun tipo di discriminazione. I detenuti mi hanno legittimato anche con il personale che ha potuto vedere come chi era in cella si affidasse a me e come io fossi lì, insieme a tutti loro, a combattere. Sanno che la mia porta è sempre aperta. Ora la situazione si è normalizzata, ma ho assistito a detenuti che salivano sul tetto di San Vittore, che si tagliavano, ingerivano lamette, forchette, pile”. E lei? “Non faccio l’eroina, ma ho deciso di fare il comandante da donna esprimendo la mia femminilità, il mio modo di essere. Ricordo un giorno, aspettavo mia figlia Sara, avevo attorno una decina di agenti pronti a intervenire perché un detenuto si trovava in un grosso stato di agitazione e stava distruggendo il pronto soccorso di San Vittore, impugnava una lametta che teneva appoggiata al collo minacciando di farsi del male. Mi sono avvicinata e gli ho detto: Stai tranquillo, mettiamo tutto a posto, non sei tra nemici. L’uomo ha restituito le lamette e si è affidato a noi”. Napoli: 8 Marzo, il Garante dei detenuti con le detenute di Poggioreale di Anna Ansalone contattolab.it, 9 marzo 2018 Nella mattinata dell’otto marzo il Garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello, si è recato presso il carcere di Pozzuoli per fare gli auguri alle 158 donne li presenti, donando loro le mimose, simbolo di questa giornata. Nel pomeriggio, accompagnato da Ilenia Caputo presidente dell’Associazione Transessuale Napoli (Atn) e da Annarita Mercogliano appartenente al movimento trans-femminista “ Non una di meno”, si è recato nel carcere di Poggioreale a visitare la sezione delle transessuali. Sono 278 le donne detenute ristrette in Campania, dislocate nelle varie sezioni femminili, presenti nelle carceri di Santa Maria Capua Vetere (60), di Fuori (26) e di Benevento (25) Lauro (9 detenute con figli) e nell’istituto penitenziario femminile di Pozzuoli (158). Il Garante asserisce: “i numeri ci permettono di capire che la percentuale delle donne recluse rispetto agli uomini è bassissima, pari al 4% in Italia, ma numeri bassi non possono significare bassa attenzione. Parlare di carcere femminile significa creare un carcere a misura di donna, Il carcere spoglia le persone non solo di quella che era la loro vita precedente ma anche della femminilità. E questo accade anche perché le detenute devono sottostare a regole plasmate su schemi ed esigenze maschili. Difficile la vita, quella del carcere, dove divieti e limitazioni non riguardano solo la possibilità di muoversi e di agire ma anche di essere. Dove si scontano pene accessorie, quelle del controllo dei sentimenti e delle emozioni, assumendo toni del tutto particolari quando a esserne coinvolte sono le donne. Dove anche procurarsi l’indispensabile diventa difficile. Se la mancanza di spazio, la scarsa igiene e il sovraffollamento appartengono purtroppo all’intera comunità carceraria, per le donne ci sono esigenze fisiche, affettive, genitoriali ed emotive dai connotati molto più delicati, meritevoli di una particolare attenzione. Possiamo togliere la libertà ma non la dignità”. Catanzaro: 8 Marzo, i detenuti leggono testi sulla condizione femminile soveratounotv.net, 9 marzo 2018 L’8 marzo è “la giornata della persona” nel carcere di Catanzaro. La Casa Circondariale “Ugo Caridi” di Siano ospita quasi seicento detenuti, tutti uomini, anche se non manca il personale femminile, sia nella polizia penitenziaria, sia nel settore amministrativo, e il direttore stesso qui è una donna, Angela Paravati. “I detenuti, coinvolti nel laboratorio di lettura e scrittura creativa portato avanti dal docente universitario Nicola Siciliani De Cumis e da due volontarie, hanno letto diversi testi sulle origini storiche della ricorrenza, risalenti alle condizioni di sfruttamento delle operaie nelle fabbriche tessili di New York nei primi anni del Novecento, ed hanno approfondito varie poesie sulla figura femminile, scrivendo loro stessi dei versi sull’argomento” spiega la dirigente. Poesia, storia e biografie di tante donne che hanno contribuito alla crescita sociale in tutto il mondo hanno caratterizzato gli studi dei detenuti di questi giorni: lo evidenzia un albero all’interno del carcere, a cui sono state appese le immagini con i volti di personaggi femminili che hanno dato un contributo notevole alla crescita della società. Si va dalla scienziata di Alessandria d’Egitto Ipazia, che anticipò di secoli con le sue intuizioni la comprensione del movimento ellittico della terra intorno al sole, a Marie Curie, unica persona al mondo ad aver vinto due premi Nobel, a molte altre ancora. La giornata è stata caratterizzata anche da una mostra allestita con gli oggetti realizzati dai detenuti nel laboratorio di ceramica all’interno dell’istituto: soprammobili e portagioie finemente decorati con fiori e mimose, dai colori squisitamente delicati e femminili. L’istruzione, il lavoro e la formazione culturale sono elementi fondamentali per un percorso di cambiamento: e l’idea del rispetto della persona, donna o uomo che sia, in quanto persona, è una tappa di questo percorso. Como: il carcere del Bassone ricorda Primo Levi Corriere di Como, 9 marzo 2018 Sarà dedicato a una delle voci più importanti del Novecento, lo scrittore Primo Levi, l’incontro della rassegna “Classici dentro e fuori”, domani, venerdì 9 marzo alle ore 18 alla libreria Feltrinelli di Como. Ingresso libero. Se questo è un uomo, il romanzo memoriale che lo scrittore torinese scrisse per ricordare l’esperienza di prigionia ad Auschwitz, è ormai considerato un classico della letteratura oltre che una testimonianza storica della Shoah. Se questo è un uomo è stato letto da un gruppo di detenuti della Casa Circondariale del Bassone di Como, che hanno scritto alcuni commenti da condividere con i lettori. Chi ha riscoperto un pezzo di storia che non aveva mai approfondito, chi ha condiviso la lettura fatta anni prima con la propria figlia, chi ne ha tratto spunto per riflettere sulla prigionia e su come essa possa intaccare l’umanità di una persona: sono i numerosi e mai banali spunti di riflessione emersi nella lettura di gruppo e che verranno resi pubblici all’incontro di venerdì alla Feltrinelli. Sarà un modo per ripercorrere un testo indimenticato e per riflettere sulla vita. La rassegna è organizzata dai volontari dell’associazione Bottega Volante con l’intento di aprire un canale di comunicazione con chi vive uno stato di detenzione attraverso la cultura e la lettura. “Lo strappo”. L’importanza di raccontare un crimine da tutti i punti di vista di Manuela D’Alessandro Agi, 9 marzo 2018 Se c’è uno strappo, c’è una lacerazione nella vita di chi lo compie e di chi lo subisce. Ma anche la possibilità di riparare e mille aghi sottili per farlo. E se c’è uno strappo, si apre un varco profondo abbastanza per guardarci dentro e incontrare il buio e la luce. “Lo strappo - quattro chiacchiere sul crimine” è un documentario di un’ora destinato a scuole ed educatori che racconta cosa succede quando avviene un delitto dal punto di vista di chi è stato vittima, di chi l’ha commesso, di chi ha addosso una toga (magistrato o avvocato) e di chi scrive sui media. Il 16 marzo, giornata nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime di mafia, verrà presentato nel carcere di Opera nell’ambito di un’iniziativa aperta al pubblico che vedrà dialogare, tra gli altri, l’ex procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, e i detenuti. Non affiora nessuna ambizione di sentenza che separi il bene dal male ma solo di restituzione della complessità del tema in questo progetto ideato dal magistrato Francesco Cajani, dal giornalista Carlo Casoli, dallo psicologo di San Vittore Angelo Aparo e dal criminologo Walter Vannini i quali, leggiamo sul sito www.lostrappo.net, “pur avendo di fatto materialmente condotto le interviste a tutti i protagonisti di questo racconto, rimangono volutamente senza volto e senza voce. Ponendo a tutti le stesse domande, dopo essersi fatti loro stessi interrogare dalle proprie”. “Non dormo mai tranquilla, non mi sono mai abituata a metterli dentro, né a tenerli fuori”. Il magistrato della Sorveglianza Roberta Cossia è uno degli sguardi - dolente e limpido - che meglio interpreta il tormento di chi amministra la giustizia cercando, e spesso non trovando, l’umano (“alcuni sono solo ombre, non li vediamo mai”) dietro il criminale e la vittima. Entrambi. Ed entrambi in questo racconto hanno un loro tempo largo, uno spazio soffice per aprirsi all’incertezza nella ricerca delle parole giuste per provare a spiegarsi almeno un po’. A volte con lancinante onestà. Carmelo I., detenuto: “Per me le vittime non esistono, non sono mai esistite. Poi te ne rendi conto quando sei in carcere che affronti questi discorsi. Cose che prima non ipotizzi neanche, quando hai delle necessità. Quindi la vittima non esiste, per il criminale”. Maria Rosa Bartocci, vittima: “Hanno fatto vedere sovente in televisione quelli che lo portano via, in questo sacco blu e spesso si è vista questa barella con il sacco blu. Io gli ho proibito di trasmetterlo, basta, però se ne fregano. Qualcuno mi ha chiesto: “Ma lei li perdona?”. “Non ci penso proprio”. Il pubblico ministero Francesco Cajani srotola il primo filo della trama del documentario che è proprio una domanda. “Come si può passare dall’attenzione per chi deve essere punito all’attenzione verso chi ha subito un danno da colui che ha commesso il reato?”. Una prima risposta incredibile arriva quando al suo primo processo per omicidio una giovane donna, che aveva perso padre e fratello, gli scrive una lettera: “Stava ottenendo giustizia ma a lei questo interessava poco: lei invece voleva parlare con l’assassino”. I protagonisti dello “Strappo” hanno una cosa in comune. Si cercano tutti, in uno strano girotondo, anche per maledirsi, e si toccano tutti anche solo per vedere com’è la pelle dell’altro. A cominciare dai cinque detenuti intervistati che appartengono al “Gruppo della Trasgressione”, una nicchia visionaria dove Aparo da anni fa incontrare vittime e carnefici e porta chi delinque nelle scuole a insegnare ai ragazzi, loro - il male - dietro la cattedra più convenzionale del bene. Anche i giornalisti qui provano a essere meglio delle bestie fameliche che spesso sono. Carlo Casoli e Paolo Foschini ricordano che siamo sempre davanti a “persone”, siano vittime e autori di reati, e che togliere il microfono o la penna può valere come uno scoop se in gioco c’è la dignità. È molto più arida di quella che vediamo nello “Strappo” la giustizia di cui ci occupiamo ogni giorno nei nostri Palazzi di marmo. Ma qui ci sono tutte le domande giuste, punti interrogativi che tocca ai ragazzi delle scuole far germogliare in nuove domande. “Lo Strappo - Quattro chiacchiere sul crimine” realizzato da Dieci78 si può vedere sul sito lostrappo.net assieme a testimonianze, documenti e materiale didattico. Gli affari pericolosi degli italiani scomparsi nel Messico dei narcos di Paolo Mastrolilli La Stampa, 9 marzo 2018 A Tecalitlán, regno del cartello di Jalisco, si cercano i tre connazionali. Tra agenti venduti e riti cannibali le speranze di trovarli sono poche. Qualche mese fa, la procura dello stato messicano di Tabasco ha accusato il Cartel Jalisco Nueva Generación di praticare il cannibalismo, come rito di iniziazione per i nuovi membri. Questi sono i criminali che potrebbero aver messo le mani sui tre italiani spariti nel paese di Tecalitlán. E così si capisce perché gli stessi investigatori stiano perdendo la speranza di ritrovarli vivi, più passa il tempo e più l’impresa sembra impossibile. Andare in questo villaggio di sedicimila anime, due ore di strada a Sud di Guadalajara, dà l’impressione di viaggiare nel tempo verso il Messico raccontato da Graham Greene nel “Potere e la gloria”. Un arco piazzato all’ingresso del paese si vanta con i visitatori che Tecalitlán è “la patria dei migliori mariachi del mondo”, i musicisti tradizionali. Dopo pranzo tutti i negozi chiudono fino alle cinque, perché qui la siesta comandata dal caldo è ancora sacra. La piazza centrale però, un quadrato col municipio su un lato, la chiesa di Santa Maria de Guadalupe sull’altro, e i portici coloniali a contornare i giardinetti con la bandiera tricolore, è presidiata dagli agenti della polizia statale di Jalisco, che tengono bene in mostra i loro fucili automatici. Ogni tanto passa un camion dell’esercito, con la mitragliatrice montata ad alzo zero. Il paese è in stato d’assedio e le forze dell’ordine locali sono commissariate, da quando il 31 gennaio scorso sono spariti prima Raffaele Russo, napoletano di 60 anni, e poco dopo suo figlio Antonio e suo nipote Vincenzo Cimmino, 25 e 29 anni. Quattro agenti della polizia di Tecalitlán, Emilio “N”, Salomón “N”, Fernando “N” e Lidia “N” (“N” è la formula che usano gli inquirenti per non rivelare i cognomi), hanno ammesso di averli venduti alla criminalità per l’equivalente di 43 euro, salvo poi denunciare di aver confessato sotto tortura. Criminalità qui significa il Cartel Jalisco Nueva Generación (Cjng), ex braccio armato di Sinaloa fondato per ammazzare i rivali Los Zetas, che dopo la cattura di El Chapo si è messo in proprio per diventare il clan dominante del Messico. Una guerra che ha fatto oltre 200.000 vittime negli ultimi dieci anni, con il record di 25.000 omicidi nel 2017. Il capo della polizia municipale Hugo Martinez Muniz, nominato dal sindaco Victor Diaz Contreras, è scomparso pure lui, e tutti gli altri agenti di questo corpo composto da 33 persone sono stati trasferiti in una caserma di Guadalajara, in teoria per riaddestrarli, in pratica per tenerli sotto controllo. La polizia dello stato di Jalisco e l’esercito sono subentrati al loro posto, per dare un minimo di sicurezza a questo villaggio, che secondo una fonte investigativa “sta nell’occhio del ciclone della lotta tra i cartelli”. Negli ultimi mesi qui sono state distrutte oltre 10.000 piante di marijuana, piantagioni di papavero, e mille chili di metanfetamine. Ma perché i tre italiani si sono cacciati in questo inferno? La famiglia dice che commerciavano in generatori di elettricità, però la storia è più complessa. Raffaele Russo aveva precedenti penali in Italia ed era ricercato a livello europeo per truffe ai danni di anziani. Un paio d’anni fa era già stato arrestato a Campeche per falsificazione, truffa e tentativo di corruzione di pubblico ufficiale. Una donna venezuelana che si era presentata come sua ex moglie per fare la denuncia, aveva mentito agli investigatori sulla sua attività, dicendo che gestiva una pizzeria. Il meccanismo del traffico era molto sofisticato. I macchinari venivano acquistati in Cina, e trasferiti via nave nei Paesi di destinazione. In Messico arrivavano a Veracruz dall’Atlantico, e Lazaro Cardenas dal Pacifico. Poi la merce era sdoganata e trasferita nei magazzini, dove venivano falsificati con grande accuratezza i marchi di fabbrica, le fatture d’aquisto e i certificati di garanzia, facendoli apparire come legittimi prodotti di Bosch, Caterpillar, Yamaha. Da li partivano con i pick up per essere piazzati. Il venditore raccontava sempre la stessa storia: c’è stata una fiera della Bosch, invece di riportare indietro i generatori li offriamo qui. Non pagando le tasse, li diamo sotto prezzo: 2000 dollari invece di 10.000. Un affarone. Il progetto era troppo vasto per essere gestito da tre persone. Infatti pochi giorni fa un altro napoletano di 24 anni con precedenti penali è stato arrestato a Guanajuato, per lo stesso genere di truffa. Tre anni fa, invece, era scomparso a Veracruz Roberto Molinaro, il cui corpo non è mai stato ritrovato che aveva legami con la famiglia Russo. Le autorità italiane hanno ricevuto denunce simili in tutto il mondo, dal Ghana agli Usa, e ora stanno cercando di capire se dietro c’è la camorra o altro. Non essendo quello che dicono, spesso questi macchinari si rompono in fretta. I clienti in genere sono abitanti sprovveduti di regioni rurali, e restano fregati. Stavolta però i tre avrebbero sbagliato obiettivo. Gli inquirenti pensano che abbiano venduto a qualcuno legato al CJNG, che avendo l’obbligo di proteggere gli abitanti della sua zona li ha puniti. Ma perché il cartello ha comprato Antonio Russo e Vincenzo Cimmino dalla polizia locale, invece di rapirli direttamente? “Qui - spiega una fonte investigativa - vige la legge “plata o plomo”: o prendi i soldi dai narcos, e lavori per loro, o prendi il piombo. I poliziotti municipali guadagnano meno di 200 euro al mese, e quindi è facile convincerli. Lavorano tutti per i cartelli”. Il controllo del territorio è assoluto, attraverso gli “halcones”, gli informatori che sono persone comuni e vedono tutto. Hanno notato Antonio e Vincenzo che facevano benzina al distributore di Tecalitlán, e chiedevano di Raffaele. Hanno chiamato la polizia corrotta, e il cerchio si è chiuso. Domandare per strada se qualcuno sa qualcosa significa consegnarsi ai narcos. Il parroco di Santa Maria de Guadalupe, che non è il “whiskey priest” dannato e coraggioso di Graham Greene, dice che ha appreso la notizia solo dai giornali: “È quanto dicono da Città del Messico, che li hanno rapiti. Dicono”. Il sindaco Contreras, che ha nominato il capo della polizia municipale sparito, si limita a questo: “I tre rapiti sono passati sul nostro territorio per fare benzina. Del resto non so nulla. Ma posso assicurarvi che è stato un caso isolato”. Affermazione facilmente smentita dal manifesto appiccicato proprio sul muro del suo comune, che denuncia la scomparsa del diciassettenne Ulises Cardona, sparito pochi giorni prima dei tre napoletani. Le autorità italiane stanno lavorando molto attivamente con quelle messicane. I famigliari di Russo hanno chiesto al ministro degli Esteri Alfano di inviare una task force per aiutare le ricerche, ma ci sono limiti posti dalle leggi internazionali. La polizia locale era complice, però in Messico ci sono tre livelli di sicurezza: 4.300 commissariati municipali, 32 polizie dei singoli stati, e la Polizia federale che è come l’Fbi americana. Il governo centrale, quello dello stato di Jalisco e la Fiscalia, cioè la procura, vogliono risolvere il caso perché compromette l’immagine del Paese. Il problema sono le aspettative. Il procuratore regionale di Jalisco, Fausto Mancilla, dice che sta cercando altri quattro complici, tra cui un certo don Ángel, che sarebbe il referente dei narcos nella zona. Questa è la parte dell’inchiesta sui mandanti del rapimento. Mancilla spera ancora di trovare i rapiti vivi, “perché non ci sono prove che siano morti”. Ma il Cartel Jalisco Nueva Generación è noto per la sua ferocia. Nel maggio scorso la procura dello stato meridionale di Tabasco ha rivelato che due membri di 16 e 17 anni, drogati con crack e anfetamine, sono stati costretti a tagliare e mangiare la carne di un rivale ucciso, come rito di iniziazione. E se il rapimento dei tre napoletani era a scopo di estorsione, non si capisce perché dopo quasi un mese e mezzo nessuno abbia ancora chiesto il riscatto. L’8 marzo in Iran: ancora in carcere le trenta donne che si sono tolte il velo di Elisabetta Zamparutti* Il Dubbio, 9 marzo 2018 Alla viglia dell’ 8 marzo, l’Iran ha condannando a due anni e tre mesi di carcere una delle trenta donne arrestate nei mesi scorsi per essersi tolte il velo in segno di protesta contro l’obbligo di indossarlo. Nell’annunciare la decisione, il Procuratore generale di Tehran, Abbas Jafari Dolatabadi, ha dichiarato che la donna, di cui non è stata resa nota l’identità, è responsabile di aver “incoraggiato la corruzione morale” in pubblico, e ha criticato la pena inflitta perché troppo lieve. Già che c’era ha anche disposto l’obbligo di sequestrare le auto guidate da donne che non indossano il velo in maniera appropriata. L’Iran è il Paese in cui la discriminazione di genere è maggiormente diffusa e assume forme parossistiche: nei procedimenti legali, la testimonianza di una donna vale la metà di quella di un uomo e la versione iraniana del “prezzo del sangue” stabilisce che per una vittima donna esso sia la metà di quello di un uomo. Inoltre, se uccide una donna, un uomo non potrà essere giustiziato, anche se condannato a morte, senza che la famiglia della donna abbia prima pagato a quella dell’assassino la metà del suo “prezzo del sangue”. L’età minima per la responsabilità penale è di poco meno di nove anni per le donne, di poco meno di 15 anni per gli uomini. Lo stupro coniugale e la violenza domestica non sono considerati reati penali. Non c’è da stupirsi se l’uguaglianza dei diritti delle donne sia sistematicamente negata quando si tratta di matrimonio, divorzio, affidamento dei figli, eredità, viaggio e persino per quanto riguarda l’abbigliamento. In Iran infatti le donne e persino le bambine al di sopra dei nove anni che non si coprono i capelli col velo e non seguono i codici obbligatori di abbigliamento possono essere punite con una multa e anche col carcere. L’Iran è al 139° posto, su 144, nella graduatoria del Global Gender Gap Index. In questo clima misogino, il Consiglio dei Guardiani, il potente corpo di religiosi e giuristi islamici che controlla l’attività parlamentare e certifica che corrisponda alla legge della Sharia, ha reinserito, nell’aprile 2013, la lapidazione in una precedente versione del nuovo codice penale nella quale era stata omessa come pena esplicita per l’adulterio. In Iran, le esecuzioni di donne sono state nel 2017 almeno 12 (rispetto alle 10 del 2016) secondo le notizie raccolte, di cui 3 attraverso fonti ufficiali (2 per reati sessuali e 1 per omicidio) e 9 non- ufficiali (5 per omicidio e 4 per droga). Ed un pensiero torna in particolare alle donne recentemente arrestate per essersi tolte quel velo imposto in pubblico obbligatoriamente a tutte, musulmane e non, iraniane e non: tra loro ce ne sono due, Atena Daemi e Golrokh Iraee, trasferite dal carcere di Evin a quello di Garchak (Varamin) dove stanno conducendo dal 3 febbraio, uno sciopero della fame sulle loro condizioni di detenzione. Tutte loro devono essere rilasciate, ed i diritti delle donne, così come codificati internazionalmente, devono essere riconosciuti e rispettati in Iran. *Tesoriera di Nessuno Tocchi Caino Due giorni per fermare l’espulsione di Taibeh, la 18enne afgana che ha commosso la Norvegia di Riccardo Noury Corriere della Sera, 9 marzo 2018 A meno che non succedano fatti nuovi, tra 48 ore Taibeh Abbasi e la sua famiglia dovranno lasciare la Norvegia. Destinazione: l’Afghanistan, un paese che la diciottenne studente di Trondheim non ha mai conosciuto essendo nata quando i suoi genitori erano già rifugiati in Iran. È da metà novembre che Amnesty International Norvegia chiede al parlamento di Oslo di prendere una posizione rispettosa dei diritti umani bloccando i rimpatri, sempre più numerosi: circa un migliaio negli ultimi due anni. Sempre più numerose sono anche le vittime civili degli attentati in Afghanistan: circa 20000 dal 2016, secondo la Missione Onu per l’Afghanistan. Ogni volta che la Norvegia costringe al rimpatrio un richiedente asilo proveniente dall’Afghanistan compie una palese violazione dei diritti umani. Il principio giuridicamente vincolante del non rimpatrio (non-refoulement) impone di non trasferire una persona in un paese dove corra il rischio di subire gravi violazioni dei diritti umani. Taibeh vive in Norvegia da sei anni, perfettamente integrata, adorata dai suoi compagni di scuola che hanno organizzato mobilitazioni e petizioni in suo favore. È terrorizzata da quanto potrebbe accaderle se venisse mandata a Kabul.