Riforma del carcere: domani o mai più di Errico Novi Il Dubbio, 8 marzo 2018 Tra poche ore il consiglio dei ministri decisivo: l’ordine del giorno tace. Ancora poche ore. Poi non ci sarà più nulla da fare. Poi il decreto sul carcere, quello più importante, sarà inghiottito dai marosi della legislatura gialloverde. Se nel Consiglio dei ministri convocato per domani non sarà fissato all’ordine del giorno il nuovo passaggio sulla riforma penitenziaria, cadranno nel vuoto le speranze dei detenuti e gli appelli dei giuristi. Il premier Paolo Gentiloni lo sa, pur nell’agitazione di queste ore ad altissima tensione per il suo partito. Al momento la riunione del governo uscente, ancora in carica per gli affari correnti, non prevede formalmente l’esame del testo, nonostante il ministero della Giustizia abbia trasmesso a Palazzo Chigi gran parte della documentazione. Serve un estremo atto di coerenza, a questo punto, per salvare le nuove norme sul carcere. A essere ormai appeso un filo è il provvedimento chiave, che fa cadere le preclusioni nell’accesso alle misure alternative e ai benefici tuttora previste dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario. Aperture senza le quali il principio del fine rieducativo della pena resterebbe sulla carta per un enorme numero di reclusi. Dal superamento delle “ostatività” sarebbero comunque esclusi mafiosi e terroristi, clausola che finora non è bastata però a vincere le remore dell’esecutivo e del Pd. Dopo essersi impegnato, poco meno di un mese fa, a dare l’ultimo via libera, lo scorso 23 febbraio Gentiloni aveva preferito congelare tutto e rinviare il sì decisivo a dopo le Politiche. Anche per scongiurare emorragie di consenso. Premura inutile, alla luce dello score riportato dai dem nelle urne. Ma adesso? Adesso restano poche ore. Il motivo è tecnico, e semplicissimo. Lo schema di decreto è stato adottato nell’ormai (politicamente) lontano 22 dicembre scorso. Le commissioni Giustizia di Camera e Senato hanno già formulato il loro previsto parere. Da Palazzo Madama la valutazione favorevole è stata espressa “con condizioni”: è stata subordinata ad alcune modifiche che, se accolte dal governo, limiterebbero fortemente l’accesso a benefici e misure alternative. L’esecutivo può anche non assecondare le remore dei senatori uscenti. Ma se vuole tirare dritto, deve trasmettere una risposta motivata alla commissione di Palazzo Madama e attendere altri dieci giorni: solo dopo quest’ultimo intervallo potrà emanare il decreto in via definitiva. Ora, l’iter deve fare i conti con un countdown, quello che conduce alla data in cui si riuniranno il le nuove Camere, cioè il 23 marzo. La commissione Giustizia uscente sarà formalmente sciolta nel giorno in cui arriveranno a Roma i nuovi parlamentari. Se si consumasse il passaggio tra le legislature, si dovrebbe dunque attendere l’insediamento delle nuove commissioni. Non solo: il nodo vero è che non si può escludere una soluzione della crisi di governo più rapida del previsto. E un esecutivo in cui gli azionisti di maggioranza fossero Di Maio, Salvini o tutti e due insieme, si farebbe addirittura vanto, di aver cestinato la riforma penitenziaria. La strettissima via ancora percorribile impone dunque che le motivazioni con cui il Consiglio dei ministri intende respingere le modifiche chieste dal Senato (dato ormai per acquisito che intenda respingerle) sia inviato a Palazzo Madama una decina abbondante di giorni prima del fatidico gong del 23 marzo. Domani o mai più. Da Palazzo Chigi si apprende che sull’ordine del giorno del Consiglio dei ministri, al momento, non ci sono certezze. Ma anche che gli uffici hanno già ricevuto da via Arenula le controdeduzioni ai rilievi mossi dal Senato sui commi 82, 83 e 85 del provvedimento. La documentazione sarebbe quasi pronta: serve però l’esame del pre-Consiglio, in cui di solito il “legislativo” della Presidenza si confronta con i tecnici del ministro proponente, in questo caso Andrea Orlando. Ma soprattutto, non ci sono certezze sulla volontà politica di Gentiloni. Due giorni fa è stato rilanciato l’appello promosso alcune settimane addietro da Aldo Masullo e Luigi Ferrajoli, sottoscritto innanzitutto da giuristi come il presidente del Cnf Andrea Mascherin, il numero uno dell’Ucpi Beniamino Migliucci, i professori Giovanni Fiandaca e Valerio Onida, da magistrati del calibro di Edmondo Bruti Liberati e Armando Spataro. “Il cammino della riforma”, si legge nel messaggio all’esecutivo, “rischia di avere una definitiva battuta di arresto: ci rivolgiamo con forza al Governo perché, mantenendo fede all’impegno assunto ed esercitando almeno nella sua parte fondamentale la delega votata dal Parlamento, approvi in via definitiva, pur dopo le elezioni politiche, la riforma dell’ordinamento penitenziario, riportando l’esecuzione penale entro una cornice di legalità costituzionale e sovranazionale dopo le umilianti condanne europee”. Un obiettivo per il quale Rita Bernardini ha fatto uno sciopero della fame lungo 32 giorni, seguita da qualcosa come 5.600 detenuti. Sulla cui pelle rischia di consumarsi la beffa postuma della politica. Carceri, l’appello di associazioni e giuristi: “Il governo Gentiloni porti a termine la riforma” Left, 8 marzo 2018 “Il cammino della riforma contenuta nello schema di decreto legislativo adottato il 22 dicembre 2017 rischia di avere una definitiva battuta di arresto. Ci rivolgiamo con forza al governo perché, mantenendo fede all’impegno assunto ed esercitando almeno nella sua parte fondamentale la delega conferita con la legge n. 103/17 votata dal Parlamento, approvi in via definitiva, pur dopo le elezioni politiche, la riforma dell’ordinamento penitenziario, riportando l’esecuzione penale entro una cornice di legalità costituzionale e sovranazionale dopo le umilianti condanne europee”. Con queste parole si apre l’appello indirizzato all’esecutivo, affinché la riforma dell’ordinamento penitenziario venga portata a termine. Dopo la presentazione dei decreti attuativi da parte del Consiglio dei ministri a dicembre, in seguito al pressing del ministro Orlando, e il vaglio delle camere che hanno presentato le loro osservazioni, la palla era tornata a Palazzo Chigi, ma il 22 febbraio scorso il governo ha deciso di licenziare in via definitiva solo tre decreti, quelli su giustizia riparativa, mediazione tra reo e vittima, e giustizia minorile. Una rivoluzione incompiuta, dunque (come abbiamo raccontato sul nostro settimanale, in un numero interamente dedicato a carcere e diritti umani). Tra i firmatari del testo appello: l’Unione Camere penali italiane, il Consiglio nazionale forense, Magistratura democratica, Antigone. E poi personalità, tra le quali, Edmondo Bruti Liberati, Carlo Federico Grosso, Franco Lorenzoni, Tomaso Montanari, Valerio Onida, Mauro Palma, Armando Spataro, Vladimiro Zagrebelsky. Formalmente, anche se le elezioni hanno fortemente modificato gli equilibri parlamentari, il governo Gentiloni è in carica sino al 23 marzo, e potrebbe dunque portare a termine il lavoro iniziato con gli Stati generali sull’esecuzione della pena, istituiti nel 2015 per strutturare le proposte su cui basare la riforma. “Si è sprecata un’occasione storica per riformare le carceri italiane - aveva commentato il presidente della associazione Antigone Patrizio Gonnella il 22 febbraio -. La legge che le governa risale al lontano 1975. Il Consiglio dei Ministri di stamattina poteva adeguarla alle esigenze del mondo attuale. Poteva allargare il campo delle misure alternative alla detenzione, la cui capacità di ridurre la recidiva e dunque di garantire maggiore sicurezza ai cittadini è ampiamente dimostrata. Poteva avvicinare la vita penitenziaria a quella esterna, come tutti gli organismi internazionali sui diritti umani raccomandano di fare. Poteva garantire una maggiore tutela del diritto alla salute fisica e psichica. Ha invece preferito farsi spaventare dall’avvicinarsi dell’appuntamento elettorale piuttosto che pensare alla tutela dei diritti dei detenuti”. Ora il governo ha una ultima possibilità. Gentiloni e Orlando rispetteranno la parola data? Carceri: ancora ignorati i temi della giustizia e del diritto di Valter Vecellio L’Indro, 8 marzo 2018 Cos’è mai, signora mia, un tweet? Un “messaggio” di poche parole affidato al web. Costa poco, impegna meno. Alla portata di tutti. Capi di stato, presidenti, politici di ogni tendenza, ormai, comunicano così, si tratti di congratulazioni o condoglianze, minacce o espressioni di solidarietà e vicinanza. Così fan tutti, ormai. Anche il presidente francese Emmanuel Macron comunica via tweet; e l’altro giorno ne ha inviato uno che dovrebbe far “scuola”. Vale per la Francia, ma anche per l’Italia e tantissimi altri paesi. Un tweet richiede solo lo “sforzo” della sintesi. E può tradursi in un pregio: si è più diretti, si va al sodo. Macron parla (pardon: twitta) di carceri: “Quand on est condamné, on n’est pas condamné à vivre avec des punaises de lit. Il faut faire de la prison un temps utile et un lieu de dignité”; ovvero: “Quando si è reclusi non si è condannati a vivere con le cimici nel letto. Occorre che il tempo passato in carcere sia utile e dignitoso”. Il tutto accompagnato con un video di 30 secondi. Ecco: un giorno piacerebbe poter riferire di un analogo tweet firmato Sergio Mattarella o, fate voi, Paolo Gentiloni, Matteo Renzi, Silvio Berlusconi, Luigi Di Maio, Matteo Salvini… Con l’aria che tira ci vien da pensare: aspetta e spera. Chi non ha aspettato, tantomeno sperato, è un detenuto cinquantunenne italiano recluso nel carcere di Ravenna. È evaso definitivamente impiccandosi. Si è legato alle grate del bagno della cella dove era ristretto e si è lasciato andare così; era imputato per rapina, e proprio il giorno in cui si è tolto la vita avrebbe dovuto effettuare la convalida dell’arresto. Impegnati come un po’ tutti si era nelle vicende della campagna elettorale, pochi hanno fatto caso alla visita di papa Francesco a una casa protetta per mamme detenute con figli minori. Per l’occasione è stata inviata al Papa una lettera che merita di essere conosciuta nella sua versione integrale: “Santità, Padre caro, siamo gli invisibili. Noi siamo alcuni delle migliaia di bambine e bambini figli di genitori reclusi nelle carceri italiane che viviamo con loro in carcere o andiamo a trovarli. Noi siamo solo impronte lasciate su sudici e freddi pavimenti, dove arriviamo dopo viaggi estenuanti per incontrare o conoscere per la prima volta il nostro genitore o per crescervi nella violenza e nell’abbandono. Per difendere la dignità dei nostri genitori detenuti ci raccontano bugie facendoci credere di entrare in un collegio o in un posto di lavoro, “in un luogo dove si costruiscono torri, navi e aerei”. Ma noi lo sappiamo che in questi luoghi non volano gli aerei e non c’è il mare. I nostri genitori davanti ai nostri occhi hanno vergogna dei loro sbagli, dei loro errori. Le nostre madri davanti ai nostri occhi hanno vergogna persino di pronunciare la parola “carcere”. Per raggiungere i nostri genitori in squallide e irraggiungibili carceri sperdute nelle campagne desolate e male collegate, noi paghiamo con estenuanti viaggi in treno, con la moneta delle emozioni e delle paure. Paure che popolano i nostri incubi notturni e paure che crescono via via che ci avviciniamo al carcere. Per un abbraccio attraversiamo l’Italia su treni affollati, con le nostre mamme cariche di pacchi e di fratellini sulle braccia. Partiamo dalla Sicilia per raggiungere Milano, da Venezia per Palermo. Arriviamo stanchi e siamo costretti ad ore di attesa sotto la pioggia e al freddo, o sotto al sole cocente. Veniamo perquisiti, violentati nella nostra intimità dalle mani di adulti sconosciuti, che ci tolgono i peluche, i poveri giocattoli che sono i nostri amici, per aprirli, controllarli, a volte ci tolgono anche le mutandine per assicurarsi che le nostre mamme non vi abbiano nascosto droghe. Siamo fiori fragili nel deserto della burocrazia e delle misure di sicurezza, nell’indifferenza di adulti alienati dal brutto e dal violento lavoro. Siamo impronte sui muri scrostati, sui vetri dei banconi divisori. Per molti siamo statistiche, numeri: 4500 bambini che hanno una mamma in carcere, circa novantamila quelli che hanno un papà detenuto. Per altri siamo strumenti di propaganda, anche i nostri genitori a volte speculano su di noi. Ed ecco come, da un giorno all’altro, noi bambini entriamo in una quotidianità di silenzi, di parole dette e non dette, di luoghi e non luoghi. È come se nascessimo una seconda volta, noi diventiamo così i figli dei detenuti. E ogni giorno e in ogni posto dove andiamo, dalla scuola al quartiere dove viviamo, noi paghiamo un alto prezzo per errori mai compiuti. Siamo figli della complessità, della povertà, dell’ignoranza. Su di noi è impresso lo stigma sociale. Viviamo in solitudine con un solo genitore che non può dedicarci tempo perché lavora per mantenere la famiglia, perché deve andare dagli avvocati per difendere l’altro detenuto, o perché viviamo insieme in celle anguste e sovraffollate dove non si ha il tempo per l’amore, per crescere sereni, dove non si vive una crescita normale dove a volte non si ha nemmeno il tempo per abbracciarci. Il più delle volte veniamo abbandonati da parenti o da amici, o anche a famiglie sconosciute, a scuola siamo emarginati e dai nostri compagni allontanati. Quando svolgiamo temi o pensierini sui nostri genitori, per non essere additati raccontiamo che nostro padre lavora in paesi fantastici e lontani e nostra madre è una regina. Per difenderci diventiamo aggressivi e intrattabili, ma non siamo cattivi. Sono gli altri che ci vedono e ci vogliono così. Siamo i figli dei detenuti. Padre caro, grazie per averci oggi teso la Sua mano, ci ricordi nelle Sue preghiere a Dio, e gli chieda il perdono per i nostri genitori. Noi li amiamo nonostante tutto, per noi sono sempre i migliori, sono i nostri eroi che con un abbraccio fanno sparire tutti i mostri notturni e non li cambieremmo per tutto l’oro del mondo. Papa Francesco, noi chiediamo solo di essere riconosciuti per quello che siamo: bambini. Noi abbiamo avuto la “fortuna” di avere la mamma detenuta in una delle carceri di Roma e questo ci ha permesso di incontrare persone di amore che si occupano di noi. Uomini e donne, operatori e volontari di organizzazioni sociali che hanno per noi creato un’alternativa al carcere. Ci hanno offerto un alloggio con spazi colorati e accoglienti, dove possiamo vivere una vita più normale, andare a scuola come gli altri, giocare e vivere per tutto il tempo che le nostre mamme dovranno pagare il loro debito alla società e alla giustizia. Da anni questi uomini e queste donne lottano per garantire i nostri diritti, per assicurarci un’accoglienza più a misura di bambino, per consentirci di stare con i nostri genitori come quando si sta a casa, seduti su un divano o sul tappeto a disegnare. Ci stanno vicini, aiutano la nostra mamma a risolvere problemi, ad avere un futuro, ci educano al rispetto, tentano di fertilizzarci con quei sentimenti che ci vengono negati da altri. Noi bambini dipendiamo da voi adulti, se ci abbandonate noi siamo la paura, se ci riconoscete noi siamo l’amore. Ma noi vogliamo crescere, imparare, ascoltare e soprattutto noi vogliamo cambiare il nostro destino infame e quello dei nostri genitori. Oggi Lei, padre santo, ci copre del suo immenso amore, ci conforta con le sue carezze, ci accoglie amorevolmente nell’immensa casa di Dio. Noi preghiamo perché Dio La conservi. Noi preghiamo perché Dio Le doni la forza necessaria ad accogliere in sé i mali e le sofferenze del mondo. Tanti bambini come noi crudelmente stanno morendo nel silenzio e nell’indifferenza, nella violenza di guerre generate dall’odio e dal rancore di chi nel mondo non vuole vedere né sa amare”. Tutte queste tematiche, quelle relative al carcere, alle condizioni indegne in cui sono costretti a vivere detenuti, agenti di polizia penitenziaria e l’intera comunità carceraria; i temi della giustizia negata e del diritto violato, da parte di tutte e di tutti i candidati sono stati rigorosamente evitati, ignorati, come per una sorta di tacito patto. Ma i problemi non si risolvono ignorandoli e lasciandoli incancrenire. Eppure è quello che, nel concreto, si è fatto e si fa; e - facile previsione, purtroppo - si continuerà a fare. Il mondo carcerario attende risposta dal Governo di Nunzio Marotti* uinewselba.it, 8 marzo 2018 “Il mondo delle carceri italiane è in trepida attesa delle decisioni governative in ordine all’ultimo atto di approvazione della riforma penitenziaria. Tralasciando il risultato elettorale, il governo ancora in carica è nelle condizioni di poter concludere, prima del 23 marzo, un iter lungo, complesso e partecipato (da ricordare i due anni di lavoro dei 18 tavoli degli Stati Generali sull’esecuzione penale voluti dal ministro Orlando). Nei giorni scorsi si è registrata l’ulteriore mobilitazione di detenuti, associazioni e garanti con l’adesione alla giornata di sciopero della fame (22 febbraio) e il presidio nelle carceri per monitorare l’esercizio del diritto di voto dei detenuti (4 marzo). Non si nasconde la preoccupazione per la situazione dei penitenziari italiani. Si ribadisce, quindi, la necessità della convocazione di un Consiglio dei ministri straordinario in modo da garantire la conclusione dell’iter entro il 23 marzo. Intanto, per quanto riguarda Porto Azzurro, ricordo che è aperto il bando del Comune per la nomina del nuovo garante dei diritti dei detenuti (il bando è pubblicato sul sito istituzionale del Comune e scade fra un paio di settimane). Mi auguro che dalla società elbana emergano candidature per la scelta da parte del Sindaco di Porto Azzurro. Incoraggio a partecipare a questa forma di servizio che ritengo utile sia per i detenuti che per chi opera nel carcere e per l’intero territorio. Si tratta di una figura di garanzia che opera in sinergia con tutte le realtà, collaborando attraverso un’azione di “moral suasion” finalizzata al miglioramento del sistema, come pensato e voluto dalla Costituzione italiana e dall’Ordinamento penitenziario. Come da Regolamento comunale (art. 2,6), il sottoscritto, garante uscente, non è immediatamente rinominabile. Non essendo pertanto interessato dalla presente selezione, nei giorni scorsi ho scritto al Sindaco di Porto Azzurro proponendo per il futuro due modifiche al Regolamento vigente. Le ho sottoposte alla valutazione sua e dei consiglieri comunali in quanto coerenti con le Linee guida emanate dal Garante nazionale dei diritti dei detenuti, dott. Mauro Palma, sulla base dei Protocolli internazionali (Onu). Tali Linee guida motivano questi due elementi in riferimento ai requisiti di indipendenza e di autonomia rispetto agli Organi di governo. Il primo aspetto è relativo alla modalità di elezione. Il Regolamento vigente (art. 2,2) afferma che “il Garante è nominato dal Sindaco, sentita previamente la Conferenza dei Capigruppo”. Viene proposta la modifica perché la nomina sia del Consiglio Comunale. In tal modo, anche nella forma, il Garante risulterebbe slegato dal potere politico della Giunta. Inoltre, la nomina avrebbe la più ampia condivisione dei consiglieri (con i progressivi livelli di elezione a maggioranza: qualificata, assoluta, semplice). Il secondo aspetto è relativo alla durata del mandato. Il Regolamento vigente (art. 2,6) afferma che “il Garante resta in carica per la durata del mandato del Sindaco”. Si propone di stabilire una durata diversa, preferibilmente più lunga. Così, si affermerebbe maggiormente l’autonomia, eliminando il legame temporale tra designazione del Garante e Organo politico che lo designa. Proposte evidentemente formali-sostanziali che non derivano da esperienze personali nell’esercizio del mandato che, anzi, ha sempre goduto di autonomia e indipendenza sia con il sindaco Simoni che con il sindaco Papi. I quali ovviamente ringrazio per la fiducia e l’incoraggiamento. Alla conclusione del mandato, oltre alla prevista relazione al Sindaco e al Consiglio Comunale, incontrerò i rappresentanti della stampa pr un bilancio di questi due anni e mezzo di incarico. In conclusione, desidero esprimere il mio apprezzamento per l’avvio dell’iter di manutenzione della chiesa di Forte San Giacomo che, grazie all’impegno di diversi soggetti, in primis il direttore Francesco D’Anselmo, potrà presto riaprire alla fruizione di interni ed esterni”. *Garante dei Diritti dei Detenuti di Porto Azzurro Carceri, ancora attesi tre decreti. Verso rinvio a nuovo Parlamento Public Policy, 8 marzo 2018 Un pezzo consistente della riforma della carceri, firmata dal ministero Andrea Orlando, resta congelata fino alla formazione del nuovo Governo e del Parlamento. A quanto apprende Public Policy, i tre decreti legislativi approvati in sede preliminare dal Consiglio dei ministri il 22 febbraio non saranno trasmessi in Parlamento prima dell’inizio della nuova legislatura. I tre provvedimenti riguardano il lavoro dei detenuti, i minorenni e le misure alternative. Come anticipato nelle scorse settimane, rimane in stand by anche un altro pezzo della riforma: quello che rivede diverse regole della vita in carcere. Anche questo Dlgs, già esaminato dalle Camera, riceverà l’ultimo via libera del Cdm nelle prossime settimane. Ci sono 7.500 detenuti in più con 4.700 posti inagibili di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 marzo 2018 In attesa della riforma dell’ordinamento penitenziario che rischia di naufragare nel nulla, ancora rimane invariato il numero dei bambini dietro le sbarre e cresce il sovraffollamento. Al 28 febbraio del 2018, secondo i dati messi a disposizione dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e pubblicati sul sito del ministero della Giustizia, siamo giunti a 58.163 detenuti per un totale di 50.589 posti disponibili. Questo vuol dire che risultano 7.574 detenuti in più. Come previsto, il numero dei detenuti è aumentato rispetto al 31 dicembre scorso, quando erano 7.109. Sì, perché il mese di dicembre, periodo natalizio, è quello dove vengono concessi più permessi e quindi il calo, leggerissimo, della presenza era dovuto da una assenza momentanea. Infatti il mese successivo, quello di gennaio, il sovraffollamento ha cominciato a crescere nuovamente. I numeri del sovraffollamento risulterebbero addirittura maggiori se venissero prese in considerazione l’esistenza di celle ancora inagibili. Situazione ben documentata dal rapporto annuale del Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale Mauro Palma: ovvero l’alto numero di camere o sezioni fuori uso, per inagibilità o per lavori in corso, che alla data del 23 febbraio scorso erano pari al 9,5 per cento. Cioè parliamo di circa 4.700 posti ancora non disponibili. Maglia nera per quanto riguarda i bambini in carcere. Al 28 febbraio, risultano 60 bambini, solo due in meno rispetto al mese precedente. Un aumento rispetto ai mesi precedenti. Basti pensare che a dicembre ne risultavano 56, mentre a novembre erano 58. Per quanto riguarda l’esecuzione penale esterna, ovvero le misure alternative, lavoro di pubblica utilità, misure di sicurezza, sanzioni sostitutive e messe alla prova, al 28 febbraio ne sono state concesse 49.629 volte. Un dato positivo, ma che può crescere se verrà introdotto quella parte del decreto del nuovo ordinamento penitenziario che punta molto all’estensione delle pene alternative: l’affidamento in prova attualmente viene applicata alle persone che non hanno superato i tre anni di pena, con la riforma la soglia si allargherebbe a quattro. Anche se, grazie alla Corte costituzionale, questo principio è stato esteso. In realtà, la riforma dell’ordinamento risolverebbe anche il problema delle detenute madri con figli al seguito: valorizza la concessione della detenzione domiciliare a donne incinte o madri di minori di 10 anni. Anche in questo caso, la giurisprudenza, arriva prima della politica. Una sentenza della Corte di cassazione del 6 febbraio scorso, dice che “nella valutazione delle richiesta della detenuta di detenzione domiciliare, il giudice deve fare una concreta valutazione degli interessi in gioco, bilanciando l’interesse dello Stato all’esecuzione in forma carceraria della sanzione penale con le esigenze familiari della richiedente”. La vicenda, oggetto del ricorso in Cassazione, traeva origine dalla decisione del Tribunale di Sorveglianza di Salerno, che aveva respinto le richiesta di detenzione domiciliare di una detenuta madre con un minore di età inferiore ai 10 anni. La detenzione domiciliare di cui all’art. 47 ter, comma 1, lettera a dell’ordinamento penitenziario è un istituto teso alla tutela di interessi costituzionalmente garantiti, quali la protezione della maternità, dell’infanzia e del rapporto tra figlio-genitore in una fase delicata dello sviluppo psico-fisico del minore. Molti sono stati nel corso degli anni gli interventi in materia della Corte costituzionale che ha ribadito la preminenza della tutela del minore e della salvaguardia dei rapporti familiari sull’interesse dello Stato all’esecuzione in forma carceraria della sanzione penale. In una sentenza della Corte costituzionale del 2014, inoltre, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis, comma 1, ord. pen. nella parte in cui esclude dal divieto di concessione di tale beneficio. La riforma dell’ordinamento penitenziario, in sostanza, recepisce tali sentenze e va a modificare il 4 bis, anche in merito alla detenzione domiciliari per chi ha figli minori di 10 anni. Punto molto contestato dall’attuale procuratore antimafia Federico Cafiero de Raho. Ma, come viene riportato in un articolo de Il Dubbio di oggi, l’iter della riforma ha i giorni contati. Dopo, tecnicamente, sarà impossibile vararla. Le donne in cella vivono in condizioni peggiori di Valentina Stella Il Dubbio, 8 marzo 2018 Giornata internazionale delle donne, anche di quelle detenute. Per accendere una luce sulla loro condizione, l’Ordine degli avvocati di Trento in collaborazione con il Comitato Pari Opportunità dell’Ordine degli Avvocati ha organizzato una rassegna di eventi di ampio significato scientifico e culturale a favore della cittadinanza per una comune cultura della pena e del superamento delle discriminazioni di genere. In realtà spiega al Dubbio l’avvocato Andrea de Bertolini, presidente dell’Ordine degli avvocati di Trento: “Preferisco parlare di pregiudizio di genere in riferimento alle donne detenute: in una situazione emergenziale generale delle nostre carceri in cui il rispetto della dignità, anche di coloro che hanno commesso i reati più abietti, viene a mancare, le donne si trovano a vivere in una condizione peggiore rispetto a quello dei reclusi, a cui sono riservati maggiori sforzi trattamentali da parte dell’amministrazione penitenziaria. Essendo espressione - prosegue l’avvocato de Bertolini che ha fatto parte anche della Commissione ministeriale che ha lavorato alla riforma dell’ordinamento penitenziario - di una popolazione penitenziaria molto più ridotta rispetto a quella maschile ed essendo state condannate spesso a pene più brevi, le donne detenute, paradossalmente, si trovano ad affrontare una detenzione più difficile: ad esempio o si trovano ristrette in luoghi piccoli all’interno di esigue comunità o volendo andare in carceri più popolati - sono costrette ad essere sradicate dal loro territorio. Molto spesso appartengono a famiglie che non possono permettersi spostamenti per andarle a trovare”. Tra le iniziative di confronto e riflessione c’è il progetto espositivo “7+ 1= 8 Le nostre prigioni”: sette artiste Gelsomina Bassetti, Linda Carrara, Alda Failoni, Elena Fia Fozzer, Annamaria Gelmi, Justyna Kisielewska, Drifters (Valentina Miorandi+ Sandrine Nicoletta) e un artista - Paolo Facchinelli - hanno deciso di mettere a disposizione gratuitamente alcune opere per una mostra alla Boccanera Gallery, il cui ricavato verrà integralmente devoluto ad associazioni volontarie che si occupano di detenuti e, in particolare, di detenute. “L’umanità dei trattamenti punitivi si pone come premessa indefettibile per garantire quel fine della pena tanto giusto quanto - per ancora molti - di così difficile condivisione. Umanità non è indulgenza; non è buonismo; non è impunità; non è retorica né sofismo. È quanto di meglio l’uomo abbia potuto concepire come risposta, senza replicarla, a quel “male” di cui egli stesso è afflitto. Un male che connota spesso i comportamenti dell’uomo indipendentemente da distinzioni di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali”, conclude De Bertolini. Ieri, intanto, alla Casa Circondariale di Trento e poi al Cinema Vittoria, con ingresso gratuito, è stato proiettato il film “Ombre della Sera”, realizzato grazie all’impegno anche di ex detenuti del carcere romano di Rebibbia. Oggi presso lo spazio archeologico in Piazza Cesare Battisti, alle ore 15:30, prenderà il via il convegno “Donne e Carcere” con Marta Costantino e Ugo Morelli. Il 29 marzo si chiuderà con la “Conversazione sugli antichi pregiudizi” con Franco Marzatico. Garante detenuti: monitoraggi su Tso saluteatutti.it, 8 marzo 2018 Il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale ha avviato il monitoraggio delle strutture sanitarie nelle quali vengono eseguiti trattamenti sanitari obbligatori (Tso). In particolare, il Garante nazionale ha visitato il Servizio psichiatrico diagnosi e cura di Colleferro, una delle tre strutture per i Tso della Asl Rm 5 (le altre due sono quelle di Tivoli e Monterotondo). I Tso, che per definizione costituiscono una privazione della libertà personale, seppur per fini medici e limitata nel tempo, finora erano stati oggetto di attenzione del Garante nazionale soprattutto in termini statistici e di definizione degli standard generali da garantire. La visita a Colleferro, che - contrariamente a quanto avverrà in seguito - era stata annunciata precedentemente, si è svolta in un clima di grande collaborazione. Il Garante nazionale ha discusso vari aspetti relativi alla presa in carico, all’organizzazione della giornata, all’attenzione terapeutica e alla contenzione con il Dr. Giuseppe Nicolò, Direttore del Dipartimento di salute mentale della Asl Rm G, con il Dr. Enrico Pompili, Direttore dell’Unità operativa complessa dello stesso Dipartimento, nonché con il personale della struttura. Alla visita erano presenti il Presidente, Mauro Palma, la componente del Collegio del Garante, Daniela de Robert, insieme a Gilda Losito, responsabile dell’Unità salute, e Antonio Martucci, componente della stessa Unità. “24 ore per il Signore”, anche nelle carceri di Filippo Passantino romasette.it, 8 marzo 2018 Venerdì 9 marzo alle 17 la liturgia penitenziale di apertura con Papa Francesco nella basilica di San Pietro. Coinvolti i penitenziari: a Rebibbia l’adorazione, la catechesi e la Via Crucis. Momenti di preghiera e Via Crucis nelle carceri, chiese aperte per celebrare il sacramento della riconciliazione. Si svolgerà venerdì 9 e sabato 10 marzo la 24 ore per il Signore sul tema “Presso di te è il perdono”. Appuntamento centrale dell’iniziativa, organizzata dal Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, sarà, venerdì alle 17, la celebrazione penitenziale presieduta da Papa Francesco nella basilica di San Pietro. Novità di quest’anno, l’adesione dei cappellani degli istituti penitenziari, che organizzeranno con i detenuti meditazioni e accompagnamento alla preghiera. Nelle chiese in tutto il mondo, invece, si celebreranno l’adorazione eucaristica e le confessioni. Alcune parrocchie resteranno aperte anche di notte, altre prolungheranno gli orari consueti. Nella diocesi di Roma, in moltissime parteciperanno. Nella sezione femminile del carcere di Rebibbia, venerdì pomeriggio, il gruppo che ogni settimana si ritrova per la catechesi prolungherà la preghiera con una meditazione sul brano evangelico dell’adultera. Seguirà un’adorazione animata. “Le donne vanno aiutate, suggeriremo un modo per dialogare con Dio”, spiega don Sandro Spriano, cappellano del penitenziario. “Quando le iniziative sono sporadiche non danno molto frutto. In carcere c’è bisogno di continuità”. Così il sacerdote annuncia che “dopo questo momento della 24 ore per il Signore, proporremo una volta al mese l’adorazione eucaristica”. Sono tra 70 e 100 le donne attese. Nella sezione maschile del nuovo complesso di Rebibbia, sempre venerdì, nella cappella di un reparto sarà celebrata con i detenuti la Via Crucis; in quella dell’altro invece si svolgerà una catechesi. In programma per sabato le Messe e il corso di lettura della Parola di Dio, “perché non sia letta come un giornale”, spiega il cappellano don Roberto Guernieri. “Quest’iniziativa è importante per qualificare la vita spirituale dei detenuti. È un’occasione per trovare motivazioni e impegnarsi in una vita nuova con il Signore”. Una tra le chiese che aderiranno alla 24 ore per il Signore è la basilica di Santa Maria in Trastevere. Da venerdì pomeriggio cominceranno le confessioni. Prima e dopo la preghiera tradizionale della Comunità di Sant’Egidio, alle 20.30, saranno letti alcuni brani della Scrittura, fino a mezzanotte. Verranno proposti anche brevi commenti, oltre all’adorazione eucaristica. Sabato si continuerà con le confessioni. “Aderiamo perché c’è una grande sete di riconciliazione - spiega il parroco, monsignor Marco Gnavi - e quest’iniziativa può aiutare a percepire l’offerta di misericordia. Santa Maria in Trastevere è una basilica che assume l’aspetto di un santuario moderno. Si trova in un punto strategico per i giovani che nel fine settimana si radunano qui - aggiunge -. E poi lo è anche per la città che attraversa Trastevere giungendo dalla periferia. Tante persone si avvicinano e cominciano un percorso di fede. La basilica vuole essere una porta aperta sulla piazza e sulla vita”. Il Sud abbandonato e la scelta di abbracciare i partiti della rabbia di Roberto Saviano La Repubblica, 8 marzo 2018 Oltre alle promesse di politiche assistenziali, sul voto meridionale ha pesato la sfiducia (giustificata) verso i potentati politici tradizionali. Chi ha vinto e chi ha perso le elezioni politiche in Italia? È fin troppo chiaro e le percentuali sono sotto gli occhi di tutti, quindi non partirei dai numeri per raccontare cosa questo voto significhi. Preferisco partire da quella parte di Italia dove spesso le cose si riescono a leggere in maniera più chiara, quella parte di Italia che meno è entrata in questa campagna elettorale e che meno entra in tutte le campagne elettorali ormai da moltissimo tempo. Quella parte di Italia dove le forze politiche amano dragare voti, ma che, finché possono, evitano come la peste. Partiamo dal Sud Italia che ci siamo abituati a considerare feudo di Berlusconi e, allo stesso tempo, sede di un forte consenso al Partito democratico retto da ras locali che per decenni hanno assicurato valanghe di voti. E proprio Forza Italia e Pd, in queste politiche, hanno vissuto un’emorragia di elettori confluiti in Lega e M5S. Quest’ultimo, con la promessa del reddito di cittadinanza, ha avuto un consenso quasi plebiscitario proprio nelle regioni in cui, non esistendo un’economia competitiva, l’unica speranza è la politica dei sussidi. E anche in questo caso - sono anni che ne scrivo! - il Sud Italia è una ferita attraverso cui si può guardare lontano. Accade che siano proprio le regioni del Sud, abbandonate dalla politica nazionale e tenute fuori dal dibattito pubblico, a condizionare la direzione che il Paese intero è destinato a prendere. Ma oltre alle promesse di politiche assistenziali, sul voto al Sud, soprattutto in Campania, ha pesato la sfiducia (più che giustificata) verso i potentati politici tradizionali. Dal caso mediatico-giudiziario seguito all’inchiesta di Fanpage.it è emerso un quadro sconfortante di corruzione, malcostume, familismo e conflitto di interessi; è stata la conferma, per molti italiani, che i partiti che fino a questo momento hanno avuto in carico la gestione della cosa pubblica non sono altro che centri di potere marci e che da loro nulla di buono ci si può aspettare. Naturalmente non concordo con questa generalizzazione; i partiti sono composti da persone e ciascuno risponde della propria onestà, del proprio lavoro e del proprio impegno, ma qui non si tratta di ciò che penso io, quanto piuttosto del sentimento che hanno provato gli italiani di fronte all’ennesima conferma dell’inadeguatezza dei partiti tradizionali. Le inchieste, gli scandali, le prassi disinvolte e spregiudicate hanno spinto molti elettori del Sud ad accorciare il proprio sguardo, a smetterla di puntare all’Europa per iniziare invece a occuparsi e preoccuparsi solo di ciò che accade a un metro da sé. Come si può pensare all’Europa se le cose qui non vanno bene? Lo scetticismo diffuso è stato una chiamata alle armi e il partito che più di tutti ha risposto al bisogno di essere coinvolti in prima persona è il M5S. È evidente che la promessa di rottamazione di Matteo Renzi è stata rottamata da Renzi stesso e dall’unico modo che ha trovato in questi anni per occuparsi di Sud: la plateale promessa della costruzione del ponte sullo Stretto di Messina (cavallo di battaglia del più becero berlusconismo) e la Apple Developer Academy di Napoli, spacciata come il primo segnale di una ripresa economica sul territorio. Un corso per sviluppatori Apple, un unico corso e per giunta calato in un contesto economicamente depresso, avrebbe dovuto fruttare a Renzi il titolo di “amico del Sud”. Una presa per i fondelli. L’abbandono del Sud da parte dei partiti tradizionali ha portato a una necessità di partecipazione, talvolta spinta fino alle estreme conseguenze e incline a stravolgere prassi politiche e regole, pur di sentire che il proprio voto, che la propria preferenza ha avuto un effetto reale. Gli italiani, oggi, soprattutto gli italiani del Sud, vogliono sapere esattamente come il loro voto cambierà la loro quotidianità; e se le aziende continueranno a delocalizzare il lavoro, se il lavoro nel Sud Italia resterà una speranza frustrata, almeno vogliono la certezza che chi governerà si occuperà di loro, solo di loro, prima di loro. E molti diranno: ecco che nasce il partito della rabbia, ma di che rabbia stiamo parlando? Ancora di una rabbia cieca? Ancora di un voto di ribellione? No. Il voto al M5S e alla Lega (ormai partito nazionale che aspira a rappresentare tutti) non è un voto esclusivamente di ribellione, ma è un voto ormai ragionato che, tra le altre cose, avrebbe il merito di aver asciugato (e molto) il voto di scambio. Questa volta l’elettorato è stato coeso nel dare consenso a due partiti che sono specchio fedele dei loro elettori. Il voto non è stato semplicemente un voto di protesta o di opinione, ma un voto di identità. Lo storytelling renziano ha prodotto malanimo che a sua volta ha innescato una sorta di egoismo sociale. Ormai quello che mi interessa è che a stare bene sia io, quindi quella forza politica che promette attenzione a me che sono italiano è l’unica che posso ascoltare. Quella che mi promette il reddito di cittadinanza in un Sud dove non solo manca il lavoro, ma anche la speranza di lavoro, sta parlando proprio a me. In Campania il M5S ha stravinto, e la sua vittoria si configura come un voto di liberazione dal presidente della Regione Vincenzo De Luca, che è espressione di quella politica che Renzi aveva promesso di rottamare. A Sud Renzi aveva due possibilità: un percorso lungo di riforma, che significava scelta di candidati nuovi, oppure affidarsi ai feudi elettorali - un voto un lavoro, un voto un favore - e ottenere velocemente vittoria sperando dall’alto di far cambiare rotta al Sud una volta preso il potere. Ha scelto la strada più semplice e, sul tema politico più importante, non è riuscito a impegnarsi su una strada di trasformazione. Il ragionamento avvenuto al Sud è questo: se il Pd mi ha sempre proposto belle idee, apertura, giustizia, ma poi non è mai riuscito a darmi nulla di tutto questo o ad avvicinarsi, allora preferisco l’assenza di progetto morale, preferisco ragionare rispetto a ciò che mi conviene adesso e che può non convenirmi domani, preferisco un movimento che non è né di destra né di sinistra, che si definisce post-ideologico, che non si pone questioni morali, che rivendica con orgoglio la propria incoerenza: un giorno europeisti e un giorno antieuropeisti; un giorno provax e un giorno antivax. M5S e Lega non hanno preso in giro gli elettori, tutto era palese, tutto cambiava di giorno in giorno - un flusso continuo di notizie orecchiate, story di Instagram, post su Facebook e qualche Tweet - a seconda dei sondaggi. Finanche i casi di cronaca nera (Macerata docet) sono stati utilizzati per fare comunicazione politica. E paradossalmente questo agli italiani è piaciuto, la possibilità di non avere obblighi morali, di poter essere liberamente incoerenti a seconda delle esigenze del momento. Essere elettore di un partito progressista presuppone portare sulle proprie spalle valori che nemmeno il partito per cui voti segue più. E allora che senso ha? Perché vivere il dissidio tra una coerenza autoimposta, e per cui bisogna quotidianamente lottare, e la possibilità di essere egoisticamente liberi? Il M5S agli elettori del Sud non ha dato alcuna soluzione su come far partire davvero l’economia, se non banali ricette di razionalizzazione delle spese e generiche promesse di lotta alla corruzione. Ha dato però una cosa ben più grande: bersagli da colpire. Ha capitalizzato la frustrazione, non chiedendo in cambio condotte di comportamento diverse, anzi, supportando sintassi da haters e impiantando una politica basata sulla percezione della realtà e non sulla realtà. Ma alla rivendicazione della mancanza di coerenza, la Lega aggiunge un dettaglio che faremmo bene a non trascurare, ovvero la libertà di essere anche cattivi. Salvini, che senza distinzione di età, sesso e provenienza manderebbe via tutti gli immigrati, che ha sempre disprezzato il Meridione e che ora si presenta come leader di tutto il Paese, giurando sul Vangelo sembra aver detto: essere contrari all’accoglienza, utilizzare un eloquio violento e apertamente razzista non è in contraddizione con le radici cattoliche. La devozione di Salvini per il Vangelo è identica a quella che hanno i boss della mafia per la Madonna: si può essere cristiani parlando in quel modo di chi scappa dalla miseria e dalla guerra? No. Si può credere nel Vangelo e impedire a migliaia di bambini nati in Italia di avere la cittadinanza? No. In Italia il 4 marzo ha vinto il malessere, non ha vinto la speranza e non ha vinto la voglia di un futuro migliore. Il 4 marzo ha vinto l’idea di Stato chiuso, di nazione con confini alti e invalicabili, invalicabili per gli esseri umani ma non per i capitali criminali (per loro le frontiere sono sempre aperte). Il 4 marzo ha vinto l’euroscetticismo, trainato dell’America di Trump e dalla Brexit, e ha perso l’idea di un’Europa unita e fiera dei suoi diritti, che l’avevano resa il posto migliore in cui vivere. Il 4 marzo ha vinto una strana forma di nichilismo che, proclamando la propria libertà da ogni coerenza, diventa libertà di essere cattivi. Ma qual era l’alternativa? Questa volta non c’era. Lega e M5S hanno vinto perché dall’altra parte non c’era niente. Più niente. Vorrei parlarvi di quel senegalese ucciso dopo le elezioni di Alberto Abruzzese Il Dubbio, 8 marzo 2018 Sull’omicidio “casuale” di Firenze. Un uomo ha ucciso un cittadino di origine senegalese a colpi di pistola sul ponte Vespucci, in pieno centro. Una terribile vicenda di sangue, nella quale molti hanno subito visto un movente razzista. La procura, invece, ha parlato dell’aggressore come di un uomo disperato, in stato confusionale, che voleva farla finita ma che poi, per un motivo ancora inspiegabile, ha rivolto l’arma verso l’immigrato uccidendolo. Day after: questa espressione, elaborata a cavallo tra i due ultimi millenni, è stata molto fortunata nei prodotti e consumi dell’immaginario cinevideo-musicale del pianeta Terra. Significa che ci è dato capire il reale significato di un evento catastrofico soltanto il “giorno dopo”: solo allora la catastrofe rivela il proprio contenuto e per questo la si dice, con più colore e passione, Apocalisse. Ovvero - detto in lingua volgare - Rivelazione: parola che, dispiegando le proprie superiori ragioni extra- mondane, rimette sempre in gioco l’istinto umano di sopravvivenza e il conseguente suo desiderio di ricevere una promessa di salvezza da qualche sovranità superiore. Da qualche Dio nascosto (ricordarsi che fu Caino a nascondersi dopo avere ucciso Abele). Dal giorno dopo le elezioni del 4 marzo, di mattina in mattina e di tramonto in tramonto, per qualche tempo un continuo rovello apocalittico toccherà a tutti i “perdenti dal basso” e cioè non i politici sconfitti - che per lo più se lo sono meritano - ma chi li ha votati, sperando di potere convocarli a proprio favore. Per trovare la propria colpa e capire l’espiazione da compiere, quanti hanno sperato dovranno scavare assai più a fondo di se stessi. Esagero? Credo che per capire il senso degli eventi sia sempre utile spingersi oltre. Tuttavia è vero: nessun catastrofismo e isteria può tornare praticamente utile a un millennio che nasce già di suo isterico, afflitto dal proprio doloroso parto (è infatti l’utero ad avere funzionato da etimologia per l’aggettivo isterico). Dunque bisogna calibrare bene l’interpretazione di questo episodio fiorentino - la morte, le notizie, i tumulti di piazza che ha prodotto - scegliendolo sì come un primo episodio della fase post- elettorale in cui la catastrofe appena avvenuta si è rivelata in tutta la sua portata, ma anche lavorandolo di post-produzione con una qualche ironia, per quanto macabra. Si tratta di un fatto che forse non è ancora in tutto “chiaro” ma che comunque è già così immaginabile come “racconto significativo”: il truce episodio razzista - salutato come prima conseguenza dell’odio liberato dalla fortunata campagna contro lo straniero condotta in “perfetta coscienza” da Salvini - s’è rivelato essere un atroce gesto suicida per interposta persona. Straordinaria “verità” o meglio “invenzione” (la cronaca è sempre una straordinaria fiction dal vivo): una persona desidera morire ma non avendo il coraggio di uccidersi uccide l’uomo della strada e questi - essendo la strada un passaggio ad uso e consumo di chiunque, un luogo comune, un diritto civile - si trasforma in un uomo di colore. Per caso? Per un avverso destino dell’essere umano? Avverso per chi? Proviamo a fare di questo episodio isolato una allegoria, una rappresentazione simbolica: c’è un essere umano stanco di vivere che tuttavia non ha - o non “crede” di avere - la volontà di potenza necessaria a infierire sul proprio corpo e dunque costruisce, in pochi istanti di genio, il capro espiatorio del sue stesso desiderio di morire. Se ne può evincere questo: la volontà di potenza che non è bastata al potenziale suicida è invece più che bastata a trasformarlo in omicida. Non porta a nulla pensare che questo “bastare” a se stessa della volontà di potenza sia da assegnare ad una condizione di follia estranea all’umana condizione quotidiana: le strade sono piene di folli che crediamo folli esattamente come non possiamo credere di essere folli noi stessi. Ci hanno insegnato e abbiamo imparato che la follia è sempre la più felice rivelazione della normalità. Il colore della vittima non c’entra nulla? Vuole dire allora che siamo tutti esseri umani e tutti abitiamo strade e piazze? Che abbiamo finalmente accolto l’idea che non faccia differenza tra un colore e l’altro della pelle? Evidentemente no: per la città e i media è stato il colore del cadavere a creare l’evento, a metterlo nell’agenda dei fatti significativi. Nero su bianco: serve a come orientare l’opinione e elaborare il lutto in base alla diversità tra gli attori sociali in campo e alla domanda del mercato. E allora possiamo davvero sostenere che la volontà di potenza di chi crede di essere votato al suicidio non guarda al colore delle sue vittime? Non è il suicida a dare senso alle sue azioni ma la scena in cui ogni azione si colloca. Quella mattina del giorno dopo le elezioni, la messa in scena mediatica aveva già pronti i ruoli da assegnare. Gli effetti speciali con cui colorare le figure. Aprire le danze tra colpevoli e innocenti. Il colore c’entra per intervento delle differenze sociali: sono loro a colorare la pelle. Il colore così come la differenza tra abitanti nativi e stranieri. Passo dopo passo, su questa storiella urbana finita male (ingiusta da ogni punto di vista: il bianco non è riuscito a morire e il nero non è riuscito a vivere) - si può fare un discorso sulla maleducazione. Non su quella delle persone, dei loro diversi galatei e abiti mentali, così tanto esplosi tra una ciarla e l’altra del malanimo elettorale. Ma sulla cattiva (prigioniera), falsa (artefatta), educazione della coscienza umana in quanto tale. Dunque su quella rimozione del sé che proprio i valori dell’umanesimo e dei legami sociali in cui si sono incarnati hanno prodotto sulla persona facendogli credere di essere “libera” e “buona” per natura. Dall’episodio di cronaca da cui siamo partiti si può quindi ricavare una precisa chiave interpretativa: il soggetto occidentale (la soggettività di ogni forma di potere) è sempre più stanco di sé, desidera morire o soffre sempre più della propria vita, eppure continua a uccidere recuperando all’ultimo momento proprio quella stessa volontà di potenza che pareva essersi spenta. Quella violenza da cui è stato fatto credere indenne per virtù dei saperi e delle istituzioni della civilizzazione, le quali lo hanno sempre voluto giusto e buono per diritto elettivo, per donazione sovrana. La stessa favoletta del buon vecchio cittadino che, giunto al termine della propria disperazione, uccide il primo passante che gli capita davanti (magari apparso alla sua senile follia con il colore più giusto per soddisfarla), può essere raccontata giocando con la letteratura di genere - quella ispirata dalla figura liminare del Vampiro - nata dalle più profonde inquietudini ottocentesche sulla natura terribile e irredimibile della coscienza umana. Su tutti i fantasmi di sangue che sarebbero giunti a compimento nel Novecento. Cronache del giorno dopo: esce di casa un vivo che vuole sopravvivere come morto e per esaudire il proprio ultimo desiderio di redenzione s’appropria della morte di un vivo. 8 marzo: oltre il 12,6% delle donne vittima di stalking di Gabriella Lax studiocataldi.it, 8 marzo 2018 I dati Eurispes su violenze e femminicidi pubblicati alla vigilia della celebrazione della Giornata internazionale della donna. Alla vigilia della celebrazione della Giornata internazionale della donna lasciano un’ombra cupa i dati che riguardano violenze e femminicidi. Secondo le stime dell’Eurispes, riportate da Adnkronos, il 12,6% delle donne maggiorenni è o è stata vittima di stalking. E il dato conferma come, nel 34% dei casi, il responsabile è un ex: coniuge, fidanzato o compagno che sia. Nel 17% è un conoscente, nel 14,3% dei casi è un collega. Solo il 4,3% delle donne indica come stalker il proprio attuale marito, compagno o fidanzato. Ancora 8 donne su 10 rilevano che negli ultimi 2 anni si assiste ad un incremento degli episodi di violenza nei loro confronti; il 12,6% delle donne ascoltate dai 18 anni in su, ha subito nel corso della vita condotte vessatorie ripetute nel tempo. Tra di esse, quattro su dieci hanno tra i 18 e i 34 anni, oltre un quarto sono separate o divorziate e due su dieci sono conviventi. Secondo le stime il 17,7% vive nelle Isole, e il 17% nel Nord-Est, luoghi in cui il fenomeni sembra particolarmente grave. Stalking, chi sono le vittime tipo Le vittime prese di mira dall’ex sono nella maggioranza dei casi le donne che vivono in coppia e non hanno figli (57%), poi donne che vivono sole (38,5%) e infine donne che vivono in coppia ed hanno prole (25,8%). Messaggi o telefonate sono gli strumenti utilizzati per fare stalking, sette volte su 10. Nel 58,5% delle volte si tratta di insulti, il 48,6% delle intervistate parla di diffusione di affermazioni diffamatorie e oltraggiose, 4 su dieci subiscono appostamenti, pedinamenti e minacce, il 23% danni a cose di proprietà. Ha subìto aggressioni fisiche il 17% delle vittime di stalker e una identica percentuale molestie rivolte alla famiglia o agli animali della vittima. Le over 60 detengono il record col 28,6%. Infine il dato più agghiacciante è che il 32,5% delle intervistate ha dichiarato di aver conosciuto altre vittime di stalking, il triplo di quella di coloro che hanno avuto esperienza in prima persona, un dato che per le giovanissime sale fino al 46,4%. Rubare cibo non prova la “fame” e resta reato di Marina Crisafi studiocataldi.it, 8 marzo 2018 Non basta la sottrazione di generi alimentari per ipotizzare lo stato di necessità del ladro. Per escludere il reato di furto, inoltre, bisogna provare che il bisogno non può essere soddisfatto con mezzi leciti. Inevitabile la condanna per tentato furto per chi viene beccato all’uscita del supermercato con del cibo nascosto nei pantaloni per il valore di 14 euro. Non regge né l’ipotesi dello stato di necessità né quella di urgente bisogno. Così ha sancito la quinta sezione penale della Cassazione, con sentenza n. 10094/2018 depositata ieri (sotto allegata), respingendo il ricorso di un uomo condannato in appello per tentato furto di generi alimentari del valore di 14 euro, sottratti dai banchi di un supermercato, occultati nei pantaloni e portati fuori dal negozio senza pagarne il corrispettivo. La vicenda - L’uomo ricorreva avverso la sentenza della Corte d’appello di Genova che, riconosciuta l’attenuante ex art. 62, n. 4 cp, confermava la condanna del giudice di prime cure per tentato furto, adducendo che la decisione era carente di motivazione in ordine alla sua richiesta di assoluzione, trattandosi di furto commesso per necessità. I giudici della cassazione però non sono d’accordo e reputano il ricorso manifestamente infondato. La corte d’appello, innanzi alla quale è stato invocato lo stato di necessità, affermano infatti, “ha già rilevato che di esso non vi è prova, non potendo ritenersi sufficiente - per il fine anzidetto - il fatto che i beni sottratti siano di natura alimentare”. Di tale rilievo, aggiungono “il ricorrente non tiene conto, finendo col proporre un motivo privo di specificità”. A nulla vale, pertanto, richiamare precedenti giurisprudenziali, peraltro non pertinenti al caso di specie, trattandosi di merce dal valore non infimo, e insistere in una prospettazione priva di qualsiasi supporto probatorio. Esclusa anche la derubricazione del reato in furto lieve ex art. 626 cp, che ricorre quando il fatto è commesso “per provvedere a un grave ed urgente bisogno”. Nella specie, nessun elemento dimostra la sussistenza di tale condizione, né la prova, che “il bisogno non possa essere soddisfatto con mezzi leciti” come richiede appunto l’ipotesi di furto attenuata. Per cui, condanna confermata oltre al pagamento di 2mila euro alla Cassa delle ammende. Il dissenso frena l’archiviazione del Gip di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2018 Corte di cassazione - Sentenza 10402/2018. Il Giudice per le indagini preliminari non può archiviare, per particolare tenuità del fatto, se la parte offesa ha contestato l’ipotesi di non punibilità. Né, per passare al contradditorio in udienza camerale, è necessario che la parte lesa fornisca ulteriori elementi di prova, frutto di investigazioni suppletive. Una condizione richiesta solo quando la richiesta di archiviazione è basata sull’infondatezza della notizia di reato. La Corte di cassazione, con la sentenza 10402, accoglie il ricorso del legale rappresentante dell’Esselunga, contro la decisione del Gip di archiviare, su richiesta del Pm, un procedimento per il tentato furto di 94 confezioni di gomme da masticare. Secondo il ricorrente, mancavano gli estremi della particolare tenuità, prevista dall’articolo 131-bis del Codice penale, sia per il valore venale non esiguo (233 euro) se il “colpo” fosse andato a segno, sia per l’assenza, della condizione di sopperire ad un urgente bisogno. Ragioni messe nero su bianco nell’atto di opposizione, come previsto dall’articolo 411-bis del Codice di procedura penale. Il Gip aveva comunque dichiarato inammissibile l’opposizione senza valutare la fondatezza delle ragioni e fornire un’adeguata motivazione del no ad un contradditorio che si doveva svolgere dopo la fissazione di un’udienza camerale. Ad avviso della difesa il Gip aveva “pasticciato” confondendo il modulo di opposizione alla richiesta di archiviazione previsto dall’articolo 410 comma 1 bis del codice di rito penale, con quello previsto dall’articolo 411, comma 1-bis dello stesso codice. Il primo, applicabile nel caso di opposizione per infondatezza della notizia di reato, il secondo per l’archiviazione della particolare tenuità del fatto. Non c’è dubbio che nel caso di non punibilità per la lievità del fatto il reato ci sia. Chi si oppone non é dunque tenuto a dimostrare che è stato commesso, ma solo a contrastare la tesi della scarsa “rilevanza”. Investigazioni suppletive e relativi elementi di prova entrano invece in gioco quando la parte lesa vuole dimostrare che la notizia di reato non è infondata. Nel caso esaminato poi gli elementi suppletivi, anche se solo per scongiurare la non punibilità, il ricorrente li aveva anche offerti chiedendo di sentire l’addetto alla sorveglianza e i vigilantes. Omesse ritenute, pesano le scadenze dei contributi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2018 La Cassazione mette i paletti, almeno cronologici, al omesso versamento delle ritenute. Questione assai rilevante dopo la depenalizzazione del gennaio 2016 che ha ristretto l’area della rilevanza penale alle condotte di omissione superiore a 10.000 euro all’anno. Le Sezioni unite penali, con la sentenza n. 10424 depositata ieri, hanno infatti fissato il principio di diritto in base al quale la soglia di punibilità deve essere individuata con “riferimento alle mensilità di scadenza dei versamenti contributivi (periodo 16 gennaio-16 dicembre relativo alle retribuzioni corrisposte, rispettivamente, nel dicembre dell’anno precedente e nel novembre dell’anno in corso)”. Le Sezioni unite ricordano che è vero che il debito previdenziale nasce in seguito al pagamento delle retribuzioni, al termine di ogni mensilità, ma è altrettanto vero che la condotta del mancato versamento assume rilevanza solo con quando è trascorso il termine di scadenza individuato dalla legge, “sicché appare più coerente riferirsi, riguardo alla soglia di punibilità, alla somma degli importi non versati alle date di scadenza comprese nell’anno e che vanno quindi dal 16 gennaio (per le retribuzioni del precedente mese di dicembre) al 16 dicembre (per le retribuzioni corrisposte nel mese di novembre)”. Una soluzione che alle Sezioni unite appare preferibile, anche alla luce di altri aspetti rilevanti, come, per esempio, osserva la sentenza, le modalità di inoltro per via telematica delle denunce mensili con i dati retributivi e le informazioni utili al calcolo dei contributi, oggi effettuata attraverso il sistema Uniemens che ha progressivamente sostituito le modalità di invio delle informazioni precedentemente contenuti nei modelli DM10. Una procedura che prevede un controllo di congruità delle dichiarazioni con possibilità di correzione e rettifica. “Ne consegue che anche sulla base di tali adempimenti può compiutamente definirsi l’ammontare del debito contributivo, attraverso un sistema, per così dire, fluido, che in alcuni casi consente l’esatta individuazione degli importi dovuti solo all’esito di determinati calcoli”. La conclusione raggiunta è poi quella senza dubbio più gradita all’Inps che in via preliminare avviò sul punto un confronto con il ministero del Lavoro e con la Procura di Roma. In questo contesto si arrivò alla conclusione di dovere riconoscere nella nuova fattispecie un reato che potrebbe anche configurarsi a formazione progressiva e a consumazione prolungata. Con quest’ultimo aspetto che portò a ritenere che il rispetto della struttura annuale dell’illecito imponesse di contenere entro l’arco temporale dell’anno civile non soltanto l’importo omesso, ma anche la condotta omissiva. Responsabilità medica: ambito di applicazione della previsione di “non punibilità” Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2018 Responsabilità medica - Colpa per morte o lesioni personali - Linee guida - Presupposti. L’esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall’esercizio di attività medico-chirurgica: a) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da negligenza o imprudenza; b) se l’evento si è’ verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali; c) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia nella individuazione e nella scelta di linee-guida o di buone pratiche clinico-assistenziali non adeguate alla specificità del caso concreto; d) se l’evento si è verificato per colpa “grave” da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle speciali difficoltà dell’atto medico. • Corte di cassazione, sezioni Unite penali, sentenza 22 febbraio 2018 n. 8770. Responsabilità medica - Disciplina di cui all’articolo 590 sexies c.p. - L. 24 del 2017 (c.d. legge Gelli-Bianco) - Causa di non punibilità - Imperizia - Presupposti. L’articolo 590-sexies cod. pen., comma 2, introdotto dalla L. 8 marzo 2017, n. 24 (c.d. legge Gelli-Bianco), è norma più favorevole rispetto all’art. 3, comma 1, d.l. 13 settembre 2012, n. 158, poiché prevede una causa di non punibilità dell’esercente la professione sanitaria operante, ricorrendo le condizioni previste dalla disposizione normativa (rispetto delle linee guida o, in mancanza, delle buone pratiche clinico-assistenziali, adeguate alla specificità del caso), nel solo caso di imperizia, indipendentemente dal grado della colpa; essendo compatibile il rispetto delle linee guide e delle buone pratiche con la condotta imperita nell’applicazione delle stesse. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 31 ottobre 2017 n. 50078. Responsabilità medica - Disciplina di cui all’art. 590 sexies c.p. - Applicazione - Cause di esclusione. In materia di responsabilità medica la nuova disciplina di cui all’art. 590 sexies c.p.(come modificato dall’art. 6, c. 2, L. 8 marzo 2017, n. 24), secondo la quale qualora l’evento lesivo o mortale si sia verificato a causa di imperizia nell’esercizio della professione sanitaria, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto, non trova applicazione in determinati casi: 1) negli ambiti che, per qualunque ragione, non siano governati da linee guida, 2) nelle situazioni concrete nelle quali tali raccomandazioni debbano essere radicalmente disattese per via delle peculiarità della condizione del paziente o per qualunque altra ragione imposta da esigenze scientificamente qualificate, 3) in relazione alle condotte che, sebbene poste in essere nell’ambito di approccio terapeutico regolato da linee guida pertinenti e appropriate, non risultino per nulla disciplinate in quel contesto regolativo. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 7 giugno 2017 n. 28187. Responsabilità medica - Linee guida - Pertinenza al caso concreto - Verifica - Necessaria. Le linee guida non possono fornire indicazioni di valore assoluto, né può ritenersi che l’adeguamento o il non adeguamento del medico alle medesime escluda o determini automaticamente la colpa. Le linee guida contengono valide indicazioni generali riferibili al caso astratto, ma è altrettanto evidente che il medico è sempre tenuto ad esercitare le proprie scelte considerando le circostanze peculiari che caratterizzano il caso concreto e la specifica situazione del paziente, nel rispetto della volontà di quest’ultimo, al di là delle regole cristallizzate nel protocolli medici. La verifica circa il rispetto delle linee guida, pertanto, va sempre affiancata a un’analisi - svolta eventualmente attraverso perizia - della correttezza delle scelte terapeutiche alla luce della concreta situazione in cui il medico si è trovato a intervenire. In definitiva, non vi potrà essere esenzione da responsabilità per il fatto che siano state seguite linee guida o siano stati seguiti protocolli ove il medico non abbia compiuto colposamente la scelta che in concreto si rendeva necessaria. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 16 gennaio 2015 n. 2168. Sassari: finanziamento del Miur per il Polo Universitario Penitenziario uniss.it, 8 marzo 2018 L’Università di Sassari si conferma anche nel 2018 all’avanguardia per i servizi offerti agli studenti di tutte le tipologie, inclusi quelli con esigenze speciali come gli studenti in regime di detenzione. L’ateneo sassarese, che ha approvato lo scorso maggio un regolamento per l’istituzione e il funzionamento del Polo Universitario Penitenziario, ha visto premiati i suoi sforzi con l’erogazione da parte del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, di un finanziamento speciale di 220.000 euro. Il finanziamento, nell’ambito del Fondo di Finanziamento Ordinario delle Università 2017 è appositamente destinato all’implementazione delle attività del Polo Universitario Penitenziario. L’Ateneo di Sassari è stata l’unica realtà italiana ad aver beneficiato di un fondo premiale del Miur per la didattica carceraria. Il PUP Uniss è uno dei 17 poli italiani che coinvolgono 20 atenei. Poco meno della metà della popolazione carceraria italiana risiede in istituti penitenziari inseriti in un Polo Universitario Penitenziario. Complessivamente la rete dei PUP nazionali vede iscritti alle università oltre 450 studenti nel 2017. “Tra le realtà nazionali, quella di Sassari è l’unica insulare e l’unica in cui una università eroga servizi didattici a studenti detenuti in quattro diversi istituti penitenziari: Alghero, Sassari-Bancali, Tempio-Nuchis, Nuoro - dichiara il Delegato rettorale al Polo Universitario Penitenziario Emmanuele Farris, docente del Dipartimento di Chimica e Farmacia- Sassari è la quarta realtà italiana sia per numero di iscritti (38 nel 2017, 35 nel 2018), sia per incidenza sulla popolazione carceraria locale: 4% contro una media nazionale dell’1,9%”. La didattica universitaria carceraria viene erogata con modalità diverse ad una platea di studenti che vanno da quelli in regime di detenzione comune, a quelli in alta sicurezza fino ad alcuni detenuti in regime 41bis. L’accesso ai materiali di studio viene sempre migliorato grazie alle sinergie con il Sistema Bibliotecario di Ateneo e l’Ersu Sassari, che dal 2017 ha raddoppiato l’importo del contributo concesso all’Università per l’acquisto dei testi necessari agli studenti detenuti e che - a seguito di un recente accordo con il Direttore Generale Antonello Arghittu - supporterà dal prossimo anno accademico il lavoro del Polo Universitario Penitenziario nel processo di dematerializzazione e digitalizzazione dei percorsi di studio. “Il finanziamento erogato dal Miur, oltre a dimostrare l’attenzione che l’attività universitaria carceraria realizzata a Sassari sta suscitando a livello nazionale, consentirà di consolidare i servizi offerti agli studenti detenuti dell’ateneo, in primo luogo il servizio di tutoraggio in presenza e a distanza e i servizi informatici, sia per l’accesso ai materiali di studio sia per la gestione della propria carriera universitaria - Dichiara il Rettore Massimo Carpinelli - Si tratta di un tassello importantissimo per strutturare sempre meglio una università non solo competitiva sul versante della ricerca scientifica e del trasferimento tecnologico, ma che sia sempre più radicata nel contesto economico-sociale e territoriale in cui opera, con attenzione a quelle utenze che necessitano di servizi speciali dedicati affinché l’ateneo adempia alla sua prima missione: quella di erogare percorsi formativi di qualità a tutti coloro che ne abbiano i requisiti. Un ateneo non solo altamente competitivo e internazionale quindi, ma anche sempre più inclusivo”. Roma: “Destinazione Rebibbia”, dal taxi al carcere. “Ecco il nostro 8 marzo” di Teresa Valiani Redattore Sociale, 8 marzo 2018 Tassisti e tassiste di Roma insieme per donare kit di primo ingresso alle detenute e giocattoli ai bambini che vivono in istituto con loro. Già raccolti 38 scatoloni con indumenti e biancheria. Partecipano all’evento anche l’osservatorio internazionale per la Salute e il centro anti violenza Marie Anne Erize “Il nido di Rebibbia è una realtà misconosciuta che attualmente ospita 14 bimbi, da 0 a 3 anni. Da donne che pensano alle donne, impossibile dimenticare questi bambini che vivono i loro primi 3 anni di vita in un “non-luogo”, vicini alle madri ma lontani dal mondo. Un giocattolo ciascuno per un sorriso, per stimolare ulteriormente l’apprendimento: questo sarà il nostro 8 marzo”. Il messaggio arriva dalle tassiste romane, prima solo un gruppo, ora organizzate in una vera e propria associazione, che si affiancano ai colleghi di “Tutti Taxi per Amore” (tuttitaxiperamore.it) riempiendo di nuovi contenuti e ulteriore linfa vitale il progetto “Destinazione Rebibbia”. Giunto alla seconda edizione, la prima si era svolta nell’autunno scorso, l’evento prevede la raccolta e la consegna di indumenti e generi di prima necessità destinati a comporre kit di primo ingresso per neo detenute in difficoltà ristrette nella sezione femminile del carcere romano. E ora, grazie alle “Tassiste di Roma” (pagina facebook.com/letaxisteinformano) saranno consegnati anche giocattoli per i figli delle donne recluse. La seconda fase del progetto è stata pensata e organizzata in occasione dell’8 marzo con una raccolta attiva da qualche giorno. “Nel Teatro della Casa Circondariale - spiegano le tassiste sui social in un post intitolato “Senza colpa” - l’8 marzo si terrà uno spettacolo a beneficio di alcune ospiti grazie all’associazione “Il Viandante”, organizzatrice dell’evento. Parteciperanno, tra gli altri, gli attori Mirko Frezza e Francesca Romana Cerri, il gruppo musicale “Presi per Caso, l’artista Alan Bianchi, Betta Cianchini di Radio Rock e Valeria Vivarelli dell’Osservatorio internazionale per la Salute”. E proprio la presenza dell’Osservatorio internazionale per la Salute rappresenta un altro tassello importante dell’evento promosso per la festa della donna dall’associazione “Tutti Taxi per Amore”: un pulmino dell’Osservatorio, impegnato nella sanità di frontiera con equipe di medici al lavoro nelle zone periferiche della capitale per dare assistenza alle persone in difficoltà, raggiungerà anche la sezione femminile di Rebibbia. “Sarà un pomeriggio di informazione, musica e vicinanza - sottolinea Mario Pontillo, responsabile dell’associazione Il Viandante, da anni attiva a Rebibbia femminile - in cui porteremo in carcere un aiuto per le donne che si preparano ad affrontare la detenzione e per i bambini costretti a condividere la carcerazione. Un piccolo passo nella loro direzione che però rappresenta un grande sostegno per chi si trova in quelle condizioni”. Due auto piene di materiali, con 38 scatoloni già confezionati, sono pronte a partire alla volta di Rebibbia mentre la raccolta continua anche in queste ore. “Abbiamo lanciato in tutta Roma, anche tramite appelli da Radio Rock - spiega il presidente di “Tutti Taxi per Amore”, Marco Salciccia - questa seconda raccolta per le donne detenute perché chi, tra le recluse, ha parenti in città, ha la fortuna di avere un cambio di biancheria periodico, ma chi fuori dal carcere non ha nessuno, rischia di restare con gli stessi vestiti per mesi. E, soprattutto per l’intimo, avere un cambio diventa una forte necessità. Il nostro progetto ha lo scopo di aiutare queste persone ma anche, attraverso la comunicazione, di sensibilizzare tutti verso l’inclusione”. Partecipano alla giornata promossa a Rebibbia anche Stefania Catallo e il centro antiviolenza Marie Anne Erize che dirige. “Il nostro 8 marzo - racconta Stefania - ci vedrà di nuovo a Rebibbia per un pomeriggio di svago dedicato alle detenute. Ci sarà musica e anche teatro, con le esilaranti performance di Francesca Romana Cerri, direttrice artistica del Teatro Manhattan di Roma e nostra socia, che dedicherà alle recluse due sketch che hanno per protagoniste le donne. Inoltre, abbiamo previsto un’altra donazione, come già lo scorso ottobre, di indumenti intimi femminili per il kit di primo ingresso, e di abiti per bambino, per i figli delle detenute che vivono nel carcere assieme alle mamme. Grazie di cuore a chi vorrà contribuire”. Roma: visita del Papa alla Casa Famiglia Leda Colombini di Gioia Cesarini Passarelli* Ristretti Orizzonti, 8 marzo 2018 Venerdì pomeriggio Papa Francesco, accompagnato da Mons. Fisichella e da un assistente, suona il campanello del villino all’Eur che ospita la casa di Leda e si presenta a Lillo di Mauro venuto ad aprire. Incredibile, ma vero, questa visita avvenuta sotto il segno dell’assoluta non ufficialità non è precostituita o preparata. Papa Francesco si è trattenuto per quasi un’ora in un clima piacevolissimo di colloqui diretti, di volontà di conoscersi e di parlare. Il Pontefice, parlando con le mamme, ha voluto sapere e conoscere; non rinunciando per un minuto a far divertire i cinque bambini con gesti simpaticissimi. Ha fatto pure una piccola merenda con i dolci che le mamme abitualmente preparano. Ha anche risposto ad un volontario che aveva parlato di un episodio di infrazione del codice della strada, con una spiritosissima barzelletta. Si conosce lo sguardo attentissimo che in generale Papa Bergoglio rivolge ai Suoi interlocutori. Questo Suo aspetto ha colpito tutti i presenti (operatori, educatori e volontari) nei passaggi in cui le madri hanno raccontato momenti delle loro storie e vicissitudini. Stampa e media commentano oggi la visita del Pontefice: “Essa prosegue il Suo itinerario che tocca anche punti dolenti della città; Bergoglio ha scelto di legare il giorno della misericordia, visitando ieri la casa di Leda”. È stato un conforto grande a quanti nel progetto della casa di Leda hanno creduto e che oggi lavorano e collaborano. Credenti e non credenti, chi ha il dono della fede e chi non lo ha. Questa visita ci spinge a proseguire nella nostra azione. Papa Bergoglio in più di un’occasione ha incitato a non fermarsi davanti alla società del transitorio. A pensarci bene, il progetto della casa di Leda, ha poco di transitorio. Grazie della visita, Papa Francesco. *Presidente Associazione A Roma, Insieme - Leda Colombini Messina: i detenuti stanno realizzando un murales di 500 metri quadri tgme.it, 8 marzo 2018 Colorare le mura interne di un carcere per rendere meno pesante l’atmosfera può diventare anche un segnale di speranza, un piccolo passo verso il riscatto per le persone che vi soggiornano. L’arte. La bellezza, il colore sono da sempre messaggi positivi. Questo è quanto sta avvenendo nella Casa Circondariale di Messina a Gazzi perché è proprio partendo da questa idea che il Cepas (Centro Prima Accoglienza Savio) ha promosso la realizzazione di un grande murales in un cortile interno del carcere. Un grande dipinto che inneggia alla speranza del cambiamento. Il murales che rappresenta la storia del profeta Giona e della balena occupa quasi 500 metri quadri del muro del cortile a cui si accede da Quarto cancello. Uscire da quel cancello, che rappresenta la pancia della balena, è come varcare una porta verso la libertà. L’incarico di realizzare l’opera è stato affidato al giovane writers messinese, ormai affermato anche oltre stretto, Nicolò Amato (Nessunettuno, il nome d’arte). Per la realizzazione dell’opera il Cepas e Nicolò Amato si avvalgono della collaborazione della Gmg colori che ha messo a disposizione una parte di attrezzature e materiale. Per dipingere Giona e la balena sono necessari oltre 150 litri di colore per esterni dal bianco, al blu al nero. Cinque ospiti della Casa circondariale sono impegnati volontariamente nella realizzazione dell’opera.. Uno di essi con entusiasmo ha confessato: “Sto imparando perché presto esco e ho promesso a mio figlio che pitturerò la sua camera con i colori della Juventus e i volti dei giocatori juventini”. L’opera sarà presentata ufficialmente durante una conferenza stampa, alla quale parteciperà il presidente del Tribunale di sorveglianza, Nicola Mazzamuto. Il Cepas con il suo presidente don Umberto Romeo e la coordinatrice dei volontari Lalla Lombardi, è presente all’interno del Carcere di Gazzi da circa 30 anni, organizzando attività di risocializzazione e riscoperta delle emozioni come laboratori di teatro, genitorialità, uncinetto, scuola calcio, artigianato creativo e colloqui di orientamento e sostegno. Bari: all’Ipm “La casa di Asterione”, seminario pratico per il teatro in carcere teatroecritica.net, 8 marzo 2018 Dall’8 al 10 giugno un seminario di alta formazione condotto da Lello Tedeschi nell’Istituto penale per i minorenni “fornelli” di bari. La compagnia CasaTeatro in collaborazione con il Teatro Kismet OperA e Teatri di Bari presenta “La casa di Asterione - seminario pratico per il teatro in carcere” condotto da Lello Tedeschi: laboratorio di alta formazione in programma a giugno, da venerdì 8 a domenica 10, all’interno della Sala Prove (il teatro dell’Istituto Penale per i Minorenni “Nicola Fornelli” di Bari) per tre giornate di lavoro. Il seminario è un’esperienza concreta di apprendimento di principi e tecniche per il teatro in carcere, in cui si alterneranno pratica e riflessione teorica “dal vivo” sotto la guida di Lello Tedeschi: drammaturgo, regista e formatore, dal 1998 direttore artistico delle attività teatrali rivolte ai giovani dell’Istituto Penale per i Minorenni “Fornelli” di Bari, progetto Sala Prove, tra le esperienze più significative di teatro e carcere in Italia. Un progetto formativo rivolto a artisti, operatori e educatori dotati di competenze anche minime in ambito teatrale. Gli allievi, partecipandovi attivamente, approfondiranno il processo di lavoro verso l’allestimento di uno studio teatrale che prevede in scena detenuti-attori e attori professionisti, dalla scelta del tema o di un testo all’elaborazione di una scena. Un processo circolare continuo di apprendimento che dall’esperienza pratica va alla riflessione, all’elaborazione teorica e torna infine all’esperienza, fornendo gli strumenti fondamentali per la creazione di personali metodologie di lavoro. Info e iscrizioni: casateatro.bari@gmail.com / 392 9960460 - 349 1636474. Facebook.com/CompagniaCasaTeatro Dopo la fine degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari friulionline.com, 8 marzo 2018 Le Edizioni Alphabeta Verlag di Merano pubblicano “Liberarsi della necessità degli ospedali psichiatrici giudiziari. Quasi un manuale”. (2017, pp 340, € 16,00, Edizioni alphabeta Verlag). Il volume verrà presentato venerdì 9 marzo alle 18 al Caffè San Marco di Trieste. All’incontro saranno presenti, oltre all’autore Pietro Pellegrini, Giovanna Del Giudice ConF.Basaglia, Stefano Cecconi Stop Opg e Franco Rotelli presidente Commissione Welfare Fvg. L’evento rientra all’interno di “Oltre le Rems”, giornate di Alta formazione (9-10 marzo) organizzate dalla Clinica Psichiatrica della Facoltà di Medicina dell’Università di Trieste e da Conferenza per la salute mentale nel mondo/Franco Basaglia. “Oggi che la sfida del superamento dell’Opg è sostanzialmente vinta, la grande questione è come dare piena funzionalità al nuovo sistema riformato. Questo può avvenire solo a partire da quei valori che ogni giorno Mario Tommasini e Franco Basaglia hanno testimoniato e che possono ispirare il lavoro di psichiatri, magistrati, forze dell’ordine e di tutta la comunità. Quella comunità che sa manifestarsi nelle forme più belle di fronte alle catastrofi e che tanto fa nel quotidiano e nel silenzio, affinché si affermi in ogni occasione, al di là delle pratiche, delle procedure e delle istituzioni, il valore della persona, di ogni singola persona”. Era il 2012 quando il Parlamento italiano nel votare la legge “svuota carceri” approvò un emendamento che affrontava la questione dei manicomi giudiziari, prendeva atto del rapporto della Commissione parlamentare d’Inchiesta presieduta dal senatore Ignazio Marino che denunciava le condizioni non più sopportabili di quei luoghi, la negazione di ogni diritto per gli internati, l’arcaismo dell’impianto legislativo risalente al codice Rocco del 1930. Anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel suo discorso alla nazione del capodanno 2012 pronunciò un insolito, accorato e commosso appello definendo quei luoghi “indegni di una società appena civile”. Il 30 maggio 2014 venne varata la legge 81/2014 che sancì il definitivo superamento degli Opg. Si giunse al marzo 2015 quando finalmente i primi internati cominciarono a uscire da quelle istituzioni e si avviò un difficile cammino per rendere definitiva quella auspicata chiusura. Sono seguiti due anni di intensa attività per regolamentare, trovare percorsi adeguati, affrontare per la prima volta in un campo così ruvido la secolare contraddizione tra il bisogno di protezione sociale, la limitazione della libertà per gli autori di reato e l’assoluta necessità di affermare il diritto alla cura e alla salute. A gennaio del 2017 l’ultimo internato lasciò l’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto. Il volume a cura di Pietro Pellegrini, con l’intento di ricordare Mario Tommasini a dieci anni dalla sua scomparsa, raccoglie interventi e scritti per sostenere l’attuazione della legge 81/2014. Gli scritti riferiscono delle riflessioni del gruppo di lavoro che all’interno del Dipartimento di Salute Mentale di Parma opera per realizzare la Residenza per l’esecuzione della misura di sicurezza, per progettare misure alternative, per avviare percorsi terapeutico/riabilitativi personalizzati. In una prima parte del testo, il lettore sarà informato sul processo di chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari e sulla conseguente attuazione della legge che mette fine al sistema custodialistico e repressivo del ricovero in manicomio criminale; in una seconda parte, invece, il focus si sposterà sulle maggiori criticità della riforma, come ad esempio la sicurezza o la responsabilità professionale, tentando di delineare delle soluzioni coerenti e opportune. La sequenza incalzante dei contributi e l’impostazione dialettica dei contenuti collocano il lettore all’interno di un cantiere, dal quale possa effettivamente ricavare sia un’idea chiara e globale del cambiamento in corso, sia un’occasione di dibattito, confronto e condivisione. Se, infatti, l’impegno che ha da sempre animato l’operato di Mario Tommasini può essere individuato nella fiducia riposta nel singolo per raggiungere importanti traguardi sociali e politici, così il testo a lui dedicato intende valorizzare la posizione del lettore e la sua partecipazione alla discussione. “Liberarsi dalla necessità del carcere” era uno degli slogan programmatici del lavoro di Mario Tommasini, di Franco Rotelli e di tanti altri compagni di strada, ma il suo lavoro contro l’esclusione e l’emarginazione lo ha visto altresì intento a combattere la necessità del manicomio, del brefotrofio, degli istituti per i disabili, dei ricoveri per i vecchi: in una parola, di tutte le istituzioni totali, nelle quali si esauriva la vita delle persone e veniva meno il senso stesso della soggettività. Liberarsi dalla necessità ospedali psichiatrici giudiziari. Quasi un manuale entra a far parte della Collana “180 - Archivio critico della salute mentale”, diretta da Peppe Dell’Acqua. La collana si pone come punto di coagulo e di convergenza delle varie proposte del mondo della salute mentale che in soli sette anni ha messo a catalogo ben 20 titoli. Con questo libro Collana 180 affronta una questione di pressante attualità. Il cambiamento culturale che la chiusura degli Opg sta producendo è un punto di svolta epocale. Le visioni, i principi, le disposizioni, i cambiamenti che la Legge 180 aveva avviato già nel 1978 sembrano trovare oggi un possibile completamento. Pietro Pellegrini, psichiatra ha maturato esperienze in tutti i campi della salute mentale nei servizi pubblici dagli adolescenti agli adulti, alle dipendenze patologiche. Attualmente Direttore del Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale Dipendenze Patologiche dell’AUSL di Parma ha partecipato attivamente alla campagna per la chiusura degli Opg e ha curato l’apertura della Rems di Parma avvenuta nell’aprile 2015. È docente alla scuola di specializzazione in psichiatria dell’Università di Parma. Siria: il grido di Douma “i nostri bambini chiusi nelle cantine da settimane” di Marta Serafini Corriere della Sera, 8 marzo 2018 L’allerta degli operatori umanitari entrati nella Ghouta con il primo convoglio di aiuti da novembre. Le milizie dell’opposizione rifiutano il salvacondotto di Mosca. I russi e il regime non fermano i raid. Oggi previsto il Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Senza cibo, senza acqua e senza speranza. Mentre è atteso per le 16 ora italiana il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sulla Siria, peggiora di ora in ora la situazione dei civili intrappolati nell’assedio del regime sulla Ghouta. “I miei bambini sono rimasti intrappolati per oltre 15 giorni in uno scantinato per sfuggire alle bombe”. “Le poche persone che hanno del cibo si sentono in colpa e così vanno a mangiare in strada dove sono più esposte al rischio di essere colpiti dalle bombe”. “I bambini mangiano cibo per animali per non morire di fame”. Le testimonianze che arrivano da Douma, città della regione della Ghouta, sotto assedio dal 18 febbraio, sono terrificanti. Secondo Pawel Krzsyiek della Croce Rossa intervistato dal Telegraph “manca tutto: non ci sono più mercati, non c’è cibo e non ci sono medicine. L’intera società siriana è andata distrutta”. Un terzo dei 46 camion di aiuti umanitari arrivati non sono stati in grado di distribuire gli aiuti, a causa dei continui bombardamenti russi sulla regione, continuati nonostante la tregua concessa proprio per fare entrare a Douma i primi aiuti da novembre dopo l’adozione della Risoluzione 2401, presentata da Kuwait e Svezia, che stabilisce una tregua di 30 giorni su tutto il territorio della Ghouta. A partecipare alla distribuzione degli aiuti anche l’Unicef. “Anche se non è stato possibile effettuare la missione di valutazione come previsto, i nostri operatori entrati a Douma hanno segnalato una situazione terribile, in cui la paura e la rabbia della popolazione locale era palpabile”, ha detto Christophe Boulierac, portavoce dell’organizzazione governativa. “Le famiglie - ha aggiunto - vivono per lo più nel sottosuolo da quattro settimane, con alcuni seminterrati che ora ospitano quasi 200 persone. Decine di famiglie provenienti da altre località erano state sfollate a Douma per sfuggire ai combattimenti”. “Un operatore - ha sottolineato Boulierac - ha incontrato un bambino di 8 anni che ha riferito che l’unico pasto che ha avuto in tutto il giorno è stato grano cotto con acqua e zucchero. Ieri aveva ricevuto solo una ciotola di riso e non sapeva se domani avrebbe mangiato”. “La violenza in altre zone della Siria ha continuato a colpire anche i bambini, in particolare ad Idlib, Afrin, Deir-ez-Zor, Damasco e in parti di Aleppo. I primi due mesi del 2018 sono stati particolarmente sanguinosi per i bambini in Siria. L’Unicef ha ricevuto segnalazioni che oltre 1.000 bambini sono stati uccisi o gravemente feriti nei primi due mesi dell’anno. In Siria ci sono 5,3 milioni di bambini bisognosi di assistenza, di cui quasi 2 milioni vivono in aree assediate e difficili da raggiungere, senza diritti fondamentali e assistenza”, ha concluso Boulierac. Nei giorni scorsi testimoni riportano anche di un attacco con gas cloro nella zona di Hamourieh, dove i medici hanno curato almeno 89 pazienti che mostravano sintomi da contaminazione chimica. E se la diplomazia non sembra essere in grado di fermare il massacro, i gruppi ribelli non sembrano essere disposti a negoziare il loro ritiro come proposto da Mosca. Lo ha dichiarato il portavoce di una delle fazioni ribelli presenti nell’enclave, Hamza Birkdar, secondo quanto riporta la stampa internazionale. I ribelli difenderanno il territorio sotto il loro controllo ad est di Damasco, ha aggiunto. “Non ci sono negoziati in corso su questo argomento”, ha affermato Birkdar. “Le fazioni presenti ad Al Ghouta ed i loro combattenti mantengono il loro territorio e lo difenderanno”, ha spiegato il portavoce. Mosca, uno dei principali alleati del governo del presidente siriano Bashar al Assad, ha proposto ai ribelli di lasciare Al Ghouta con le loro famiglie e deporre le armi ma ha continuato ad accanirsi sulla popolazione con raid e impendendo l’accesso degli aiuti. Pakistan: Giovanni Lo Porto, l’italiano ucciso in un raid della Cia di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 8 marzo 2018 Nuove indagini sulla morte del cooperante morto in Pakistan nel 2015. Sotto i colpi di un’operazione antiterrorismo americana è caduto un cittadino italiano, e adesso un giudice italiano chiede di aprire gli archivi segreti statunitensi per cercare le responsabilità di quella morte; certamente involontaria, ma forse evitabile. È infatti possibile, ipotizza il magistrato, che il cooperante palermitano Giovanni Lo Porto, sequestrato in Pakistan da una banda vicina ad Al Qaeda nel gennaio 2012 e ucciso tre anni dopo durante un raid della Cia insieme all’altro ostaggio americano Warren Weinstein e a quattro presunti terroristi, sia stato vittima di un’azione illegale compiuta dal controspionaggio Usa. Il cadavere di Lo Porto fu ritrovato fra i resti di ciò che in gergo militare si chiama target killing: un omicidio mirato rivolto a obiettivi da eliminare (in questo caso i terroristi), che secondo il giudice delle indagini preliminari di Roma equivale “dal punto di vista giuridico, a quello commesso mediante una bomba strategicamente piazzata o l’utilizzo di un cecchino”. Prima di tirare il grilletto, o in questo caso di lanciare un drone-bomba, è necessario “un certosino lavoro di intelligence” per essere sicuri di ciò che si va a colpire, poiché l’intervento è legittimo solo se “condotta e pianificata in modo da minimizzare il rischio di colpire civili o danneggiare obiettivi civili”. Di qui la decisione di respingere la richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura di Roma, e l’ordine - firmato dal giudice Anna Maria Gavoni - di chiedere agli Stati Uniti, tramite una rogatoria internazionale, “tutta la documentazione riguardante l’operazione condotta, mediante l’impiego di droni, tra la fine del 2014 e l’inizio del 2015 sul compound di jihadisti legati ad Al Qaeda, situato in zona tribale al confine tra il Pakistan e l’Afghanistan, ove erano tenuti in ostaggio i cooperanti Lo Porto e Weinstein”. Il giudice vuole le carte sui monitoraggi effettuati dalla Centrale antiterrorismo della Cia sul caseggiato divenuto bersaglio da colpire; su quello che du fatto quando si scoprì che oltre ai guerriglieri jihadisti erano stati uccisi anche due civili occidentali; sulle indagini svolte negli Usa per accertare che gli altri morti fossero effettivamente terroristi; sui nomi di chi “ha coordinato il monitoraggio del compound, gestito e autorizzato gli strikes”, cioè il bombardamento con i droni. In pratica il magistrato chiede che la Cia apra i suoi archivi e sveli i retroscena dell’operazione antiterrorismo svolta in Pakistan. Una soglia fin qui sbarrata sulla quale si era fermato il pubblico ministero di Roma Erminio Amelio, dopo aver chiesto al Ros dei carabinieri di acquisire dalle autorità americane “tutte le informazioni in loro possesso” sull’operazione che portò alla morte di Lo Porto. Gli Stati Uniti non hanno risposto e il pm aveva proposto l’archiviazione del fascicolo, ritenendo in ogni caso difficile ipotizzare i reati di omicidio volontario o anche solo di omicidio colposo. I familiari del cooperante italiano, assistiti dallo studio legale dell’avvocato Andrea Saccucci (lo stesso che ha perorato la causa di Berlusconi alla Corte europea dei diritti umani sulla decadenza da senatore) si sono opposti prospettando eventuali responsabilità della Cia. Anche dopo le scuse presentate dall’ex presidente Barack Obama, che si assunse la responsabilità dell’accaduto in prima persona, a cui seguì la consegna ai familiari di Lo Porto di un assegno da un milione di dollari per chiudere il caso. Ma gli avvocati rivendicano “la natura illecita secondo il diritto internazionale dei target killings”, tanto più se condotti da un’agenzia civile come la Cia, nell’ambito di un’attività antiterrorismo “che non può assolutamente essere fatta rientrare nella nozione di conflitto internazionale”. Il giudice ha accolto la richiesta di nuove indagini, sottolineando che in ogni caso “la protezione accordata ai diritti umani, e in primis il diritto alla vita, non cessa in tempo di guerra”. E ordina al pm di tornare alla carica per chiedere notizie alla Cia, organismo segreto per eccellenza. Come se rifiutasse la dichiarazione di resa di fronte alle informazioni negate. Con quali risultati, però, è tutto da vedere. Guinea Equatoriale. Liberati due italiani detenuti dal 2015 Nova, 8 marzo 2018 Il Ministro Alfano: “grazie per gesto umanitario”. Sono usciti dal carcere Fabio e Filippo Galassi, i due italiani detenuti in Guinea Equatoriale dalla primavera del 2015. Lo conferma in un tweet il ministro degli Esteri e della Cooperazione internazionale Angelino Alfano sull’account ufficiale della Farnesina: “Fabio e Filippo Galassi sono appena usciti dal carcere. Ringrazio il Governo della Guinea Equatoriale per il gesto umanitario. Ora li aspettiamo sani e salvi in Italia”, scrive Alfano. Padre e figlio, di 63 e 25 anni, scontavano una pena per reati fiscali ed erano al centro di una controversa vicenda giudiziaria. Erano stati condannati a 33 (Fabio) e 21 anni (Filippo) di carcere. Arabia Saudita. Giustizia-farsa per i pachistani: nessuna rappresentanza legale La Repubblica, 8 marzo 2018 Lo denuncia oggi un rapporto di Human Rights Watch, sulla base di un “Progetto” per la protezione dei diritti umani e la giustizia in Pakistan. Sono giudicati vistosi i difetti del sistema giudiziario penale che affrontano difficoltà nel trovare assistenza legale, fra detenzioni senza accuse e processi sommari. Il sistema di giustizia criminale saudita calpesta i diritti degli imputati pakistani al giusto processo e ai processi equi. Lo denuncia oggi un rapporto di Human Rights Watch, sulla base di un Progetto per la protezione dei diritti umani e la giustizia in Pakistan. Sono giudicati vistosi i difetti del sistema giudiziario penale per i pachistani, che affrontano difficoltà sostanziali nel trovare assistenza legale, muoversi nelle procedure giudiziarie saudite e ottenere servizi consolari dai funzionari dell’ambasciata pakistana. Lunghe detenzioni senza accuse né processo. l rapporto di 29 pagine, “Trattamento dei pakistani nel sistema giudiziario penale saudita”, documenta le violente procedure processuali dei tribunali sauditi nei casi penali che coinvolgono i pakistani. Le violazioni includono lunghi periodi di detenzione senza accusa o processo, mancanza di accesso all’assistenza legale, pressioni sui detenuti per firmare le confessioni e accettare pene detentive predeterminate per evitare una detenzione arbitraria prolungata e servizi di traduzione inefficaci. Alcuni imputati hanno denunciato maltrattamenti e condizioni carcerarie inadeguate. 12 milioni di lavoratori immigrati, 1,6 sono pakistani. “Nonostante anni di promettenti riforme, le autorità saudite ignorano apertamente i diritti dei sauditi e dei non sauditi nei casi criminali”, ha detto Sarah Leah Whitson, direttore del Medio Oriente presso Human Rights Watch. “Il trattamento riservato agli imputati pakistani mostra quanta strada ancora debba fare l’Arabia Saudita per migliorare lo stato di diritto”. L’Arabia Saudita ospita 12 milioni di stranieri, oltre un terzo della popolazione totale del Paese. Circa 1,6 milioni di pakistani, la maggior parte dei quali lavoratori stranieri migranti, costituiscono la seconda più grande comunità di migranti in Arabia Saudita. Giustiziati 73 pakistani. Sono stati intervistati 12 cittadini pakistani detenuti e processati in Arabia Saudita negli ultimi anni, oltre a sette familiari di altri nove imputati. Sono stati coinvolti in 19 casi criminali, che vanno dal furto piccolo e la falsificazione di documenti all’omicidio e al traffico di droga, che sono spesso reati capitali in Arabia Saudita. Le violazioni del giusto processo sono risultate le più consequenziali per gli imputati coinvolti nei casi più gravi. Dall’inizio del 2014, l’Arabia Saudita ha giustiziato 73 pakistani, più di ogni altra nazionalità straniera, quasi tutti per contrabbando di eroina. Tre dei casi di droga esaminati hanno portato alla pena di morte, quattro in carcere da 15 a 20 anni, uno in una pena detentiva di quattro anni e tre rimasti sotto processo. Alcuni erano solo “muli della droga”. I familiari hanno detto che quattro degli imputati sono stati costretti dai narcotrafficanti a servire come “muli della droga”. Hanno aggiunto che i tribunali sauditi non erano interessati alle circostanze esposte dalla difesa e non hanno cercato di indagare né preso in considerazione le richieste di coercizione durante la condanna. In tutti i casi di non-pena di morte, i giudici non hanno dato agli imputati un’opportunità adeguata per difendersi. Alle prime udienze - hanno detto gli intervistati - i giudici hanno emesso condanne predeterminate, basate esclusivamente su rapporti di polizia e hanno chiesto agli imputati di accettarli. Sono stati autorizzati a contestare la decisione per iscritto, ma i giudici hanno presentato le stesse sentenze alle udienze successive. Pressioni perché fossero accettate le decisioni. Nove imputati hanno anche affermato che i funzionari della Corte hanno fatto pressioni affinché fossero accettate le decisioni senza l’opportunità di leggerle, esaminarle o capirle a pieno. Uno di loro ha dichiarato di essere stato condannato a 10 giorni e 80 frustate per alcol e rissa. In seguito ha scoperto che la sentenza ordinava anche la sua deportazione. Solo uno degli intervistati aveva un avvocato difensore; tutti gli altri non avevano abbastanza risorse per pagare un avvocato, durante la detenzione. Quattro hanno affermato che i traduttori nominati dal Tribunale non forniscono servizi adeguati, a volte intenzionalmente travisano le dichiarazioni dei detenuti, tanto da non riuscire a descrivere accuratamente il contenuto dei documenti del Tribunale. Detenuti in condizioni sovraffollate. Alcuni dei detenuti e familiari hanno descritto condizioni di detenzione in sovraffollamento, strutture antigieniche, mancanza di letti e lenzuola e scarsa assistenza medica. Due ex detenuti e un detenuto attuale hanno dichiarato che le autorità della prigione saudita li hanno sottoposti a maltrattamenti, tra cui schiaffi, percosse con una cintura e scioccanti con un dispositivo elettrico durante gli interrogatori. Il familiare di un altro detenuto ha affermato che le autorità hanno picchiato un recluso a bastonate. Tutto questo, nonostante che, ai sensi della Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari ratificata dalla stessa Arabia Saudita nel 1988, le autorità giudiziarie di quel Paese hanno l’obbligo di informare i funzionari consolari pakistani quando arrestano un cittadino del Paese asiatico. Nei casi esaminati, tuttavia, non sembra che i funzionari sauditi abbiano rispettato questo obbligo. Myanmar. Ritirato il premio Wiesel a Aung San Suu Kyi, una scelta senza appello di Paolo Salom Corriere della Sera, 8 marzo 2018 Forse il Memoriale di Washington ha ragione, ma resta l’amaro in bocca. Una decisione che - ammettono i responsabili del Memoriale dell’Olocausto di Washington - “non abbiamo preso a cuor leggero”. Tuttavia, la lettera che ieri annunciava il ritiro del premio intitolato a Elie Wiesel, e attribuito nel 2012 a Aung San Suu Kyi, ha subito suscitato forti emozioni. Le motivazioni che hanno portato a tanto sono note: l’Orchidea di Ferro, icona dei diritti umani in Birmania passata da dissidente a leader politica, ha deluso la comunità internazionale per non aver saputo (o voluto) fermare il genocidio dei Rohingya nel suo Paese. Di più: non avrebbe nemmeno “riconosciuto” la disperazione della minoranza musulmana in una Birmania (Myanmar secondo la moderna dizione) al 90 per cento buddhista. Di qui lo “schiaffo” di una scelta davvero senza appelli. La Signora aveva ricevuto il riconoscimento, primo nome dopo lo stesso Elie Wiesel, a un anno dalla sua liberazione da parte dei generali perché, a giudizio del Memoriale, aveva incarnato i principî “che noi - immagine vivente della Shoah - desideriamo ispirare nei leader e nei cittadini comuni: affrontare l’odio, prevenire i genocidi, promuovere la dignità umana”. Inutile dire che tutto questo Aung San Suu Kyi lo aveva davvero incarnato e certo il premio era tutt’altro che immeritato. Il punto che forse qui vale la pena sottolineare è un altro: si può “cancellare” con un tratto di penna il passato di una persona in nome di un presente che, per quanto poco onorevole, deve ancora essere analizzato in tutte le sue implicazioni? Intendiamoci, i Rohingya non sono stati difesi apertamente. E le persecuzioni loro inflitte dai militari birmani hanno provocato un giusto orrore nel mondo. Ma questo toglie ogni diritto al bene fatto in precedenza da Aung San Suu Kyi? La politica attiva, la responsabilità di governo è cosa molto diversa dalla difesa dei diritti. Forse il Memoriale di Washington ha preso la giusta decisione. Certo a noi tutti resta molto amaro in bocca.