Appello al Governo per la riforma penitenziaria Ristretti Orizzonti, 7 marzo 2018 Il cammino della riforma contenuta nello schema di decreto legislativo adottato il 22 dicembre 2017 rischia di avere una definitiva battuta di arresto. Ci rivolgiamo con forza al Governo perché, mantenendo fede all’impegno assunto ed esercitando almeno nella sua parte fondamentale la delega conferita con la legge n. 103/17 votata dal Parlamento, approvi in via definitiva, pur dopo le elezioni politiche, la riforma dell’ordinamento penitenziario, riportando l’esecuzione penale entro una cornice di legalità costituzionale e sovranazionale dopo le umilianti condanne europee. La riforma rappresenta niente più che il rifiuto, ideale prima ancora che giuridico, di presunzioni legali di irrecuperabilità sociale, dal momento che nessuna pena deve rimanere per sempre indifferente all’evoluzione personale del condannato, ed affida alla magistratura, cui per legge è assegnata istituzionalmente la realizzazione del finalismo rieducativo dell’art. 27 della Costituzione - la magistratura di sorveglianza - la piena valutazione sulla meritevolezza delle misure alternative e il bilanciamento degli interessi in gioco. Sarebbe davvero amaro se il destino di questa stagione riformatrice, iniziata nel 2015 con la felice intuizione degli “Stati generali dell’esecuzione penale”, si concludesse con la beffarda presa d’atto che solo il carcere e non anche - e soprattutto - le misure di comunità svolgono efficacemente la funzione di garantire la sicurezza dei cittadini e riducono la recidiva. La mancata approvazione della riforma, o anche solo una sua regressiva rimodulazione, offuscherebbe quella “messa a punto costituzionale” del sistema penitenziario che, a quarant’anni dall’ultimo organico intervento, impone lo spostamento del baricentro dell’esecuzione penale verso le sanzioni di comunità, accompagnato dalla selettiva rimodulazione dei presupposti per la concessione delle stesse e delle modalità per assicurare l’effettività del rispetto delle prescrizioni imposte. Crediamo che solo in questo possa consistere la “certezza della pena”, che nella sua effettività rieducativa e nell’efficace abbattimento della recidiva, statisticamente dimostrato, è l’unica ragionevole risposta ad un’opinione pubblica confusa e impaurita dal clima di insicurezza alimentato, troppo spesso, dagli organi dell’informazione. Un sistema penitenziario che accolga ed attui i principi della Costituzione dovrebbe inoltre senza ulteriori remore far proprie, sul versante del trattamento penitenziario, quelle disposizioni, contenute nello schema di decreto, che mirano a favorire l’effettivo esercizio, da parte dei soggetti detenuti, di alcuni importanti diritti fondamentali che neppure lo status detentionis può del tutto comprimere, prima di tutti quello alla salute. La pena priva l’uomo della libertà, ma non della sua dignità. Siamo convinti che la vittima del reato riceva maggior risarcimento morale da un’assunzione di responsabilità del colpevole, al quale chiedere di più sotto il profilo di condotte materialmente e psicologicamente riparatorie nei confronti suoi e della collettività, piuttosto che da una pena ciecamente afflittiva. La riforma non contiene nessun afflato buonista, nessuna “liberatoria” per pericolosi delinquenti - tanto meno per mafiosi e terroristi, espressamente esclusi dall’intervento riformatore - nessun insensato ed indulgenziale “svuota-carceri”: semmai preserva la comunità da gravi forme di recidiva criminale attraverso la proposta di un impegnativo cammino di rientro rivolta a chi voglia e sappia intraprenderlo. È per questo che chiediamo che l’impegno di varare la riforma sia mantenuto, perché uno Stato il quale sa offrire una speranza alle persone che ha legittimamente condannato deve concedere loro l’opportunità di diventare buoni cittadini e rendere così un utile servizio alla collettività intera. Chiediamo inoltre di non far cadere nel nulla la riforma delle misure di sicurezza personali, secondo le indicazioni espresse dal Parlamento nella legge delega: una riforma a sua volta in grado di recare un rilevante contributo di civiltà in un settore dell’ordinamento penale nel quale pure sono in gioco diritti fondamentali dell’uomo. Sottoscrivono l’appello Associazione italiana dei professori di diritto penale Associazione tra gli studiosi del processo penale Unione Camere Penali Italiane Consiglio Nazionale Forense Magistratura democratica Area democratica per la giustizia Antigone Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Bruti Liberati Edmondo già Procuratore della Repubblica Milano Cavalli Fabio Regista Ceretti Adolfo Ordinario di criminologia, Università di Milano-Bicocca Di Paolo Paolo Scrittore Dolcini Emilio Professore emerito di diritto penale, Università statale di Milano Fassone Elvio già Presidente Corte di Assise Torino, Scrittore Fiandaca Giovanni già Ordinario di diritto penale, Università di Palermo Formenton Luca Editore Grosso Carlo Federico Professore emerito di diritto penale, Università di Torino Lingiardi Vittorio Psichiatra, Ordinario di psicologia, Università La sapienza Roma Lorenzoni Franco Insegnante e scrittore Lupo Ernesto già Primo Presidente della Corte di Cassazione Moccia Sergio già Ordinario di diritto penale, Università Federico II di Napoli Montanari Tomaso Presidente di Libertà e Giustizia Onida Valerio Presidente emerito della Corte costituzionale Padre Laurent Mazas Direttore del Cortile dei Gentili Palazzo Francesco già Ordinario di diritto penale, Università Firenze Palma Mauro Garante nazionale delle persone detenute o private della libertà Petrignani Sandra Scrittrice Punzo Armando Attore e regista, fondatore Compagnia della Fortezza Pugiotto Andrea Ordinario di diritto costituzionale, Università di Ferrara Pulitanò Domenico Professore emerito di diritto penale, Università di Milano-Bicocca Ruotolo Marco Ordinario di diritto costituzionale, Università Roma III Silvestri Gaetano Presidente emerito della Corte costituzionale Siracusano Delfino Professore emerito di Procedura penale, Università La Sapienza Roma Spataro Armando Procuratore della Repubblica di Torino Stasio Donatella Giornalista Zagrebelsky Vladimiro già Giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo Riforma: nuovo appello di giuristi e associazioni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 marzo 2018 Si rinnova l’invito al Consiglio dei Ministri per approvare in via definitiva i decreti attuativi. Tra i firmatari, oltre all’esponente radicale Rita Bernardini figurano l’Unione Camere Penali, il Consiglio Nazionale Forense, Magistratura Democratica, Antigone, Edmondo Bruti Liberati, Giovanni Fiandaca, Carlo Federico Grosso, Tomaso Montanari, Valerio Onida, Armando Spataro e Vladimiro Zagrebelsky. “Il cammino della riforma contenuta nello schema di decreto legislativo adottato il 22 dicembre 2017 rischia di avere una definitiva battuta di arresto: ci rivolgiamo con forza al Governo perché, mantenendo fede all’impegno assunto ed esercitando almeno nella sua parte fondamentale la delega votata dal Parlamento, approvi in via definitiva, pur dopo le elezioni politiche, la riforma dell’ordinamento penitenziario, riportando l’esecuzione penale entro una cornice di legalità costituzionale e sovranazionale dopo le umilianti condanne europee”. Si tratta del passaggio principale del nuovo appello - che sottoscrive anche l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini, da due anni in continui scioperi della fame per chiedere l’immediata approvazione - lanciato da associazioni e singoli giuristi. Tra i firmatari, figurano l’Unione camere penali italiane, il Consiglio nazionale forense, Magistratura democratica, Antigone, nonché personalità come Edmondo Bruti Liberati, Giovanni Fiandaca, Carlo Federico Grosso, Tomaso Montanari, Valerio Onida, Armando Spataro, Vladimiro Zagrebelsky. La riforma dell’ordinamento penitenziario ancora non trova luce. Il 22 febbraio scorso, l’ultima riunione del Consiglio dei ministri, il governo ancora in carica ha preferito mettere in stand by il decreto attuativo della riforma dell’ordinamento penitenziario già esaminato, con tanto di osservazioni, dalle Commissioni giustizia. “Del resto della riforma ce ne occuperemo nelle prossime settimane e nei prossimi mesi”, aveva affermato in conferenza stampa il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni a dieci giorni dalle elezioni politiche. Durante la riunione erano stati invece licenziati preliminarmente tre decreti, in materia di giustizia riparativa, di mediazione tra il reo e la vittima e di revisione dell’ordinamento penitenziario minorile che però dovranno affrontare il complesso iter dell’esame delle commissioni Giustizia delle due camere. In estrema sintesi, la riforma dell’ordinamento penitenziario non è stata ancora approvata come è stato più volte promesso dal guardasigilli e, recentemente, dallo stesso premier Gentiloni. La cosa aveva colto tutti di sorpresa. A partire da figure istituzionali come il garante dei detenuti Mauro Palma che non a caso aveva inviato una nota al ministro Orlando per chiedergli di far approvare il testo originale della riforma, senza prendere in considerazione le osservazioni espresse dalla commissione del Senato, le quali rischiano di proporre l’annullamento del sistema degli automatismi che impediscono per ampi settori di detenuti l’accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative al carcere. Eppure è proprio questo il decreto che il Cdm ha deciso di mettere nel cassetto. “Ci lascia attoniti e sbalorditi”, scrissero i Garanti locali e regionali attraverso una nota del coordinamento nazionale. Tecnicamente il governo è in carica fino al 23 marzo. La composizione del Parlamento, però, nel frattempo è radicalmente cambiato e le forze moderate che appoggiano la riforma sono state quasi spazzate via dalle elezioni. Nonostante questo, Gentiloni porterà a termine la promessa? Da giuristi e associazioni appello al Governo per sostenere la riforma delle carceri di Teresa Valiani Redattore Sociale, 7 marzo 2018 Il mondo penitenziario si mobilita per sollecitare il varo dei decreti che mirano a riformare il sistema carcere e dell’esecuzione penale italiana. I tempi, seppure sul filo di lana, ci sarebbero comunque perché il varo potrebbe essere deciso nell’ultimo consiglio dei ministri di questa legislatura. Un appello per sostenere nell’ultimo e decisivo passaggio l’approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario, “congelata” proprio alla vigilia del varo definitivo, è stato indirizzato al Governo e sottoscritto da autorevoli giuristi, personalità della società civile e associazioni in rappresentanza di università, magistratura e volontariato. “Il cammino della riforma - si legge nel documento - rischia di avere una definitiva battuta di arresto. Ci rivolgiamo con forza al Governo perché, mantenendo fede all’impegno assunto ed esercitando almeno nella sua parte fondamentale la delega conferita con la legge n. 103/17 votata dal Parlamento, approvi in via definitiva, pur dopo le elezioni politiche, la riforma dell’ordinamento penitenziario, riportando l’esecuzione penale entro una cornice di legalità costituzionale e sovranazionale dopo le umilianti condanne europee”. I tempi, seppure sul filo di lana, ci sarebbero comunque perché il varo potrebbe essere deciso nell’ultimo consiglio dei ministri di questa legislatura. “La riforma - sottolineano i firmatari - rappresenta niente più che il rifiuto, ideale prima ancora che giuridico, di presunzioni legali di irrecuperabilità sociale, dal momento che nessuna pena deve rimanere per sempre indifferente all’evoluzione personale del condannato, ed affida alla magistratura, cui per legge è assegnata istituzionalmente la realizzazione del finalismo rieducativo dell’art. 27 della Costituzione - la magistratura di sorveglianza - la piena valutazione sulla meritevolezza delle misure alternative e il bilanciamento degli interessi in gioco”. Tre anni di lavoro, iniziati con la promozione degli Stati Generali sull’esecuzione penale, con oltre 200 esperti tra magistrati, giuristi, avvocati, operatori e dirigenti penitenziari, docenti universitari e rappresentanti del volontariato riuniti intorno a tavoli tematici per scandagliare il mondo del carcere e individuare soluzioni per restituire dignità all’esecuzione della pena e maggiore sicurezza al Paese. E poi 3 commissioni ministeriali, che hanno ripreso quell’ingente quantità di materiale per tradurre le proposte in norme, a segnare il percorso complesso e travagliato di una riforma pensata per riconsegnare all’Italia il giusto ruolo nell’ambito dell’esecuzione penale europea. “Sarebbe davvero amaro - proseguono i firmatari dell’appello - se il destino di questa stagione riformatrice, iniziata nel 2015 con la felice intuizione degli Stati generali dell’esecuzione penale, si concludesse con la beffarda presa d’atto che solo il carcere e non anche - e soprattutto - le misure di comunità svolgono efficacemente la funzione di garantire la sicurezza dei cittadini e riducono la recidiva. La mancata approvazione della riforma, o anche solo una sua regressiva rimodulazione, offuscherebbe quella “messa a punto costituzionale” del sistema penitenziario che, a quarant’anni dall’ultimo organico intervento, impone lo spostamento del baricentro dell’esecuzione penale verso le sanzioni di comunità, accompagnato dalla selettiva rimodulazione dei presupposti per la concessione delle stesse e delle modalità per assicurare l’effettività del rispetto delle prescrizioni imposte. Crediamo che solo in questo possa consistere la ‘certezza della pena’, che nella sua effettività rieducativa e nell’efficace abbattimento della recidiva, statisticamente dimostrato, è l’unica ragionevole risposta ad un’opinione pubblica confusa e impaurita dal clima di insicurezza alimentato, troppo spesso, dagli organi dell’informazione”. “Un sistema penitenziario che accolga ed attui i principi della Costituzione - sottolinea l’appello - dovrebbe inoltre senza ulteriori remore far proprie, sul versante del trattamento penitenziario, quelle disposizioni, contenute nello schema di decreto, che mirano a favorire l’effettivo esercizio, da parte dei soggetti detenuti, di alcuni importanti diritti fondamentali che neppure lo status detentionis può del tutto comprimere, prima di tutti quello alla salute. La pena priva l’uomo della libertà, ma non della sua dignità. Siamo convinti che la vittima del reato riceva maggior risarcimento morale da un’assunzione di responsabilità del colpevole, al quale chiedere di più sotto il profilo di condotte materialmente e psicologicamente riparatorie nei confronti suoi e della collettività, piuttosto che da una pena ciecamente afflittiva”. “La riforma non contiene nessun afflato buonista, nessuna “liberatoria” per pericolosi delinquenti, tanto meno per mafiosi e terroristi, espressamente esclusi dall’intervento riformatore, nessun insensato ed indulgenziale “svuota carceri”: semmai preserva la comunità da gravi forme di recidiva criminale attraverso la proposta di un impegnativo cammino di rientro rivolta a chi voglia e sappia intraprenderlo. È per questo - concludono i firmatari - che chiediamo che l’impegno di varare la riforma sia mantenuto, perché uno Stato che sa offrire una speranza alle persone che ha legittimamente condannato deve concedere loro l’opportunità di diventare buoni cittadini e rendere così un utile servizio alla collettività intera. Chiediamo inoltre di non far cadere nel nulla la riforma delle misure di sicurezza personali, secondo le indicazioni espresse dal Parlamento nella legge delega: una riforma a sua volta in grado di recare un rilevante contributo di civiltà in un settore dell’ordinamento penale nel quale pure sono in gioco diritti fondamentali dell’uomo”. Tra le associazioni che hanno firmato l’appello: Associazione italiana dei professori di diritto penale, Associazione tra gli studiosi del processo penale, Unione Camere penali italiane, Consiglio Nazionale Forense, Magistratura democratica, Area democratica per la giustizia, Antigone e Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia. Carceri. L’Unione Camere Penali Italiane sottoscrive il nuovo appello al Governo camerepenali.it, 7 marzo 2018 L’Ucpi sottoscrive il nuovo appello al Governo per la Riforma dell’Ordinamento Penitenziario, unitamente all’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale, all’associazione tra gli studiosi del processo penale, al Consiglio Nazionale Forense, a Magistratura Democratica, ad Area Democratica per la Giustizia, ad Antigone, alla Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e a tanti illustri giuristi e appartenenti al mondo del cinema, della letteratura, della scuola, della stampa. Pubblichiamo il testo di un appello sottoscritto da diverse associazioni in rappresentanza dei mondi dell’università, dell’avvocatura, della magistratura e del volontariato, nonché da autorevoli giuristi e da personalità della società civile. L’appello, indirizzato al Governo, auspica l’approvazione definitiva della riforma penitenziaria, in attuazione delle delega conferita con la legge n. 103/2017. La riforma, giunta a un passo dal varo definitivo con l’approvazione dello schema di decreto legislativo, rischia ora una definitiva battuta d’arresto per via della fine della legislatura. I Garanti dei detenuti aderiscono all’appello: “varate quella riforma” di Teresa Valiani Redattore Sociale, 7 marzo 2018 Gli ombudsman sostengono l’appello per l’approvazione definitiva dei decreti. Mauro Palma: “Il Governo può ancora intervenire, in virtù della delega. Il panorama ora è più complesso ma c’è un’opinione del Parlamento largamente maggioritaria”. Stefano Anastasìa: “Ci sono tutte le condizioni affinché lo schema di decreto sia approvato in via definitiva”. Riforma dell’ordinamento penitenziario e mancata approvazione: non è tutto perduto. “Il Governo può ancora intervenire perché c’è una legge delega e, in virtù di questo, il parlamento può ancora dare compimento a quel tipo di delega”. Il garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma, sostiene con la propria adesione l’appello, inviato al Governo da una serie di associazioni e personaggi autorevoli del mondo penitenziario, con cui si sollecita l’approvazione dei decreti che mirano a ricostruire il volto del carcere e dell’esecuzione penale italiana. Un percorso lungo e complesso durato 3 anni e che ora rischia di finire nel nulla. “Il panorama in questo momento è molto più complesso - spiega Mauro Palma -, perché in qualche modo alcune forze politiche in campagna elettorale si sono espresse contro quel provvedimento. Ma quelle stesse forze politiche in sede di approvazione di legge delega avevano votato a favore. Che qualcuno si sia espresso contro, nel frattempo, è ben comprensibile perché in campagna elettorale si accentuano sempre i toni, ma non bisogna dimenticare che quelle stesse persone si erano espresse in maniera favorevole, o comunque non contraria, in sede di approvazione della legge delega. Quindi c’è un’opinione del parlamento largamente maggioritaria su quella serie di principi. E il decreto - conclude il Garante nazionale - dà semplicemente corpo ad alcuni di quei principi”. “Lo schema di decreto legislativo per la revisione dell’ordinamento penitenziario - sottolinea Stefano Anastasìa, garante dei detenuti di Umbria e Lazio - ha già acquisito i pareri favorevoli delle competenti commissioni parlamentari e della Conferenza delle Regioni. Dunque non attende altro che la delibera definitiva del Consiglio dei ministri che, da un punto di vista formale, può tranquillamente essere adottata dal Governo in carica nell’esercizio dell’ordinaria amministrazione. D’altro canto, questo provvedimento ha percorso un iter ben più lungo di quello previsto dalla legge che ha delegato il Governo ad adottarlo”. “Non possiamo dimenticare - spiega Stefano Anastasìa - che la stessa legge delega è maturata a seguito del più ampio coinvolgimento possibile di studiosi e operatori, professionali e volontari, legali e penitenziari, sociali e sanitari, negli Stati generali sull’esecuzione penale promossi dal ministero della Giustizia. Quello schema di decreto è il frutto di un percorso durato anni, cui ha partecipato l’intero mondo che gravita intorno al penitenziario. Per questo, anche da un punto di vista sostanziale, ci sono tutte le condizioni affinché lo schema di decreto sia approvato in via definitiva dal Consiglio dei ministri, anche in queste settimane, in attesa della convocazione delle nuove Camere”. “Dalla Consulta no a sospetti su Garanti e avvocati” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 marzo 2018 Parla il coordinatore dei Garanti dei detenuti territoriali, Franco Corleone. I Garanti dei detenuti territoriali, come quello nazionale, può effettuare i colloqui riservati con i reclusi al 41bis. Tutto nasce dall’ordinanza del 27 giugno 2017 del magistrato Fabio Gianfilippi, su reclamo di un detenuto in 41bis del carcere di Terni, per decidere che non si tratta di un colloquio come altri; che deve essere disapplicata la disposizione ministeriale e che quel detenuto può parlare con il Garante della Regione Umbria Stefano Anastasìa che aveva posto inutilmente un quesito al Dipartimento di polizia penitenziaria. Dopodiché hanno fatto ricorso all’ordinanza sia il Dap che il Pm di Perugia. Il tribunale di sorveglianza ha rigettato il reclamo. I colloqui riservati si possono fare. Scoppia la polemica e sulle pagine de Il Fatto Quotidiano interviene anche l’ex procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. I colloqui sì, ma non riservati dice Roberti. Una tesi che sposa il reclamo effettuato dal pm di Perugia dove si mette in evidenza “il pericolo che attraverso il garante territoriale, ci possano essere collegamenti all’esterno con il sodalizio di appartenenza”. Ieri su Il Dubbio il garante Stefano Anastasìa ha respinto tali supposizioni, ribadendo che non si può negare un incontro riservato con i garanti in nome del sospetto. Il garante, sia locale che regionale, è una figura istituzionale prevista dal nostro ordinamento che lo equipara al pari di altre autorità istituzionali. Ricordiamo che l’articolo 35 dell’ordinamento penitenziario recita: “I detenuti e gli internati possono rivolgere istanze o reclami orali o scritti, anche in busta chiusa: al garante nazionale e ai garanti regionali o locali dei diritti dei detenuti”. La busta chiusa è, appunto, riservatezza. Come scrisse l’ex magistrato di sorveglianza Francesco Maisto in un articolo de Il Manifesto, “è fin troppo ovvio che chi parla con il Garante non effettua un colloquio in senso tecnico, ma espone un reclamo orale”. Eppure la polemica si focalizza sull’ipotesi che un garante possa fare da tramite con le organizzazioni mafiose. Per Franco Corleone, garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Toscana, nonché coordinatore di tutti i garanti territoriali per i diritti dei detenuti si tratta di “una presunzione, una ipotesi astratta che non ha alcun pregio giuridico. Il problema è decidere se c’è un diritto da parte dei garanti territoriali o no. Mi pare che sia stato affrontato con molto rigore da parte del magistrato Gianfilippi e il tribunale di sorveglianza l’ha riconosciuto con nettezza assoluta e ha respinto l’idea di differenziare le competenze tra il garante nazionale (da sempre può fare i colloqui riservati ndr) e garante territoriale”. Rimane il discorso che potenzialmente un garante locale o regionale possa essere attiguo a dei sodalizi criminali. “Iniziamo però con il dire - sottolinea Corleone a Il Dubbio - che una questione del genere fu sollevata anche per quanto riguarda gli avvocati che subirono delle limitazioni. La Corte costituzionale aveva riconosciuto il diritto alla difesa senza limiti alcuni e superando quindi la teoria del sospetto”. Franco Corleone si riferisce alla sentenza della Corte costituzionale del 2013. In sintesi, la Corte, ha messo nero su bianco che tale diritto “è suscettibile di bilanciamento con altre esigenze di rango costituzionale, così che il suo esercizio può essere variamente modulato o limitato dal legislatore”, ma “a condizione che non ne risulti compromessa l’effettività”. Principi che “valgono in modo particolare quando si discuta di restrizioni che incidono sul diritto alla difesa tecnica delle persone ristrette in ambito penitenziario, rese più vulnerabili, quanto alle potenzialità di esercizio delle facoltà difensive dalle limitazioni alle libertà fondamentali insite, in via generale, nello stato di detenzione”. Rimane però il sospetto che un garante possa essere vicino ad ambienti mafiosi e quindi un tramite. “Tenendo sempre presente che i detenuti al 41bis sono posti in carceri lontane dal luogo di operatività del loro clan - spiega il coordinatore dei garanti Franco Corleone -, l’amministrazione penitenziaria, il giorno che un garante ha un colloquio riservato, lo comunica al Dap che a sua volta lo comunica alla direzione antimafia. Quindi un controllo esiste a prescindere”. Franco Corleone, come coordinatore dei garanti, ci tiene a ricordare che si trattano di figure autorevoli, con un loro profilo di storia personale riconosciuta pubblicamente. Le procure antimafia possono verificare chi siano e se ci sia o meno, qualche sospetto di vicinanza con le organizzazioni mafiose. “In realtà - chiosa Corleone -, di garanti regionali ce ne vorrebbero di più per coprire il territorio visto che mancano ancora in alcune regioni come l’Abruzzo, la Sardegna, la Basilicata e la Calabria”. Diversamente giustizialisti: M5S-Lega, due vie parallele di Errico Novi Il Dubbio, 7 marzo 2018 Affinità e distanze tra i vincitori su carcere, toghe, processo e legittima difesa. Giustizia Grillina - Ma alla fine l’impeto giustizialista dei Cinque Stelle come si tradurrebbe in programma sulla giustizia? In parte ha risposto, in alcune dichiarazioni pubbliche e in un’intervista al Mattino, il guardasigilli designato, Alfonso Bonafede. Altri punti sono stati definiti con un referendum on line dell’estate scorsa. In generale l’obiettivo è uno, sempre lo stesso: lotta dura ai corrotti. È il mantra. Il resto viene di conseguenza o è subordinato. Vediamo dunque le posizioni sui punti più caldi. La riforma Orlando sul carcere non va bene. Ammesso che Gentiloni, con un estremo atto di coraggio, riuscisse a portarla in salvo prima del 23 marzo, i pentastellati la sopprimerebbero nella culla: innanzitutto con il ripristino delle preclusioni tuttora previste dall’articolo 4 bis per l’accesso ai benefici. La soluzione al sovraffollamento? Costruire nuove carceri, ristrutturare le sezioni in disuso. A sorpresa, uno dei pochi altri nodi della giustizia in cui Di Maio sarebbe d’accordo con Salvini riguarda l’attività politica dei magistrati: anche i Cinque Stelle ritengono che chi lascia la toga per lo scranno parlamentare debba farlo in modo irreversibile. Dopo il mandato elettivo, si può solo rientrare in altri ranghi della pubblica amministrazione. Le strade si divaricano a cominciare proprio dalla magistratura, in particolare dalla separazione delle carriere. Il Movimento di grillo è contrario, il che non vuol dire aderire a tutte le richieste dell’Anm (che a gennaio declinò, con cortesia, un invito dei grillini a un brainstorming comune). Se ci si inoltra negli snodi chiave del processo penale, si verifica la particolare vicinanza tra il M5s e le teorie di Piercamillo Davigo. A cominciare dall’introduzione della reformatio in peius, cioè della possibilità che, in appello, un imputato vada incontro a una condanna più severa di quella inflittagli in primo grado anche quando è lui a proporre ricorso. Altro punto forte del programma grillino è la modifica delle recenti norme sulla prescrizione: l’estinzione del reato non potrebbe più intervenire già dal momento del rinvio a giudizio, con il rischio che le successive fasi del procedimento abbiano durata indefinita. Cambierebbe un’altra disciplina fortemente voluta da Orlando, quella sulle intercettazioni, il cui uso verrebbe reso sempre possibile quando si procede per reati contro la pubblica amministrazione. I trojan horse, cioè i virius spia, potrebbero essere usati nel domicilio dell’indagato anche se non si ha fondato motivo di ritenere che vi si stia per consumare un’attività delittuosa. La selezione delle conversazioni rilevanti sarebbe sottratta al filtro della polizia giudiziaria. Forte consonanza sul rito abbreviato, in particolare sull’assoluta esclusione dell’istituto per reati come stupro e omicidio, in modo che chi viene condannato all’ergastolo per esserne stato riconosciuto colpevole non possa usufruire di sconti di pena. Assai meno tranchant e radicale, rispetto a Salvini, la modifica ipotizzata dai Cinque Stelle sulla legittima difesa: verrebbe escluso l’eccesso colposo per chi non ha potuto valutare la consistenza della minaccia in virtù di condizioni oggettive, per esempio il fatto che l’aggressione avvenga di notte (ma senza usare la locuzione nel testo di legge) o soggettive, o dovute allo stato di agitazione, o perché si è indotti in errore dall’aggressore. Ma le indagini su chi spara non sarebbero cancellate. Giustizia Padana - Inflessibili, sì. Ma non con tutti e non per tutti i reati. Sulla giustizia i leghisti hanno posizioni molto articolate. Mano pesante con la microcriminalità, oltre che nei confronti di mafiosi e terroristi, a maggior ragione se extracomunitari. Linea assai più garantista e vicina a quella di Forza Italia su molti istituti del processo, innanzitutto per i reati di corruzione. Un’ambivalenza da cui discende un no simile a quello grillino sulla riforma del carcere, ma anche una linea opposta ai pentastellati su prescrizione e impugnazioni. Anche il partito di Salvini affosserebbe le nuove norme sull’esecuzione penale, sempre che il governo ancora in carica decida di vararne la parte decisiva. Salvini incarna al meglio il mantra del “metteteli dentro e buttate la chiave”, che si tratti di mafiosi o autori di reati meno gravi. Anche se nel programma comune del centrodestra si apre alle misure alternative, con l’indecifrabile clausola “in assenza di pericolosità sociale”. La via maestra? Un “nuovo Piano carcere”. Storicamente la Lega si è sempre ben guardata dal coltivare rapporti particolari con la magistratura. Lo attesta anche la posizione assunta in Parlamento durante l’esame del ddl sull’impegno politico delle toghe, ferma sull’idea che, se eletto in Parlamento, un magistrato non possa riassumere le funzioni e debba essere ricollocato nei ruoli dell’Avvocatura dello Stato. Posizione favorevole alla separazione delle carriere. Nel corso della raccolta firme per la proposta di legge promossa dall’Unione Camere penali, i lumbàrd non si sono certo spesi come i berlusconiani, ma hanno comunque accettato che la proposta fosse inserita nel programma. La dottrina di partito resta ferma sull’idea di un pm eletto dal popolo, dunque su una riforma ancora più radicale. Linea perfettamente giustapposta a quella dei grillini sul sistema delle impugnazioni: la Lega non solo è contraria alla reformatio in peius, ma propende, con gli alleati, per l’abolizione dell’appello del pm in caso di assoluzione. Sempre nel programma comune si parla di “diritto a un giusto processo”, concetto che va inteso anche nel senso di un maggiore bilanciamento tra accusa e difesa nella fase delle indagini. Sulla prescrizione Salvini conferma l’atteggiamento curiosamente garantista, che stride con le tesi sul carcere e su alcune particolari tipologie di reato: di certo se potesse metterci mano, il leader del Carroccio eliminerebbe l’allungamento dei termini introdotto dall’ultima riforma penale. Ancora allineata a quella di Forza Italia e Fratelli d’Italia la posizione sulle intercettazioni: verrebbe restituito pieno diritto alla difesa di acquisire il materiale intercettato fin dal deposito, non verrebbe messa in discussione la tutela della riservatezza affermata dall’ultimo decreto. Casomai, si interverrebbe per limitare l’uso dello strumento, sia nel senso di limitare le proroghe che la Procura può chiedere sia rispetto alla qualità dei reati per i quali si può intercettare. Porta la firma di Nicola Molteni, plenipotenziario di Salvini sulla giustizia, il testo, approvato solo in prima lettura alla Camera, che modifica l’istituto del rito abbreviato, in modo da impedirne l’applicazione nei procedimenti per reati di particolare gravità, come stupro e omicidio, e di rendere dunque impossibili gli sconti di pena nei casi in cui è previsto l’ergastolo. Se c’è uno slogan tipico del segretario leghista in materia di giustizia, è quello della “difesa sempre legittima”. Non è chiara la forma che dovrebbero assumere gli articoli del codice penale (il 52 e il 55) in cui si disciplina anche l’eccesso colposo. Sia il Carroccio che il resto del centrodestra pretendono di arrivare a una norma che consenta di non iscrivere nel registro degli indagati chi spara contro un aggressore. Resta da chiarire come si accerterebbero casi in cui l’aggressione viene falsamente rappresentata da chi ha sparato. Amici magistrati, il “vaffa” grillino colpirà anche voi di Alberto Cisterna Il Dubbio, 7 marzo 2018 Il nuovo Consiglio Superiore sarà in mano a 5Stelle e Lega. Una parentesi: solo due importanti soggetti politici ed istituzionali del Paese erano sopravvissuti alla deflagrante caduta del muro di Berlino - volendo in questa locuzione comprendere tutti i profondi sommovimenti che hanno investito l’assetto delle forze sociali, partitiche ed economiche d’Italia - i sindacati e le correnti della magistratura italiana. Un panorama, per carità, sempre in movimento e ricco di fermenti, ma cristallizzato in sigle del secolo scorso (Cgil, Cisl, Uil, Md, Uni-U Cost, MI) che suggellavano simbolicamente la staticità di un potere monolitico, incrollabile, refrattario ad ogni vera novità. La cooptazione come paradigma della selezione delle classi dirigenti sindacali e correntizie, la spartizione come criterio per regolare la concorrenza, l’occupazione delle istituzioni come obiettivo per assicurare effettività ai programmi ideali. Né in sindacati, né i magistrati dovrebbero stare tranquilli dopo le Idi di marzo del 2018. La forte contrazione dell’area politica di riferimento della magistratura italiana (anche di quella moderata, sia chiaro) vede l’espandersi di forze tutt’altro che ben disposte verso le toghe. La Lega di Salvini ha chiaramente detto che intende mettere mano all’assetto della giustizia con riforme anche radicali, innanzitutto sotto il profilo delle carriere, con il pieno sostegno della coalizione. Il M5S, pur proclamando la primazia della legalità, ha constatato come la lama affilata delle procure non abbia risparmiato esponenti di prima fila del Movimento (Roma, Torino, Livorno, Termini Imerese etc.) a dispetto di ogni, apparente approccio “amichevole”. E, certo, non sono mancati a Di Maio & co. magistrati che hanno loro chiarito cosa accada dentro i palazzi di giustizia più importanti del Paese. A luglio si voterà per il rinnovo del Consiglio superiore della magistratura. Il M5S e la Lega, qualunque governo venga alla luce, sono formazioni che insieme fanno oltre il 50% del Parlamento e da quelle aule verranno nominati un terzo dei consiglieri. In genere 5 spettano alla maggioranza (cui tocca il ruolo strategico del vicepresidente) e 3 alle opposizioni. Uno scenario tutt’altro che rassicurante per la corporazione associativa. Una pattuglia nutrita di leghisti e pentastellati sarà a Palazzo dei Marescialli ed uno di loro sarà certamente il prossimo vicepresidente del Csm. C’è da star poco tranquilli per i fini tessitori di carriere e spartizioni che tutti dicono, a partire dai colli più alti, costituiscono una delle criticità più serie della magistratura italiana, composta nella stragrande maggioranza di persone perbene, dedite al proprio lavoro. L’opa sul potere giudiziario che potrebbe essere lanciata dalla nuova politica italiana, si presenta per molti versi ostile e, di fatto, potrebbe avere la tentazione di risolvere “dall’alto” la questione giustizia, collocandosi direttamente ai vertici del Csm per ingaggiare una dura battaglia con le correnti della magistratura e scompaginarne la forza. Sia chiaro aleggerà subito l’ingiusto sospetto che un assalto al palazzo delle toghe potrebbe rendere alcune procure ancora più agguerrite e aggressive verso i nuovi leader della nazione. Ma - a questo punto - venuta mano la capacità di manovra dei vecchi referenti politici - il duello potrebbe essere risolto a sportellate tra vecchie correnti e nuovi partiti. E poi non bisogna trascurare la novità della scesa in campo di Piercamillo Davigo, leader di un (al momento) esiguo gruppo di magistrati che, tuttavia, ha riportato un nugolo di consensi nelle elezioni per l’associazione delle toghe e che a luglio - con ogni probabilità e non da solo - dovrebbe sedere al Csm. Il M5S, come si sa, l’ha tanto lungamente, quanto vanamente, corteggiato, senza alcun cedimento da parte sua. Si ritroveranno dentro il Csm e allora sarà da vedere come andrà a finire, soprattutto se dovessero trovare un “nemico” comune. Una partita che si profila parecchio complicata. Il caso Firenze. Senegalese ucciso, rischio di un effetto-domino di Paolo Graldi Il Mattino, 7 marzo 2018 Guai all’effetto domino: la brutta storia di Firenze, ancora tutta da chiarire, con quel personaggio indecifrabile che si dichiara aspirante suicida (poi pentito) ma poi a Pontevecchio spara al primo che incontra e lo uccide, un ambulante senegalese, rischia adesso di trasformarsi in una pericolosa catena di reazione. E ci si sono subito messi anche i centri sociali a gettare benzina sul fuoco dei risentimenti della comunità senegalese. Atti di teppismo rabbioso in centro l’altra notte e altissima tensione ieri, sputi e insulti all’indirizzo del sindaco Nardella, sceso tra i manifestanti per solidarietà personale e della città. La voglia di ritorsioni, di rancore per il timore d’aver patito un terribile atto di razzismo, serpeggia, si sente che vorrebbe uscire allo scoperto, innescare una spirale assurda e gonfia di rischi. I capi della comunità si adoperano per riportare la calma, si dicono fiduciosi nell’operato della magistratura chiamata a far luce su un episodio di inaudita violenza ma che potrebbe non contenere una spinta xenofoba. Resta aperta l’ipotesi che si sia trattato solo della ventata di follia che ha attraversato la mente, certo terremotata nei pensieri, di Roberto Pirrone, tipografo in pensione, moglie e figlia, intenzionato a farla finita per poi, camminando sul ponte, cambiare idea e scaricare la pistola contro quell’uomo ch’era lì a vendere ombrelli. Conosciuto e benvoluto, Idy Diene, 53 anni, faceva il pendolare da vent’anni, un alloggio a Pontedera, la famiglia in Senegal, il desiderio di raggiungerla, desiderio impossibile, magra, troppo magra la cassetta degli incassi degli oggetti venduti per strada. Per quegli strani giochi della vita Idy era cugino di Samb, ucciso con un connazionale nel 2011 al mercatino dall’estremista di destra Gianluca Casseri a piazza Dalmazia. Idy aiutava la vedova di Samb: lei adesso li piange sotto il velo abbassato nel quale avvolge la sua paura, la sua disperazione. Il connotato razzista, che renderebbe tutto insopportabilmente odioso, non sembra emergere: la vita del pensionato, il vento gelido della depressione che ne attraversava l’esistenza non sembrano nutrirsi di sentimenti di odio razziale. E certo che le circostanze del delitto andranno accertate fugando ogni possibile dubbio in un senso o per accertare, viceversa, che aldilà delle dichiarazioni della prima ora, la storia del suicidio è un fragile scudo per celare una vergognosa verità. Il raid di distruzione, l’attacco al sindaco Nardella, l’agitarsi scomposto di gruppuscoli che si richiamano a centri sociali piuttosto bellicosi, sono tutti elementi che hanno fatto alzare la rete della vigilanza della polizia. Firenze, di norma, si mostra aperta e ospitale: la numerosa comunità degli ambulanti, tutti regolari con i permessi, non ha mai offerto ragioni per temere comportamenti illegali, gli Iman seguono da vicino arrivi e partenze e anche in quest’occasione le loro parole hanno contribuito a placare gli animi. La tensione resta comunque altissima e il rischio di qualche gesto di sfida alla città non viene tuttora escluso: il terribile gioco di gettare la benzina sul fuoco è sempre in agguato. Dunque, guai all’effetto domino. Niente frode se la vendita non è simulata di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 7 marzo 2018 La cessione tra società riconducibili allo stesso amministratore non è sottrazione fraudolenta. Non integra il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte la cessione di beni da una società a un’altra riconducibili allo stesso amministratore se la compravendita è avvenuta realmente e ciò anche se il denaro incassato è stato utilizzato al soddisfacimento di creditori diversi dall’erario. A fornire questo chiarimento è la Corte di cassazione, terza sezione penale, con la sentenza 10161 depositata ieri. La legale rappresentante di una srl anziché porre in liquidazione la società, vendeva a una sas a lei riconducibile tutti i beni sociali. Secondo la Procura, l’intera cessione costituiva una sottrazione fraudolenta al pagamento dell’Iva ed essendo superate le soglie di rilevanza penale indagava l’amministratrice del reato previsto dall’articolo 11 del Dlgs 74/2000. Il Tribunale riteneva che il fatto non sussisteva, mentre la Corte di appello, in accoglimento del ricorso del Procuratore, riformava la sentenza e condannava la legale rappresentante L’imputata ricorreva così in Cassazione lamentando un’errata interpretazione del citato articolo 11. La Suprema Corte ha innanzitutto rilevato che la norma è volta a impedire che il contribuente si liberi del proprio patrimonio al fine di rendere inefficace l’eventuale riscossione coattiva intentata dall’erario. Tuttavia, al fine del perfezionamento del delitto occorrono due condotte alternative costituite dalla vendita simulata dei beni ovvero dal compimento di atti fraudolenti. La vendita simulata è il negozio caratterizzato da una divergenza tra la volontà dichiarata e la volontà reale. Il programma contrattuale, quindi, non corrisponde alla effettiva volontà dei contraenti. La nozione di atto fraudolento, invece, non è così univoca. I giudici di legittimità, richiamando alcune pronunce sul punto, hanno ricordato che è sussistente quando si tratta di: un’alienazione che sebbene effettiva, sia idonea a rappresentare una realtà (la riduzione del patrimonio del debitore) non corrispondente al vero; uno stratagemma artificioso finalizzato a sottrarre garanzie in favore dell’erario; 1 una condotta atta a vanificare l’esito dell’eventuale esecuzione tributaria coattiva. Il concetto di frode richiamato dalla norma presuppone così non soltanto la lesione del diritto (di garanzia) dell’erario, ma che la condotta sia attuata con l’inganno volto a configurare una situazione di apparenza diversa dalla realtà. In altre parole, occorre che apparentemente sembri ridotto il patrimonio, ma in realtà non lo sia. Non è pertanto sufficiente una vendita in sé e per sé, poiché è necessario che sia simulata, attuata con fraudolenza. Nella specie, l’imputata aveva venduto attrezzature da una società a un’altra sempre a essa riconducibili ed il denaro incassato era stato utilizzato per pagare altri debiti. La Cassazione ha precisato che il soddisfacimento di altri creditori non costituisce la fraudolenza richiesta dalla norma, poiché la cessione era avvenuta senza alcuna simulazione o altri atti ingannevoli. Pedopornografia senza diffusione. Le Sezioni unite ritenute non convincenti di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 7 marzo 2018 Per il reato di pornografia minorile non è necessaria la diffusione esterna del materiale. Per questo non sono condivisibili le conclusioni delle Sezioni unite del 2000 (sentenza n. 13), delle quali viene sollecitata una revisione. Lo afferma la Corte di cassazione con l’ordinanza n. 10167 della Terza sezione penale depositata ieri. La Corte smonta tutte le argomentazioni di 18 anni fa, poi fatte proprie dalle Sezioni semplici negli anni successivi. In realtà, afferma ora l’ordinanza, tutti quei motivi sono compromessi da un errore di fondo e cioè che lo sfruttamento o l’utilizzazione del minore, anche trascurando lo scopo di guadagno, presuppongano sempre un uso esterno del materiale. Non è cosi, afferma il collegio della Terza sezione. Infatti, “anche la produzione a uso personale è reato perché la stessa relazione, sia pure senza contatto fisico, tra adulto e minore di anni 18, contemplata dall’articolo 600 ter del Codice penale, è considerata come degradante e gravemente offensiva della dignità del minore in funzione del suo sviluppo sano ed armonioso”. La scelta del legislatore, sia nel 1998 sia nel 2006, sostiene adesso la Cassazione, è stata piuttosto quella di prevedere un ampio numero di condotte, eterogenee tra loro, ma tutte indirizzate a reprimere lo stesso fenomeno. Vi sono comprese la realizzazione e produzione di esibizioni pornografiche, l’induzione a partecipare alle esibizioni stesse. Non è indispensabile il pericolo né astratto né concreto della diffusione del materiale, profilo del quale si occupano i commi successivi al primo dell’articolo 600 ter, di regola prevedendo sanzioni più pesanti (con l’eccezione del commercio, parificato quanto a misura della detenzione con il comma 1). E non si può sostenere che, quando non c’è il pericolo di diffusione allora scatta l’ipotesi prevista dall’articolo 600 quater. Una lettura che, nel giudizio della Cassazione, è confortata anche dagli obiettivi generali delle politiche criminali sia nazionali sia internazionali tutte tese a una protezione del minore senza distinzioni, ritenendo del tutto irrilevante la prestazione di un eventuale consenso anche quando esiste una legittimazione alla relazione sessuale. L’ordinanza rappresenta una delle primissime applicazioni di una norma introdotta nella riforma del processo penale in vigore dall’agosto scorso con la legge n. 103 del 2017, quella che impone alla Sezione semplice della Cassazione, che ritiene di non condividere l’indirizzo cristallizzato in una pronuncia delle Sezioni unite, di chiamarle nuovamente in causa per una riconsiderazione. Infortuni sul lavoro. Ente responsabile quando c’è utilità Il Sole 24 Ore, 7 marzo 2018 I criteri di imputazione vanno riferiti alla condotta anziché all’evento lesivo. Responsabilità 231 e infortuni sul lavoro in Italia e all’estero. L’introduzione tra i reati-presupposto di cui al Dlgs 231/2001 delle fattispecie colpose di omicidio e lesioni gravi e gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro (articolo 25-septies) risale alla legge 123/2007, che aveva delegato al Governo il riassetto della materia. In sede di attuazione della legge delega, il Dlgs 81/2008 (Testo unico sicurezza) ha inserito, all’articolo 30, una disciplina di raccordo tra normativa antinfortunistica e decreto 231, descrivendo i requisiti e contenuti minimi dei modelli di organizzazione e gestione (Mog), oltre a confermarne la natura esimente per quanto concerne la responsabilità da reato degli enti. La scelta del legislatore di introdurre, per la prima volta, reati-presupposto di natura colposa ha sollevato la questione inerente la loro compatibilità con la sistematica del decreto 231 e, in particolare, con la previsione per la quale il reato deve essere commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente. La criticità risiede, evidentemente, nella difficoltà di rinvenire, in un infortunio sul lavoro o in una malattia professionale, tale interesse o vantaggio, trattandosi di eventi in sé dannosi anche per l’ente. Dottrina e giurisprudenza sono state chiamate a risolvere la questione e hanno chiarito che, in tema di responsabilità degli enti derivante da reati colposi, i criteri di imputazione del decreto 231/2001 vanno riferiti alla condotta anziché all’evento lesivo, con la conseguenza che il requisito dell’interesse ricorrerà qualora l’autore del reato abbia consapevolmente violato la normativa cautelare allo scopo di conseguire un’utilità per l’ente; mentre il vantaggio sussisterà allorquando la persona fisica abbia realizzato una politica d’impresa disattenta alla salute e sicurezza sul lavoro e si sia dunque concretizzata una sistematica riduzione dei costi nella prospettiva della massimizzazione del profitto. Questi principi, affermati anche dalle Sezioni Unite della Cassazione nel noto caso Thyssenkrupp, sono stati recentemente ribaditi dalla Corte di cassazione nella sentenza 23089/17, con la quale i giudici hanno confermato la condanna di una Srl per l’infortunio occorso a un lavoratore addetto a una pressa piegatrice, ravvisando l’interesse e il vantaggio per l’ente nel risparmio di tempo e spesa che gli era derivato omettendo di allestire il necessario presidio antinfortunistico, di aggiornare il macchinario alle norme di prevenzione e di formare adeguatamente il dipendente. Si deve segnalare, peraltro, che la responsabilità dell’ente non viene meno per la sola circostanza che l’infortunio sul lavoro sia occorso all’estero. L’articolo 6 del codice penale, infatti, considera il reato commesso all’interno del territorio dello Stato italiano quando qui sia avvenuta anche soltanto una parte dell’azione od omissione che lo costituisce (ad esempio, l’incompleta valutazione dei rischi), ancorché l’evento lesivo o mortale si sia verificato all’estero. Inoltre, in base all’articolo 4 del decreto 231, anche il fatto interamente commesso all’estero diviene perseguibile in Italia (a richiesta del ministro della Giustizia ovvero, a seconda dei casi, a istanza o a querela della persona offesa), purché non sia lo stato del luogo in cui è stato commesso il fatto a procedere nei confronti dell’ente italiano. Ravenna: arrestato dopo la rapina in banca, detenuto si toglie la vita in carcere Corriere Romagna, 7 marzo 2018 L’uomo si è impiccato in bagno legando le lenzuola alla grata. Si indaga sui motivi del gesto. Arrestato nella zona della Gulli nelle primissime ore di sabato scorso dai militari del Radiomobile dopo aver commesso una rapina in banca nel Veronese ed essere fuggito con un’auto senza una ruota dopo che la gomma era stata raggiunta da un colpo di proiettile dei carabinieri, ieri mattina doveva comparire davanti al giudice insieme al suo difensore, l’avvocato Michele Lombini. Ma Vito Monachello, 50enne che per anni aveva vissuto a Bellaria, si è tolto la vita prima dell’udienza di convalida. La scoperta - Ad accorgersi dell’accaduto è stato un agente di polizia penitenziaria che, durante il consueto giro di controllo, verso le 8 lo ha trovato senza vita. Monachello, che si trovava solo nella camera di detenzione, si era impiccato nel corso della notte legandosi alle grate del bagno della cella. Immediatamente è stato chiesto l’intervento del 118 ma quando l’ambulanza è giunta sul posto per l’uomo non c’era ormai più nulla da fare. Indagini in corso - Sull’accaduto sono in corso indagini da parte della Procura e dei carabinieri del Nucleo investigativo che stanno cercando di fare luce sulle ragioni di quel gesto. Stando a quanto si è appreso il 50enne non avrebbe lasciato nulla di scritto che possa spiegare la scelta di togliersi la vita; tra le varie ipotesi, quella al momento più accreditata è quella di un atto di autolesionismo frutto di un momento di sconforto personale di fronte alla prospettiva, alla luce dell’arresto e dei precedenti, di una detenzione lunga. Monachello, finito più volte nei guai con la giustizia da quando nel 2001 mise a segno insieme a un complice le prime rapine ai danni di sale scommesse tra il Riminese e Castel San Pietro Terme, venerdì aveva preso di mira la filiale della Cassa di risparmio del Veneto di Colognola ai colli. Dopo aver sequestrato impiegati e clienti, tra cui una donna incinta, e aver messo le mani sul bottino (28mila euro) all’uscita dalla banca si erano imbattuti in una pattuglia. Mentre l’altro rapinatore che era con lui era stato subito bloccato, Monachello era riuscito a fuggire e a raggiungere Ravenna dove è stato rintracciato mentre cercava di recarsi dalla figlia. Cagliari: morte di un detenuto al carcere di Uta, la Procura apre un’inchiesta castedduonline.it, 7 marzo 2018 Il pm Alessandro Pili apre un fascicolo per omicidio colposo, al momento contro ignoti. Cosa è successo? Sarà l’autopsia del medico legale a fare luce sulla vera causa della morte di Ignazio Laconi, 49 anni, detenuto per questioni di droga. La notizia è stata pubblicata oggi sull’Unione Sarda: l’uomo aveva una trombosi alle gambe e più volte aveva detto di stare male nell’ultimo periodo. Sabato notte il malore e la morte, sulla quale la magistratura ora vuole vederci più chiaro. Trieste: 35 i votanti presso la Casa Circondariale Ristretti Orizzonti, 7 marzo 2018 Anche a Trieste il Garante Comunale per i diritti dei detenuti ha presenziato alle operazioni di voto che si sono svolte al seggio 37 bis allestito presso la locale Casa Circondariale. Il personale dell’area pedagogico giuridica e della Polizia Penitenziaria già da tempo aveva diffuso gli avvisi ricordando alle persone private della libertà la giornata elettorale e gli incombenti per essere ammessi al voto. Complessivamente 35 persone hanno esercitato il loro diritto: 31 gli uomini, 4 le donne. Tra questi anche una persona che nel corso della mattinata elettorale ha chiesto - e ottenuto - la necessaria autorizzazione. Rimane il dubbio - stante l’esiguo numero di votanti - che da un lato la complessa procedura che sottostà al diritto al voto negli Istituti penitenziari e dall’altra la delusione conseguente alla mancata approvazione delle modifiche all’ordinamento penitenziario abbia scoraggiato molte persone. Il Garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste Elisabetta Burla Reggio Calabria: fuori dal carcere per proteggere il verde di Domenico Marino Avvenire, 7 marzo 2018 Puliscono e curano le aree verdi della città, salvaguardano i beni archeologici, si danno da fare. Sono incoraggianti le prime settimane d’impegno per i detenuti del carcere di Arghillà, a Reggio Calabria, che grazie a un protocollo d’intesa siglato tra l’istituto di pena, il Comune, il tribunale di sorveglianza e l’ufficio di esecuzione penale esterna, sono stati coinvolti in un progetto che li porta all’esterno delle celle per iniziative di utilità sociale mirate anche al loro reinserimento nella quotidianità esterna al penitenziario. Dai primi giorni di febbraio a fine anno i detenuti contribuiranno a riportare e mantenere il decoro in alcuni siti del territorio reggino. Nei giorni scorsi una prima uscita pubblica nell’area che dal lungomare sale al castello aragonese e al palazzo della cultura. “Stanno svolgendo quotidianamente, in modo ormai strutturale, lavori volontari e gratuiti in favore della collettività”, spiega il garante comunale per i diritti dei detenuti Agostino Siviglia che ha ideato e promosso l’idea. “Particolarmente significativa e qualificante l’attività di salvaguardia dei beni archeologici cittadini, considerato che si occuperanno pure della manutenzione e della pulizia del verde all’intero dell’area delle mura greche del lungomare Falcomatà”, spiega Siviglia. Non è il primo progetto mirato al riscatto e al reinserimento messo in cantiere dal carcere di Arghillà, diretto da Maria Carmela Longo, nell’ottica della “giustizia riparativa” su cui da tempo insiste anche il Ministero della Giustizia. Cassino (Fr): progetto formativo per i detenuti di Adriana Letta diocesisora.it, 7 marzo 2018 Il Progetto “Accoglienza e ospitalità… dietro le sbarre”, rivolto ai detenuti ristretti nella Casa Circondariale di Cassino, è stato sottoscritto da: Istituto di Istruzione Superiore S. Benedetto, Casa Circondariale Cassino e C.P.I.A. 8 Frosinone. Nella Casa Circondariale di Cassino si lavora molto al fine del recupero, della rieducazione e della reimmissione nella società del detenuto a fine pena. È l’obiettivo principale degli Istituti di pena in un Paese civile, perché la pena fine a se stessa potrebbe portare con molta facilità e alta probabilità ad accrescere il rancore, la voglia di rivincita attraverso la vendetta, l’incapacità assoluta e l’impossibilità di “rientrare” nella società guadagnandosi un posto dignitoso. Sono numerosi i progetti rivolti ai reclusi in quanto “persone”, che grazie alla grande sensibilità e disponibilità della Direzione, nella persona della dott.ssa Irma Civitareale e dei suoi collaboratori, vengono da anni messi in campo, molti con il sostegno e l’aiuto fattivo della Caritas diocesana, ma anche di associazioni e Istituzioni. Tutti i progetti (come diamo conto costantemente su questo sito) mirano proprio a restituire dignità e rispetto a coloro che per motivi vari si sono macchiati di reati anche gravi. Aiutarli a prendere coscienza degli errori commessi e a ripararli costruendosi pian piano, attraverso l’istruzione e il lavoro, una strada nuova e positiva verso il futuro, è un’opera necessaria e meritoria. Un nuovo Progetto formativo è stato messo a punto e firmato a favore dei detenuti che studiano nei corsi dell’Istituto Alberghiero di Cassino, come spiega il comunicato stampa che segue. “Il 1° marzo 2018, presso l’Istituto di Istruzione Superiore “San Benedetto” di Cassino, alla presenza di Sua Eccellenza il Prefetto di Frosinone D.ssa Emilia Zarrilli, è stato sottoscritto dalla Dirigente del C.P.I.A 8 di Frosinone Prof.ssa Maria Incoronato, dalla Dirigente della Casa Circondariale di Cassino D.ssa Irma Civitareale e dal Dirigente dell’Istituto San Benedetto Prof. Pasquale Merino, il Progetto “Accoglienza e ospitalità… dietro le sbarre”, rivolto ai detenuti della Casa Circondariale che frequentano le tre classi (2 terze e 1 quinta) del Corso Alberghiero. Il Progetto è realizzato ai sensi dell’art. 12 del D.M. 663/2016, “Scuola in carcere”: piano di intervento nazionale contenente “Misure nazionali relative alla missione Istruzione Scolastica”; il D.D. dell’11.04.2017 indica le finalità e i destinatari del progetto. L’IIS San Benedetto presente con un percorso di II livello di istruzione presso la Casa Circondariale di Cassino, settore Enogastronomia-sala bar e vendita, rivolto agli adulti ristretti, con il CPIA 8 di Frosinone ha proposto il suddetto progetto. Il progetto, previsto per l’ampliamento dell’offerta formativa, include la certificazione nel patto formativo individuale e integra le competenze professionali e per la vita stabilite nella programmazione. Nello specifico il progetto si propone di ampliare le competenze, le abilità e le conoscenze valorizzando il tempo trascorso in carcere, attraverso laboratori, con diverse finalità e obiettivi specifici: Navigare nell’italiano (padroneggiare e utilizzare strumenti espressivi adeguati al settore, ascoltare e comprendere messaggi verbali e sviluppare conoscenze linguistiche di base, uso della lingua italiana come strumento, risolvere problemi e agire in modo autonomo). Diritto costituzionale (conoscenza dei diritti inviolabili garantiti dalla Costituzione italiana e dei doveri inderogabili a tutela della persona e della collettività; conoscenza ed evoluzione storica delle Carte Costituzionali; saper comprendere e spiegare la funzione delle norme in essa contenute). Il mondo in un bicchiere (Eseguire il servizio del vino con l’ausilio degli strumenti necessari e nel rispetto delle tecniche impartite; individuare caratteristiche organolettiche e qualitative del vino; valutarne le qualità mediante l’ausilio di schede)”. Catanzaro: oggi in carcere va in scena la commedia “Le pillole di Ercole” ilmetropolitano.it, 7 marzo 2018 Il 7 marzo alle ore 15 presso il carcere di Catanzaro sarà rappresentata la commedia “Le pillole d’Ercole”, messa in scena dalla compagnia teatrale “Nicola Valentino” di Satriano Marina, località nei dintorni del capoluogo. È già il terzo spettacolo rappresentato da questa compagnia nell’insolita cornice del carcere di Siano: si rinnova un’ importante occasione di incontro tra la comunità esterna e l’istituzione carceraria, in considerazione del fatto che l’istruzione, il lavoro e la formazione culturale sono elementi di fondamentale importanza per il percorso rieducativo dei detenuti. “Il legame con il territorio” afferma la direttrice della Casa Circondariale di Catanzaro, Angela Paravati “va rafforzato, perché il carcere non deve essere solo una misura afflittiva, ma anche un servizio sociale. Il teatro da sempre ha una funzione culturale ed educativa, ed in aggiunta ai laboratori portati avanti grazie ai volontari con la partecipazione diretta dei detenuti, questo evento costituisce l’occasione per i reclusi di assistere ad una rappresentazione teatrale messa in scena da una compagnia calabrese”. Per un paio d’ore quindi la sala teatro della casa circondariale “Ugo Caridi” sarà animata dal famoso testo scritto nel 1904 da Charles Maurice Hennequin in collaborazione con Paul Bilhaud. È nota la storia de “Le pillole d’Ercole”: un medico, avendo assunto queste pastiglie eccitanti su consiglio di un amico, ha una fugace avventura con una cliente straniera ed una situazione strana tira l’altra fino ad arrivare al paradosso. Nonostante abbia più di un secolo, la pièce riesce ancora oggi a coinvolgere, mantenendo intatte le caratteristiche comiche della commedia degli equivoci: qui pro quo, colpi di scena, complicazioni su complicazioni, ma anche un’attenta osservazione dell’animo umano. E ovviamente non sarebbe una commedia senza il lieto fine. Il testo, dopo oltre 100 anni dalla sua prima scrittura, si rivela ancora oggi attuale. Macerata: a Recanati lo spettacolo “Oltre il muro”, video e racconti dal carcere Il Resto del Carlino, 7 marzo 2018 Lo spettacolo è ispirato all’esperienza teatrale delle detenute del carcere di Rebibbia femminile. Il 10 marzo alle 21.30 all’ex granaio del museo civico Villa Colloredo Mels. Raccontare il carcere attraverso l’arte. “Oltre il muro: video e racconti dal diario di bordo delle detenute del carcere di Rebibbia femminile” è in programma per sabato alle 21.30 all’ex granaio del museo civico Villa Colloredo Mels. Lo spettacolo, una libera interpretazione del IV canto dell’Eneide, nasce come pretesto per raccontare la vita oltre le sbarre e le sue dinamiche. Frutto di due anni di lavoro dell’associazione Per Ananke con le detenute del carcere di Rebibbia femminile, vuole creare un ponte tra il mondo carcerario e il mondo “fuori”, al fine di avviare delle riflessioni su temi di attualità. L’iniziativa è frutto dell’incontro tra l’Associazione Whats Art e l’associazione romana Per Ananke, entrambe attive nella promozione del valore terapeutico dell’Arte. Quest’ultima diventa mezzo di riscatto sociale per donne che negli angusti spazi della detenzione, trovano dignità nel mettere in scena la loro esperienza. Progetto che diventa realtà grazie all’appoggio dell’assessore alla cultura Rita Soccio, dell’assessore ai Servizi Sociali Tania Paoltroni e della delegata alle pari opportunità Carlotta Guzzini del Comune di Recanati, che oltre a patrocinare l’iniziativa, hanno proposto di realizzarlo nel mese di marzo come tributo a tutte le donne. Collaborazione preziosa anche quella di Sistema Museo, che mette a disposizione la location di Villa Colloredo. A Roma e dintorni lo spettacolo vede la partecipazione de “Le Donne del Muro Alto”, la compagnia di attrici detenute della sezione Alta sicurezza della casa circondariale di Rebibbia Femminile, attiva dal 2013. Sul palco di Recanati ad esibirsi l’attrice e regista Francesca Tricarico, accompagnata dalla musica di Eleonora Vulpiani e la sua preziosa Lira. L’ingresso è gratuito. Prenotazione obbligatoria chiamando il numero 071.981471. Foggia: al via il progetto del Coni “sport nelle carceri” teleblu.tv, 7 marzo 2018 “Sport nelle carceri” è un progetto sviluppato in collaborazione fra il Ministero della Giustizia -DAP- e il Coni, a seguito della firma del Protocollo d’intesa avvenuta il 3 dicembre 2013, ed è diretto al miglioramento delle condizioni di vita della popolazione carceraria attraverso la pratica e la formazione sportiva. Il Progetto, promosso dal Coni Puglia e posto in essere dalla Delegazione Coni Foggia intende coordinare attività sportive presso la struttura penitenziaria di Foggia, per promuovere salute e benessere grazie ai benefici dell’attività fisica collaborando ad un processo di rieducazione attraverso le discipline sportive. Il protocollo d’intesa siglato a livello regionale è stato attivato nella Casa circondariale di Foggia direttrice dott.ssa Maria Consiglia Affatato e il delegato Coni di Foggia prof. Domenico Di Molfetta. Il prof. Di Molfetta ha sottolineato, condividendo con la Direttrice Affatato che “L’attività sportiva può rappresentare un elemento positivo per contribuire non solo al mantenimento di uno stato soddisfacente della salute psico-fisica, ma anche per migliorare la convivenza all’interno dell’Istituto, contribuendo ad abbassare il livello di tensioni e di conflitti. In questo senso le attività sono pensate ed organizzate in modo da essere “strumento educativo”, mezzo attraverso il quale lavorare sulle relazioni, sulle regole, sui valori come la legalità e la cooperazione, sul significato della sconfitta e della vittoria e sulla “gestione delle frustrazioni”. Il progetto tiene conto anche dell’importanza di integrarsi con altri progetti rieducativi già esistenti nella struttura. Lo sport quindi diviene strumento trasversale utile agli operatori nella strategia educativa della prevenzione e del recupero delle persone detenute”. Il Vice presidente Regionale del Coni Francesca Rondinone, intervenuta negli incontri di organizzazione, ha evidenziato che: “con la riforma penitenziaria del 1975 il legislatore definisce le attività sportive come “elementi di trattamento” intesi ad agevolare opportuni contatti con il mondo esterno basata prevalentemente sulla qualità dei rapporti umani e l’atmosfera relazionale che essi creano. L’attività sportiva praticata dal detenuto è un importante elemento del trattamento rieducativo e di prevenzione della recidiva e può dare una diversa dimensione allo spazio, in sé normalmente “ristretto e controllato”. Può essere facile vedere in questi momenti di partecipazione un elemento forte di socializzazione, d’integrazione e di superamento di difficoltà che essi vivono nella realtà penitenziaria”. Grazie al dott. Raffaele Florio specialista in medicina dello sport i partecipanti sono stati sottoposti a visita medica e gli aspetti logistico organizzativi sono stati curati dalla la Responsabile dell’Area Educativa dell’Istituto Penitenziario di Foggia, Dott.ssa Maria Giovanna Valentini e dal dott. Arturo Russo collaboratore Coni Foggia. Attraverso lo sport, dunque, si rieduca il detenuto al rispetto delle regole della società. Partendo dall’assunto che chi commette un reato viola una regola, quello che si intende realizzare è educare i corsisti alla comprensione dell’importanza delle regole nello sport, così come nella società, per giungere in tale modo a rispettarle e farle rispettare. La povertà vera zavorra del Paese. Serve un programma per i più deboli di Linda Laura Sabbadini La Stampa, 7 marzo 2018 Qualunque governo si formerà dovrà fare i conti con la grave situazione delle disuguaglianze e della povertà in cui versa il nostro Paese. E dovrà fare presto perché si protrae da troppo tempo. Nel 2014, finalmente, siamo usciti dalla recessione. Tecnicamente vuol dire che il Pil presenta un segno più per due trimestri consecutivi. E proprio da quell’anno il nostro Paese conosce una crescita, seppur moderata, non solo del reddito disponibile ma anche del potere d’acquisto, grazie alla ridotta spinta inflazionistica. Torna ad aumentare anche la spesa per consumi. Tutto bene, quindi? No, perché il reddito è cresciuto di più per chi aveva redditi medio alti. La crescita del reddito seppure diffusa, si è accompagnata quindi ad un aumento della disuguaglianza. Nel 2016, il reddito posseduto dal 20% delle persone più ricche è di 6,3 volte quello posseduto dal 20% delle persone più povere (5,2 nel 2008). La disuguaglianza al Sud è maggiore che al Nord (7,5 contro 4,9). Ma non va sottovalutata anche la disuguaglianza del Nord perché è comunque alta e superiore a quella dei Paesi del Nord Europa, di Francia, Germania, Austria, Belgio, Danimarca, Irlanda. I dati relativi alla povertà assoluta sono ancora più eloquenti. La povertà assoluta dopo essere raddoppiata nel 2012 non è mai diminuita. E i numeri sono elevati, stiamo parlando di 4 milioni 742 mila poveri assoluti. Sono 5 anni che questo numero è stabile e rischiamo che il problema si cronicizzi. E ricordiamoci che quanto più si permane nella povertà tanto più è difficile uscirne. E se ciò avviene da bambini, con più facilità si sarà poveri anche da adulti, perché vivere in famiglie povere significa non poter cogliere le opportunità che gli altri bambini hanno, da un punto di vista educativo, sanitario, di relazioni sociali e poi via via di lavoro. E purtroppo di bambini poveri assoluti ne abbiamo tantissimi, 1 milione 200 mila. Per loro la povertà assoluta è addirittura triplicata durante la crisi. Le condizioni peggiori riguardano le coppie con figli, in particolare quelle con tre o più, le famiglie mono-genitore e quelle con membri aggregati. Continua a peggiorare anche la condizione delle famiglie con a capo un operaio, un lavoratore autonomo o una persona in cerca di occupazione. I giovani poveri assoluti sono ormai un milione. Nel Mezzogiorno la crescita della povertà assoluta e stata quasi doppia rispetto a quella osservata a livello nazionale e si mantiene sui livelli massimi (6,3% delle famiglie e 7,9% delle persone). In assenza di politiche mirate adeguate persisteranno in condizione di povertà le famiglie e gli individui che per struttura e capacità economiche non hanno la possibilità di migliorare la propria condizione: quelle con minori, monoreddito, con basso capitale umano, con disoccupati, con occupazione forzatamente part-time o a tempo determinato, famiglie numerose, residenti nel Sud. Qualunque governo verrà, dovrà agire con responsabilità. E tre sono le cose fondamentali di cui tenere conto. Primo. Non va azzerato tutto. Una misura è stata avviata dal precedente governo. Se non si vuole offrire solo un assegno di tipo economico, ma si vuole prendere in carico la persona e la famiglia, attivandola verso il reinserimento sociale, bisogna essere coscienti che questa è un’attività complessa che ha bisogno di essere condotta da personale formato non si può ricominciare da capo. Secondo. Le risorse attualmente stanziate non sono sufficienti. Erano state previste solo per l’avvio. I dati della povertà richiamano ad un impegno molto più sostanzioso. Terzo. La priorità deve concentrarsi sui segmenti che hanno sofferto di più: bambini, giovani e Sud. Fa un appello Francesco Marsico, vice direttore di Caritas Italiana: “Il clima elettorale è stato molto, troppo conflittuale. Cerchiamo di valorizzare ciò che è stato fatto. Non distruggiamo per ricostruire. Se vogliamo fare di meglio, ben venga. Usiamo la vecchia misura come periodo di transizione sperimentale. I poveri ci chiedono responsabilità”. Card. Parolin: continueremo a educare la popolazione a visione positiva dei migranti di Domenico Agasso La Stampa, 7 marzo 2018 Il Cardinale commenta la vittoria in Italia dei partiti che hanno impostato la campagna elettorale contro le migrazioni: la Santa Sede proporrà sempre un messaggio di solidarietà. La Santa Sede proporrà sempre un messaggio di solidarietà. Sui risultati delle elezioni in Italia, con la vittoria di partiti che hanno impostato la campagna elettorale contro i migranti, il cardinale Pietro Parolin dichiara che l’”importante è riuscire a educare la popolazione a una visione positiva dei migranti”. E il Vaticano continuerà a farlo. Parola del Segretario di Stato. Il Porporato lo dichiara il 6 marzo 2018, al Sir a margine dell’incontro della Commissione internazionale cattolica per le Migrazioni (Icmc) - che opera ora in stretto contatto con la sezione migranti e rifugiati del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale - in corso a Roma. La Santa Sede “sa che deve lavorare nelle condizioni che si presentano. Noi non possiamo avere la società che vorremmo, non possiamo avere le condizioni che vorremmo avere. Quindi credo che, anche in questa situazione, la Santa Sede continuerà la sua opera di educazione, che richiede molto tempo”, dice il Cardinale. Per Parolin l’”importante è riuscire a educare la popolazione a passare da un atteggiamento negativo a un atteggiamento più positivo nei confronti dei migranti”. È un lavoro “che continua, anche se le condizioni possono essere più o meno favorevoli. Da parte della Santa Sede ci sarà sempre questa volontà di proporre il suo messaggio fondato sulla dignità delle persone”. Alle organizzazioni cattoliche impegnate in prima linea nell’accoglienza e nell’integrazione dei migranti Parolin consiglia di andare avanti nell’impegno “per creare una visione positiva della migrazione. Perché ci sono tanti aspetti della migrazione positivi che all’interno di tutta questa complessità non si percepiscono”. Il Porporato esorta le organizzazioni a proseguire “il lavoro sul terreno perché questo le contraddistingue e caratterizza, ma al tempo stesso non avere paura di aiutare la popolazione ad avere questo nuovo approccio”. Sulla necessità di conciliare le esigenze di sicurezza dei cittadini e i bisogni di chi fugge da situazioni difficili osserva: “Non è facile, dobbiamo riconoscerlo. Ma questa è una sfida che spetta alla politica, ossia conciliare le due esigenze, ambedue imprescindibili. È logico, i cittadini devono sentirsi sicuri e protetti ma allo stesso tempo non possiamo chiudere le porte in faccia a chi sta fuggendo da situazioni di violenza e di minaccia”. A questo proposito invita a “lavorare tutti insieme, che è un altro aspetto fondamentale. È una indicazione di metodo: tenere conto della difficoltà, voler trovare delle soluzioni e farlo tutti insieme”. Nel suo intervento all’Assemblea plenaria della Commissione (che terminerà l’8 marzo), Parolin confida che “ormai la migrazione è nell’agenda di ogni incontro che ho con Autorità di governo che vengono in Vaticano, o che vado a visitare”. Serve un “cambio di atteggiamento” nei confronti del capitolo migrazioni, così come chiede il Papa, ammonisce il Segretario di Stato vaticano. “Uno degli impegni difficili che si prospettano più urgenti e richiesti oggi - osserva - è proprio quello di lavorare perché avvenga questo cambio di atteggiamento, abbandonando la cultura dominante “dello scarto” e del rifiuto”. Il Porporato richiama alla necessità di una “reale ed equa collaborazione e condivisione a livello internazionale delle responsabilità e degli oneri legati all’accoglienza”. Parolin evidenzia anche l’approccio in controtendenza dei ragazzi nei confronti dei migranti: “Agli atteggiamenti di chiusura vediamo contrapporsi positivamente quelli di molti giovani che ritengono la migrazione come una dimensione normale della nostra società, resa interdipendente dai collegamenti veloci, dalle comunicazioni, dalla necessità di rapporti su scala mondiale. Sono dimensioni nelle quali possiamo davvero vedere dei “segni dei tempi” che spingono alla solidarietà su una scala globale”. Droghe. Stanze del consumo, la svolta di San Francisco di Bernardo Parrella Il Manifesto, 7 marzo 2018 San Francisco sarà la prima città statunitense a realizzare ambulatori dove le persone che la usano potranno iniettarsi eroina o altre sostanze illegali già in loro possesso nella massima igiene, senza rischiare l’arresto e sotto supervisione medica. I primi due centri che offriranno questi Supervised Consumption Services partiranno a inizio luglio, applicando le raccomandazioni dell’apposita task force tese a ridurre la dilagante epidemia di oppioidi e le crescenti morti per overdose. Secondo gli ultimi dati del National Institute on Drug Abuse, ogni giorno oltre 115 americani muoiono per abuso e overdose di sostanze quali eroina, oppioidi sintetici e antidolorifici. Nella sola città californiana si stimano circa 22.000 utilizzatori, che spesso si iniettano in luoghi pubblici e in pessime condizioni igieniche, con molti casi di overdose o emergenze sanitarie e lasciandosi dietro una scia di siringhe sporche. Si prevede che l’85% di costoro finirà per utilizzare questi centri, migliorando la qualità della vita di tutti e facendo risparmiare circa 3,5 milioni di dollari l’anno per interventi sanitari. La decisione è in realtà frutto di un lungo percorso avviato da un pugno di attivisti fin dagli anni 90, con le prime operazioni (illegali e clandestine) di scambio-siringhe nei vicoli del Tenderlion, il quartiere “malfamato” a ridosso del distretto finanziario e dello shopping di lusso del centro cittadino. Allora obiettivo primario era soprattutto contrastare la diffusione di Hiv e Aids, in parallelo alla battaglia lanciata da Dennis Peron - recentemente scomparso - e dalla comunità gay a sostegno della cannabis terapeutica. Tappe obbligate di quella riduzione del danno da tempo applicata in altri Paesi ma che in Usa è stata sempre malvista innanzitutto a livello socio-culturale. Con l’eccezione di poche aree metropolitane, trainate appunto dalla Bay Area californiana, dove questo percorso man mano ha coinvolto i politici locali e dato il via a riforme positive su entrambi i fronti. Pur se va registrata, lo scorso autunno, la bocciatura (per due soli voti) al Senato statale del progetto di legge già passato alla Camera per la realizzazione delle cosiddette “safe injecting rooms”. Proprio per superare quest’impasse legislativa e facendo tesoro delle esperienze in corso da anni in Europa, Australia e Canada, l’iniziativa punta ad aggirare le attuali norme proibizioniste a livello nazionale. I due centri saranno realizzati grazie a fondi privati e non richiedono ulteriori approvazioni formali. Rispetto alle possibili intrusioni delle autorità federali, la direttrice del Dipartimento sanitario di San Francisco, Barbara Garcia, appare tranquilla: “Staremo a vedere. Mi preoccupano di più morti e overdose per strada”. D’altronde secondo un recente sondaggio, il 67% dei cittadini di San Francisco sostiene queste iniziative (45% in maniera decisa, 22% più tiepidamente). Anche le autorità del Colorado stanno per dare via libera a simili centri e servizi, così come a Seattle, Ithaca, Baltimora e Filadelfia sono in arrivo le stanze del consumo, e va sottolineata l’uscita di nuovi studi che collegano la diminuzione delle overdosi da oppiacei con la legalizzazione della cannabis. Sembra dunque che finalmente anche negli Usa si voglia preferire la salute e la sicurezza pubblica alla fallimentare criminalizzazione. Anche i media mainstream cominciano a schierarsi, a partire dall’editoriale del New York Times del 24 febbraio scorso, molto significativo sin dal titolo “Lasciamo che le Città aprano le stanze del consumo”. Una critica alle recenti minacce di Trump ed un invito ad accettare le evidenze scientifiche. Francia. Riforma penale: carcere solo per casi gravi, abolizione delle pene detentive brevi Askanews, 7 marzo 2018 Il presidente francese Emmanuel Macron ha presentato le grandi linee di una profonda riforma penale alla Scuola nazionale di amministrazione penitenziaria ad Agen. Presto saranno fuorilegge le pene detentive brevi ma assicurerà l’applicazione effettiva di quelle oltre un anno. Inoltre è prevista una moltiplicazione delle pene alternative fuori dal carcere. Il capo dello Stato ha detto di aver proposto una terza via tra “lassismo” e “repressione”, denunciando le prigioni che “disumanizzano” e sono “scuole di criminalità”. L’obiettivo del capo di Stato è quello di risolvere il problema della sovraffollamento delle carceri ma anche di dare un nuovo senso alle pene detentive. Al 1 gennaio 2018, sono 68.974 i detenuti per una disponibilità complessiva di 59.765 posti. Siria. La Turchia fa ancora strage di civili ad Afrin, primi aiuti a Ghouta est di Chiara Cruciati Il Manifesto, 7 marzo 2018 Il primo convoglio di aiuti, 46 camion di cibo e medicinali, è entrato ieri a Ghouta est. Ad annunciarlo è l’Onu che spera in un secondo carico da recapitare l’8 marzo nell’enclave siriana, dal 2013 sotto assedio interno ed esterno. A una settimana dall’annuncio della pausa umanitaria da parte della Russia, arrivano i primi aiuti per 27.500 civili, ridotti letteralmente alla fame. L’Onu, però, non si dice del tutto soddisfatta: mentre i camion entravano, risuonavano i boati delle esplosioni e, secondo un funzionario dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, parte delle medicine sarebbe stata confiscata dal governo. La Croce Rossa ha confermato il blocco di alcuni equipaggiamenti medici, senza però fornire dettagli sui responsabili, mentre il generale russo Zolotukhin, di stanza a Damasco, accusa le opposizioni di perquisizioni nelle case e della confisca di “cibo e pass per i corridoi umanitari”, indicando in 100mila i permessi di uscita finora consegnati ai residenti di Ghouta. Nelle stesse ore le truppe di Damasco avanzavano via terra, riprendendo il 30-35% del territorio controllato da cinque anni dalle opposizioni islamiste. L’avanzata le ha portate a poca distanza da Douma, principale centro della Ghouta orientale, ed è stata accompagnata dalla fuga di 2mila civili, verso sud. Sarebbero i primi a fuggire dall’enclave, duramente colpita da bombe e missili nelle ultime due settimane: sarebbero oltre 700 i morti secondo le opposizioni, a cui vanno aggiunte decine di vittime fuori da Ghouta est, colpite da razzi e colpi di mortaio islamisti. Si muore anche ad Afrin, il cantone curdo-siriano dimenticato dai media e sotto attacco della Turchia dal 20 gennaio. Ieri raid turchi (no stop da oltre 48 ore) hanno ucciso 13 civili a Jinderese, tra loro tre bambini. Nel mirino dell’aviazione alcune case private. Si avvicina così ai 200 morti il bilancio dei civili uccisi in sei settimane di offensiva militare turca. Ma Ankara si muove anche al di fuori dei confini siriani: il governo turco ha chiesto ufficialmente alla Germania l’arresto e l’estradizione del leader curdo-siriano Salih Muslim, a Berlino per una manifestazione. Muslim era stato arrestato dieci giorni fa a Praga per essere poi rilasciato dal tribunale. Ma su di lui pesa ancora il pericolo dell’estradizione in Turchia. Myanmar. Vi racconto la strage dei Rohingya nei campi proibiti di Nicholas Kristof* La Repubblica, 7 marzo 2018 Dopo la pulizia etnica con le armi ora i generali negano le cure sanitarie. Sono Wara ha pianto per tutto il giorno. Poi non ha avuto più lacrime, ma la sua maglietta era bagnata lo stesso, per le perdite di latte. I suoi gemelli appena nati sono morti da 24 ore. Non ha potuto fare altro che accovacciarsi nella capanna dal tetto d’erba, distrutta dal dolore e dal lutto. Ha 18 anni e questa era la sua prima gravidanza, ma appartiene alla minoranza etnica dei Rohingya e non ha potuto avere l’aiuto di un medico. Il parto è stato difficile. I suoi gemelli sono già stati sepolti. A volte il Myanmar usa le armi e i machete per la pulizia etnica: è così che Sono Wara ha perso sua madre e sua sorella. Ma uccide anche in un modo più sottile e nascosto, negando regolarmente le cure sanitarie e bloccando gli aiuti umanitari ai Rohingya. I suoi gemelli sono morti per questo. Il Myanmar e Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace, stanno cercando di rendere invivibile la vita dei Rohingya, e di farlo senza testimoni. Negli ultimi mesi, sono fuggiti in Bangladesh circa 700.000 Rohingya, ma sì sa poco sul destino di quelli che sono rimasti indietro, poiché il Myanmar in genere non lascia entrare gli stranieri nelle aree dove si trovano i Rohingya. Il governo ha mandato un chiaro avvertimento con l’arresto di due giornalisti della Reuters che avevano raccontato un massacro di Rohingya ad opera dell’esercito; i giornalisti rischiano 14 anni di carcere per un atto di giornalismo eccezionale. Arrivato in Myanmar con un visto turistico, sono riuscito a introdurmi in cinque villaggi Rohingya. Quello che ho trovato è un genocidio al rallentatore. I massacri e gli attacchi a colpi di machete dello scorso agosto sono finiti per ora, ma i Rohingya restano confinati nei loro villaggi - e in un enorme campo di concentramento - e gli viene sistematicamente negato quasi ogni tipo di accesso all’istruzione e alle cure mediche. Quindi, muoiono. Nessuno conta le morti con precisione, ma la mia sensazione è che il governo del Myanmar uccida più Rohingya negando loro l’assistenza sanitaria e a volte il cibo che brandendo i machete o sparandogli addosso. Questo è il mio quarto viaggio in quattro anni per parlare dei Rohingya, una minoranza musulmana disprezzata in un Paese prevalentemente buddista, e all’inizio usavo il termine “pulizia etnica”. Come molti osservatori incaricati di verificare il rispetto dei diritti umani, sono arrivato a concludere che quello che si sta svolgendo qui deve probabilmente definirsi un genocidio. Alcuni professori dell’università di Yale e il Museo americano dell’Olocausto hanno già avvertito che questo potrebbe essere un genocidio, come ha ribadito l’Alto Commissario per i Diritti umani delle Nazioni Unite, Zeid Ra’ad al-Hussein. Sono Wara non ha potuto ricevere la minima assistenza prenatale, né prestazioni di pronto soccorso. In una situazione critica, un Rohingya può chiedere alla polizia il permesso di andare in una clinica governativa vicina che serve la popolazione generale, ma non c’è un medico, e i Rohingya hanno spesso paura di essere attaccati. Secondo una teoria, il Myanmar - sta cercando di creare una miseria e una paura tali da far fuggire i Rohingya da soli. Sono Wara dice che lei e suo marito hanno discusso se tentare di fuggire in Malaysia - un viaggio pericoloso in cui si rischia spesso lo stupro, la rapina e la morte. La pulizia etnica del Myanmar è diventata impossibile da nascondere quando l’esodo dei Rohingya in agosto ha portato con sé storie di massacri e di pogrom. Nell’intervistare quei rifugiati, alla fine dell’anno scorso, rimasi particolarmente scosso dal racconto di una donna, Hasina Begum, che mi raccontò come i soldati avessero massacrato uomini e ragazzi nel suo villaggio, facendo poi un falò dei loro corpi e poi avevano portato le donne in una capanna per violentarle. “Ho cercato di nascondere mia figlia sotto la sciarpa, ma hanno visto la sua gamba”, mi disse Hasina Begum. “L’hanno afferrata per la gamba e gettata nel fuoco”. Quello che sta accadendo a chi è rimasto nei villaggi è un tipo di brutalità più banale. In un remoto villaggio raggiungibile solo in barca o a piedi, lungo un sentiero, ho visto una ragazzina che lavava il fratellino minore, un bambino rachitico di 4 anni, Umar Amin. Ho preso dalla mia borsa un braccialetto Muac, che serve per valutare lo stato nutrizionale dei bambini misurando la parte superiore del braccio, e Umar Amin toccava la zona di pericolo rossa, quella che indica una malnutrizione acuta grave. Non riesce a camminare, né a parlare e ha un disperato bisogno di aiuto, ma non è mai stato possibile farlo vedere da un medico. Che dire di “The Lady”, di Aung San Suu Kyi, che ha ottenuto il premio Nobel per la sua risoluta lotta a favore dei diritti umani nel Myanmar? Oggi è di fatto la leader del governo del Myanmar e non solo ha difeso questo genocidio, ma se ne è dimostrata anche complice. Suu Kyi non controlla l’esercito, che ha commesso i massacri, ma ha contribuito a tenere lontani i gruppi di soccorso. Ha anche cercato di cancellare l’esistenza dei Rohingya, rifiutando questo termine e affermando che si tratta solo di immigrati illegali provenienti dal Bangladesh. Ed è il suo governo che sta promuovendo la causa penale contro i due giornalisti della Reuters. Sono riuscito a ottenere un visto turistico in quanto responsabile di una parte di un viaggio turistico sponsorizzato dalla New York Times Company in Myanmar. Il visto era accompagnato da un severo avvertimento a non pubblicare nulla su ciò che vedevo. In generale, credo che i giornalisti dovrebbero obbedire alle leggi dei Paesi che visitano, ma faccio un’eccezione quando un regime usa le sue leggi per commettere crimini contro l’umanità e per nasconderli. Nel corso del viaggio, una volta sono arrivato che era buio, e c’erano meno probabilità di essere notato. Altre volte, gli abitanti del villaggio mi hanno consigliato quali strade prendere per evitare la polizia. Per raggiungere due villaggi, ho preso una barca per evitare un posto di blocco della polizia. In uno dei villaggi raggiunti in barca, ho incontrato Zainul Abedin, che piangeva sua moglie, Jahan Aara, di 20 anni, morta di parto, insieme al loro bambino. Era la sua prima gravidanza e non aveva avuto nessuna assistenza sanitaria. “Forse sarebbe morta anche in un ospedale, ma almeno avrebbe avuto una possibilità”, ha detto Zainul Abedin. “In questo modo, invece, non ha nemmeno avuto la possibilità di farcela”. *Traduzione di Luis E. Moriones