“In nome del sospetto non si può negare il ruolo dei Garanti” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 marzo 2018 L’opinione di Stefano Anastasìa, Garante dei detenuti del Lazio, dopo le polemiche sui colloqui al 41bis. “Non c’è alcun rischio che ci sia un tramite con chi è al carcere duro: chi ha legami con le organizzazioni criminali non è detenuto nel territorio di appartenenza”. Il Tribunale di Sorveglianza di Perugia nei giorni scorsi ha rigettato il reclamo del Pubblico ministero e dell’Amministrazione penitenziaria con cui il magistrato Fabio Gianfilippi di Spoleto, disapplicando una circolare dell’amministrazione penitenziaria, consentiva a un detenuto in 41bis nella casa circondariale di Terni di svolgere un colloquio con il Garante regionale delle persone private della libertà senza il vetro divisorio, senza controllo uditivo e senza che fosse computato nel numero massimo di quelli consentiti con i familiari. In sintesi, il tribunale ha dato ragione al magistrato di sorveglianza di Spoleto che ha consentito ai detenuti del carcere duro di effettuare colloqui riservati con i garanti regionali e locali, finora prerogativa solo del Garante nazionale dei detenuti e avvocati. Una sentenza di questo genere, però, ha destato numerose polemiche. A partire, secondo il Fatto Quotidiano, dai magistrati antimafia. Il motivo? Viene evocata l’annotazione del Pm di Perugia che aveva fatto reclamo poi respinto - alla decisione del magistrato Gianfilippi: “C’è il pericolo che attraverso il garante territoriale, ci possano essere collegamenti all’esterno con il sodalizio di appartenenza”. Si tratta della tesi presa in prestito dall’articolo de Il Fatto Quotidiano. “Si potrebbe immaginare - scrive il quotidiano diretto da Marco Travaglio - un garante dei detenuti nominato dal consiglio di Corleone o di Casal di Principe che vanta gli stessi diritti del garante dell’Umbria, del Lazio o della Calabria”. In soldoni, secondo questa tesi, i garanti possono potenzialmente fare da tramite tra i boss al 41bis e le organizzazioni criminali di appartenenza. Come se non bastasse, sempre su Il Fatto, non avendo precedenti da citare, è stato citato l’ex Garante dei detenuti della regione Lazio Angiolo Marroni, reo di conoscere Salvatore Buzzi. “Per me è una calunnia nei confronti del mio predecessore - spiega a Il Dubbio il garante regionale Stefano Anastasìa, colui che per primo sollevò la questione del diritto ai colloqui ri- servati al Dap, perché Marroni è stato chiamato a testimoniare nel processo “mafia capitale” e non è mai stato indagato. Quel sospetto buttato nell’articolo come la storia della colonna infame di Manzoni- continua Anastasìa, è una calunnia vera e propria. Come disse anche Luigi Manconi, tutti coloro che si occupano del carcere hanno avuto dei rapporti con Buzzi e questo non significa essere parte di un sodalizio criminale”. Sempre nell’articolo de Il Fatto Quotidiano viene evocato un altro caso. Quello riguardante la moglie del boss al 41bis Madonia che avrebbe portato ordini all’esterno. “Ecco - spiega il Garante regionale, non mi pare che la moglie ricopra il ruolo di Garante dei detenuti e soprattutto non svolgeva colloqui riservati. A che titolo viene evocato questo caso?”. Ma ponendo per assurdo che un garante locale sia stato eletto da un’assemblea politica attigua alla mafia locale, il rischio è concreto che faccia da tramite con i detenuti al 41bis? A rispondere è sempre il Garante regionale Anastasìa. “Assolutamente no, anche perché laddove possano esserci rischi di condizionamento tra le organizzazioni criminali e gli enti locali, il pericolo non esiste perché tutti sanno che le persone che hanno legami con le organizzazioni criminali non sono detenuti nel territorio di appartenenza”. Anastasìa, essendo garante della regione Lazio e Umbria, assicura che quelli al 41bis, sono detenuti che provengono da altre regioni. C’è poi un secondo articolo de Il Fatto quotidiano dove viene intervistato l’ex procuratore nazionale antimafia Franco Roberti che si dice contrario ai colloqui riservati sempre per il discorso che i garanti locali possono fungere da tramite. Sempre Anastasìa spiega a Il Dubbio: “Nella migliore delle ipotesi a noi garanti ci si dà degli ingenui, ovvero che siamo un veicolo per i messaggi mafiosi. Non è bello che lo dica un Pm come nel caso del tribunale di Perugia e non è assolutamente bello che lo dica un ex procuratore nazionale antimafia. Sono persone che ricoprono ruoli istituzionali - chiosa il Garante, se hanno degli estremi che lo certifichino e lo segnalino per chiedere un commissariamento”. Sempre Roberti, nell’intervista, si dice favorevole ai colloqui dei Garanti con i detenuti, ma che non siano riservati. “Ma è importante che siano riservati - continua Anastasìa, perché noi abbiamo il compito di ascoltare i reclami dei detenuti. Un detenuto al 41bis deve avere la possibilità di denunciare eventuali abusi ed è ovvio che deve essere riservato senza che i comandanti di reparto o direttore penitenziari lo sappiano immediatamente”. Si tratta di una questione elementare stabilita dal diritto. “Non a caso - sottolinea il garante - nell’articolo 35 dell’Ordinamento penitenziario viene stabilito che i detenuti, compresi quelli al 41bis, possono inviare ai garanti i reclami in busta chiusa e senza essere visionata. Quindi eliminiamo anche questo articolo, visto che anche in questo caso la corrispondenza è riservata? In nome del sospetto chiudiamo tutti i rubinetti e creiamo un regime di polizia?”. Il laboratorio del nostro scontento di Maurizio Molinari La Stampa, 6 marzo 2018 La vittoria di Movimento Cinque Stelle e Lega nelle elezioni del 4 marzo è un evento spartiacque nella politica italiana, descrive l’entità dello scontento sociale che alberga nel nostro Paese. E apre la strada ad un governo tanto difficile da formare quanto capace di innescare conseguenze imprevedibili in Europa. L’evento spartiacque viene dal fatto che i governi della Repubblica italiana erano stati finora guidati o condizionati da Dc, Psi, Forza Italia e Pd ovvero forze appartenenti alle maggiori famiglie politiche europee - popolare e socialista - mentre adesso a vincere sono formazioni di origine differente, la cui legittimazione viene dal rappresentare istanze specifiche - su economia, sicurezza e identità locali - accompagnate da un forte sentimento di sfiducia nelle istituzioni rappresentative. Ovvero, ciò che accomuna i vincitori del 4 marzo non sono le radici nell’Europa del Dopoguerra bisognosa di pace ma nell’Europa della protesta contro gli effetti della globalizzazione iniziata dopo la Guerra Fredda. Lo scontento sociale in Italia si era già affacciato con l’esito delle elezioni amministrative del giugno 2016 - frutto della protesta delle periferie - e la bocciatura del referendum costituzionale del 4 dicembre - con una partecipazione record - ma i partiti tradizionali di matrice socialista e popolare hanno chiuso gli occhi davanti all’entità della protesta. Che aveva, ed ha, molteplici genesi: disoccupazione giovanile, delocalizzazione delle aziende, concorrenza sleale, perdita di speranze, corruzione, criminalità locale, presenza di migranti. Tale mosaico di scontento non è una peculiarità italiana: ha generato la Brexit in Gran Bretagna, la vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti, ha consentito a Marine Le Pen di raccogliere 10 milioni di voti in Francia e ad “Alternativa per la Germania” di raggiungere il 13 per cento. È l’Occidente ad essere il palcoscenico della protesta del ceto medio che si considera impoverito dalle diseguaglianze, aggredito dagli stranieri e dimenticato dai partiti tradizionali. Ciò che distingue l’Italia è l’essere il primo Paese dell’Europa continentale a vedere il successo delle forze anti-establishment e la peculiarità che Movimento Cinque Stelle e Lega ne rappresentano volti diversi, concorrenti, spesso conflittuali. Basta guardare dentro le file degli schieramenti vincitori del voto per accorgersi di tali differenze. Nella risposta alle diseguaglianze economiche i Cinque Stelle puntano sul reddito di cittadinanza ovvero l’intervento pubblico contro la disoccupazione mentre la Lega preferisce abbassare le tasse e rivedere la legge Fornero per promuovere il lavoro. E sui migranti i Cinque Stelle includono le posizioni più diverse mentre la Lega sposa le istanze più rigide. Ciò significa che gli elettori italiani hanno avuto a disposizione due consistenti opzioni diverse anti-globalizzazione, come non era finora avvenuto in alcun Paese occidentale. E le hanno premiate entrambe. Questo trasforma l’Italia in una nazione-laboratorio dell’affermazione di nuove forze frutto dello scontento sociale, estranee a linguaggi e dinamiche del secondo Novecento. Con tutti i pericoli di instabilità politica e degenerazione razzista, ma anche le opportunità di riforme sociali, che ne conseguono. È questa la delicata cornice nella quale il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, è atteso dal compito istituzionale di accompagnare le forze politiche nella formazione del governo. Tentando di disinnescare l’apparente ingovernabilità con ogni carta a disposizione: a cominciare dalle diverse opzioni del Pd dopo le dimissioni del segretario Matteo Renzi. Se l’Europa guarda, con timori e sospetti, verso Roma è perché ciò che accomuna Di Maio e Salvini è un approccio conflittuale all’Unione europea, alla Bce e all’euro. E la nuova legislatura include nel 2019 le elezioni europee, con la nomina della Commissione e delle più alte cariche dell’Ue, ovvero l’Italia avrà voce in capitolo e diritto di veto - al pari di ogni partner - su decisioni di valore strategico. Questo è il motivo per cui Steve Bannon, teorico del nazional-populismo americano, vede nell’”Italia dei populisti” un possibile cavallo di Troia dentro l’Unione europea. Saranno le prossime settimane a dire quanto Di Maio e Salvini saranno capaci di rispondere alle forti attese degli italiani “dimenticati” che li hanno premiati nelle urne. Il terreno è la responsabilità che dimostreranno nella partita per la formazione del governo. E si tratta per entrambi di un primo, ma già decisivo, test di leadership. “Chiunque governi, la giustizia non sia un comodo spot” di Errico Novi Il Dubbio, 6 marzo 2018 Intervista ad Annibale Marini, Presidente emerito della Consulta. I due vincitori sono forse destinati a marce parallele, che non s’incontreranno. Eppure Luigi Di Maio e Matteo Salvini sono accomunati di sicuro da una visione della giustizia affine, anche non del tutto sovrapponibile. Se nel giro di qualche settimana si uscisse dal sudoku delle maggioranze e per miracolo si parlasse di programmi, anche i leader di M5s e Lega dovranno però passare dai singoli spot a un’idea più sistematica su tutto, politica giudiziaria compresa. Argomento diradatosi nei loro discorsi ma anche, va detto, in quelli degli altri partiti. “Vedremo cosa ci riserva il futuro, ma nella superficialità, nella noncuranza con cui la questione giustizia è stata affrontata in questa campagna elettorale c’è stato qualcosa di penoso”, dice Annibale Marini, presidente emerito della Corte costituzionale. Gli stessi Cinque Stelle si sono sforzati di essere rassicuranti e hanno accantonato i toni da Savonarola sulla corruzione: anche per questo il tema giustizia è stato trascurato? È una spiegazione insufficiente, mi pare si sia parlato d’altro, forse perché questioni delicate come il sistema del processo si prestano poco a facilonerie. A me è sembrata una grave, gravissima omissione, un segnale penoso rispetto al senso di responsabilità che servirebbe per affrontare i problemi del Paese. Però vorrei essere chiaro: la mia è una critica rivolta al sistema politico nel suo complesso, non a qualche partito in modo specifico. È stata notata la ricorrenza rav- vicinata, rispetto alla tornata politica di ieri, delle elezioni per il rinnovo del Csm: c’è da aspettarsi uno sconvolgimento anche nella scelta dei togati? Ho i miei dubbi. Mi pare che le componenti della magistratura associata conservino una forza non destinata ad attenuarsi nel breve termine. Io ne ho fatto esperienza. Più precisamente, ho fatto esperienza dell’eccessivo odore di politica che circonda il Consiglio superiore. Si riferisce al suo quadriennio da componente laico? Sì, soprattutto al modo singolare in cui sono stato costretto ad accettare quella nomina. Che vuol dire “costretto”? Che quando mi fu chiesto se fossi disponibile a essere indicato dal Parlamento, le stesse forze politiche tennero a garantirmi che avrei potuto dare per scontata la successiva elezione a vicepresidente del Csm. E in effetti, al di là di tutto, mi pareva inevitabile che fosse così: non è che, tra gli altri componenti, altri avrebbero potuto vantare di essere già stati presidente della Corte costituzionale. Poi venne fuori che al vertice dell’organo di autogoverno doveva essere indicato per forza un politico, qualità che non avevo. Ricordo l’imbarazzo dell’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano nel rappresentarmi la situazione. Lei come reagì? Senza drammi. Cercarono di scusarsi con la nomina a presidente della sezione disciplinare: accettai anche perché l’alternativa sarebbe stata dimettersi da consigliere superiore, e non mi parve il caso. Tutto questo per dire che sul Csm non ci saranno interventi, nella nuova legislatura? Vorrei essere ottimista e prevedere innovazioni in tutti gli snodi chiave del sistema giustizia, ma faccio una gran fatica. C’è un dialogo intenso tra avvocatura e magistratura, forse più importante dei rapporti con un assetto politico mai così indecifrabile. L’avvocatura è complementare alla magistratura anche nel senso che un’avvocatura di spessore è indispensabile perché la magistratura stessa riesca ad esserlo. Ciò non toglie che se la politica vuole ritrovare autorevolezza, deve dimostrare di sapersi occupare con serietà dei problemi della giustizia. In realtà dall’elettorato proviene soprattutto una richiesta di inasprimenti generalizzati. Ecco, ed è un’impostazione da non assecondare, perché aumentare di uno o due anni la condanna per un certo reato non è la via maestra per far funzionare meglio la macchina giudiziaria. Qual è invece la strada giusta? Non pensare che la giustizia sia terreno di caccia per accrescere il consenso. Sarebbe già una buona regola. Tenersi lontani da scelte che incontrano l’immediato compiacimento dell’opinione pubblica, perché in un campo particolare come quello dell’amministrazione giudiziaria si tratta il più delle volte del modo per rinviare la soluzione dei problemi veri. Mi piacerebbe che si tornasse a riscoprire lo spirito dei costituenti. Sui sforzarono di capire cosa fosse necessario per il Paese, più di inseguire quello che potesse tornare utile a ciascuna parte. Non sono ottimista, gliel’ho detto. Ma smettere di credere a un sussulto di responsabilità sarebbe pericoloso. Voto di scambio politico-mafioso: il reato visto da magistrati e avvocati di Francesco Pacifico e Ilaria Proietti lettera43.it, 6 marzo 2018 Le condanne per corruzione politico-elettorale sono ancora poche. Perché trovare le prove non è semplice. E, secondo l’Antimafia, serve maggiore flessibilità. Ma anche una sensibilità diversa della società civile. Le mafie possono condizionare il voto perché sono in grado di infiltrare la politica. Le parole del ministro dell’Interno, Marco Minniti, ripetute più volte a una manciata di giorni alla conclusioni di una campagna elettorale, non lasciano margini di interpretazione. “Si tratta di una minaccia drammatica alla nostra democrazia ed è cogente dirlo oggi. Anzi è grave non farlo proprio ora: la politica non chieda e non ne accetti i voti”, ha detto il titolare del Viminale alla presentazione della relazione conclusiva dei lavori della commissione Antimafia. La mafia mutante. Il documento parla esplicitamente dell’affermarsi di una mafia “mutante”, che da ormai molto tempo non usa la lupara ma che invece si fa sempre più network di potere, ribattezzato talvolta comitato d’affari, altre masso-mafia, altre volte ancora cricca. Una mutazione genetica in cui la criminalità può agire senza necessariamente far scorrere sangue, ma ricorrendo alla corruzione. Mandando e in fuori gioco l’armamentario a disposizione dei magistrati, che per contestare il reato presuppongono il metodo mafioso tradizionalmente inteso. Ma cosa ne pensano gli operatori del diritto della recente riforma del 416ter sul voto di scambio politico-mafioso? Alessandra Dolci è a capo della Direzione distrettuale antimafia della Procura di Milano, che ha dato duri colpi alle ‘ndrine radicate al Nord. Con operazioni come quella denominata ‘Grillo Parlantè (che ha portato alla condanna a 13 anni e mezzo per l’ex assessore regionale lombardo, Domenico Zambetti per voto di scambio mafioso) o ‘Crimine-Infinito’, che ha portato a 200 arresti per reati gravissimi, tra cui l’omicidio e il traffico di droga, e coinvolto imprenditori tutti accusati di affiliazione alle cosche. Secondo la procuratrice aggiunta, “l’articolo 416ter non è di difficile applicazione, poiché quello che all’inizio poteva essere colto come un profilo problematico - la scelta di esplicitare il metodo mafioso come contenuto tipico della promessa di voti - è stato superato dalla ormai costante giurisprudenza di legittimità. Secondo la quale, l’intervento normativo ha il valore di una novità lessicale di minimo contenuto e, dunque, non è richiesto che il politico alla ricerca di voti chieda all’interlocutore mafioso specifiche modalità di attuazione della campagna elettorale e ne ottenga l’assenso”. Gli strumenti già esistono. Questo lo stato dell’arte, perché “gli strumenti normativi per combattere il fenomeno mafioso ci sono, ma vanno accompagnati con altrettanto efficaci strumenti per combattere le altre macro aree di devianza - come l’evasione fiscale o la corruzione - che rinsaldandosi con il crimine organizzato fanno un tutt’uno difficile da contrastare. Il mondo di mezzo in cui il candidato alla competizione elettorale e il mafioso si incontrano è quello dell’area del malaffare, della corruzione, delle clientele. Ed è il politico che cerca il mafioso, non viceversa”. Non a caso, in riferimento al monito lanciato dal ministro degli Interno, Marco Minniti, sulle capacità della mafia di incidere sull’esito elettorale del 4 marzo, il magistrato ammette che “è stato giusto lanciare questo allarme. Quel che vedo mi preoccupa per il futuro del mio Paese”. Presidio Hobo contro Minniti a Bologna Alberto Cisterna - già numero due della Direzione nazionale antimafia, aggiunto a Reggio Calabria e per anni pubblico ministero in trincea a Palermo - invece collega i limiti del 416ter al fallimento del concorso esterno in associazione mafiosa, regolato dal 416bis. “La grande scommessa era quella di arrivare a sanzionare le condotte collusive tra mafia e politica attraverso quest’ultimo reato. Ma prima con la sentenza Mancino della Cassazione e infine con il fallimento del processo Contrada, si è avuta l’implosione della fattispecie”. Il che renderebbe claudicante l’impalcatura complessiva. Le responsabilità condivise. Secondo il magistrato, oggi presidente di sezione al Tribunale di Roma, con l’attuale formulazione del 416ter, viene sanzionato “chiunque accolga la promessa di vedersi procurati voti con le modalità mafiose. Quindi il reato è costruito dalla parte del politico che accetti questo consenso. Il che presuppone un’iniziativa della mafia, ma non ricomprende l’altro lato della questione ossia quella del politico che per procacciarsi voti sollecita le cosche. Questa condotta in teoria dovrebbe essere punita attraverso il 416bis, ossia il concorso esterno in associazione mafiosa. Che però, come detto, è stato fortemente indebolito dalle ultime sentenze”. I nuovi metodi della mafia. I limiti di questo schema risiedono in “una concezione vecchia della mafia. La quale oggi si muove in maniera opposta rispetto al passato. Perché accanto alla coercizione del metodo mafioso, si affida sempre più alla corruzione. Ma questa, a differenza della violenza, implica una certa debolezza da parte da chi la metta in pratica”. Di conseguenza il 416ter diventa molto più difficile da applicare, perché costringerebbe l’inquirente a dimostrare - cosa non certo facile - la debolezza, la soggezione del mafioso sulla politica. Per questo Cisterna propone di risolvere il problema “allargando il perimetro del concorso esterno. La corruzione va inclusa nel metodo mafioso accanto all’assoggettamento e all’omertà”. A ben guardare una strada che concettualmente il legislatore ha seguito con il Codice Antimafia per quanto riguarda la condotta di tutta quella zona grigia (funzionari pubblici, imprenditori, professionisti) che si muovono tra la mafia e la politica. La corruzione, nuova arma delle mafie Il nodo della corruzione è infatti una questione sempre più centrale nei rapporti tra mafia e politica. Come dimostrano anche le parole di Giuseppe Cascini, già segretario dell’Associazione nazionale magistrati e soprattutto uno dei tre pm del processo noto come ‘Mafia Capitalè. “Il voto di scambio politico-mafioso è fenomeno presente quasi esclusivamente laddove c’è un controllo totale e pervasivo del territorio da parte dei clan”. Ossia in Sicilia o in Campania, ma anche in alcuni comuni a Nord di Milano. “Nel resto d’Italia non si è avuta evidenza di collegamenti tra esponenti politici e mafiosi nella fase squisitamente della raccolta-formazione del voto. Si è accertato invece il tentativo delle cosche di utilizzare il metodo corruttivo per ottenere appalti, per entrare nel business dell’erogazione dei servizi pubblici. Questo fenomeno è molto diffuso sia in quelle che la Cassazione chiama nuove mafie sia nelle mafie di esportazione, che operano fuori dal loro territorio originario. Le quali replicano soltanto alcune delle condotte tipiche tradizionali - per esempio non impongono il pizzo tra le attività di controllo del territorio - ma nei loro settori si affidano comunque all’esercizio della violenza, uno dei capisaldi del metodo mafioso”. L’obiettivo? Appalti e privilegi. La corruzione attraverso le intimidazioni insomma è il collante nel nuovo rapporto tra “piccole mafie” e politica. Nell’inchiesta “Mafia Capitale” - ridimensionata dai giudici di primo grado, che hanno fatto cadere l’ipotesi di concorso esterno in associazione mafiosa - non è emersa la fattispecie di voto di scambio, ma l’interesse a trattare con politici già eletti per ottenere appalti e privilegi. Per questo, secondo Cascini, bisogna “incentivare la trasparenza nel mondo della cosa pubblica. L’obiettivo delle mafie è investire nell’economia legale, utilizzando loro un metodo, la corruzione, che garantisce maggiore pervasività. Ed è un fenomeno dal maggiore allarme sociale, anche perché più nascosto, meno visibile”. L’opacità dei contesti mafiosi. In questo mutato scenario non nasconde le difficoltà Erminio Amelio. da procuratore aggiunto a Palermo Amelio ha condotto numerose inchieste sulla pubblica amministrazione che hanno portato in carcere “colletti bianchi”, politici regionali, imprenditori e personaggi in odore di mafia. “È obbligatoria una premessa di natura ambientale: certi contesti mafiosi sono più chiari in Sicilia o in Calabria, altrove sono più sottotraccia. Allo stesso modo è cambiato anche l’oggetto del patto: i soldi, che in teoria sono sempre più facilmente tracciabili, sono stati sostituiti da favori o da appalti magari concessi lontano dal territorio dove si vota oppure a un soggetto terzo, collaterale alla famiglia”. Di conseguenza, aggiunge Amelio oggi sostituto alla Procura di Roma, “una vera svolta nei casi di voto di scambio politico-mafioso, l’avremo soltanto quando i candidati, anche ad altre latitudini rispetto per esempio alla Sicilia, avranno la piena consapevolezza che non bisogna mai porre in essere rapporti con determinati soggetti. Nel momento in cui si ha un’avvisaglia di questo genere - cosa che, come detto, può essere meno limpida in un ambiente non conosciuto come mafioso - il politico deve cercare di tenersi a debita distanza dalle persone che possono essere in odore di mafia”. Il cortocircuito di reati troppo specifici. Ma serve un tagliando al 416ter? Amelio, amico e collaboratore di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ricorda che “le norme sono sempre perfettibili, ma ogni qualvolta le si rende più specifiche, si corre il rischio di lasciare scoperta un’area, un pezzo”. Per questo, e guardando all’azione giudiziaria, è convinto che “gli strumenti necessari siano quelli che il codice già ci dà. E noi dobbiamo cercare di utilizzarli al meglio, nella speranza di ottenere risultati. In quest’ottica hanno dato un grandissimo apporto le intercettazioni, che è uno strumento da potenziare. Così come converrebbe ampliare le attività di infiltrazione, per capire meglio i rapporti che si instaurano tra esponenti politici e mafiosi”. E gli avvocati cosa pensano? “Il 416ter è un pasticcio come quasi tutte le leggi fatte negli ultimi anni in materia di mafia e di mafia e politica”, dice Antonio Ingroia, oggi legale ma a lungo magistrato. Il quale dà un giudizio tranciante della norma nemmeno oggi che da avvocato è candidato alla Camera con la “Lista del popolo”. “La norma è frutto di un compromesso tra esigenze punitive ed esigenze di garanzia e quello che ne viene fuori è una autodifesa della politica dalla magistratura attraverso una formula equivoca che può neutralizzarne l’applicazione”, dice soffermandosi sulla difficoltà di provare la circostanza che i politici “sappiano che i voti promessi siano condizionati dal metodo intimidatorio: s tratta di una prova diabolica, impossibile perché si richiede una sostanziale compartecipazione del politico all’attività mafiosa. A questo punto bastava quanto previsto dal 416bis: un’interpretazione pignola e rigorosa del 416ter rende questa fattispecie sostanzialmente inutile”. I difensori si preoccupano. Preoccupazioni di segno completamente opposte sono quelle formulate dall’Unione Camere penali (Ucpi). “Dal nostro punto di vista il pericolo è esattamente contrario rispetto a quello evidenziato dal collega Ingroia - spiega il segretario generale dell’Ucpi, Francesco Petrelli - L’individuazione della fattispecie prevista dal 416ter è vaga ed incerta e questo ne agevola l’interpretazione rendendo d’altra parte più difficile l’attività di chi difende il malcapitato accusato di simili reati. Il legislatore ha descritto una fattispecie che non fa riferimento a elementi oggettivi, come ad esempio all’esistenza di materiale documentale o fonti testimoniali. Rispetto alla legislazione precedente che richiedeva il costringimento fisico non c’è neppure il richiamo per la configurazione della fattispecie a comportamenti oggettivi e quindi facilmente rilevabili: si parla di accordi che utilizzano per il raggiungimento dell’obiettivo le modalità del 416bis che sono sostanzialmente intimidazioni di natura ambientale”. Se l’utilità rimpiazza l’ideale. Petrelli richiama il principio di tassatività in base al quale “si deve sapere quali siano le condotte punite: il concetto della promessa di utilità è molto vago specie in una contingenza politica in cui è sempre più evidente una distorsione culturale in base alla quale si vota non in base ad un’idealità, ma in vista dell’ottenimento di utilità. Inoltre la norma per riuscire a cogliere uno spazio di applicazione il più vasto possibile prevede che le pene, peraltro altissime, scattino anche quando il disegno illecito non sia realizzato: basta la disponibilità a farlo. È evidente che tecnicamente ci muoviamo in quello che si definisce il “foro interiore”. Da qui la domanda se “basterà aver annuito per provare che l’accordo sia stato accettato? E del resto il rischio di un’applicazione della norma priva del supporto di prove affidabili è stata rilevata dalla Cassazione, quando ha sottolineato le criticità del 416ter a proposito delle difficoltà di provare l’effettiva esistenza dell’impegno. La Corte non a caso si è soffermata sugli indici sintomatici dell’accordo che sono di difficile dimostrazione processuale”. Ma le condanne sono ancora poche In quest’ottica torna centrale la campagna lanciata nel 2013 dall’associazione Riparte il futuro, per inserire nel 416ter del Codice Penale il concetto di “altra utilità” tra le ragioni dello scambio politico elettorale. Al riguardo, e in risposta a Petrilli, l’ex sottosegretario alla Giustizia e senatore dell’Italia dei Valori fino al 2013, Luigi Li Gotti (e avvocato di importanti pentiti quali Tommaso Buscetta, Totuccio Contorno, Giovanni Brusca, Francesco Marino Mannoia e Gaspare Mutolo) ricorda: “La norma è sicuramente di difficile applicazione ma questo non vuol dire che non serva, anzi. Il 416ter colma una lacuna rispetto a fenomeni che esistono e sono anzi molto diffusi. E il numero esiguo delle condanne, obiettivamente basso, dimostra semmai che il giudice ha sempre bisogno che si raggiunga la prova del reato”, spiega, ricordando come molti collaboratori di giustizia abbiano fatto riferimento allo scambio politico mafioso. Anche se “Brusca una volta mi disse che loro non facevano accordi con i politici prima essendo certi di poter condizionare con la lusinga o con la minaccia chiunque fosse stato eletto. Ma si tratta di un caso estremo”. La difficoltà della prova. Sempre attingendo alla propria esperienza nelle aule di giustizia, Li Gotti ricorda come sia in corso in questi giorni di fronte alla Corte di Appello di Catanzaro il processo all’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto. “Un mio assistito ha deposto una settimana fa nell’ambito del processo di appello sull’appoggio elettorale che sarebbe stato dato da Filippo Pizzimenti, considerato dagli inquirenti vicino alla cosca Arena per l’elezione del sindaco Caterina Girasole (imputata nel processo con il marito Franco Pugliese ed entrambi assolti con formula piena in primo grado dall’accusa di voto di scambio ed abuso d’ufficio, ndr). Il mio assistito ha detto di non sapere se effettivamente il pacchetto di voti promesso sia stato effettivamente dato, ma che sicuramente vi fosse interesse da parte della cosca in questione per l’elezione del primo cittadino. Anche questo caso dimostra come il reato sia di difficile prova perché patti di questo genere non si fanno per iscritto. Ma certo si può risalire alla prova con intercettazioni, materiale fotografico e altro”. Ricordando l’impegno profuso in parlamento per tipicizzare la fattispecie, sottolinea di essersi speso “per allargarla, oltre che allo scambio materiale di denaro al concetto di ‘altre utilità’. Il che non vuol dire affievolire la condotta prevista per la contestazione del reato: è sempre infatti necessario ricercare la prova”. Conta l’impegno criminale. L’avvocato Vincenzo Maiello, ordinario di diritto penale all’università di Napoli “Federico II” sottolinea come l’attuale formulazione del 416ter non sia “particolarmente felice, anche se la riforma era necessaria dal momento che in precedenza venivano colpite manifestazioni marginali del fenomeno dello scambio politico mafioso ossia quelle che si realizzavano esclusivamente attraverso lo scambio di denaro. È evidente che alle mafie non interessa solo il denaro ma soprattutto l’impegno politico più duraturo da parte della politica ad autoalimentare il sistema criminale. Questa configurazione insomma relegava la fattispecie ad un ruolo di sostanziale inutilità. E non a caso le spinte giurisprudenziali avevano equiparato, ma in violazione al principio sacro del divieto di analogia, lo scambio di denaro ad altri beni suscettibili di apprezzamento in termini economico patrimoniale. Questa equiparazione era però la spia di una sofferenza applicativa della fattispecie”, spiega il penalista. Le incertezze applicative. Il legale, però, sottolinea perché fosse necessario riformare il 416ter “riscattando la norma da una sostanziale ineffettività. Tuttavia l’attuale configurazione non è delle più felici perché il reato si potrebbe configurare secondo la lettera della disposizione nei soli casi in cui esplicitamente si preveda in sede di accordo che l’appoggio elettorale avverrà ricorrendo al metodo mafioso. Non a caso la giurisprudenza della Cassazione che ha condiviso una mia tesi, distingue due tipi di accordo: il primo tra il politico-candidato e un esponente che agisce in rappresentanza dell’associazione mafiosa; il secondo tra il candidato e chi sia solo circondato da un’aurea di mafiosità senza essere inserito in una consorteria di tipo mafioso. La Cassazione ha affermato che nel primo caso non c’è bisogno di esplicitare il metodo mafioso, mentre nell’altra ipotesi c’è bisogno che venga provato che nell’oggetto dell’accordo si chieda o si prometta di ricorrere al metodo mafioso. Il che, è evidente, pone un serio problema dal punto di vista della prova con tutte le incertezze applicative che ne conseguono”. Abolire il concorso esterno? Ma i problemi non finiscono qui. “C’è poi la questione del rapporto tra il 416ter e il concorso esterno in associazione mafiosa ritenuto configurabile dalla Cassazione, anche in rapporto allo scambio elettorale, alla condizione, ben vero, che quest’ultimo produca un effettivo rafforzamento della capacità organizzativa del sodalizio, cosa non necessaria per la configurazione del delitto di cui al 416ter: se si stipula un patto che determina questo rafforzamento, il politico risponde di concorso esterno e il mafioso di nulla in quanto si ritiene la sua condotta assorbita in quella di partecipe del clan. Mentre invece, ove questo effetto di rafforzamento dell’associazione non si verifichi, saranno puniti ai sensi del 416ter sia il candidato che il mafioso. Tale situazione genera, all’evidenza, una incongruenza nel sistema che ne segnala la insostenibilità sul piano giuridico”. Secondo Maiello, “per superare questo impasse, occorrerebbe che la giurisprudenza, condividendo una prospettiva che è già stata affacciata in dottrina, affermasse che in rapporto alla materia deli accordi elettorali politico-mafiosi non è più configurabile il concorso esterno. Se un giorno sarà affermato questo principio, la riforma del 416ter si rivelerà oltremodo significativa, in quanto segnerà il superamento della esperienza del concorso esterno riguardo a un genere di situazioni che intrinsecamente esposte a rischi di collisione e di conseguenti polemiche strumentalizzatrici tra l’azione della magistratura e gli interessi della politica”. Dal governo la richiesta di una sensibilità nuova Fin qui le analisi, anche contrastanti di chi, spesso su orizzonti opposti, siede nelle aule di giustizie. Ma la lotta alla mafia non si risolve soltanto a colpi di norme e codicilli o grazie al prezioso lavoro delle forze dell’ordine: serve una rinnovata sensibilità della società civile. Attraverso “un forte impegno anche educativo che deve contraddistinguere questo cammino molto lungo che va fatto evitando facili perniciose illusioni”, ha detto nel corso della presentazione della relazione della commissione Antimafia don Luigi Ciotti, tra l’altro ispiratore della nascita di Riparte il Futuro e delle sue più importanti battaglie contro il malaffare, come quella per modificare il 416ter, per riconoscere la figura del whistleblowing o per abolire i vitalizi ai condannati per mafia e corruzione. Un prete in prima linea, non a caso definito da Minniti “uno straordinario profeta dei nostri tempi”, ha detto don Luigi Ciotti (definito da Minniti “uno straordinario profeta dei nostri tempi”) nel corso della presentazione della relazione della commissione Antimafia. A cui ha fatto eco il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che ha segnalato il rischio di mafie “capaci addirittura di autorappresentarsi in politica mentre è ancora forte un negazionismo strisciante della sua capacità di infiltrazione e dell’affermarsi di una borghesia mafiosa”. La legislatura della lotta alla corruzione. Il presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi, ovviamente i ministri Minniti e Orlando, il procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero De Raho, così come l’animatore di Libera don Ciotti hanno però anche rivendicato lo sforzo legislativo fatto in questi anni, che si è accompagnato al contrasto di cui si sono fatti carico la magistratura e le forze dell’ordine. “La XVII legislatura potrà essere ricordata, probabilmente, come una legislatura costituente per la lotta alle mafie e alla corruzione. Occorre che movimenti e forze politiche dimostrino, in modo autonomo e prima delle indagini della magistratura, di aderire a criteri di candidabilità più stringenti, rispetto alla normativa attuale, indicati nel codice di autoregolamentazione da noi approvato. Perché la politica ha comportamenti che attraverso familismo, trasformismo e clientelismo aprono varchi alla mafia”, ha detto Rosy Bindi. Che nel suo intervento e in maniera più approfondita nella corposa relazione finale elaborata a San Macuto, auspica dall’inizio della prossima legislatura, una apposita sessione dei lavori parlamentari dedicata alle misure di contrasto delle mafie che sia anche l’occasione per fare un tagliando alle norme approvate. Per la commissione Antimafia il tema delle candidature e della qualità di queste ultime e cioè la questione degli ‘impresentabili’ non si esaurisce certamente con l’esibizione di certificati penali privi di evidenze giudiziarie. Occorre ripensare specialmente agli strumenti e alle informazioni di cui i partiti e i movimenti devono poter disporre, per poter conseguentemente assumere le responsabilità politiche delle scelte, ai fini di una trasparente ed efficace selezione del personale politico e in generale dell’accreditamento di chiunque si candidi a cariche rappresentative. A partire da misure ormai indifferibili come la legge di attuazione dell’articolo 49 della Costituzione sull’organizzazione dei partiti politici. Allo stesso modo, per l’Antimafia, non può restare inascoltato l’appello lanciato - in occasione degli Stati generali organizzati dal ministero della Giustizia lo scorso 24 novembre 2017 a Milano - dal ministro dell’Interno, il quale ha chiesto “un patto solenne tra i partiti per respingere il voto mafioso, che tanto ha inquinato il voto locale, in particolare nel Meridione dove è stata esponenziale la crescita del numero e dell’importanza degli scioglimenti dei comuni per mafia”. Serve maggiore flessibilità. La riflessione sull’aggiornamento del fondamentale istituto previsto dall’articolo 143 del Tuel sullo scioglimento dei comuni per infiltrazione e condizionamento di tipo mafioso dovrà necessariamente contemplare una “terza via” tra scioglimento e conclusione del procedimento ispettivo, in modo da ampliarne in modo flessibile le condizioni d’uso, sia nella fase che precede sia in quella che segue la decisione sulla permanenza della compagine politica; inoltre, maggiore incisività va trovata anche sulla componente amministrativa, molto spesso di fatto inamovibile. Il rischio liste civiche. “La situazione di progressivo deterioramento delle condizioni di legalità in seno a molti enti locali - prevalentemente ma non esclusivamente meridionali, si precisa nella relazione conclusiva approvata all’unanimità dalla Commissione Antimafia - è andata di pari passo con l’avanzare dei sintomi di una poco strategica ‘ritiratà dei partiti nazionali da molte zone del Paese, e con la conseguente proliferazione delle liste civiche come unica proposta politica in occasione delle elezioni amministrative. Queste ultime, sciolte da una matrice o da apparentamenti politici chiari, sono risultate frequentemente una sorta di bad company che rischiano di essere stratagemmi per dialogare, o per così dire “civettare”, ora con i partiti tradizionali, di cui riciclano fuoriusciti o esponenti minori, ora con altri ambigui referenti locali, spesso prossimi a soggetti criminali, soprattutto nei piccoli comuni delle regioni di tradizionale insediamento. Il beneficio della detenzione domiciliare speciale a tutela delle detenute madri Il Sole 24 Ore, 6 marzo 2018 Ordinamento penitenziario - Benefici penitenziari - Detenzione domiciliare speciale - Ratio dell’istituto - Bilanciamento interessi contrapposti - Valutazione giudiziale. Nella valutazione che il giudice deve operare in ordine al riconoscimento alla detenuta della detenzione domiciliare speciale, è necessario che siano concretamente individuati gli indici di pericolosità sociale che rendano attuale e concreto il rischio di recidiva e contestualmente siano accertate le condizioni e le esigenze familiari della condannata, bilanciando l’interesse dello Stato all’esecuzione in forma carceraria della sanzione penale con le esigenze familiari della richiedente. [I giudici della Suprema Corte hanno ritenuto che la “prognosi” di recidiva formulata dal Tribunale non fosse sostenuta da dati concreti ed attuali e non avesse tenuto conto del percorso di risocializzazione intrapreso dalla detenuta]. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 6 febbraio 2018 n. 5500. Ordinamento penitenziario - Benefici penitenziari - Detenute madri - Beneficio ex articolo 47-quinquies O.P. - Concessione - Valutazione giudiziale. L’istituto della detenzione domiciliare speciale si ispira a principi solidaristici di tutela dell’infanzia e di salvaguardia del rapporto genitore-figlio. Tale finalità tuttavia va controbilanciata con altri interessi preminenti, per cui il riconoscimento della misura alternativa può legittimamente essere negato quando manchi uno dei presupposti che il legislatore ha previsto per la concessione del beneficio, come nel caso in cui la madre abbia manifestato un certo grado di pericolosità sociale e non sia risultata in grado di accudire efficacemente il minore. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 24 novembre 2017 n. 53426. Istituti di prevenzione e di pena (ordinamento penitenziario) - Misure alternative alla detenzione - Detenzione domiciliare speciale di cui all’art. 47-quinquies della legge n. 354 del 1975 - Divieto di concessione per reati ostativi - Operatività. Anche per la misura alternativa della detenzione domiciliare speciale prevista dall’art. 47-quinquies della Legge 26 luglio 1975 n. 354, continua ad operare il divieto di concessione previsto dalla disposizione dell’art. 4-bis, comma primo, della stessa legge, concernente i condannati per i reati ostativi in essa contemplati, nonostante l’introduzione nel medesimo art. 47-quinquies del comma primo bis per effetto della legge 21 aprile 2011, n. 62. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 9 dicembre 2013 n. 49366. Istituti di prevenzione e di pena (ordinamento penitenziario) - Detenzione domiciliare speciale di cui all’art. 47-quinquies ord. pen. - Applicazione - Presupposti - Individuazione. Ai fini dell’applicazione della detenzione domiciliare speciale di cui all’art. 47-quinquies, legge n. 354 del 1975, il giudice, dopo aver accertato la sussistenza dei presupposti formali ed escluso il concreto pericolo di commissione di ulteriori reati, deve verificare la possibilità per la condannata sia di reinserimento sociale sia di effettivo esercizio delle cure parentali nei confronti di prole di età non superiore ai dieci anni, costituendo il primo un requisito necessario per l’ammissione al regime alternativo e la seconda la circostanza che giustifica il maggior ambito applicativo della misura alternativa. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 19 settembre 2013 n. 38731. Confisca allargata, squilibrio solo fino alla condanna di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 6 marzo 2018 Corte di cassazione - Sentenza 9984/2018. La confisca allargata, tra i principali strumenti di contrasto alla criminalità mafiosa, non può essere estesa sino a comprendere i beni acquisiti dopo la condanna. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 9984 della Prima sezione penale depositata ieri. La Corte ha accolto il ricorso presentato dalla difesa che sottolineava, tra l’altro, l’assenza di spiegazioni sulle ragioni per cui una somma di denaro trovata nel maggio 2016 potesse essere ritenuta entrata a far parte del patrimonio del condannato circa un anno prima. La Cassazione osserva, ricordando anche la recentissima pronuncia della Corte costituzionale, la n. 33 del 2018, che la confisca penale allargata si colloca tra le più moderne forma di contrasto alla criminalità organizzata, introdotta per ovviare ai limiti di efficacia della confisca penale “classica”. Una misura che si caratterizza per un allentamento del legame tra l’oggetto della sottrazione e il reato, in un contesto che vede affievolirsi anche gli oneri probatori per disporla. E quanto alla fase più opportuna per disporla, la sentenza mette in evidenza come proprio la fase dell’esecuzione potrebbe essere quella preferibile. Avvenendo in un momento successivo al giudizio di colpevolezza, permetterebbe un più concreto esercizio del diritto di difesa, visto che nella fase della cognizione l’imputato avrebbe tutto l’interesse a dimostrare l’estraneità ai reati dei quali è stato accusato. Detto questo però, puntualizza la Corte, “il limite cui il giudice dell’esecuzione deve attenersi per valutare se l’acquisto sia da presumere di illecita accumulazione a parte dell’imputato, ora condannato, è pur sempre, appunto, la sentenza di condanna”. La confisca non potrà allora essere disposta per beni entrati solo successivamente nel patrimonio: in caso contrario, al giudice dell’esecuzione verrebbero attribuiti compiti di accertamento su un ambito temporale estraneo all’esame compiuto dal giudice della cognizione. Resta escluso il solo caso in cui il bene è stato sì acquistato successivamente alla condanna, ma con risorse finanziarie che emerge essere state in possesso del condannato già prima del verdetto. Cronisti, viola la libertà sequestrarne le carte di Dario Ferrara Italia Oggi, 6 marzo 2018 Il provvedimento dell’autorità giudiziaria che impone al cronista di mostrare le carte sulle quali lavora o che le sequestra può costituire una violazione della libertà di espressione tutelata dalla convenzione europea dei diritti dell’uomo: comporta il rischio che siano individuate le fonti alle quali il giornalista ha garantito l’anonimato; caduto il segreto professionale, è pregiudicata la futura attività del cronista e del suo giornale, la cui reputazione sarebbe lesa anche agli occhi delle fonti a venire. Vanno rispettati i requisiti di proporzionalità e pertinenzialità: si può ricorrere al sequestro solo se non c’è altro modo per accertare il responsabile del reato. E acquisire i dati in copia equivale al sequestro. È quanto emerge dalla sentenza 9989/17, pubblicata il 5 marzo dalla Cassazione. Corrispondenza riservata - Accolto il ricorso del giornalista e delle altre persone coinvolte in un caso di cronaca giudiziaria: deve essere restituito tutto il materiale, in primis i pc, senza che le informazioni possano essere copiate. Trova ingresso la censura della difesa secondo cui il decreto di sequestro probatorio del pm non esplicita lo scopo della ricerca, cioè individuare la fonte del giornalista nella fuga di notizia. E questo impedisce al cronista di opporre il segreto professionale, mentre è il giudice l’unico soggetto processuale che può imporre di rispondere all’operatore dell’informazione. E neppure sempre. La fonte può essere rivelata soltanto se è indispensabile per dimostrare il reato per cui si procede e non si può accertare altrimenti che è vera la notizia in possesso del cronista. Insomma, ci deve essere proporzione fra la misura adottata e l’esigenza di accertare i fatti: solo così si assicura che l’attività investigativa sia condotta in modo da non compromettere il diritto alla riservatezza della corrispondenza del giornalista. Libertà di stampa - Se il giornalista non è indagato si può procedere alla perquisizione soltanto in caso di rifiuto alla richiesta di esibizione delle cose ritenute pertinenti: è la libertà di stampa a imporlo. È vero: la mancata collaborazione può legittimare un’attività ad ampio spettro. Ma “acquisire in modo indiscriminato un intero archivio elettronico” è “un’operazione sicuramente vietata”. Bancarotta, ok contestazione alternativa per omessa tenuta e sottrazione contabilità di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 6 marzo 2018 Corte di cassazione - Sentenza 5 marzo 2018 n. 9921. Nessuna lesione del diritto di difesa, nel caso di imputazione per bancarotta fraudolenta documentale, qualora la contestazione preveda sia la mancata tenuta che la sottrazione delle scritture contabili. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 9921 del 5 marzo, respingendo il ricorso dell’amministratore unico di una Srl poi dichiarata fallita. Per la Suprema corte, infatti, la contestazione alternativa è ammessa ed è “sovente motivata dalla necessità di verificare la condotta in sede dibattimentale”. Inoltre, prosegue, è stato a lungo orientamento della giurisprudenza di legittimità quello secondo cui, ai fini della configurabilità del delitto di bancarotta fraudolenta documentale, “devono ritenersi condotte equivalenti la distruzione, l’occultamento o la mancata consegna al curatore della documentazione e l’omessa o irregolare o incompleta tenuta delle scritture contabili”. Pertanto, spiega la Corte, per la sussistenza del reato “è sufficiente l’accertamento di una di esse e la presenza in capo all’imprenditore dello scopo di recare pregiudizio ai creditori e di rendere impossibile la ricostruzione del movimento degli affari”. Né ha rilievo, prosegue, che la formula letterale della norma, con il riferimento alla “tenuta” dei libri contabili “alluda ad un’azione positiva di tenuta irregolare”, in quanto tale ipotesi “è da estendersi necessariamente a quella di omessa tenuta, al pari della totale distruzione o della sottrazione”, essendo “evidente” che, in presenza del fine di recare pregiudizio ai creditori, la tenuta irregolare “impone l’accertamento della effettiva impossibilità di ricostruzione delle operazioni dell’impresa, laddove la omessa tenuta importa di per sé, oggettivamente, quella impossibilità”. Peraltro, conclude la Cassazione, anche un recente orientamento (n. 18634/2017), “più attento all’oggettività giuridica dei differenti contenuti normativi dell’art. 216, comma primo, lett. b) legge fallimentare, equipara senza dubbio “occultamento delle scritture contabili” e loro “omessa tenuta” pur affermando, contrariamente quanto tradizionalmente sostenuto, una netta distinzione tra la diade “occultamento-omessa tenuta” delle scritture contabili e la fraudolenta tenuta di tali scritture, che integra una fattispecie autonoma ed alternativa in seno all’art. 216, comma primo, lett. b), fall”. In definitiva, “in ragione della contestazione alternativa del reato a lui ascritto” non si è determinata nessuna violazione del diritto di difesa dell’imputato. Il subentro dell’amministratore formale non basta alla condanna per bancarotta di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 6 marzo 2018 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 5 marzo 2018 n. 9951. Niente imputazione del reato di bancarotta patrimoniale per l’amministratore formale che prende il comando dell’azienda ma che di fatto non abbia la consapevolezza di sottrarre beni ai creditori. Il tutto - precisa la Cassazione con la sentenza n. 9951/18 - in funzione del principio di diritto secondo cui nelle ipotesi di distrazione di cespiti aziendali, non può, nei confronti del soggetto investito solo formalmente di una carica gestoria della società, trovare automatica applicazione la massima di orientamento secondo cui, una volta accertata la presenza di determinati beni nella disponibilità dell’imprenditore fallito, il loro mancato reperimento, in assenza di adeguata giustificazione della destinazione a essi data, legittima la presunzione della dolosa sottrazione, dal momento che la pur consapevole accettazione del ruolo di amministratore apparente non necessariamente implica la consapevolezza di disegni criminosi nutriti dall’amministratore di fatto. La Corte in funzione di quanto detto ha perciò censurato sul punto la motivazione del giudice a quo, evidenziando come la motivazione fosse del tutto inappagante non essendo sufficiente invocare la posizione a garanzia rivestita dai componenti del consiglio di amministrazione di una società per giustificare la loro responsabilità per ogni atto di depauperamento del patrimonio aziendale. Questo perché si legge nella sentenza non è possibile ritenere automaticamente che ogni accettazione della carica di amministratore formale celi un disegno criminoso dell’amministratore di fatto. Per questo motivo il giudice distrettuale avrebbe dovuto dare conto, in maniera puntuale, delle ragioni che consentivano di ritenere, ogni oltre ragionevole dubbio, che i ricorrenti avessero piegato il ruolo di garanti dell’integrità del patrimonio aziendale a quello di schermo delle manovre occulte dell’amministratore di fatto e che tali operazioni in frode ai creditori sociali costoro avessero avuto sia pure generica contezza, così da accettare il rischio delle loro conseguenze. Conclusioni - E in questa prospettiva “le diverse evidenze fattuali segnalate con l’atto di gravame, significative di una sostanziale estromissione degli amministratori di diritto dalla concreta dinamica decisionale delle strategie imprenditoriali, anche sul versante economico-finanziario, avrebbero meritato una esaustiva disamina da parte della Corte territoriale”. Roma: l’ultimo triste saluto ad Angelo Di Marco di Valentina Stella Il Dubbio, 6 marzo 2018 L’uomo morto in regime di carcerazione per scontare una pena a meno di un anno. L’ultimo saluto ad Angelo Di Marco, il detenuto cinquantanovenne morto “vomitando sangue” in regime di carcerazione, si sono svolti ieri mattina al cimitero di Prima Porta a Roma. Una celebrazione funebre alla presenza di pochissime persone, in una uggiosa giornata di pioggia: le due sorelle dell’uomo, dei volontari che lo avevano assistito in carcere, la sua legale Simona Filippi dell’associazione Antigone. “Angelo è morto il 15 febbraio ma solo oggi (ndr ieri) è stato possibile salutarlo per l’ultima volta - ci racconta l’avvocata Filippi - perché i volontari hanno dovuto chiedere al Comune i soldi per il funerale essendo lui senza reddito. È stata una giornata molto triste”. La storia di Angelo di Marco ve l’abbiamo raccontata su queste pagine: era recluso da novembre nel carcere romano di Rebibbia. Doveva scontare una pena di poco inferiore ad un anno, ma soffriva di una grave cirrosi epatica, aveva avuto infarti e la sua situazione clinica era al limite: nonostante questo il tribunale di sorveglianza non solo gli aveva vietato la concessione dell’affidamento in prova ma aveva anche ritenuto che fosse compatibile con la carcerazione. “Angelo Di Marco ha subìto una vera e propria ingiustizia - prosegue col Dubbio l’avvocata Filippi - perché è entrato in carcere a causa della superficialità della magistratura di sorveglianza che non ha ritenuto di acquisire documenti che certificavano il suo stato di salute. Era un obbligo morale e giuridico”. Per quello che è accaduto la responsabilità non sarebbe da addebitare alla amministrazione del carcere e alla struttura sanitaria ma all’operato del magistrato di sorveglianza; per questo “con le sorelle di Angelo - continua la legale - stiamo valutando se presentare un esposto al Consiglio Superiore della Magistratura”. La strada che si potrebbe aprire a seguito di tale azione è quella di un provvedimento disciplinare nei confronti del magistrato di sorveglianza ma “l’esito non è scontato - conclude - bisogna tenere presente le dinamiche interne del Csm. Quello che però è da evidenziare è che sono pochi i detenuti e gli avvocati che decidono di intraprendere questa strada e ciò quindi permette a certi magistrati di scrivere provvedimenti imbarazzanti come quello che ha lasciato morire lontano da casa sua Angelo Di Marco”. Firenze: esce di casa per suicidarsi e uccide un venditore ambulante senegalese di Riccardo Michelucci Avvenire, 6 marzo 2018 Sei colpi d’arma da fuoco a mezzogiorno, in uno dei luoghi più presidiati e controllati della città, hanno fatto ripiombare improvvisamente Firenze nell’incubo della strage del dicembre 2011. Anche stavolta a cadere sull’asfalto, falciato da una raffica di colpi di pistola, è stato un cittadino senegalese, Idy Diene, venditore ambulante di 54 anni. A nulla sono valsi i tentativi di rianimazione operati sul posto dai sanitari: l’uomo è deceduto all’istante sul ponte Vespucci, a due passi dal centro storico e a poche centinaia di metri dal Consolato degli Stati Uniti, presidiato giorno e notte dai camion dell’esercito per l’Operazione Strade sicure. Ed è stata proprio una pattuglia di paracadutisti della Folgore in servizio presso la sede consolare a individuare e a bloccare l’omicida, in una delle strade limitrofe, dopo aver udito gli spari. Il fermato è Roberto Pirrone, 65 anni, residente a Firenze. L’uomo, secondo le dichiarazioni rese alla polizia, sarebbe uscito di casa con l’intenzione di suicidarsi finendo poi per sparare e uccidere un passante. Nella sua abitazione gli inquirenti avrebbero trovato una lettera di addio indirizzata alla figlia nella quale l’uomo spiegava i motivi per cui aveva deciso di uccidersi. Problemi di natura economica lo avrebbero spinto a togliersi la vita. Poi, sempre stando a quanto lui stesso ha raccontato agli agenti, avrebbe invece deciso di sparare a un passante, uccidendolo a bruciapelo. Secondo quanto emerso, Pirrone è un collezionista di armi - il suo profilo Facebook è pieno di immagini di fucili e pistole; in casa sua sono stati trovati anche alcuni cimeli dell’ex Unione Sovietica ma non avrebbe alcun legame con gruppi politici. Il movente razziale è stato finora escluso dal procuratore capo di Firenze, Giuseppe Creazzo, che ha cercato di fugare qualsiasi paragone con i fatti accaduti qualche settimana fa a Macerata. Ma a Firenze la memoria è corsa subito alla strage del 13 dicembre del 2011 quando Gianluca Casseri, un simpatizzante di estrema destra, sparò uccidendo due senegalesi ferendone gravemente altri tre, prima di suicidarsi. Per questo, fin dal primo pomeriggio di ieri, è salita la tensione all’interno nella comunità senegalese presente in città. Alcune decine di immigrati hanno inscenato una protesta sul luogo dell’omicidio del loro connazionale bloccando una carreggiata del ponte per alcune ore, poi hanno dato vita a un corteo improvvisato attraversando le strade del centro cittadino. Pape Diaw, storico portavoce della comunità senegalese di Firenze, ha sfogato tutta la sua rabbia. “Dicono che non c’è un movente razziale? Qui un bianco ha preso la pistola e ha ammazzato un nero e ci dicono che non è razzismo. Ditemi voi cos’è”. In serata l’imam di Firenze e presidente Ucoii, Izzedin Elzir, ha provato a stemperare i toni, affermando che “adesso non è il tempo delle divisioni, dobbiamo stringerci nel dolore intorno alla famiglia e alla comunità colpita da questo dramma”. Per una tragica ironia della sorte, la vittima di ieri era parente di Samb Modou, uno dei senegalesi uccisi nel 2011. Brescia: la formazione sul caffè in carcere per il reinserimento dei detenuti vendingnews.it, 6 marzo 2018 Nella casa di reclusione di Verziano, in provincia di Brescia, si sta portando avanti un progetto che ha come obiettivo la formazione di un gruppo di detenuti affinché questi, una volta scontata la pena, abbiano gli strumenti che permettano loro di inserirsi più facilmente nel mondo del lavoro. Il progetto, fortemente voluto dalla direttrice del carcere Francesca Paola Lucrezi e realizzato grande all’impegno Cooperativa Nitor di Travagliato, coinvolge un piccolo gruppo di detenuti ai quali si sta insegnando un lavoro in tre diverse specializzazioni: l’assemblaggio di valvole idrauliche, la farcitura di dolci e la realizzazione di cialde per le macchine del caffè. Quest’ultima competenza viene insegnata anche grazie al supporto dei Magazzini del Caffè e di aziende del bresciano che si occupano del ritiro e della distribuzione delle confezioni di cialde. Basti pensare che in un anno sono stati prodotti 20 milioni di cialde che hanno trovato il loro sbocco nel mercato grazie al sostegno di alcune aziende della filiera. La formazione prevede 40 ore in aula sotto la guida dei tutor e il tirocinio nel capannone di 1.000 metri quadrati dove si svolge la produzione. Terminata la prima fase, i detenuti vengono regolarmente assunti con busta paga, un dettaglio non trascurabile non solo perché ufficializza un impiego e lo remunera, ma anche e soprattutto perché restituisce fiducia in se stessi ai detenuti che, sebbene ancora tra le mura del carcere, possono sentirsi parte della società produttiva e in essa tutelati attraverso un regolare contratto. A quanto pare, molte altre aziende del territorio vorrebbero partecipare a questo progetto di reinserimento sociale, ma non vi sono gli spazi e le strutture idonee a che ciò si realizzi. Livorno: isola di Gorgona, i detenuti creano i sentieri dei percorsi turistici unimondo.org, 6 marzo 2018 Il Presidente del Parco Nazionale Arcipelago Toscano Giampiero Sammuri e il Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Santi Consolo hanno sottoscritto la convenzione per la realizzazione di interventi di manutenzione straordinaria di percorsi per la fruizione dell’isola di Gorgona. L’accordo prevede interventi di sistemazione della rete sentieristica per i quali il Parco metterà a disposizione dell’Amministrazione penitenziaria le risorse necessarie per pagare la manodopera delle persone detenute impiegate per la sistemazione del piano di calpestio dei sentieri, per la realizzazione di piccole opere di manutenzione e per la posa in opera di staccionate, bacheche e cartelli segnaletici. Con il finanziamento di 90.390,00 euro, messo a disposizione del Pnat, verranno acquistati i materiali necessari per risistemare alcuni percorsi al fine di favorire la visita eco-turistica del Parco, per la quale saranno impiegati detenuti appositamente formati per i servizi di accompagnamento. L’accordo si inserisce nel più ampio progetto di riqualificazione dell’isola di Gorgona promosso dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando e affidato alla Struttura Organizzativa di Coordinamento delle Attività Lavorative costituita nell’ambito dell’Ufficio del Capo del Dipartimento, congiuntamente alla Direzione della Casa di Reclusione di Livorno-Gorgona e al Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria per la Toscana e l’Umbria, finalizzato ad avviare sull’isola attività di ristorazione, alberghiera e di accoglienza turistica. L’azione congiunta del Parco Nazionale Arcipelago Toscano e del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria ha l’obiettivo di promuovere buone pratiche per la formazione e l’inserimento lavorativo delle persone detenute, di riqualificazione dell’ambiente e di sviluppo delle attività turistiche sull’isola di Gorgona. Milano: “I detenuti domandano perché”, incontro in carcere con gli scrittori Redattore Sociale, 6 marzo 2018 In continuità con “Il gioco dei perché”, il programma per le scuole promosso da Tempo di libri e ispirato alla storica rubrica di Dino Buzzati sul “Corriere dei piccoli”, il progetto mette a confronto alcuni scrittori con i quesiti raccolti tra i detenuti. Contigiani: “Le domande fanno bene a tutti”. Perché a un certo punto nella vita, la vita diventa importante? Perché abbiamo bisogno di Dio? Perché anche nelle piccole cose arriviamo ad accettare l’ingiustizia? Perché dopo l’abbraccio di un bambino siamo felici? Sono alcune delle domande raccolte tra i detenuti delle 5 carceri coinvolte nel progetto “I detenuti domandano perché”, ovvero la Casa circondariale Croce del Gallo di Pavia, la Casa di reclusione di Bollate, la Casa circondariale San Vittore di Milano, l’Istituto penale per minori Beccaria di Milano, la Casa circondariale Le Novate di Piacenza. Realizzato dall’associazione Vivere con lentezza in collaborazione con Tempo di libri e con il sostegno di Mediobanca, il progetto coinvolge i detenuti in attività legate al “Gioco dei perché”, il programma per le scuole promosso da Tempo di libri e ispirato alla storica rubrica tenuta da Dino Buzzati sul “Corriere dei Piccoli” (è uscita tra il 1968 e il 1969). “L’idea nasce dal lavoro che la nostra associazione porta avanti dal 2011 nel carcere di Piacenza con i gruppi di lettura ad alta voce e in quello di Pavia con la realizzazione del giornale ‘Numero zero’ - spiega Bruno Contigiani, direttore di “Numero zero” e presidente dell’associazione Vivere con lentezza - Abbiamo proposto a Tempo di libri di far crescere l’esperienza con i detenuti e fare qualcosa in più rispetto alla sola presenza di uno scrittore. Da qui la scelta di far lavorare i detenuti intorno a degli interrogativi che si pongono e con i quali lo scrittore si confronta”. I partecipanti sono al lavoro da novembre per elaborare le domande che poi vengono raccolte nell’incontro con uno scrittore. Il 13 febbraio si è svolto il primo incontro con Andrea Kerbaker, direttore di Tempo di libri oltre che giornalista e scrittore, alla Casa circondariale di Pavia. “Kerbaker ha raccolto 10/15 quesiti dei detenuti e li ha sistematizzati in perché che riguardano gli stati dei detenuti e ha risposto attraverso libri e autori - racconta Contigiani - Ad esempio, per il momento della riconciliazione ha scelto “Resurrezione” di Tolstoj, e poi Camus, Beccaria, Hemingway, Dostoevskij e altri”. Il prossimo incontro sarà il 19 marzo e vedrà Mario Santagostini a San Vittore, “gruppo in cui c’è una propensione per la poesia”, il 21 marzo sarà la volta di Gianni Biondillo che si confronterà con i quesiti dei detenuti di Bollate, mentre il 22 marzo l’attore e regista teatrale Gianfelice Facchetti incontrerà i giovani detenuti del Minorile di Milano, “abbiamo capito che gli interessi di questi ragazzi ruotano intorno allo sport - continua Contigiani. Da qui la scelta di coinvolgere il figlio di Giacinto Facchetti, storico capitano dell’Inter e della Nazionale italiana di calcio negli anni Sessanta e Settanta”. Poi sono previsti incontri nella Casa circondariale di Piacenza, anche con le donne della Sezione Alta sicurezza. “C’è una sola categoria di uomini che continua a giocare per tutta la vita e continua così a vivere nella favola. Sono gli artisti, i poeti, i musicisti, i pittori, nei quali l’incantesimo della fanciullezza resiste nonostante gli anni”. È la risposta che Dino Buzzati diede al bambino che gli chiese perché i bambini giocano e i grandi no. “L’esperienza di Buzzati con i bambini è interessante - dice Contigiani - I bambini fanno domande profonde e spiazzanti ed è la stessa cosa anche con i detenuti se riesci a far loro capire che può essere utile, che pensare fa bene, che può aiutarli ad accettare la propria situazione. Perché farsi delle domande, fa bene a tutti”. Il progetto “I detenuti domandano perché” è realizzato grazie al contributo di Mediobanca, “non è così comune che una banca decida di sostenere un’iniziativa a favore dei detenuti”, e grazie alla collaborazione delle associazioni di volontariato già attive all’interno delle carceri coinvolte. I partecipanti sono i detenuti che chiedono di frequentare iniziative di carattere culturale: una quindicina a Pavia (750 i detenuti), 30 a Bollate, una decina al Minorile dove attualmente sono reclusi 29 ragazzi, “adolescenti chiusi, che non si fidano di nessuno e non sono molto avvezzi alla lettura, ma che piano piano si stanno aprendo”, conclude Contigiani. Alessandria: un francescano incontra i detenuti di Alta sicurezza di Elisabetta Lo Iacono assisiofm.it, 6 marzo 2018 Fra Giuseppe Giunti, da diverso tempo è impegnato negli ambienti carcerari, dove sono reclusi anche autori di gravi delitti. Come è nata questa sua particolare opera di misericordia ed evangelizzazione? Devo la possibilità di operare e recentemente anche “stare” all’interno di un carcere ai progetti della Cooperativa Coompany, voluta a suo tempo da monsignor Fernando Charrier, vescovo di Alessandria, che diede anche vita all’ufficio della Cei per la pastorale sociale e del lavoro. Questo soggetto sociale crea e mantiene posti di lavoro nella casa di reclusione (agricoltura, apicoltura, bar interno, etc.) come anche all’esterno (ristorazione sociale, accoglienza richiedenti asilo, mensa Caritas, traslochi, progetti in rete con realtà analoghe, case alpine in Val d’Aosta, etc.) e in questo quadro, tempo fa, avviammo un progetto denominato “Fratelli briganti”; lettura di brani delle Fonti Francescane in parallelo a studenti del Liceo “Balbo” di scienze umane, di Casale Monferrato, che sfociò in una giornata straordinaria di compresenza: studenti, detenuti, operatori e soci della cooperativa, religiosi e religiose. L’occasione fu anche il testo “Wanted, esercizi spirituali francescani per ladri e briganti” di Fabio Scarsato (Edizioni Messaggero Padova, 2015), che ha una bellissima introduzione a cura di “Ristretti Orizzonti”. Quando pensai a dove e come vivere gli esercizi spirituali trovai naturale chiedere di andare dentro al carcere e il direttore Domenico Arena fu totalmente collaborativo, suggerendomi lui stesso di recarmi al piano superiore, nelle camere di detenzione, e non restare soltanto a piano terra, nei locali della palestra, degli uffici, della cappellina, dei colloqui. Cosa può dire un sacerdote a una persona che confessa reati tanto efferati? Qual è la strada che indica loro percorribile per una riconciliazione con se stessi, con le vittime, con i familiari? Questa domanda ha una sola ed esclusiva risposta, si può soltanto rendere presente, viva ed efficace la risposta di Gesù sulla croce, a pochi momenti dalla morte, data al criminale che aveva accanto, narrata da Luca al capitolo 23,42s. Gesù non discute sui reati, sulle pene, sulla giustizia romana; la sua risposta stabilisce, promette una relazione con quell’uomo. Tu, oggi, sarai con me. Il tutto preceduto da una garanzia forte e indiscutibile con la quale Gesù mette la propria garanzia al tutto: “in verità”. Come dire di non stare a preoccuparsi, nemmeno a farsi più troppe domande, tanto c’è lui. Il Signore non discute se la giustizia romana aveva emanato una pena corretta, ma prende a cuore il destino di quel malfattore che chiede che la sua vita non scompaia nel nulla (ricordati di me!). Gesù non impicca quella vita al passato, quell’uomo per lui non è, non consiste, non coincide con i crimini commessi; per lui è una persona alla quale deve dare speranza certa, lui che può farlo. È a partire da qui, dalla grandezza dell’amore di Dio non misurabile con i nostri criteri, che si può faticosamente riconciliarsi con se stessi e con la propria famiglia. La riconciliazione è una strada lunga e tortuosa e oggi sono ancora rari i casi in cui vittima e carnefici trovano percorsi che abbiano un crocevia comune. Si tratta di una sfida sociale non da poco. Ci sono tentativi in atto, anche a cura dell’associazione Libera. Di recente ha avuto esperienze dirette con collaboratori di giustizia. La decisione di “uscire dal giro” e di denunciare il sistema malavitoso, quanto per sua esperienza è legato a una conversione? Ovvero, c’è una correlazione tra la scelta di collaborare con il sistema giudiziario e di aderire a un rinnovamento anche spirituale della propria vita? Spesso è la forza della donna che fa aprire gli occhi, altre volte è la paura, o anche il desiderio forte di dare ai propri figli un futuro il più possibile normale, mentre la parola pentimento, conversione, è usata pochissimo, non perché non esistano queste dinamiche di salvezza, ma perché devono restare personali, nascoste, ed hanno tempi e modalità diversissime tra persona e persona. Dai suoi racconti, peraltro molto discreti, relativi a queste esperienze nelle carceri di massima sicurezza, sono stata colpita in maniera forte dalla sensazione di grande disagio avvertita nel momento in cui si è trovato ad assolvere una persona. Confessione-assoluzione non è un semplice automatismo… Sono state le parole dell’atto sacramentale “io ti assolvo” che mi hanno scosso come non mai. Intanto il termine stesso risulta ambiguo ma anche potente in quel contesto, perché si tratta di uomini condannati, non assolti, dai nostri Tribunali che ora Dio Padre invece assolve e non condanna, dal suo punto di vista, nella sua logica. Non posso chiamarlo disagio, ma totale inadeguatezza a parlare in persona di Gesù a fratelli speciali, molto speciali. E non mi vergogno nel ricordare l’abbraccio e le lacrime liberatorie per me e per altri. Mi sono sentito piccolo piccolo… Papa Francesco ha sempre dimostrato e invitato alla misericordia verso i carcerati, rimarcando come spesso i contesti della vita possono condurre su strade sbagliate e come tutti dovremmo metterci nei panni di chi è stato più debole e magari più sfortunato di noi. Come è percepita, al di là delle sbarre, la figura di questo pontefice? Con molta simpatia, istintiva, a pelle. Ma si tratta di una lacuna che vorrei colmare, bisogna cioè approfondire i gesti e le parole di Bergoglio perché non si riduca a un videogioco, finito il quale tu non sei cambiato; uno spettacolino interessante per mezzoretta ma che non ti coinvolge, e lo dico perché talvolta percepisco questo pericolo nell’opinione pubblica. Magari si tratta di una tecnica inconscia di difesa dalle sue evangeliche proposte e provocazioni. La formidabile comunicativa del papa vuole essere canale per l’incontro di salvezza. In effetti un detenuto ha raccontato la sua folgorazione a vedere papa Francesco lavargli i piedi, baciarli e poi alzare in silenzio lo sguardo verso i suoi occhi. Quando le cose vanno così significa che la comunicazione è evangelicamente efficace. Stiamo vivendo in un contesto “disordinato”, nel quale sembrano venir meno delle certezze, anche in termini di giustizia. Questa diffusa sensazione quanto porta ad essere più trincerati nei nostri spazi, meno propensi alla misericordia e quindi anche al perdono? Che mondo si percepisce dal carcere e che attese si nutrono? Devo dire che la nostalgia che provo di tornare al più presto in contatto con i miei “fratelli ristretti” sta proprio qua. Sono degli analisti, dei sociologi, degli antropologi senza patentino, ma formidabili. Mi spiego e riassumo semplificando un po’ alcune dinamiche da loro narrate, in particolare attorno alla tavola del pranzo, in cella. Primo: molti fanno riferimento alla donna per la decisione presa di collaborare. Secondo: non esiste più la gerarchia criminale tra di loro, semmai rispetto per l’anzianità. Terzo: quasi nessuno ha finito le scuole e il rammarico è evidente. Quarto: alcuni stanno facendo percorsi religiosi o sapienziali di cambiamento di mentalità. Quinto: i figli sono la calamita formidabile per andare avanti. Proviamo adesso a immaginare nella società esterna al carcere questi elementi in azione, come dei fermenti di cultura e di stili di vita. Fantascienza. Là ritorna, anche se in modo a volte elementare, ciò che fuori è frantumato; là le vite si ricostruiscono su qualche base che altrove è liquida, se non evaporata. Sarebbe bello e utile poter divulgare queste analisi, chissà! Francesco d’Assisi dà una grande lezione in merito al recupero dei “fratelli briganti” (FF 1759), dimostrando come affetto e rispetto possono riportare sulla retta via anche briganti incalliti. Una puntuale dimostrazione della sensibilità, della forza e della perenne modernità del Poverello… Quel brano storico, in forza del quale nella celebrazione eucaristica mi rivolgo dicendo “fratelli briganti, il Signore sia con voi...” è un vero e proprio protocollo per avvicinare il mondo della criminalità. Intanto dà un progetto ai suoi frati, conquistare le vite di quei fuorilegge. Non punta sulla sicurezza delle strade, sulle paure degli abitanti di Borgo San Sepolcro. Poi si concentra sul togliere la causa forte della loro azione criminale: comprargli da mangiare e da bere. Terzo, gridare forte le due verità apparentemente opposte e incompatibili: fratelli/briganti. Siete briganti, certo, e lo diciamo nel pieno del bosco, ad alta voce, nella verità, ma nessuno può togliervi la qualifica di nostri fratelli. È lo stesso atteggiamento del padre misericordioso (Lc 15, 28-32) il quale, al figlio maggiore che stizzito non vuole entrare in casa e rinfaccia gli sbagli “di questo tuo figlio”, risponde che “questo tuo fratello... etc.”. Poi Francesco, magari ricordando le parole della mamma, comanda di metter tavola e di servire lietamente, sì perché si mangia anche con gli occhi e col cuore! Dopo pranzo cominciate a chiedere di astenersi dalla violenza, è il minimo per andare avanti, ma se chiedete tutto di colpo non vi ascolteranno. Il protocollo prosegue. Aumentate le pietanze e a quel punto aprite le possibilità definitive. I briganti, sottolinea il testo, furono conquistati dall’umiltà e dalla benevolenza. La tovaglia posta per terra, alla loro misura, come gesto di bene-volere. La finale del brano è la verifica del progetto: i briganti eseguono “punto per punto” il programma, restituiscono ciò che hanno ricevuto e aiutano i frati entrando a loro volta nella logica del dare una mano; altri fanno un cammino esplicitamente religioso; altri si mettono a vivere mantenendosi col proprio lavoro. Trento: l’8 marzo inaugurazione del progetto espositivo “7+1=8. Le nostre prigioni”, cultura.trentino.it, 6 marzo 2018 La difficile situazione delle carceri italiane e soprattutto della donna in carcere al centro della riflessione per la Giornata internazionale della Donna. “Uno fra i Principi irrinunciabili per, concretamente, dare risposta ad una delle nostre più profonde, dolenti, aspettative: vivere in una società`, anche nella sua espressione individuale, migliore. Un principio non negoziabile per consegnare alle generazioni future la speranza di vivere in un ambiente sociale in cui tutela dei diritti, cultura della legalità e dei principi fondanti la nostra Repubblica, siano patrimonio autentico e condiviso per poter rendere l’uomo libero consapevole e responsabile nei confronti dell’altro, degli altri viventi e del mondo circostante”. Spiega così Andrea de Bertolini, presidente dell’Ordine degli avvocati di Trento, le ragioni che hanno spinto l’Ordine stesso, insieme al Comitato Pari Opportunità dell’Ordine degli Avvocati di Trento e in collaborazione con Boccanera Gallery, a organizzare 7+1=8 Le nostre prigioni, un progetto che per non dimenticare quanto sia urgente e non più procrastinabile una profonda riforma del sistema penitenziario italiano ha inteso organizzare una rassegna di eventi di ampio significato scientifico e culturale anche a favore della Cittadinanza per una comune cultura della pena e del superamento delle discriminazioni di genere. “L’umanità dei trattamenti punitivi si pone come premessa indefettibile per garantire quel fine della pena tanto giusto quanto - per ancora molti - di così difficile condivisione. Umanità intesa come rispetto della dignità dell’uomo anche per coloro che hanno sbagliato, anche per coloro che hanno commesso i reati più abietti - approfondisce de Bertolini. Non è indulgenza; non è buonismo; non è impunità; non è retorica né sofismo. E` quanto di meglio l’uomo abbia potuto concepire come risposta, senza replicarla, a quel “male” di cui egli stesso è afflitto. Un male che connota spesso i comportamenti dell’uomo indipendentemente da distinzioni di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali” - conclude il presidente. Nella situazione di gravità in cui sono tenuti i detenuti nelle carceri italiane, le donne, anche perché in minoranza, per certi aspetti subiscono una condizione peggiore poiché di sostanziale maggior afflittività rispetto alla loro dignità`. In occasione della Giornata internazionale della Donna le condizioni carcerarie della popolazione femminile saranno analizzate da diverse prospettive. Ma l’iniziativa affronterà anche altre “gabbie”, spesso più insidiose perché tenute nascoste, o che rimangono non affrontate e sono fonte di sofferenza, di umiliazione, di impossibilità di cambiamento. Per riflettere attorno a questi temi, il 7 marzo presso la Casa Circondariale di Trento, poi al Cinema Vittoria dalle ore 17.00 alle ore 20.00, con ingresso gratuito e in favore della Comunità`, sarà proiettato il film “Ombre della sera”, realizzato grazie all’impegno anche di ex detenuti di Rebibbia. All’esito della proiezione seguirà una tavola rotonda con ospiti, Pasquale Bronzo e Valentina Esposito regista del film. L’8 marzo, nello Spazio Archeologico di Piazza Cesare Battisti, alle ore 15.30 prenderà avvio il Convegno dal titolo “Donne e carcere”. Ospiti saranno Rita Bernardini, Marta Costantino e Ugo Morelli. Alle ore 18.30, nel medesimo spazio, sarà inaugurato il progetto espositivo “7+1=8 Le nostre prigioni”, realizzato in collaborazione con Boccanera Gallery dove sette artiste ed un artista offrono le proprie opere, concretamente adoperandosi per coinvolgere il pubblico su quella che prima di tutto è una questione di civiltà`, imprescindibile in uno stato di diritto. Il 29 marzo, nello Spazio Archeologico di Piazza Cesare Battisti, alle ore 16.00 prenderà avvio la Conversazione dal titolo Antichi pregiudizi, con Franco Marzatico all’esito del quale seguirà la consegna delle opere dell’esposizione il ricavato sarà interamente devoluto ad associazioni sociali che si occupano di attività trattamentali intramurarie in favore di detenuti ed in particolare di donne detenute. Firenze: proiezione di “Hotel Pianosa”, l’isola dei detenuti nel film di Scurati Redattore Sociale, 6 marzo 2018 Il film, che sarà proiettato mercoledì a Firenze, indaga nella doppia anima dell’isola di Pianosa, che fin dall’800 ho ospitato un carcere e che oggi, terminata quella triste vocazione, è diventata una meta per tanti turisti. Si chiama “Hotel Pianosa” ed è il film di Lorenzo Scurati, con i testi di Guido Silei e Valerio Trapasso, che sarà proiettato al cinema La Compagnia di Firenze (via Cavour 50/r) mercoledì 7 marzo (ore 17.00). È un film che porta l’attenzione del pubblico sulla realtà dell’isola toscana, per anni sinonimo di colonia penale e che oggi vive una nuova dimensione turistica, che si realizza proprio grazie al lavoro di alcuni detenuti. La telecamera di Lorenzo Scurati va ad indagare nella doppia anima dell’isola di Pianosa, che fin dall’800 ho ospitato un carcere e che oggi, terminata quella triste vocazione, è diventata una meta per tanti turisti, italiani e internazionali, la cui accoglienza è affidata proprio ad un gruppo di detenuti, in regime di semilibertà, provenienti da un altro penitenziario, quello di Porto Azzurro all’Isola d’Elba. Il documentario è un viaggio nella storia di 27 detenuti, che hanno ottenuto di poter lavorare a Pianosa, e nei loro racconti densi di sentimenti di riscatto e speranza in un futuro migliore. La proiezione è ad ingresso libero. Al termine della proiezione, incontro/dibattito sul tema: “Dalla colonia penale alle prospettive di lavoro per il detenuto”. Roma: la Sis Roma per il secondo incontro con le detenute pallanuoto.com, 6 marzo 2018 Una cospicua delegazione della SIS Roma si è recata stamane all’interno della casa circondariale “G. Stefanini” di Rebibbia, per il secondo incontro del progetto denominato “La pallanuoto incontra i detenuti”. Una mattinata trascorsa all’insegna della condivisione delle esperienze sportive e di vita, sia delle nostre atlete che delle detenute, in un reciproco ed interessantissimo scambio di pareri. La nostra atleta Domitilla Picozzi ha raccontato la sua esperienza ai recenti mondiali di Budapest, dalla dura preparazione estiva fino all’emozione del debutto davanti ad un’arena gremita da migliaia di spettatori, solleticando l’attenzione delle detenute presenti che hanno voluto conoscere anche qualche retroscena dell’evento. Ha preso poi la parola Loredana Sparano, raccontando la sua scelta di diventare portiere sin da piccola nonostante uno dei suoi primi allenatori avrebbe voluto impiegarla come centro boa. Le detenute, molte delle quali madri di famiglia, hanno raccontato di come sia difficile gestire il rapporto con i propri figli a distanza. Dei racconti umanamente struggenti, che ci hanno fatto riflettere sulla durezza della vita in detenzione. Potevamo immaginarla vedendo i tanti documentari sulle carceri, ma sentire le testimonianze dal vivo è decisamente un’altra cosa. Il direttore sportivo Giacomo Esposito ci racconta le emozioni della mattinata: “Siamo ritornati in carcere con molto piacere questa mattina, ed abbiamo trascorso una mattinata proficua con una dozzina di detenute che si sono dimostrate molto attente e molto propositive nel volersi confrontare con noi. Abbiamo cercato, come nello scorso incontro, di sensibilizzare le nostre interlocutrici sul fatto che lo sport ricopre un’importante funzione inclusiva nella società di oggi. Credo e crediamo fermamente che ogni individuo, terminato il proprio periodo di detenzione, debba avere un’occasione di rimettersi in gioco al pari di tutti gli altri.” Nord est, la nuova frontiera della holding mafiosa di Ernesto Milanesi Il Manifesto, 6 marzo 2018 “Come pesci nell’acqua” di Gianni Belloni e Antonio Vesco, pubblicato da Donzelli. La mitologica locomotiva del Nord Est è deragliata anche perché la propaganda accademica o confindustriale non poteva eclissare il binario morto: le mafie in giacca, cravatta, colletto inamidato e valigetta 24 ore. Se lo scenario si poteva intuire già nell’altro secolo, oggi la “distrazione” istituzionale viene certificata nell’ultima relazione della Commissione parlamentare antimafia presieduta da Rosi Bindi: “Le organizzazioni criminali in Veneto hanno approfittato di un’insufficiente attività di prevenzione e contrasto per mimetizzarsi nel tessuto economico attraverso un rapporto di convergenza di interessi con il mondo delle professioni e dell’impresa”. Di più. Edilizia e sanità pesantemente infiltrate sono servite a finanziare la nuova frontiera della holding mafiosa: “La grande distribuzione commerciale, i settori dei rifiuti, delle energie rinnovabili, del turismo e delle scommesse e sale gioco, i servizi sociali e dell’accoglienza dei migranti”. Gianni Belloni (già coordinatore dell’Osservatorio ambiente e legalità di Venezia) e Antonio Vesco (dottore di ricerca in Antropologia all’Università di Siena e Paris I Sorbonne) documentano l’inquietante geografia di un territorio infestato dall’altra faccia del “modello di sviluppo”. Come pesci nell’acqua. Mafie, impresa e politica in Veneto (Donzelli, pp. 208, euro 28) è la spietata radiografia della peste mafiosa che la politica - non solo leghista - rimuove proprio mentre l’economia continua a riprodurre contagi. È un originale, profondo, insindacabile saggio che misura, grazie al metro delle mafie, il tessuto sociale dell’ipocrisia insieme alla trama che ai buchi neri della pubblica amministrazione alterna il ricamo del business senza più regole. Belloni e Vesco hanno studiato gli squali dentro l’acquario, quanto le maree che li favoriscono. Fuor di metafora, affiorano i circuiti protetti e la rete “imprenditoriale” che azzerano il libero mercato, il controllo di legalità, l’interesse pubblico. Come pesci nell’acqua sviluppa alcuni casi eclatanti con l’aggiunta di una sintomatica “diagnosi differenziale” del Veneto. A Verona ricostruisce il quadro dell’”altra ‘ndrangheta” connessa con gli amministratori della giunta Tosi, come acclarato già da Report. A Padova, analizza l’inchiesta su Francesco Manzo che spicca perfino nell’operazione del centro direzionale di Interporto, rimasto uno scheletro: maxi-sequestro patrimoniale deciso dalla Dia di Venezia, ma revocato dal Tribunale di Padova… Poi c’è il “caso Pitarresi” che dalla provincia di Treviso conduce in Sicilia, sulla scia soprattutto dei permessi di soggiorno falsi: “Gli inquirenti calcolano che nell’arco di cinque anni, abbia maneggiato e, comunque, avuto la disponibilità di circa 15 milioni di euro”. Arriverà, invece, a sfiorare i due miliardi il giro d’affari con ramificazioni venete scoperto nell’operazione “Gambling” della Procura di Reggio Calabria. Infine, le inchieste Aspide e Catapano: secondo Belloni e Vesco, “svelano il ruolo cruciale svolto da professionisti, consulenti finanziari e procacciatori d’affari in genere nel supportare direttamente le attività delle due società. Un caso esemplare è quello del notaio Luca Arnone, di Lendinara”. Come pesci nell’acqua non fa che nutrire la tesi con cui l’economista Stefano Solari dell’Università di Padova descrive il “compattamento delle reti a fronte della crescente incertezza dei mercati”, in cui si annida il malaffare. E alla fine del saggio arriva puntuale la conferma “indiretta”. Attraverso lo scandalo Mose, che ruota intorno al Consorzio Venezia Nuova concessionario unico di 5 miliardi d’appalti. È il sistema politico bipartisan che diventa contraltare del vorticoso giro di soldi, fatture, assunzioni, sponsorizzazioni. Come si poteva facilmente immaginare fin dagli esordi, il Consorzio di Mazzacurati & Baita ha trasformato la laguna nella nuova Tangentopoli senza limiti. Uno degli investigatori sorride ironico durante l’intervista con Belloni e Vesco: “Era un sistema così ben congegnato che non ci poteva più entrare nemmeno un’acciuga”. È la “mafia di Venezia” denunciata, da sempre, da chi non ha piegato la testa. È lo specchio istituzionale della presenza criminale a Nord Est. È il punto di non ritorno, quando un’impresa come Mantovani fattura in funzione del Mose, la politica (dal “doge” Galan fino ai sindaci Pd) diventa intermediazione e perfino l’ex patriarca ciellino contabilizza senza remore. Spagna. Rapper condannati per “istigazione al terrorismo”, critiche dall’opposizione di Omero Ciai La Repubblica, 6 marzo 2018 I testi delle canzoni di Pablo Hasél e José Miguel Arenas “esaltano al terrorismo”. Questa l’accusa di Madrid ai due giovani rapper spagnoli che si difendono chiamando in causa “la libertà d’espressione”. Due giovani rapper sono stati condannati in questi giorni in Spagna per i testi delle loro canzoni. Pablo Hasél, catalano di Lerida, è stato condannato a due anni e un giorno e a pagare una multa di 24.300 euro per “esaltazione del terrorismo”, “insulti alla monarchia”, e “calunnie e ingiurie contro istituzioni dello Stato”. José Miguel Arenas, noto come Valtònyc, dell’isola di Maiorca, nelle Baleari, con le stesse accuse è stato condannato a tre anni e mezzo di carcere. La prima condanna di Valtònyc risale al febbraio dell’anno scorso da parte dell’Audiencia Nacional. Lui aveva presentato ricorso al Tribunale supremo che però ha confermato la sentenza in questi giorni e ora dovrà scontare la pena in carcere. I due rapper si difendono chiamando in causa la “libertà d’espressione” ma secondo i giudici che li hanno condannati “i loro testi non sono irrilevanti, non realizzano una critica politica al capo dello Stato, ma ingiuriano e calunniano, e minacciano di morte il re o membri della famiglia reale”. Così la polemica è servita anche perché nel caso di Valtónyc i tre giudici del Supremo che hanno ratificato la sua condanna sono considerati tutti molto vicini al partito popolare di Mariano Rajoy al governo. Il leader di Podemos, Pablo Iglesias, ha criticato le condanne mentre militanti di Esquerra Republicana, il partito nazionalista catalano, sono andati a protestare in favore di Hasél davanti al tribunale. Hasél si definisce comunista e venne già condannato per i suoi testi nel 2014. Questa volta ha reagito molto duramente su Twitter. “Mi hanno condannato a due anni - ha scritto -, e a un altro di pena-multa, ossia tre. Che vanno a sommarsi con gli altri due che ho già per canzoni contro il regime. Trascorrerò cinque anni in carcere per un delitto d’opinione ma non mi piegherò mai. Mai, fascisti di merda”. La canzone più famosa di Pablo Hasél si chiama “Juan Carlos, il bobo” e il suo video inizia con una vecchissima intervista all’ex re, oggi emerito, nella quale Juan Carlos sostiene che l’ex dittatore Francisco Franco è “un esempio vivente per il suo impegno patriottico al servizio della Spagna”. E poi critica i legami della monarchia spagnola con quella saudita. Le due condanne - nel caso di Hasél non sarà definitiva fino all’esame del ricorso da parte del Tribunale Supremo - hanno provocato molte reazioni tra i partiti e all’interno della magistratura. Le associazioni vicine alla destra applaudono alle condanne ricordando che “la libertà di espressione non è un diritto assoluto e illimitato”, mentre Ignacio González Vera, portavoce di “Giudici per la democrazia” sostiene che il reato di “istigazione al terrorismo” andrebbe riformato e limitato soltanto “all’istigazione diretta della violenza”. Inoltre il portavoce dell’associazione dei magistrati progressisti è convinto che punire l’istigazione al terrorismo con il carcere sia esagerato, “sarebbe sufficiente una pena pecuniaria”. E propone infine di depenalizzare le ingiurie alla monarchia come sostiene anche il tribunale europeo dei Diritti umani. Molto critici anche i socialisti del Psoe che sottolineano come la Spagna stia vivendo un’epoca “di retrocesso delle libertà” a causa della “legge bavaglio” approvata nella precedente legislatura dal partito popolare di Rajoy che indurisce le pene e limita ciò che può essere considerato “libertà d’espressione”. Ciudadanos, il partito di Albert Rivera e Inés Arrimadas, difende invece l’attuale interpretazione del reato di “istigazione al terrorismo”. “È uno strumento penale per la lotta al terrorismo”, afferma un portavoce. E se i giudici considerano che nei testi dei rapper ci sono “minacce di morte” vanno condannati. Egitto. La repressione contro il dissenso, problema più grave di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 6 marzo 2018 Si voterà tra il 26 e 28 marzo. Con eventuale ballottaggio un mese dopo. Il risultato è scontato: vincerà l’attuale presidente Abdel Fattah al Sisi. Niente democrazia, candidati costretti al ritiro e minacce, peggio che in Turchia, alla libertà di stampa rendono più che mai una patetica farsa le elezioni presidenziali in Egitto. Si voterà tra il 26 e 28 marzo. Con eventuale ballottaggio un mese dopo. Ma le procedure elettorali appaiono ridicole, persino più inutili che ai tempi di Hosni Mubarak. Il risultato è scontato: vincerà l’attuale presidente Abdel Fattah al Sisi. Già decine di giornalisti, avvocati e attivisti per i diritti civili sono statati arrestati, tanti senza processo. I blogger egiziani parlano di centinaia di desaparecidos. Il caso Regeni docet. Se i servizi segreti egiziani hanno potuto impunemente uccidere un ricercatore italiano che lavorava per un noto ateneo inglese, possiamo immaginare con quale libertà infieriscono contro i critici locali del regime. Così al Sisi ha metodicamente eliminato tutti i potenziali concorrenti. I sistemi brutali li ha ben rodati dal suo golpe nel 2013 contro il governo dei Fratelli Musulmani. Ha “convinto” il suo concorrente più importante, l’ex premier Ahmed Shafik, a non candidarsi. Lo stesso ha fatto, ricorrendo a una miscela ambigua di premi e minacce, con l’ex capo di stato maggiore Sami Hafez Anan, e persino con un “nobile” della politica egiziana quale è Anwar Essmat Sadat, nipote del presidente Anwar Sadat assassinato dagli estremisti islamici nel 1981. Dopo aver imbavagliato i media egiziani, al Sisi ora avverte quelli stranieri che i loro diritti di critica sono “sorvegliati”. “Se qualcuno insulta l’esercito o la polizia significa che sta offendendo tutti gli egiziani. E questa non può essere considerata come libertà d’opinione”, ha detto in un tour a El Alamein. Di recente la polizia ha arrestato la madre di un’attivista per i diritti umani di cui sui sono perse la tracce e che aveva parlato alla Bbc. Il caso resta irrisolto, come tanti altri. Guinea Bissau. I diritti calpestati delle donne di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 6 marzo 2018 Non è un Paese per donne la Guinea Bissau dove il 41% delle spose non ha potuto scegliere il marito e la violenza domestica non fa notizia tanto che pochissime vittime presentano denuncia. Per questo mercoledì 7 marzo, in occasione della Giornata Internazionale della Donna, l’Ong Mani Tese presenta il progetto “Libere dalla violenza: diritti ed emancipazione per le donne in Guinea-Bissau”. “In tutto il mondo, la violenza contro le donne lascia trasparire l’eredità storica di una società marcata dalla discriminazione di genere - dichiara Paola Toncich, Coordinatrice del progetto di Mani Tese - ma in Guinea-Bissau assume forme diverse e ancora più atroci rispetto a quelle conosciute in Europa, come il matrimonio forzato, il matrimonio precoce e la mutilazione genitale femminile”. Secondo uno studio realizzato nel 2011 da organizzazioni di difesa e promozione dell’uguaglianza di genere, l’85% della violenza contro le donne guineensi si manifesta nell’ambiente familiare e nel 67% dei casi gli aggressori sono i coniugi, mentre nel 33% altri membri della famiglia. Nonostante nel 2014 in Guinea- Bissau sia stata promulgata la “Legge sulla criminalizzazione di tutti gli atti di violenza praticati nell’ambito delle relazioni domestiche e familiari”, non esistono a oggi casi giudicati. Lo stesso studio indica che nel Paese, tra il 2006 e il 2010 sono stati registrati dalle autorità giudiziarie e di sicurezza 23.193 casi di violenza domestica ma il 71% delle vittime intervistate non ha mai sporto denuncia. In media, solo 5 casi di violenza domestica vengono denunciati al giorno in tutto il Paese. (“Quadro legal dos direitos humanos”, Liga guineense dos direitos humanos, settembre 2015). Tre i fattori che dissuadono le donne dal denunciare: la mancanza di conoscenza delle legge e dei diritti legali delle donne; la carenza di competenza di strutture statali e in particolare della polizia; l’assenza di capacità dello stato e delle organizzazioni tradizionali di proteggere le vittime. I matrimoni forzati - La situazione di incertezza sui dati si acuisce maggiormente quando si analizza il fenomeno del matrimonio forzato, ossia l’unione tra persone senza consenso o contro la volontà dei coniugi o di uno dei coniugi, che in Guinea-Bissau non è ancora stato normato in violazione agli obblighi nazionali e internazionali, in particolare quelli della Costituzione della Repubblica (che proibisce la violenza fisica e morale) e della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna (Cedaw), adottata nel 1979 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che la Guinea Bissau ha ratificato nel 1985. In Guinea-Bissau la pratica del matrimonio forzato è comune a quasi tutte le etnie, che sono più di una decina: il 41% delle donne intervistate in uno studio del 2011 (“Un ritratto di violenza contro le donne in Guinea-Bissau”) ha dichiarato di non aver partecipato alla scelta del marito. In mancanza di una norma di diritto positivo, è infatti quello consuetudinario a essere implementato che determina 14 anni come età minima del matrimonio per le donne. “Il matrimonio forzato - prosegue Paola Toncich - oltre a influenzare il principio di libertà e di auto-determinazione delle donne, mette in pericolo la loro integrità fisica e morale e rende la situazione ancora più allarmante quando associato al matrimonio precoce, con conseguenze come abusi sessuali, gravidanze precoci, abbandoni scolastici e mortalità materna”. Il progetto “Libere dalla violenza” - È in questo contesto che prende il via il progetto finanziato dall’Unione Europea “Libere dalla violenza”, il cui nome originale è “No na cuida de no vida, mindjer - Emancipazione e diritti per ragazze e donne in Guinea Bissau - progetto pilota” che in creolo, la lingua locale, significa “Noi ci prendiamo cura della nostra vita”. L’impossibilità di accesso delle donne al sistema giudiziario formale è una delle sfide da affrontare per assicurare alle vittime sia la protezione giudiziaria che della polizia, insieme a quella di garantire i servizi sociali di emergenza per facilitare il recupero e il reinserimento sociale delle donne vittime di violenza e delle ragazzine che scappano dal matrimonio forzato. Il ruolo di Mani Tese all’interno del progetto sarà proprio quello di rafforzare, in collaborazione con Geioj (Gabinete Estudos Informaçao e Orientaçao Juridica) i centri di accesso alla giustizia e la polizia locale attraverso una formazione specifica sull’argomento e costruendo una rete integrata di accompagnamento e servizi specifici per le vittime, in cui saranno coinvolti anche i responsabili dei servizi psicosociali. “Nel Paese si creeranno ed equipaggeranno tre centri regionali di servizio di attenzione alla vittima e una casa rifugio, che si occuperanno di fornire assistenza educativa, psicosociale e legale - conclude Paola Toncich - Inoltre si selezioneranno alcuni spazi informali, costituiti da un certo numero di famiglie che, in modo autonomo e indipendente, accolgono le donne. L’obiettivo è dotare questi differenti spazi d’accoglienza di una metodologia comune, da costruire attraverso la partecipazione dei partner, delle organizzazioni della società civile e dei ministeri competenti”. Le attività si svolgeranno in collaborazione con la Ong portoghese Fundaçao Fe E Cooperaçao (Fec) e l’associazione italiana Ente Nazionale Giuseppini del Murialdo (Engim). La prima si occuperà di educazione parentale e coniugale in 46 comunità di 4 regioni del Paese (Quinara, Tombali, Bafatá e Gabu) attraverso il partner locale Rede Ajuda (Ra), che formerà agenti socio- comunitari. Oltre alla formazione, Fec promuoverà anche campagne di sensibilizzazione nelle comunità selezionate sui diritti delle donne e delle ragazze e rafforzerà i centri regionali per il sostegno alle vittime e la linea telefonica esistente per le denunce. Engim si concentrerà principalmente sulla prevenzione della violenza di genere e sull’empowerment delle donne guineensi attraverso l’attivazione di un corso di formazione professionale in hoteleria e gestione domestica rivolto alle ragazze dai 12 ai 14 anni residenti nel settore autonomo di Bissau per favorire l’acquisizione di competenze professionali e garantire nel contempo una celere segnalazione dei casi sospetti di violenza. Inoltre promuoverà il sostegno di 4 microimprese di donne e la creazione della prima agenzia di occupazione per le donne. I diversi attori coinvolti si riuniranno periodicamente intorno a un tavolo tematico che avrà, come obiettivo, quello di lavorare alla costruzione di un Piano nazionale di prevenzione e lotta contro la violenza domestica e di genere per diffondere una cultura di pace e uguaglianza di genere. Uzbekistan. Dopo 19 anni libero il giornalista che ha passato più tempo di tutti in carcere di Rosalba Castelletti La Repubblica, 6 marzo 2018 Incarcerato nel 1999 dopo un processo farsa durante la presidenza Karimov, spietato despota che non tollerava le voci di dissenso, è stato inaspettatamente liberato lo scorso 22 febbraio nella città di Chirchik. “Il giornalista Yusuf Ruzimuradov è stato rilasciato dal carcere uzbeko”, ha esultato su Twitter la divisione Europea del Comitato per la protezione dei giornalisti (Cpj). Benché pochi ne abbiano sentito parlare, al sessantaquattrenne Ruzimuradov spetta un triste primato: è il giornalista che ha trascorso più tempo “di chiunque altro al mondo” dietro le sbarre. Ben diciannove anni da quando è stato incarcerato nel 1999 “dopo essere stato condannato - scrive sempre il Cpj - sulla base di accuse politiche in un veloce processo farsa” fino alla sua inaspettata liberazione lo scorso 22 febbraio nella città di Chirchik, vicino alla capitale Tashkent. Il suo crimine: lavorare per un giornale indipendente, “Erk”, Libertà, giudicato illegale e accusato di essere parte di un tentativo per rovesciare il governo. Ruzimuradov era stato incarcerato durante la presidenza di Islam Karimov, spietato despota che non tollerava le voci di dissenso, accusato persino di bollire vivi i suoi oppositori, morto in circostanze sospette nell’ottobre 2016 dopo quasi trent’anni al potere. Sotto il suo successore, l’ex primo ministro, Shavkat Mirzijaev, sono stati rilasciati oltre venti su 34 prigionieri politici, inclusi attivisti di diritti umani e giornalisti come Muhammad Bekjanov, direttore e coimputato di Ruzimuradov, rilasciato l’anno scorso. Bekjanov e Ruzimuradov si trovavano in esilio in Ucraina quando nel 1999 erano stati sequestrati dalla polizia segreta uzbeka, rimpatriati e torturati - già sull’aereo di ritorno - e infine condannati a 15 anni. Pena in seguito allungata sulla base di presunte violazioni delle regole carcerarie. Sono però ancora tanti, ha ricordato Steve Swerdlow di Human Rights Watch, “gli attivisti, giornalisti e altri oppositori ancora dietro le sbarre oltre ai migliaia di prigionieri incarcerati solo per aver praticato l’Islam fuori dagli stretti confini accettati dal governo”.