Riflessioni alla cerimonia a Padova dell’anno accademico in carcere Il Mattino di Padova, 5 marzo 2018 Giovedì 1° marzo 2018 si è tenuta nella Casa di reclusione di Padova l’inaugurazione dell’anno accademico. Ci sono oltre 40 studenti universitari detenuti e la volontà di reiterare in carcere la cerimonia è un grande segno di sensibilità da parte dell’Ateneo. Erano presenti, oltre al direttore Claudio Mazzeo, il provveditore interregionale Amministrazione Penitenziaria Enrico Sbriglia, il comandante della Polizia Penitenziaria Carlo Torres, il rettore Rosario Rizzuto, la prorettrice Daniela Lucangeli, la coordinatrice Francesca Vianello, il sindaco Sergio Giordani, il questore Paolo Fassari, il prefetto Renato Franceschelli, il magistrato di sorveglianza Lara Fortuna, il comandante provinciale dei Carabinieri colonnello Oreste Liporace. Quelle che seguono sono le testimonianze della Presidente di una cooperativa che opera al Due Palazzi e di un detenuto, studente universitario e redattore di Ristretti Orizzonti. Carcere e patavina libertas Gentile Provveditore Enrico Sbriglia, ero presente giovedì 1° marzo nella Casa di Reclusione all’inaugurazione dell’anno accademico. Si tratta sempre di un momento importante: la cultura che entra in carcere, la scuola dalla primaria all’università, è sempre momento di crescita, di consapevolezza. I primi otto anni della mia vita lavorativa in carcere sono stati come insegnante di un Centro territoriale (hanno cambiato nome, ma si tratta sempre di educazione/istruzione delle persone adulte a tutto campo) e sono stati belli e formativi per me. Ho imparato molto (ma sempre resta da imparare) di questo complesso mondo, e ho avuto la fortuna di lavorare come insegnante al tempo di due direttori speciali, Carmelo Cantone e Salvatore Pirruccio, pietre miliari del miglioramento della qualità della vita in questo istituto: non avevano paura di ascoltare le nostre proposte e di autorizzarci e aiutarci ad attuarle se le ritenevano valide. Giovedì ho ascoltato attentamente il suo intervento e quanto ha detto di una parola chiave qui: “libertà”. Lei ha detto che la libertà non è a basso prezzo, costa fatica. Mi aspettavo da parte sua, e non solo, un riferimento al motto identitario della nostra università: “Universa universis patavina libertas”. Volevo alla fine farlo io, ma ero solo ospite della cerimonia e non mi piaceva l’idea di apparire come persona che vuol fare la sua lezioncina. Però ci ho ripensato e mi sono pentita, quindi le scrivo queste righe, a lei che in quel contesto era il massimo rappresentante del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Come ex “alumna” della nostra gloriosa università sono molto orgogliosa della sua storia e del suo motto. “Universa universis patavina libertas”, vale a dire “tutta intera e per tutti la libertà patavina”. Un’università nata all’insegna della libertà di pensiero da un gruppo di studenti e professori in fuga da Bologna, l’unica università che non temeva di accogliere (intorno al 1222) studenti e insegnanti sospettati di eresia e di essere miscredenti, e che non dipendeva da qualche potere, tant’è che l’anno di fondazione non esiste, esiste solo un primo documento in cui si trova citata, appunto il 1222. Pensando alla storia del nostro ateneo, durante la cerimonia dell’altro giorno, mi è venuto in mente di usare un termine dei giorni nostri: “società civile”. Sì, forse la vicenda dell’università di Padova ha le sue radici in un moto di libertà della società civile, svincolata dai poteri, grandi e piccoli, dell’epoca. E allora, provveditore, non sarebbe stato bello e pregnante parlare giovedì della libertà anche da questo punto di vista? Non è forse anche la società civile che ha reso questo carcere un modello: oltre alla scuola di ogni ordine e grado, non è il carcere dove ci sono cooperative che producono eccellenze note ovunque come la Giotto, dove con Ristretti Orizzonti da vent’anni si fa un’informazione sul carcere (rivista, convegni) che è patrimonio di tutto il mondo penitenziario e non, e si fa prevenzione sul campo con migliaia di studenti; dove da anni esiste un volontariato di sostegno e ascolto, un percorso teatrale di qualità, una squadra di calcio inserita nei campionati di categoria... e tanto altro? Anche questa forte e qualificata presenza della società civile è libertà, una libertà tenace, ponderata e a tratti problematica e sofferta, per questo viva. Ecco, sarebbe bello confrontarsi con lei su questo concetto. Mi pare che per lei non dovrebbe essere un concetto nuovo: “Questo è un carcere particolare, ha persone coraggiose, operatori penitenziari coraggiosi, ha avuto una storia di direttori coraggiosi, ha detenuti coraggiosi, ha volontari coraggiosi... tutti si mettono in gioco. A volte si prendono botte terribili… Perché non rinchiudiamo nelle carceri l’ipocrisia istituzionale, e la rinchiudiamo senza regime aperto, e tiriamo fuori invece l’intelligenza?”. Così diceva lei il 14 dicembre 2016, alla presentazione del WorkShop internazionale da cui sarebbe nato il progetto, realizzato già per una parte importante, AbitareRistretti. Mi piacerebbe sentire dire anche oggi le stesse cose, parlare dello stesso coraggio, della stessa libertà. Sa quale mi è parso il più bel momento di libertà della cerimonia? Nel passaggio finale teatrale (che ho trovato di qualità ed esilarante) il duetto improvvisato tra il teatrante Andrea Pennacchi e il colonnello dei Carabinieri Oreste Liporace. Grande libertà sia dell’artista che del colonnello, che non ha avuto paura di mettersi in gioco: bravo! Rossella Favero, Presidente della coop AltraCittà Due esperienze che mi arricchiscono Avevo trascorso un anno e mezzo nella Casa circondariale di Venezia quando sono stato trasferito qui a Padova. Appena arrivato ho saputo di tante attività che si svolgevano in questo istituto, e una di quelle che mi sembravano più interessanti è la redazione di Ristretti Orizzonti. Per le battaglie civili che fa da tanti anni, per il confronto delle persone, che hanno sbagliato nella vita, con le istituzioni, ma soprattutto per il confronto settimanale con gli studenti. E subito ho cercato di farne parte anch’io, ma qui in carcere non è facile, per ogni cosa ci vuole tempo soprattutto quando sei appena arrivato in un nuovo istituto. Passano dei mesi e improvvisamente vengo trasferito in un altro istituto a 500 chilometri da qui. Con quel trasferimento si è spenta anche la speranza di entrare in redazione. Però dopo quattro mesi, anche grazie all’interessamento dell’Università, torno a Padova e vengo a conoscenza che a Ristretti mi avevano chiamato mentre ero in un altro carcere per conoscermi e valutare il mio interesse per le loro attività. E alla fine ho raggiunto il mio obiettivo e da due mesi faccio parte della redazione. Nella mia vita non conoscevo le parole “dialogo e confronto” con la società e con le persone che rappresentano le istituzioni, sono parole che sto iniziando a conoscere grazie a questa esperienza, dove mi sono sentito subito bene anche se le prime volte faticavo a esprimermi. Facciamo due volte a settimana incontri con gli studenti delle scuole superiori e anche con studenti universitari e questa è l’attività che mi piace di più. Il confronto con i ragazzi mi fa riflettere, perché i primi atteggiamenti che mi hanno portato in una strada sbagliata sono iniziati quando avevo la loro età, e questa esperienza mi sta facendo vivere diversamente la mia carcerazione. Noi raccontiamo a loro come nella età giovanile abbiamo deviato e abbiamo percorso una strada sbagliata, che ci ha portato qui, e su questo ci confrontiamo a partire dalle domande che loro rivolgono a noi. Ritengo che questa sia una importantissima esperienza anche per loro. Quando parlo con loro mi sento bene, perché vedo il loro interesse nell’ascoltare e sono sicuro che una volta usciti da qui riflettono sul confronto che hanno avuto con noi. Questa attività, unita agli studi universitari che ho intrapreso, mi sta facendo bene perché sto vivendo una carcerazione non più rabbiosa, ma un po’ più serena e “creativa”. E per questo voglio ringraziare le persone che mi hanno dato questa possibilità, e in particolare la redazione e l’Università. Armend Haziraj, Redattore di Ristretti e studente universitario Rettifica all’articolo di Damiano Aliprandi su “Il Dubbio” riguardante il carcere di Padova di Rossella Favero* Ristretti Orizzonti, 5 marzo 2018 Gentile Damiano Aliprandi, ho accettato volentieri la sua cortese richiesta di citare il mio post nell'articolo di cui in modo corretto mi aveva spiegato i contenuti. Però mi sarebbe piaciuto se lei avesse inserito alcune parole in più del mio post: “Lasciali passare, tanto dopo il 4 marzo non entreranno più”. Così ci ha detto in questi giorni un agente all'ingresso della Casa di Reclusione di Padova. A dire il vero è l'unico poco gentile. Gli altri sono gentili. Di così non in linea con la Costituzione se ne trovano, ma non molti. Fa sempre male.... La verità sta anche nelle sfumature. Le ombre che paiono allungarsi su Padova vanno ben oltre la frase pesante di un singolo agente, ma tacere la gentilezza dei colleghi che lo circondano mi pare sbagliato. Tacere gli spiragli di luce non fa bene. Non aiuta. Tranquillo: non sono pentita né del post, né del suo articolo, né di aver segnalato l'episodio al garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma. Ma con gli anni ho imparato a non amare la contrapposizione nero/bianco e ad amare e cercare le sfumature. A presto. *Presidente cooperativa AltraCittà I Garanti (e l’Osce) controllano il voto dei detenuti. E chiedono la riforma subito di Eleonora Martini Il Manifesto, 5 marzo 2018 Anche nel giorno delle elezioni il carcere si conferma un’istituzione dove i diritti sono sempre a rischio. Il numero di detenuti che ha chiesto di poter votare in alcuni penitenziari, per esempio a Roma, è stato superiore rispetto al passato, ma solo raramente c’è stata un’”affluenza” record, a causa delle limitazioni imposte dalle leggi penali e dalla complicata procedura delle operazioni di voto in cella. A riferirlo sono stati i Garanti delle persone detenute - comunali, metropolitani, provinciali e regionali - che ieri sono entrati in circa 30 dei 190 istituti penitenziari per monitorare le operazioni di voto. Ma nelle carceri italiane ieri c’erano anche gli osservatori dell’Osce. “Per noi l’occasione elettorale e la presenza in carcere ha avuto un duplice scopo - spiega Stefano Anastasia, garante regionale del Lazio: il monitoraggio di un momento delicato della democrazia in un ambiente difficile e la denuncia di una anacronistica legislazione che limita eccessivamente il diritto di voto dei detenuti (praticamente non possono usufruirne la generalità dei condannati con pene superiori a tre anni). E la richiesta al governo di portare a compimento la prima parte del processo di riforma generato dagli Stati generali dell’esecuzione penale, approvando in via definitiva il primo decreto legislativo già sottoposto all’esame delle Camere e delle Regioni”. Anastasia racconta che a Regina Coeli, dove si è recato ieri e dove la maggior parte dei reclusi è in attesa di giudizio quindi generalmente in condizioni di poter votare, “erano iscritti al voto 140 detenuti” (il più noto, l’imprenditore Stefano Ricucci, appena tornato in cella con l’accusa di corruzione in atti giudiziari), “cui via via se ne aggiungevano altri (mentre eravamo lì, sono arrivate ancora quattro richieste, da inoltrare agli uffici elettorali dei comuni di residenza). Un numero altissimo se si tiene conto che gli italiani a Regina Coeli ad oggi sono 442 su 943 e alcuni di loro hanno l’interdizione dai pubblici uffici, e quindi dal voto. Alle politiche del 2013, in tutta Italia, i votanti sono stati 3426, circa il 10% degli aventi diritto. Qui siamo ben oltre il 25%”. Quasi certamente la media nazionale non sarà così alta, ma dovremo aspettare qualche giorno per conoscere i dati esatti, quanti dei circa 20 mila reclusi in attesa di giudizio e quanti dei circa 38 mila condannati definitivamente hanno potuto votare. La macchina, riferisce Anastasia, “sembrava ben rodata e funzionare alla perfezione”. I nodi infatti sono a monte, se, per esempio, in Campania sono stati solo 120 i detenuti che hanno votato, secondo il garante regionale Samuele Ciambriello che aggiunge: “Colpisce che in tre carceri (Pozzuoli, Vallo della Lucania e Santa Maria Capua Vetere) non ci sia stata alcuna richiesta di esercitare il diritto di voto. Negli altri istituti i votanti sono al disotto di 10 unità”. Di contro, in un carcere come quello di Sollicciano, a Firenze, i votanti sono stati 23, in maggioranza donne, come alle scorse elezioni, riferisce il garante della Toscana, Franco Corleone. Ricorso alla Cedu per la mancata riforma Ordinamento penitenziario agenziaradicale.com, 5 marzo 2018 La proposta di Rita Bernardini. Nonostante gli appelli di Garanti nazionali, l’incredibile impegno di circa 10.000 detenuti che hanno effettuato uno sciopero della fame, che testimonia quanto l’impegno nonviolento di Marco Pannella ha profondamente segnato il loro agire; nonostante l’adesione convinta di giuristi e intellettuali, ma significativamente anche di magistrati (vedi Armando Spataro), l’iniziativa delle Camere penali di tutta Italia, di professori universitari e di centinaia e centinaia di cittadini, la riforma dell’ordinamento penitenziario non ha avuto l’approvazione. Rita Bernardini, della presidenza del Partito Radicale Nonviolento, Transnazionale e Transpartito, può sicuramente essere considerata una leader assoluta della battaglia nonviolenta per la Giustizia e per la riforma dell’ordinamento che migliaia di detenuti hanno atteso con speranza. “Non rimane che presentare ricorsi agli organi internazionali come la Corte Europea dei diritti dell’Uomo. Non ci resta che denunciare lo Stato Italiano” - ha sottolineato la leader radicale che con la sua lotta nonviolenta di dialogo ha accompagnato con lunghi digiuni il cammino istituzionale, ricevendo verbali promesse (leggi il premier Gentiloni e il ministro Orlando), che sono rimaste solo parole. “Di fronte a tutto questo - ribadisce Rita, in questo preciso periodo storico, io penso che ci debba essere qualcuno che mantenga alta la bandiera dello Stato di Diritto”. Elezioni 2018, la ribellione del Sud e le radici della protesta di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 5 marzo 2018 Un’ondata di rancore attesa e temuta. E destinata ad abbattersi sulla nave ammiraglia e sul timoniere della flotta che a novembre governava ancora non solo a Roma ma in tutte le Regioni del Sud: dalla Puglia alla Sardegna, dalla Calabria al Molise, dalla Basilicata alla Sicilia. “Avimmo ‘a sfucà tutt’ ‘o tuosseco ca tenimmo ncuorpo”: ecco l’aria che annusavi al Sud. Una collera tossica per l’impoverimento, la disoccupazione, i bambini (uno su sei) afflitti dalla miseria assoluta, il degrado delle periferie, stava lì lì per sfogarsi. Unico dubbio: chi avrebbe premiato? La risposta, salvo sorprese, si è profilata nella notte. Successo dei grillini. Trascinati dal Masaniello in giacchetta e cravattina. E più cresceva l’impressione di uno sfondamento della destra al Nord, più aumentava la probabilità parallela, se non proprio la certezza, di un analogo sfondamento del M5S nel Sud. Segno appunto di quello “sfogo” atteso nella scia di un malessere economico, sociale, sanitario sempre più diffuso. Lo aveva spiegato a novembre il rapporto Svimez: “L’occupazione è ripartita, con ritmi anche superiori al resto del Paese, ma mentre il Centro-Nord ha già superato i livelli pre crisi, il Mezzogiorno che pure torna sopra la soglia “simbolica” dei 6 milioni di occupati, resta di circa 380 mila sotto il livello del 2008, con un tasso di occupazione che è il peggiore d’Europa (di quasi 35 punti percentuali inferiore alla media UE a 28)”. Lo aveva ribadito poco dopo il Censis ricordando che sì, l’Italia va meglio ma dopo il “vero tracollo” delle aree metropolitane meridionali “non si è distribuito il dividendo sociale della ripresa economica e il blocco della mobilità sociale crea rancore”. Un’ondata di rancore attesa e temuta. E destinata ad abbattersi sulla nave ammiraglia e sul timoniere della flotta che a novembre governava ancora non solo a Roma ma in tutte le Regioni del Sud: dalla Puglia alla Sardegna, dalla Calabria al Molise, dalla Basilicata alla Sicilia. Perduta male, ma proprio male, da un Matteo Renzi che alle Europee aveva preso il 35% e in tutta la campagna per le regionali si è fato vedere solo di sfuggita, “’na’ffacciata, currennu currennu”… Dice tutto un sondaggio del dossier Eurispes 2018. Alla domanda “quali di questi elementi rappresentano un vero pericolo per la vita quotidiana sua personale e della sua famiglia?” le risposte degli italiani erano centrate (più che sull’immigrazione!) su tre temi legati (soprattutto) al Mezzogiorno: la mafia, la corruzione e “i politici incompetenti”. Colpevoli di aver buttato via per decenni decine e decine di miliardi di fondi europei. Pochi dati: usando meglio quei soldi sprecati in regalie clientelari a pioggia (alla macelleria Ileana di Tortorici, alla trattoria “Don Ciccio” a Bagheria…) tutte le regioni della Repubblica Ceca hanno oggi un Pil pro capite superiore a tutto il nostro Sud e così l’intera Slovenia e l’intera Slovacchia. La regione bulgara Yugozapaden, poi, ci umilia: nel 2000 aveva un Pil al 37% della media europea e in tre lustri di rincorsa ha sorpassato tutto il Mezzogiorno, arretrato fino a un disperato 60% della Calabria, mangiando 50 punti alla Campania, 56 alla Sicilia, 64 alla Sardegna. Insomma, han fatto di tutto le classi dirigenti del Sud, per guadagnarsi (salvo eccezioni, ovvio) la disistima se non il disprezzo dei cittadini. Aggravando la crisi. Destra e sinistra, sia chiaro: dal 2008 al 2014 il Mezzogiorno, accusa un’inchiesta del Mattino, ha perso 47,7 miliardi di Pil, 32 mila imprese e 600 mila posti lavoro. E tra il 2010 e il 2013 la classifica del European Regional Competitiveness Index ha visto ruzzolare di 26 posti la Campania, 29 la Puglia, 30 la Sicilia. Al punto che il divario Nord-Sud si è ancor più allargato. Sinceramente: cosa ha fatto la politica per scrollarsi di dosso la mala-reputazione? Manco il tempo d’insediarsi all’Ars e Gianfranco Micciché si tira addosso le ire dei vescovi siciliani dicendosi “assolutamente contrario al taglio degli stipendi alti” che quando passano i 350.000 euro valgono 24 volte quello di un agrigentino. Manco il tempo di aprire la campagna elettorale e nelle liste, da Marsala al Volturno, spuntano impresentabili, figli di papà e (sintesi) figli di papà impresentabili. Per non dire della scelta di candidare qua e là notabili dal passato fallimentare legato alla clientela. C’era poi da stupirsi se nella pancia del Mezzogiorno, quella da cui erano già uscita tra le altre la sommossa dei forconi, covava un sentimento di rivolta? Quanti errori hanno fatto, i partiti tradizionali dell’una e dell’altra parte, per accendere un simile falò? Rebus decorrenza per i nuovi limiti all’appello penale di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 5 marzo 2018 Saranno in vigore da domani, martedì 6 marzo, le nuove limitazioni all’appello penale introdotte dal decreto legislativo 11/2018, che ha dato attuazione alla legge delega 103/2017. Ma se è evidente che i “paletti” si applicheranno alle impugnazioni non ancora presentate, non è invece chiaro l’impatto sugli appelli in corso e non ancora decisi. Tanto che, per gli imputati, è comunque consigliabile eccepire l’inammissibilità. La questione riguarda, in particolare, le novità per l’appello del pubblico ministero. La prima investe l’articolo 593, comma 1, del Codice di procedura penale: il Pm potrà appellare una sentenza di condanna solo se modifica il titolo di reato (ad esempio da omicidio volontario a omicidio colposo), esclude una circostanza aggravante a effetto speciale (che comporta un aggravamento di pena superiore a un terzo) o a efficacia speciale (che stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato). La seconda novità è l’articolo 593-bis del Codice di procedura penale, che introduce la possibilità per il procuratore generale di proporre appello “soltanto nei casi di avocazione o qualora il procuratore della Repubblica abbia prestato acquiescenza al provvedimento”. Diversamente dal passato, quando il procuratore della Repubblica e il procuratore generale potevano proporre appello in modo indipendente e anche concorrente, il procuratore generale avrà una competenza residuale, rispetto al procuratore della Repubblica, nei casi di sua inerzia. Il decreto 11 non contiene norme transitorie: sarà la giurisprudenza a decidere le conseguenze che la riforma avrà per gli appelli del Pm già proposti al 6 marzo - fuori dai limiti pro reo introdotti dagli articoli 593 e 593-bis - ma non ancora trattati e decisi. In passato la Cassazione a Sezioni unite (sentenza 27614/2007) ha ritenuto che la successione nel tempo di norme processuali soggiacesse al principio tempus regit actum; ma l’articolo 2 del Codice penale - quando recita che “se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo” - non fa alcuna distinzione tra legge sostanziale e legge processuale. La questione non è da poco. Si pensi a un appello proposto dal procuratore generale, ma non dal procuratore della Repubblica, contro una sentenza che ha derubricato un reato, oppure all’appello del Pm contro una sentenza che ha concesso più d’una circostanza attenuante ordinaria. Se, in entrambi i casi, si ritenesse l’ammissibilità degli appelli proposti prima del 6 marzo, ma non decisi a tale data, dall’applicazione di una norma processuale potrebbero discendere conseguenze molto negative (pene più gravi) per l’imputato. Ecco perché - come aveva previsto la legge 46/2006, che aveva provato a sopprimere l’appello del Pm - sarebbe stato auspicabile adottare, con il decreto 11, una normativa transitoria che sancisse esplicitamente l’inammissibilità degli appelli proposti dal Pm - fuori dai limiti introdotti dagli articoli 593 e 593-bis - prima del 6 marzo, ma non ancora decisi a tale data: senza necessità di investire la giurisprudenza di tale responsabilità, con la fisiologica alea interpretativa che ne potrebbe conseguire. La mancanza di una norma transitoria è ancor meno comprensibile se si pensa che - per evitare incertezze interpretative sull’efficacia temporale delle nuove norme contra reo relative alla prescrizione - la stessa legge 103 ha previsto che i “congelamenti” della prescrizione derivanti da una sentenza di condanna valgono solo per i fatti successivi alla sua entrata in vigore. Tenuità del fatto applicabile se il giudice di merito non ne ha escluso le condizioni di Domenico Carola Il Sole 24 Ore, 5 marzo 2018 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 30 gennaio 2018 n. 4203. La terza sezione penale della Corte di cassazione con la sentenza n. 4203 del 30 gennaio 2018 ha affermato che l'articolo 131-bis del Cp presuppone che le condizioni di applicabilità dello stesso non siano state escluse nel giudizio di merito, in termini espliciti o impliciti, nella ricostruzione della fattispecie e nelle valutazioni che riguardano la non punibilità. Il fatto - Il Tribunale di Vercelli ha condannato l'imputato ritenendolo responsabile, nella qualità di titolare della ditta, del reato di cui all'articolo 137 del decreto legislativo 152/2006, per aver scaricato, all'interno dei propri terreni, acque reflue di derivazione industriale senza la prescritta autorizzazione. Avverso il provvedimento l'imputato ha proposto ricorso per cassazione deducendo che l'entrata in vigore del decreto con il quale è stato introdotto l'articolo 131-bis del Cpin data successiva alla pronuncia resa dal Tribunale consente l'applicabilità nel giudizio di legittimità, trattandosi di norma più favorevole al reo, anche di ufficio della speciale causa di non punibilità alla contravvenzione ascritta in ragione della particolare tenuità dei fatti desumibile dalla modalità della condotta, dall'assenza di danno o di pericolo rispetto al bene tutelato, dall'autorizzazione allo scarico successivamente acquisita e dall'insussistenza di elementi relativi alla gravità dei fatti evincibili dalla motivazione dello stesso provvedimento impugnato. La decisione - Gli Ermellini dichiarano inammissibile il ricorso in quanto ricordano che in tema di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto è intervenuta la III sezione penale della Corte di cassazione con sentenza n. 4203 del 30 gennaio 2018. Hanno ribadito che pur rilevando che la sentenza impugnata è anteriore all'entrata in vigore del decreto legislativo 16 marzo 2015 n. 28, l'applicazione dell'istituto nel giudizio di legittimità, che la Corte è chiamata a effettuare di ufficio ex articolo 609, comma secondo, del codice di procedura penale trattandosi di legge sostanziale più favorevole per l'imputato ex articolo 2, quarto comma del codice penale, presuppone che le condizioni di applicabilità dello stesso non siano state escluse dal giudice di merito, in termini espliciti o impliciti, nella ricostruzione della fattispecie e nelle valutazioni espresse in sentenza. La non punibilità riguarda soltanto quei comportamenti (non abituali) che, sebbene non inoffensivi, in presenza dei presupposti normativamente indicati risultino di così modesto rilievo da non ritenersi meritevoli di ulteriore considerazione in sede penale. Inoltre va rilevato che pur in presenza di una contravvenzione ricompresa fra i reati per i quali non sia prevista un pena detentiva, sola o congiunta a quella pecuniaria, superiore a cinque anni, tuttavia la pena pecuniaria nella specie inflitta all'imputato in misura superiore alla media edittale deve ritenersi di per sé sufficiente a escludere l'applicabilità dell'invocata esimente: invero il riferimento, contenuto nella motivazione relativa al trattamento sanzionatorio, all'articolo 133 del Cp, senza distinzioni tra gravità del fatto e capacità a delinquere del reo, è di per sé indice di una valutazione di riprovevolezza incompatibile con un giudizio di particolare tenuità, configurandosi, perciò, l'esclusione di ogni possibile valutazione successiva in termini difformi. Sanzioni penali e amministrative applicabili congiuntamente Italia Oggi, 5 marzo 2018 L’omesso versamento dell’Iva, oltre il limite annuo di 250 mila euro, costituisce reato. L’art. 10-ter del Dlgs n. 74/2000, infatti, punisce con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa l’Iva dovuta in base alla dichiarazione annuale, per ammontare superiore a 250 mila euro, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo. Gli elementi strutturali del reato, dunque, non si esauriscono nella semplice omissione del versamento, che si concretizza quando l’adempimento non è eseguito alla scadenza stabilita dalla legge, essendo altresì richiesto: che l’imposta dovuta sia superiore all’importo di 250 mila euro e - che l’inadempimento si protragga oltre il termine per il pagamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo. Incorrerebbe nel reato, per esempio, il contribuente che entro il 27 dicembre 2018 non dovesse versare l’Iva di 270 mila euro dovuta in base alla dichiarazione annuale presentata per il 2017; poiché i presupposti della rilevanza penale debbono essere verificati alla suddetta data, il reato non si concretizza se entro tale data il contribuente effettuerà un pagamento di importo sufficiente a ricondurre il debito al di sotto della soglia penalmente rilevante. A questo proposito, sembra di poter dire che la nuova configurazione dell’imposta a saldo nel quadro VL, per effetto dell’introduzione della comunicazione trimestrale delle liquidazioni periodiche, della quale si è detto prima, non ha influenza sulla quantificazione della soglia penalmente rilevante, che resta collegata al periodo d’imposta inteso come anno solare; ai detti fini, pertanto, si dovrà sommare l’imposta dovuta a saldo con quella dovuta in base alle liquidazioni periodiche, tenendo conto dell’imposta complessivamente dovuta per l’anno solare e non versata entro il termine di pagamento dell’acconto per l’anno successivo. In merito al concorso tra sanzione penale e sanzione amministrativa, la Corte di cassazione a sezioni unite, con sentenza n. 37424 del 12 settembre 2013, ha stabilito che, sussistendo i presupposti, il contribuente è punibile sia con la sanzione penale sia con quella amministrativa, non potendo applicarsi il principio di specialità di cui all’art. 19 del Dlgs n. 74/2000. Secondo la Corte, il rapporto fra l’illecito amministrativo e il reato non è di specialità, bensì di “progressione”: la fattispecie penale costituisce una violazione molto più grave di quella amministrativa e, pur contenendo necessariamente quest’ultima, la arricchisce di elementi essenziali (dichiarazione annuale, soglia di punibilità, termine di consumazione) “che non sono complessivamente riconducibili al paradigma della specialità” in quanto “recano decisivi segmenti comportamentali…che si collocano temporalmente in un momento successivo al compimento dell’illecito amministrativo”. Il fatto che si rendano applicabili entrambe le sanzioni, osserva il giudice di vertice, non contrasta con l’ordinamento internazionale, avendo la Corte di giustizia Ue chiarito che il principio del “ne bis in idem” in materia penale, sancito dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue, non riguarda l’applicazione congiunta di una sanzione penale e di una sanzione amministrativa. Su quest’ultimo punto, tuttavia, occorre considerare che per accertare il carattere “penale” di una sanzione si deve avere riguardo non semplicemente alla qualificazione che ne dà la legge, ma ai profili sostanziali indicati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza 8 giugno 1976. Di conseguenza, come sostenuto dall’avvocato generale della corte di giustizia Ue nelle conclusioni depositate il 12 settembre 2017 nella causa C-524/15, l’applicazione congiunta della sanzione penale e della sanzione amministrativa al contribuente che ometta di versare l’Iva, prevista dalla normativa italiana, potrebbe essere in contrasto con il principio del “ne bis in idem” sancito dal diritto dell’Ue qualora la sanzione amministrativa, a prescindere dalla qualificazione che ne fornisce la legge, rivesta in realtà natura penale, circostanza che deve essere accertata dal giudice nazionale applicando i criteri elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) e recepiti dalla Corte di giustizia Ue. In attesa di conoscere sulla questione il verdetto della Corte, si rammenta che, nell’ambito di due procedimenti paralleli (C-217/15 e C-350/15), nella sentenza 5 aprile 2017 i giudici di Lussemburgo hanno escluso che l’applicazione congiunta delle due sanzioni costituisca una violazione del principio del “ne bis in idem” qualora esse siano irrogate a due persone diverse, per esempio alla persona fi sica la sanzione penale, alla società la sanzione amministrativa. È da rilevare, infine, che, dopo la revisione del sistema sanzionatorio a opera del dlgs n. 158/2015, il trasgressore ha, di fatto, la possibilità di evitare l’applicazione di entrambe le sanzioni. L’art. 13 del dlgs n. 74/2000, come modificato dall’art. 11 del citato dlgs n. 158/2015, esclude infatti la punibilità del reato di omesso versamento dell’Iva (come pure quelli di omesso versamento delle ritenute e di compensazione di crediti non spettanti) qualora, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, siano stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie, oppure del ravvedimento operoso. Il pagamento del debito verso l’erario, che prima era una semplice circostanza attenuante, si configura ora una causa di non punibilità del reato. La norma prevede inoltre che nel caso in cui, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, il debito tributario sia in fase di estinzione mediante rateizzazione, deve essere concesso un termine di tre mesi per il pagamento del debito residuo; in tal caso, la prescrizione del reato è sospesa. Il giudice può prorogare il termine una sola volta, per non oltre tre mesi, qualora lo ritenga necessario, ferma restando la sospensione della prescrizione. Ctu, risarcimenti per danni alle parti se c’è colpa grave di Paolo Frediani Il Sole 24 Ore, 5 marzo 2018 Rischia di essere chiamato a risarcire i danni alle parti il consulente tecnico d’ufficio che sbaglia la perizia con colpa grave. È questa la posizione che prevale in giurisprudenza sulla responsabilità civile del Ctu, elaborata sulla base dell’articolo 64 del Codice di procedura civile. Una parte minoritaria degli interpreti sostiene però che per far scattare il risarcimento sia sufficiente il danno provocato per colpa lieve del consulente. L’articolo 64 del Codice di procedura civile testimonia la speciale attenzione riservata dal legislatore all’attività dell’ausiliare. Un’attività che ha natura prettamente professionale: si sostanzia in una prestazione d’opera intellettuale svolta nell’interesse della giustizia. Quello civile è, tra l’altro, solo uno dei profili di responsabilità in cui può incorrere il consulente e che si affianca alla responsabilità penale e a quella disciplinare (si vedano gli articoli pubblicati a fianco). L’articolo 64 del Codice di procedura civile dispone, al comma 2, che “in ogni caso, il consulente tecnico che incorre in colpa grave nell’esecuzione degli atti che gli sono richiesti, è punito con l’arresto fino a un anno o con l’ammenda fino a euro 10.329”. Inoltre, lo stesso articolo, al comma 4, prevede che “in ogni caso è dovuto il risarcimento dei danni causati alle parti”. A partire da questa disposizione, in giurisprudenza prevale l’orientamento per cui il fatto dannoso può essere imputato a responsabilità del consulente solo quando incorra in colpa grave, riferibile a sue gravi e inescusabili negligenza o imperizia, nell’esecuzione degli atti che gli sono richiesti (si vedano le sentenze 11474 del 21 ottobre 1992 e 22587 del 1° dicembre 2004 della Cassazione e691 del 15 marzo 2010 del Tribunale di Bologna). Inoltre, l’obbligo di risarcire i danni causati alle parti sarebbe condizionato dalla sussistenza della responsabilità penale contemplata dalla norma. La colpa grave, in particolare, ricorrerebbe ove la condotta del Ctu fosse consapevolmente contraria alle regole generali di correttezza e buona fede, e tale da risolversi in un uso strumentale e illecito dell’incarico. In altre parole la responsabilità civile del consulente dell’ufficio sarebbe prospettabile solo qualora ricorra il presupposto d’applicazione della sanzione penale dell’arresto prevista dall’articolo 64 del Codice di procedura civile. Ma c’è anche l’opinione contraria. Alcuni interpreti sottolineano infatti come nella disciplina della responsabilità civile non abbia alcuna rilevanza che il reato previsto dall’articolo 64, comma 2, del Codice di procedura civile presupponga la colpa grave, perché è possibile richiedere un grado di colpa più elevato per l’applicazione della sanzione penale rispetto a quello sufficiente a integrare la responsabilità risarcitoria. Secondo questa tesi dottrinale, la responsabilità civile del Ctu può discendere da qualsiasi condotta illecita, sia essa imputabile a dolo, a colpa grave o anche a colpa lieve; questo perché l’inciso “in ogni caso” introdurrebbe una figura di danno risarcibile secondo i principi generali in materia di illecito civile extracontrattuale. Proprio sulla natura extracontrattuale della responsabilità del Ctu la giurisprudenza è invece concorde. Il consulente svolge infatti una pubblica funzione quale ausiliare del giudice, nell’interesse generale e superiore della giustizia. In via generale, la responsabilità del Ctu si può rilevare solo quando egli abbia provocato dei danni e solo se di essi sia data prova dalla parte interessata (sulla quale grava il relativo onere probatorio, in base all’articolo 2697 del Codice civile). In applicazione dei principi generali in materia risarcitoria, il Ctu deve rispondere solo dei danni causati dalla condotta commissiva o omissiva da lui posta in essere nello svolgimento dell’incarico. Se nel corso del processo la consulenza viene dichiarata nulla, il Ctu può essere obbligato a restituire il compenso corrisposto dalle parti, perché la nullità della consulenza priverebbe di funzione giustificativa il pagamento. Campania: detenuti, solo 120 decidono di votare Il Mattino, 5 marzo 2018 Solo 120 detenuti nelle carceri della Campania hanno esercitato oggi il loro diritto al voto. Lo rende noto Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Regione che spiega: “Sono quelli che hanno usufruito della Legge del 23 aprile 1976 che permette l’esercizio di questo diritto da parte degli imputati di qualsiasi reato. I votanti in tutto sono stati 120 negli istituti penitenziari campani, compresi Nisida e Airola”. In dettaglio 11 hanno votato a Poggioreale, 20 a Secondigliano, 15 a Santangelo dei Lombardi, 16 nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere, 12 ad Aversa, 9 a Nisida (di cui 2 donne), 4 ad Airola. “Colpisce - spiega Ciambriello - che in 3 carceri (Pozzuoli, Vallo della Lucania e Santa Maria Capua Vetere) non ci sia stata alcuna richiesta”. Ciambriello ha anche lanciato un messaggio a governo e forze politiche per approvare presto i decreti attuativi della riforma dell’ordinamento penitenziario. Ravenna: detenuto 51enne si impicca in cella Ristretti Orizzonti, 5 marzo 2018 Si è impiccato legandosi alle grate del bagno della cella dove era ristretto, nell’istituto di Ravenna, un 51enne italiano imputato per rapina che proprio stamattina avrebbe dovuto effettuare la convalida dell’arresto. A denunciare l’episodio è la Uil-Pa Polizia Penitenziaria per voce del suo Coordinatore Pasquale Giacomo: “A rinvenire il corpo esanime del ristretto, arrivato nell’Istituto Ravennate nella giornata di Sabato, è stato un Agente di Polizia Penitenziaria durante un normale giro di controllo”. “Il mondo carcere ultimamente sta attraversando il periodo più buio degli ultimi anni anche per quanto riguarda le condizioni di lavoro della Polizia Penitenziaria” – chiosa Pasquale – “per il numero considerevole di suicidi ed eventi critici in aumento negli ultimi anni”. "A questo punto – conclude il Coordinatore Provinciale della Uil Penitenziari Pasquale Giacomo – mi sembra imprescindibile che il prossimo Ministro della Giustizia faccia invertire la rotta all’attuale dirigenza del Dap, facendo assumere provvedimenti tangibili ed efficaci o deve provvedere immediatamente al suo avvicendamento perché incapace di adempiere al ruolo che la collettività gli affida”. Lanciano (Ch): muore in carcere a 64 anni, stroncato da un arresto cardiaco di Matteo Giuliani internapoli.it, 5 marzo 2018 È morto per arresto cardiaco nel carcere di Lanciano dove era detenuto per il reato di associazione di stampo mafioso, il boss 64enne Mario Pagliuca. Appartenente al cartello dei Fragnoli-Pagliuca, è deceduto in seguito ad un malore e la salma - secondo quanto riportato da Edizione Caserta - è ancora nella cappella del carcere. Toccherà adesso ai magistrati decidere le modalità dei funerali e i familiari ammessi alla celebrazione. Molti di essi, infatti, sono detenuti per gli stessi reati. La moglie sarebbe stata colta da malore dopo aver appreso la notizia. Ferrara: in carcere solo 2 detenuti su 50 hanno votato estense.com, 5 marzo 2018 La Garante Stefania Carnevale si è recata al seggio speciale 111 all’Arginone. Anche in carcere si vota. Tutti i cittadini italiani a cui non sia stata applicata con una sentenza definitiva di condanna la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici conservano il diritto di voto. L’interdizione perpetua scatta automaticamente per le pene detentive non inferiori a 5 anni, mentre quella temporanea per pene non inferiori a 3 anni, oltre che in altri casi regolati dal codice penale e da leggi speciali. Chi è dunque ristretto in stato di custodia cautelare o per scontare una pena breve, mantiene il pieno diritto di elettorato attivo. Per questa ragione il Coordinamento nazionale dei Garanti regionali e territoriali delle persone detenute si è attivato per assicurare una presenza capillare nelle carceri, al fine di monitorare le operazioni di voto. Ieri mattina i garanti sono entrati in circa 30 dei 190 istituti penitenziari presenti sul territorio nazionale. A Ferrara Stefania Carnevale, Garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale, ha aderito all’iniziativa e si è recata al seggio speciale 111 istituito in via dell’Arginone. Il personale di polizia penitenziaria, già da settimane, aveva preparato i detenuti all’appuntamento elettorale con idonei avvisi e ha operato, oggi e nei giorni scorsi, con grande professionalità per assicurare l’effettivo esercizio del diritto. Scarsa tuttavia la partecipazione degli interessati: solo due detenuti hanno votato, mentre le richieste erano state nove, delle quali cinque presentate solo ieri (in tempo non utile per riuscire a reperire la documentazione necessaria) e due in assenza dei requisiti previsti dalla legge. Una stima, effettuata con la collaborazione del personale della Casa circondariale, induce a ritenere che fossero più di cinquanta (su 370) le persone che avrebbero avuto la possibilità di votare. In occasione dell’appuntamento di ieri, i garanti dei diritti dei detenuti hanno ritenuto di dover riportare l’attenzione sul difficile percorso di riforma dell’ordinamento penitenziario, il cui inaspettato blocco ha provocato grande delusione non solo fra le persone private della libertà, ma anche fra moltissimi giuristi, avvocati e magistrati che hanno pubblicamente invocato, mediante ripetuti appelli, la pronta ripresa dell’iter di approvazione. Alba (Cn): il Garante dei detenuti in carcere per verificare le operazioni di voto di Manuela Anfosso targatocn.it, 5 marzo 2018 Alessandro Prandi, garante dei detenuti per il comune di Alba, oggi è presente all’interno della Casa di Reclusione Montalto per monitorare le operazioni di voto e fare il punto sull’ordinamento penitenziario. Sul territorio nazionale, i garanti entreranno in circa 30 dei 190 istituti penitenziari dove, secondo normativa, sono stati allestiti seggi speciali. Nelle scorso settimane, infatti, i garanti hanno sollecitato le Direzioni e gli Uffici elettorali comunali ad attivare la complicata e complessa procedura che permette al cittadino recluso che non abbia temporaneamente perso il diritto di voto a causa della condanna inflitta, di poter regolarmente esprimere o meno la propria responsabilità di elettore. Insieme a Prandi, hanno aderito per il Piemonte Bruno Mellano, garante regionale, Monica Cristina Gallo della città di Torino, Sonia Caronni per il comune di Biella, Don Dino Campiotti per la città di Novara, Roswitha Flaibani per Vercelli, Armando Michelizza del comune di Ivrea e Bruna Chiotti per Saluzzo. A questi va ad aggiungersi il Coordinatore Nazionale Franco Corleone. Sarà poi a cura degli stessi garanti, comunicare eventuali violazioni emerse nel corso delle operazioni di voto. I prossimi giorni saranno inoltre oggetto di importanti decisioni per il sistema penitenziario. Entro il 23 marzo, il Governo dovrebbe emanare l’unico decreto delegato (legge 103 del 22 giugno 2017) già esaminato dalle Commissioni Giustizia di Camera e Senato, dalla Conferenza Unificata delle Regioni e dal Consiglio superiore della Magistratura. “Chiederanno anche al Parlamento di avviare immediatamente l’esame degli altri tre schemi di decreti approvati dal Consiglio dei Ministri il 22 febbraio scorso, sul lavoro penitenziario, sull’Ordinamento minorile e sulla giustizia ripartiva”, riferiscono i garanti. Firenze: elezioni, in carcere a Sollicciano votano 23 detenuti ilsitodifirenze.it, 5 marzo 2018 Sono stati 23, in maggioranza donne, i votanti al carcere fiorentino di Sollicciano. Lo rende noto il garante dei detenuti della Regione Toscana, Franco Corleone, dopo che stamani ha visitato il seggio allestito nel penitenziario, dove, ha spiegato, il voto si é “svolto regolarmente”. A fronte di 52 richieste di votare, ha detto il garante, solo 23 sono state accolte, mentre le altre sono state rigettate dagli uffici comunali per assenza dei requisiti richiesti. Tra i 23 votanti, 13 donne e 10 uomini. Il numero, ricorda Corleone, é identico a quello dei detenuti che votarono nel 2016 al referendum: “anche in quel caso furono 23, a fronte di 47 richieste: 7 uomini e 16 donne”. Da questi dati emerge, prosegue il Garante, che Sollicciano esprime un voto “decisamente rosa, al femminile: le donne italiane costituiscono la maggioranza votante, anche se complessivamente la struttura ne accoglie circa 50, mentre gli italiani reclusi a Sollicciano sono intorno ai 300”. Lecce: carcere ingolfato, ma i braccialetti elettronici sono “indisponibili” trnews.it, 5 marzo 2018 Nel momento in cui riprende a crescere anche a Lecce il sovraffollamento del carcere, uno strumento valido che potrebbe servire davvero a calmierare le presenze dietro le sbarre non si trova. È il paradosso dei braccialetti elettronici, che in provincia di Lecce risultano “indisponibili”: non ce ne sono. Era stato il presidente della Corte d’Appello Roberto Tanisi a sottolinearlo, nella sua relazione redatta in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario: “viene segnalata - aveva scritto - la sostanziale non applicazione dell’art. 275 bis Cpp che prevede la misura degli arresti domiciliari con procedure di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici (cd braccialetti elettronici), attesa la ricorrente verificata indisponibilità dei medesimi al momento della decisione. Ovvio che tale indisponibilità incide sulla decisione da assumere e costringe ad applicare la custodia in carcere anche quando le esigenze cautelari potrebbero essere soddisfatte con questi dispositivi”. Un passaggio che sa di assurdità, specie alla luce del fatto che, come confermato dai presidenti delle Sezioni di Sorveglianza, la popolazione del penitenziario di Borgo San Nicola ha ripreso a crescere: passato l’effetto dello “svuota-carceri” si è quasi punto e daccapo in tutte le case circondariali del distretto di Lecce, per quanto si sia ancora lontani dai livelli di qualche anno fa. A Lecce la situazione potrebbe sì migliorare. Non è detto, tuttavia, che il nuovo padiglione da 200 posti servirà ad accogliere i detenuti già presenti nella struttura. Perché qui, infatti, potrebbero anche essere spostate persone ristrette altrove. Napoli: duemila “fiocco di neve” per i detenuti, Poppella al carcere di Poggioreale di Giuliana Covella Il Mattino, 5 marzo 2018 Il fiocco di neve di Ciro Poppella oltrepassa finanche le sbarre del carcere di Poggioreale. Il tipico dolce creato dalle mani del pasticcere del Rione Sanità, a base di pasta brioche e crema con ricotta fresca e panna, allieterà domani il palato di 2.000 detenuti. L’appuntamento è fissato alle 10.15, quando le porte del penitenziario guidato dal direttore Maria Luisa Palma si spalancheranno per accogliere il maestro pasticcere e i suoi collaboratori, che offriranno il soffice e delicato dessert ai tanti reclusi che affollano le celle. Una lodevole iniziativa che si inserisce nel tour tra le carceri campane che Poppella sta compiendo a scopo benefico ma non solo, come spiega lui stesso: “Dopo Pozzuoli e Benevento domani faremo visita ai detenuti di Poggioreale, a cui faremo assaggiare la nostra specialità. Anche chi ha sbagliato ha diritto di riscattarsi e di intraprendere, magari dopo aver assaggiato il nostro prodotto, un’attività imprenditoriale quando avrà scontato la pena”. A sposare l’iniziativa di Poppella, che ha inaugurato di recente un Laboratorio per avviare i giovani all’arte pasticciera a pochi passi dal famoso negozio di via Arena Sanità, è stata Carmela Sermino (nella foto con Ciro Poppella), vedova di Giuseppe Veropalumbo (vittima innocente della criminalità) e oggi assessore allo Sviluppo del territorio, al commercio e alla giustizia sociale della III Municipalità: “Portare un messaggio positivo come questo nel carcere può essere un volano per il recupero e il reinserimento lavorativo di chi vive dietro le sbarre. E la presenza di Ciro, che anche in pochi minuti potrà donare a queste persone un pizzico della sua esperienza e della sua arte, significherà offrire un’alternativa a chi sta pagando per un reato commesso”. Milano: il Bridge nel carcere di Bollate adnkronos.com, 5 marzo 2018 “Il bridge non è un gioco di carte ma con le carte: per vincere contano logica, concentrazione, applicazione, strategia, fair play”. Un mix dalle potenzialità formative che, inserito in un programma di riabilitazione per detenuti, rivela tutta la sua efficacia nella sua funzione rieducativa. Lo sa bene l'istruttore Eduardo Rosenfeld, che ora insegna bridge all'interno del carcere di Bollate. “Do lezione una volta a settimana per un paio d'ore; finora - ma il corso è cominciato da poco - si sono iscritti venti detenuti. Tra loro principianti e più esperti di tutte le età”, racconta all'Adnkronos Rosenfeld, un appassionato doc del bridge. “Mi porto dietro questa passione da quando avevo 20 anni”, tiene a ricordare l'istruttore federale. “Il bridge è entrato a Bollate grazie a un detenuto amante di questo gioco. Lo ha insegnato ai compagni della struttura. Poi, attraverso la direzione del carcere, ha chiesto il supporto della Federazione Italiana Gioco Bridge, che ha raccolto l'appello”, spiega Rosenfeld. È così che è cominciata la sua avventura come istruttore-volontario. Al pari degli scacchi e la dama, il bridge è uno 'sport della mentè che richiede un certo allenamento. “La fortuna c'entra ben poco in questo gioco in cui invece sono fondamentali - evidenzia Rosenfeld - le regole e il rispetto dell'avversario”. Da qui si intuisce facilmente la sua funzione educativa. D'altronde, nessuno mette in discussione i suoi benefici sulla mente. “Sono dimostrati da numerosi studi scientifici: il bridge potenzia la memoria, il ragionamento, ma anche il comportamento sociale”, sottolinea il presidente della Federazione Italiana Gioco Bridge, Francesco Ferlazzo Natoli. L'iniziativa di Bollate è la prima intrapresa dalla Federazione, riconosciuta dal Coni nel 1993. Ma il nobile gioco delle carte, che affonda le sue radici nell'Inghilterra del XVI secolo quando il lontano antenato si chiamava 'Whist', è entrato negli istituti penitenziari italiani oltre 10 anni fa. “Ad Opera fu sperimentato per la prima volta ma il progetto non ebbe particolare successo. Rifacendomi a quell'esperienza, 10 anni fa pensai di portare il bridge a Rebibbia”, racconta l'ex consigliere Figb, Roberto Padoan, che ancora oggi, come volontario, dà lezioni ai detenuti della struttura romana. “Per me è sempre un'emozione, specie quando gli allievi mi stringono la mano e mi ringraziano dicendomi che una volta fuori vorrebbero iscriversi a un circolo di bridge”, racconta Padoan. “Nel bridge - continua - è importante avere affiatamento con il partner, sostenerlo nelle difficoltà, avere rispetto dell'avversario. Un'etica che al di là dei portoni blindati è spendibile nella vita di tutti i giorni. Partita dopo partita, i detenuti si allenano a maturare comportamenti diversi”, più responsabili e in armonia con l'altro. Padoan si reca due volte a settimana a Rebibbia. Un corso è dedicato a 16 collaboratori di giustizia, l'altro a una decina di detenuti che hanno minore libertà di movimento. “Non chiedo cosa hanno commesso, non mi interessa, li metto subito alla prova al tavolo verde, anche se alle prime armi - spiega Padoan. Le mie lezioni infatti sono brevissime: il gioco è divertimento. E attraverso l'aspetto ludico imparano come ricostruire il futuro”. Ed è anche quello che dice, con il suo motto, l'insegnante-collega australiana Betty Mill: “Imparare il bridge può fare la differenza nella vita di qualcuno”. Non c'è dubbio. E chissà che al termine del ciclo di lezioni non si riesca ad organizzare un torneo. “Sarebbe auspicabile”, secondo Eduardo Rosenfeld. Intanto, anche a Latina, due mesi fa, il bridge ha varcato la soglia del carcere. Né santi né eroi, soltanto Giusti. Il bene spiegato ai tempi dei social di Antonio Ferrari Corriere della Sera, 5 marzo 2018 I difensori della dignità umana nel saggio (pubblicato da Utet) di Gabriele Nissim. Il 6 marzo si celebra la giornata di ricordo: commemorazioni da Milano a Roma. Gabriele Nissim, fondatore di Gariwo, intellettuale ebreo che si nutre di passione sociale e senso di giustizia, è un rumoroso vulcano di idee. Per esempio, ha trasformato l’idea di definire e promuovere la figura del Giusto, di cui domani 6 marzo si celebra la Giornata, in una ragione di vita. Lo ha fatto e lo fa ben sapendo di non raccogliere applausi da standing ovation. Infatti, molto spesso, calamita critiche, invidia e risentimenti. Tuttavia, come tutti gli ostinati (vera qualità, credetemi), continua a lottare, soltanto sfiorato da turbative e ostacoli seminati sulla sua strada da molti nemici e persino da qualche incerto amico. Il suo ultimo libro “Il bene possibile. Essere Giusti nel proprio tempo” (edito da Utet) è quasi una tesi di laurea globale, perché Gabriele, scrittore e giornalista, prima di arrivarci ha prodotto una serie di gemme letterarie, nate dalla sua curiosità e dal gusto del ricercatore. Ha raccontato storie nascoste o sepolte nelle cantine della memoria, facendo affiorare figure straordinarie, come quella del vicepresidente bulgaro Dimitar Peshev, che salvò dalla deportazione tutti gli ebrei del suo Paese; o quella di Armin Wegner, che denunciò per primo il genocidio degli armeni. Ma adesso il fondatore di Gariwo ha avvertito il bisogno di un salto, per dare al Giusto una sostanza attuale al tempo di Internet, dei social, degli smartphone, rivolgendosi soprattutto ai giovanissimi, ai quali non basta più ascoltare esempi nobili, spesso ammuffiti dal tempo e prigionieri delle convenienze. “Occorre spiegare - dice Nissim - che i Giusti non sono santi e non sono eroi. I santi appartengono alla trascendenza e alla fede religiosa. Gli eroi alla mitizzazione di personaggi ideali, nei quali ognuno di noi, a volte, si è specchiato e si specchia, sognando improbabili imitazioni. Il Giusto di oggi, invece, può essere davvero ciascuno di noi, con pregi, difetti, debolezze, miserie. Però pronto ad ascoltare la spinta più umana. Spinta che non conosce obblighi o convenienze, ma risponde ad un impulso che non si può frenare”. Chi era Peshev? Un santo? Macché. Era uno che si godeva la vita ed era filonazista. Eppure la visita di un amico ebreo, che gli racconta - disperato - che si stavano preparando i treni della morte, provoca la reazione umana più immediata e lacerante. Va in parlamento e ottiene le firme per fermare i convogli e salvare l’onore della Bulgaria. Voleva, con quel gesto, contribuire anche lui a una società migliore e diversa, come diceva Zygmunt Bauman? Forse. O magari il suo gesto era dettato dalla vergogna che lo avrebbe tormentato dopo, se non avesse fatto nulla? Marco Aurelio sosteneva che “se non è possibile cambiare il mondo, ogni uomo comunque può sempre preservare il proprio carattere morale”. Eppure la parola morale non ha nulla a che fare con un’etica superiore. Deriva semplicemente da “costumi”. Nissim racconta le vere storie del malese musulmano che riesce a salvare gli ebrei presenti nel negozio kosher di Parigi, assaltato dai criminali dell’Isis; oppure del tunisino che salva i turisti italiani durante l’attacco jihadista al museo del Bardo. Tra i nuovi Giusti c’è naturalmente la povera donna greca di Lesbo, che apre la sua porta per accogliere i profughi. Fino a concludere, come diceva Baruch Spinoza, che “un uomo giusto non lo è per un giorno solo, ma per tutta la vita”. Celebrazioni da Milano a Roma - Il 6 marzo è la Giornata dei Giusti dell’umanità. Commemorazioni si terranno a: Roma, 6 marzo, Camera dei deputati (ore 10), con Valeria Fedeli, Milena Santerini, Gabriele Nissim, Anna Foa; a Milano: Regione Lombardia, 7 marzo (ore 17.30), con Nissim e Pietro Kuciukian, e in Consiglio comunale, 15 marzo (ore 16.30). In programma anche cerimonie: al Giardino dei Giusti di Roma, 6 marzo (Villa Pamphili, ore 14.30); al Giardino dei Giusti a Milano il 14 marzo (Monte Stella, ore 10.30); a Palazzo Marino, Milano, cerimonia per i Giusti del “Giardino virtuale” (ore 15). Concerto per pianoforte e violino di Ani Martirosyan e Nobuko Murakoshi, sempre a Palazzo Marino, Milano, il 15 marzo (ore 20.30) con il saluto di Liliana Segre e letture di Sonia Bergamasco. Migranti. Sopravvissuti parlano di un naufragio al largo della Libia La Repubblica, 5 marzo 2018 Settantadue persone salite a bordo della nave Aquarius hanno raccontato di aver perso familiari e amici. Imprecisato il numero dei dispersi. Dopo settimane di fermo assoluto delle partenze riprendono i viaggi di migranti dalla Libia e purtroppo ci sono altri morti in mare. Settantadue migranti ora a bordo della nave umanitaria Aquarius di Sos Mediterranee hanno raccontato all'equipaggio di aver perso familiari e amici nel corso di un naufragio che sarebbe avvenuto la scorsa notte nel Mediterraneo a circa 48 miglia dalle coste libiche, in acque internazionali. Ancora imprecise le notizie sul possibile numero di dispersi. I migranti, tra i quali tre donne, erano a bordo di un barcone in legno semiaffondato e sono stati recuperati da una nave mercantile che li ha poi trasbordati sulla Aquarius insieme ad altri 42 migranti che viaggiavano invece su un gommone intercettato dalle motovedette libiche. Secondo la ricostruzione dei sopravvissuti, alcuni sono stati presi a bordo dal mercantile, altri sono stati riportati indietro dalla guardia costiera libica. Sempre ieri, anche la Aquarius era arrivata in vista di un gommone carico di migranti in acque internazionali ma la Marina libica, presente in zona, ha rifiutato l'offerta della ong di aiutare nei soccorsi. Messico. Italiani scomparsi, poliziotti confessano “li abbiamo ceduti ai narcos” La Presse, 5 marzo 2018 I quattro sono stati arrestati e incriminati: rischiano fino a 40 anni di carcere. Le autorità messicane hanno accusato quattro poliziotti della scomparsa dei tre italiani nello Stato di Janlisco, dopo che gli agenti hanno confessato di averli consegnati a membri di una gang locale. Quattro poliziotti, tre uomini e una donna, sono stati arrestati e incriminati per “sparizione forzata” e, secondo i media messicani, rischiano sino a 40 anni di carcere. Antonio Russo di 25 anni, il padre Raffaele di 60 anni e il cugino Vincenzo Cimmino di 29 anni, tutti napoletani, erano stati visti l'ultima volta a Tecalitlan il 31 gennaio. Francesco Russo, un altro figlio di Raffaele, aveva poi dichiarato citando “fonti personali” che i tre erano stati “venduti a una gang per 43 dollari”, ma le autorità locali messicane avevano affermato di non poter confermare l'informazione. Gli italiani erano stati fermati dalla polizia a un distributore di benzina di Tecalitlan, quando i familiari avevano ricevuto un ultimo messaggio da Russo: dava notizia dell'incontro con i poliziotti e del fatto che questi avevano ordinato loro di seguirli. La zona è controllata dal cartello Jalisco Nueva Generación, tra le più potenti gang del Messico. Dopo la scomparsa degli italiani, tutti i poliziotti locali sono stati trasferiti altrove “per nuovo addestramento”, ma i media hanno affermato che si tratta in realtà di un modo per evitare che gli agenti siano minacciati o intimiditi dalla gang e possano cambiare le versioni dei fatti. Intanto, non è chiaro che cosa i tre italiani facessero in Messico. Bbc cita il procuratore generale di Jalisco, Raúl Sanchez, che ha detto di avere informazioni secondo cui avrebbero venduto generatori e macchinari agricoli di bassa qualità a costi elevati, spacciandoli per costosi prodotti di alta gamma. Li avrebbero descritti come tedeschi, forse del marchio Bosch, mentre sarebbero invece stati di fabbricazione cinese. I loro familiari hanno negato che stessero conducendo qualsiasi attività illegale. Secondo le ipotesi dei giornali messicani, la scomparsa potrebbe essere la conseguenza di ritorsioni legate al rifiuto di pagare mazzette, oppure una vendetta legata a una vendita ingannevole. Sempre il procuratore di Jalisco aveva ricordato che Raffaele Russo era stato arrestato nel 2015 nello Stato di Campeche, stando alla testata Publimetro con l'accusa di frode. La scomparsa degli italiani rimanda a un noto caso di cronaca messicano: la sparizione di 43 studenti nel 2014. La procura aveva stabilito che i giovani erano stati consegnati da poliziotti corrotti a una gang criminale, che li aveva uccisi e aveva bruciato i loro cadaveri. La polizia messicana, poco addestrata e sottopagata, è spesso minacciata o corrotta dai cartelli, sulle cui attività chiude spesso 'un occhiò o con cui è collusa. Mercoledì 28 febbraio, il ministro degli Esteri italiano Angelino Alfano e l'omologo messicano Luis Videgaray si erano sentiti al telefono. Alfano aveva espresso “preoccupazione” e chiesto una “urgente soluzione del caso”, chiedendo piena collaborazione. Videgaray aveva da parte sua confermato l'intesa per “rafforzare la loro cooperazione giudiziaria”. Il registro nazionale delle persone scomparse del Messico ne ha conteggiate 2.917 nello Stato di Jalisco nel 2017. In tutto il Messico il numero sale a 33.153, fra cui ci sono 197 stranieri. Libia. Da tre anni in carcere, il caso Giorgi resta aperto Corriere Adriatico, 5 marzo 2018 Sono passati tre anni dal giorno in cui Franco Giorgi telefonò ad un sottufficiale dei carabinieri di Ascoli al quale riferì di essere stato rapito da una banda di predoni libici. Per la sua liberazione sarebbe stato fondamentale che l’ascolano restituisse la somma di 250 mila dollari che avrebbe dovuto servire per noleggiare un aereo a Fiumicino. I soldi, però, non sono mai giunti a destinazione. I libici accusano Franco Giorgi di averli sottratti mentre l’ascolano sostiene che sarebbero stati presi dal suo interprete egiziano che chiamava ogni qual volta doveva transare un’operazione di compra vendita con acquirenti arabi. A tal riguardo i due protagonisti si sono vicendevolmente denunciati alla procura ascolana: l’egiziano è finito in carcere mentre per Franco Giorgi si attende che il governo libico decida per la sua estradizione in Italia ma fra i due Paesi non esiste l’accordo ufficiale di reciproca collaborazione per cui, a distanza di oltre un anno da quando il procuratore Umberto Monti ha inviato la sua richiesta, ancora non è giunta una risposta positiva. Sulla scorta delle indagini effettuate dai Ros di Ancona, Franco Giorgi si trova recluso nel carcere di Tripoli accusato di traffico internazionale di armi. Il ministero degli esteri, tramite i suoi uffici della Farnesina, ha inviato nel carcere tripolino due funzionari in modo che prendessero visione delle condizioni di salute in cui si trova il settantacinquenne il quale è affetto da diabete. Giorgi, nonostante la dura vita del carcere, sta abbastanza bene. Gli sono stati portati beni di conforto ma soprattutto i medicinali necessari per la terapia del diabete I funzionari hanno allacciato contatti anche con il ministero della giustizia libico per trovare un punto d’accordo in merito all’estradizione che però non appare vicino. Siria. Il conflitto siriano, un crimine senza castigo di Bernard-Henri Lévy Corriere della Sera, 5 marzo 2018 È bene interrogarsi sul costo degli interventi che non hanno mantenuto tutte le loro promesse. Ecco il bilancio di un non-intervento molto più sanguinoso e disastroso Ci saranno altri cessate il fuoco a Goutha e altre violazioni della tregua. Altre risoluzioni dell’Onu penosamente imposte dalla Francia e allegramente svuotate di qualsiasi valore dalla Russia. Altri bambini si sentiranno soffocare dai gas, altre bombe al cloro saranno lanciate su quartieri dove ancora rimane un po’ di vita. Ci saranno altri aerei e altri carri armati per portare a termine il lavoro sporco, e ancora altri aerei, e ancora spettri insanguinati fra le macerie, e ancora bambini dagli occhi spenti che supplicano il mondo, ma senza crederci, di aiutarli. Allora, fin dove arriverà questo disastro? Questa generale discesa agli inferi? Questa dimissione spettatrice, davanti a città-cimiteri? Questo crimine senza castigo? E fino a quando dovremo ascoltare quei mascalzoni che, ad ogni nuovo massacro, in Europa, hanno la faccia tosta di ripetere, come un disco rotto: “Bisogna parlare con Assad. Bisogna parlare con Assad”. Poiché fra loro la vergogna sembra essere il sentimento meno diffuso, poiché il loro amico Assad non ha, e non avrà mai, altri progetti se non quello di appollaiarsi spudoratamente sui cumuli di cadaveri per poter restare nei suoi palazzi e poiché l’indignazione, davanti a tale incubo, non serve manifestamente a nulla, ci accontenteremo di ricapitolare il bilancio degli ultimi sette anni di resa. 1) Un paese in frantumi e devastato. 2) Alcuni gioielli dell’umanità, come Palmira, distrutti dai vandali e in rovina. 3) L’Onu impotente davanti alla carneficina, paralizzata dal veto russo, più screditata che mai. 4) I timidi passi avanti fatti negli ultimi decenni dal diritto internazionale umanitario (responsabilità di proteggere, diritto e dovere di ingerenza, protezione delle popolazioni civili...) spazzati via dal terrificante passo indietro che rappresenta, a Homs, ad Aleppo e adesso a Ghouta, la violazione sistematica e impunita degli usi e convenzioni di guerra (gas sui cittadini, bombardamenti di civili con artiglieria pesante, ospedali presi di mira, ricorso massiccio alla tortura ridiventata un’arma di guerra come un’altra). 5) L’assassino seriale Bashar al-Assad più potente che mai, interlocutore e partner obbligatorio delle grandi e rispettabili nazioni; si torna quasi alla casella di partenza: poco ci manca, e vedremo che di nuovo sarà invitato a pavoneggiarsi, brutale e infantile, il volto cereo appena segnato dalla dura prova della crudeltà, sulla avenue des Champs Elysées o su altra via Trionfale nel mondo. 6) Una mostruosa licenza di uccidere rilasciata a tutti gli aspiranti Bashar del pianeta che stavano in agguato aspettando il risultato del test: tocca a noi, pensano, disporre del diritto di assassinare i nostri popoli. 7) Il più grande spostamento di popolazioni mai visto dopo la fine della Seconda guerra mondiale (sei milioni di uomini, donne, bambini buttati sulle strade del loro stesso paese, miserevoli ed erranti, privi di diritti, inermi). 8) Un’ondata di rifugiati, anch’essa senza precedenti, che si riversa sulla Turchia, sul Libano, ma certo anche sull’Europa: e di conseguenza la vera origine di quel che ipocritamente chiamiamo il “problema dei migranti”. 9) L’Europa, davanti a tale sfida, destabilizzata, tormentata fra necessità e virtù, in mano ai dèmoni del populismo e delle sue cosiddette soluzioni. 10) L’America screditata, priva di autorità, la cui imperialità è andata in fumo fra le rovine delle città bombardate: questo, ahimè, non comincia con Trump, ma con Obama e la sua tragica decisione, nell’estate del 2013, di fissare una linea rossa, di minacciare Assad di ritorsioni se avesse osato oltrepassarla e, quando questo accadde, di non fare nulla, di non reagire e di prostrarsi. 11) L’Iran che ne approfitta e realizza, in Siria, il proprio sogno di un asse sciita che va da Bagdad a Beirut e oltre. 12) Israele minacciato, come non succedeva da molto tempo, da un Hezbollah ormai pronto ad agire, armato di tutto punto, installato sulla sua frontiera, pronto alla sfida. 13) La Turchia, anch’essa imbaldanzita dalla divina sorpresa di un Occidente che, in questa regione così strategica, fa un inspiegabile harakiri: perché, in questo caso, farsi scrupoli? Come non essere tentati, oggi ad Afrin, domani altrove, di accrescere i propri vantaggi? 14) Putin, al quale viene offerto su un piatto d’argento un ruolo da imperatore creatore di re, che edifica la pace e garantisce l’equilibrio regionale: Putin che, sia detto en passant, vede realizzarsi il sogno degli zar di accedere, durevolmente, ai mari caldi. 15) Infine, l’islamismo. Tanti nomi per una stessa barbarie. Ma per tale barbarie una patria principale che, tutto sommato, è la Siria. Si diceva: “Bisogna scegliere: o Bashar o la jihad; occorre appoggiare Bashar perché Bashar è un baluardo”. Risultato: poiché il potere di Damasco, fin dal primo giorno, se l’è presa più con l’opposizione democratica che con i folli di Dio fatti uscire dalle carceri, abbiamo avuto sia Bashar sia la jihad, duplice pena e doppia guerra, visto che le due bestie dell’apocalisse si nutrono l’un l’altra e fingono di divorarsi a vicenda per suggellare meglio il loro turpe patto. È bene interrogarsi sul costo degli interventi che non hanno mantenuto tutte le loro promesse. Ecco il bilancio di un non-intervento molto più sanguinoso e disastroso. (traduzione di Daniela Maggioni) Nicaragua. Quei minori in carcere che cercano una seconda vita di Valentina Calzavara occhidellaguerra.it, 5 marzo 2018 “Due anni fa ho commesso un grave errore. Oggi ho saldato il conto con la giustizia e sono una persona diversa”. Il sorriso timido di Marìa, 18 anni e un paio vistosi orecchini dorati a incorniciarle il viso, invade lo stanzone del Ministero della Salute nel Dipartimento di Carazo, a circa due ore dalla capitale Managua. Nella grande sala trenta ragazzi in conflitto con la legge stanno condividendo la loro esperienza di giovanissimi detenuti. Il carcere li ha segnati nel profondo, ognuno in modo diverso. “Mentre scontavo la pena ho avuto l’opportunità di proseguire gli studi e di questo sarò sempre grata” aggiunge Marìa, togliendo dall’imbarazzo Lucas, 15enne che si tiene la testa tra le mani e non riesce a parlare. “Una volta uscito di galera sogno di poter diventare un medico” aggiunge Garcia, coprendosi le lacrime con un fazzoletto. “Io vorrei fare il poliziotto, per combattere la corruzione del nostro Paese” aggiunge Fernando, facendo sobbalzare gli agenti penitenziari che sorvegliano il gruppo di detenuti. Risuonano altre voci, sullo sfondo la bandiera rossa e nera del Fsln. simbolo del Fronte sandinista di liberazione nazionale, il movimento rivoluzionario che fece crollare nel 1979 il regime dittatoriale di Anastasio Somoza Debayle, e che oggi continua a vivere nel sempreverde leader Daniel Ortega. Furto aggravato, lesioni e traffico di droga sono i principali reati che vengono commessi da minori in Nicaragua. I più esposti ad entrare in conflitto con la legge sono gli adolescenti che vivono in contesti familiari contrassegnati da povertà, abusi, crisi genitoriale e alcolismo. Attualmente nel Paese esistono otto centri penitenziari e, secondo le fonti ufficiali, accoglierebbero circa 7.200 detenuti, ma i numeri reali sarebbero ben più elevati: si parla di oltre 12.000 detenuti solo nella città di Managua. I minori rappresentano il 3,3% della popolazione carceraria e l’assenza di politiche sociali e di investimenti indirizzati al recupero, rischia di trasformare le carceri in luoghi “impenetrabili”, altamente esposti alla violazione dei diritti umani. Rappresenta un’eccezione positiva il Dipartimento di Carazo dove da dieci anni Terre des Hommes (Tdh) ha intrecciato una stretta collaborazione con la Corte Suprema de Justicia, il Ministerio de Gobernación e la Fiscalía de la República, per incentivare educazione e reinserimento socio-lavorativo dei ragazzi e delle ragazze che hanno violato la legge. “La mia funzione è ben definita dal diritto: devo stabilire se ci sia o meno una responsabilità penale da parte del minore e comminare la relativa sanzione. Allo stesso tempo la misura restrittiva deve essere accompagnata da un processo di educazione e di prevenzione del delitto per abbattere il rischio di recidiva” spiega Miriam Carolina García Santamaría, giudice del Distretto Penale per Adolescenti di Carazo. Questa realtà virtuosa è riuscita a creare un percorso di sostegno in seno al carcere minorile che nell’ultimo decennio ha affiancato più di 300 minorenni. “È fondamentale considerare i bisogni speciali di ogni adolescente che ha infranto la legge” conclude José Manuel López Mora, Assistente dei Progetti di Tdh “non esiste solo l’aspetto sanzionatorio, cerchiamo di avviare un dialogo con il minore e con la sua famiglia, lavorando sull’istruzione ma anche sull’autostima e sulla pianificazione della vita futura per poter uscire dal disagio”. Non c’è altra strada possibile in un Paese dove il 42% della popolazione non raggiunge i 19 anni. Lavorare sul recupero dei minori rappresenta il miglior investimento per il domani. Venezuela. Una bomba pronta ad esplodere di Piero Innocenti liberainformazione.org, 5 marzo 2018 Il Venezuela continua ad essere un paese sempre più violento, in balia di una criminalità spregiudicata e afflitto da una drammatica deriva autoritaria. “Una bomba pronta ad esplodere” secondo molte agenzie di stampa, dove da mesi scarseggia di tutto, dai beni di prima necessità alle medicine, dove i saccheggi di negozi e autocarri che trasportano generi alimentari sono diventati abitudinari, così come i “linciaggi” (una quindicina di episodi al mese) da parte dei cittadini esasperati, con un aumento impressionate di omicidi commessi da bande di giovanissimi che vivono in strada aggredendo chiunque si azzardi a passeggiare nel territorio sotto il loro controllo. I circa 30mila omicidi in tutto il paese nel corso del 2017 (oltre 28mila quelli del 2016), di cui oltre 6mila nella sola Caracas, ancorché si tratti di dati statistici ricavati da fonti aperte e da agenzie specializzate sulla scorta di dati ufficiosi “filtrati” dai vari organismi di polizia, indicano una situazione straordinariamente drammatica. La capitale, peraltro, anche nel 2017 si è confermata la città più pericolosa del mondo registrando in alcuni municipi (Valle, Coche, Petare e Libertador) il rapporto di 276 omicidi per centomila abitanti (poco più di 31milioni la popolazione complessiva a metà 2017). Una piaga quella dei sequestri di persona a scopo estorsivo, circa 400 l’anno quelli denunciati, 16mila quelli secondo dati non ufficiali che comprendono un fenomeno criminale che è andato sempre più accentuandosi con i cosiddetti “sequestri express” che si hanno quando la privazione della libertà non supera le 24 ore e che quasi mai vengono denunciati anche per la diffidenza dei familiari delle vittime (negli ultimi tempi, soprattutto studenti e commercianti) nei confronti degli apparati della polizia. Particolare scalpore suscitò, nel 2015, il sequestro lampo della figlia del direttore dell’Interpol di Caracas. Questo fenomeno criminale ha interessato nel corso degli anni, come già ho avuto occasione di segnalare in passato, anche molti cittadini italiani, italo venezuelani o italiani naturalizzati venezuelani. Ricordiamo, per inciso, che in Venezuela risiede una numerosa comunità italo-venezuelana originata da un’emigrazione del secondo dopoguerra, mentre gli italiani residenti iscritti all’Aire, a metà del 2017, erano oltre 140mila. Un solo episodio di sequestro lampo di connazionali si è avuto nel 2017 e questo notevole calo rispetto al passato è attribuibile sicuramente ad atteggiamenti di maggiore prudenza tenuti dagli italiani grazie alle attività di sensibilizzazione svolte negli ultimi due anni dai nostri esperti per la sicurezza presenti nell’area. Rapine e furti son cresciuti in modo esponenziale toccando quota 1.359.000 con un sistema giudiziario carente e con quello carcerario disumano, disorganizzato, violento e inadeguato. Basti pensare alla ricettività di poco più di 14.550 posti dei 34 istituti penitenziari in tutto il paese a fronte di una popolazione carceraria di circa 95mila detenuti di cui oltre 30mila reclusi nelle camere di sicurezza delle forze di polizia. Una situazione che ha causato, negli ultimi anni, violente rivolte all’interno delle carceri con 1.622 morti e 2.328 feriti (sono gli ultimi dati disponibili forniti dalla Organizacion Venezolana de Prisiones). Il controllo delle carceri è nelle mani delle varie bande criminali che continuano a gestire le varie attività illecite. Emblematico di questa situazione la scoperta, alcuni mesi fa, all’interno del carcere di Tocuyito, di uno sportello bancario dell’istituto Banesco presso il quale i detenuti ritiravano il denaro necessario e gli accrediti di proventi derivanti da attività delittuose (spaccio di droghe, estorsioni, sequestri di persona). Sconcertante anche il ritrovamento, sempre l’anno passato, all’interno del carcere di San Juan de Los Morros, il più grande del paese, di una fossa comune con decine di cadaveri in stato di decomposizione. Il penitenziario era stato chiuso nell’ottobre del 2016 dopo una sanguinosa rivolta con diversi reclusi uccisi. Il traffico di stupefacenti resta prioritario perla criminalità venezuelana in affari, da decenni, con i narcos colombiani ma anche con alcuni cartelli messicani (Sinaloa e Los Zetas) e, naturalmente, con esponenti della mafia siciliana e calabrese. Negli ultimi tempi stano facendo la loro comparsa anche gruppi criminali slavi. Piccole coltivazioni di papavero da oppio, coca e marijuana sono ancora segnalate nella parte occidentale del paese, negli Stati di Zulia e Tàchira, al confine della Colombia. Diminuito il traffico di stupefacenti per via marittima, si è rilevato ancora un incremento nelle spedizioni con corrieri internazionali privati e con l’impiego di aerei (anche di grosse dimensioni, acquistabili sul mercato dell’usato) sia con destinazione il Caribe e i paesi del Centro America, sia verso le coste dell’Africa Occidentale (il Ghana, dove risiedono oltre mille colombiani, è, sotto questo aspetto, paese privilegiato). Naturalmente, per queste “traversate”, gli aerei (DC9 o Boeing 727) sono privi dei posti passeggeri per consentire la sistemazione di carichi consistenti di cocaina (dalle due alle dieci tonnellate, a secondo del tipo di velivolo). La scorta di carburante per il volo viene conservata in appositi contenitori ed inviata ai serbatoi attraverso delle pompe azionate dai piloti. Quello dei voli illegali (registrati dai radar americani di South Key West, in Florida) che utilizzano le decine di piste di atterraggio sparse nel paese, in particolare nel territorio dello Stato di Apure, confinante con la Colombia, resta un serio problema anche per i casi di collusioni accertate nell’ambito delle Forze Armate con la criminalità (tre anni fa, cinque alti ufficiali dell’Aeronautica, dell’Esercito e della Guardia Nazionale, sono stati processati e condannati per aver permesso decolli e atterraggi ad aerei non autorizzati). La gravissima situazione di disordini e di violenze che sta caratterizzando la vita del Venezuela e che vede impegnate tutte le forze di sicurezza nel controllo delle “piazze”, non consente di avere un analitico quadro sull’azione antidroga complessiva svolta nel decorso 2017. Si è a conoscenza soltanto del sequestro di circa 37 tonnellate di stupefacenti, dei quali non è stata resa nota la tipologia da parte della Oficina Nacional Antidrogas (Ona), effettuati periodo gennaio/ottobre. Si tratterebbe, stando a informazioni ufficiose, in gran parte di cocaina (quantitativo in linea con i sequestri del 2016 ma in forte decremento rispetto al 2015 quando i sequestri ammontarono a oltre 78 ton di cui 64ton di cocaina). Alla fine del 2017 erano sedici gli italiani detenuti in cinque degli istituti penitenziari venezuelani per delitti collegati al narcotraffico, alcuni in attesa di giudizio, altri già condannati a pene pesanti ( dai 15 ai 20 anni), mentre sette connazionali erano in carcere per altri delitti e tredici si erano resi irreperibili dopo la condanna ed aver beneficiato del “regimen abierto” (semilibertà). Honduras. Due anni dopo l’omicidio di Berta Cáceres un arresto importante di Riccardo Noury Corriere della Sera, 5 marzo 2018 Proprio nel giorno in cui ricorreva il secondo anniversario dell’omicidio della nota ambientalista honduregna Berta Cáceres, il 2 marzo, è stato arrestato David Castillo Mejía, presidente dell’impresa idroelettrica Dearrollos Energéticos S.A. (Desa). Castillo Mejía è la nona persona arrestata dall’avvio delle indagini sull’omicidio di Berta, la quarta con importanti legami con l’esercito di Honduras essendo un ex generale. L’accusa nei suoi confronti è quella di essere l’autore intellettuale dell’omicidio, avendo fornito appoggio logistico e altro supporto a uno dei killer già sotto inchiesta. Berta Cáceres, coraggiosa difensora dell’ambiente e dei diritti dei popoli nativi, era stata uccisa il 2 marzo 2016 a Intibucá, nella sua abitazione. Insieme ai membri del Consiglio civico delle organizzazioni popolari e native dell’Honduras (Copinh), stava svolgendo una campagna contro il progetto della Desa di costruire la diga idroelettrica Agua Zarca denunciando l’impatto che avrebbe avuto sul territorio dei popoli nativi Lenca. Un recente rapporto del gruppo indipendente di avvocati internazionali nominato dalla famiglia di Berta Cáceres ha evidenziato una serie di carenze nelle indagini ufficiali. Il rapporto avanza prove sul coinvolgimento di importanti uomini d’affari e di agenti dello stato onduregno nell’omicidio. Negli ultimi due anni, Amnesty International ha documentato tutta una serie di minacce e di denigrazioni contro coloro che cercano verità, giustizia e riparazione per l’assassinio di Berta Cáceres e nei confronti di coloro che continuano a denunciare l’operato di potenti interessi economici ai danni dei nativi e delle comunità contadine. Lo scorso anno l’Ong Global Witness ha classificato l’Honduras come il paese più mortale al mondo per i difensori dell’ambiente, documentando oltre 120 omicidi dal 2010.