Se la Costituzione finisce in carcere di Roberto Saviano L’Espresso, 4 marzo 2018 La riforma del sistema penitenziario non è passata. È in gioco, oltre ai diritti dei condannati, la sicurezza di tutti noi. Tutti si preoccupano della diffusione di fake news, di notizie inventate, false, prodotte a tavolino. Io mi preoccupo di più delle notizie reali che esistono, che raccontano il mondo in cui viviamo, ma che vengono omesse per paura di contraddire la dittatura della percezione, che ogni giorno di più mortifica la verità. Mi preoccupa la politica che omette notizie reali, mi preoccupa la politica che non si oppone alla scomparsa dei fatti. Rita Bernardini è stata in sciopero della fame per più di un mese, dal 22 gennaio al 24 febbraio, per fare pressione sul governo perché portasse a termine la riforma dell’ordinamento penitenziario. E hanno aderito allo sciopero della fame anche oltre 10mila detenuti per provare a ottenere condizioni di carcerazione umane, che rispettino quella Costituzione di cui tutti parlano ma che a pochi interessa vedere applicata. Una protesta civile, forse troppo per questo Paese, forse troppo perché fosse ascoltata. I Caino hanno dato agli “uomini per bene” una lezione di civiltà per noi inimmaginabile e incomprensibile. In questa campagna elettorale, in cui tutti hanno ciarlato di sicurezza, nessuno ha avuto il coraggio di dire agli italiani che la riforma del sistema penitenziario è necessaria non solo perché nelle carceri non sono rispettati i diritti fondamentali dei detenuti - che oltre alla libertà perdono anche la dignità, ma anche perché carceri che funzionano rendono la società più sicura. Come è possibile che quasi nessun politico si sia preso la briga di portare all’attenzione dei propri elettori i dati sulla recidiva? Come è possibile che gli italiani non sappiano che i detenuti che scontano l’intera pena in carcere tornano a delinquere nel 70 per cento dei casi e chi invece riesce ad avere accesso alle pene alternative al carcere e un contatto con la vita normale torna a delinquere solo nel 30 per cento dei casi? I dati sulla recidiva urlano vendetta e ci dicono che, a chi fino a oggi ha fatto campagna elettorale e non ha parlato di carcere, non interessa la sicurezza reale, ma solo quella percepita. L’iter della riforma dell’ordinamento penitenziario, già di per sé monca di due elementi importantissimi, come la parte relativa al lavoro e all’affettività in carcere, è un iter accidentato. Sin dal 22 dicembre 2017 - giorno in cui il Consiglio dei Ministri ha approvato il primo decreto legislativo - è stato chiaro che, in mancanza di una forte volontà politica, ogni decisione sarebbe slittata a dopo le elezioni del 4 marzo, vanificando così il lavoro degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale e mortificando il lavoro di chi in questa riforma ci aveva creduto come atto di civiltà non più prorogabile. Quando si parla di carcere si crede, a torto, che ad essere coinvolte siano solo le persone che hanno diretto contatto conia detenzione: i 58.087 detenuti (per circa 45mila posti letto, e questa informazione non è un dettaglio trascurabile), i 33.082 agenti di polizia penitenziaria e i funzionari giuridico-pedagogici, in numero assai ridotto rispetto alle reali necessità. Quando ci si interessa al carcere, in realtà, non si parla solo di loro, ma anche di noi, perché non esistono discariche sociali, ma solo luoghi in cui la democrazia perde pezzi. Ho ascoltato Donatella Stasio a Radio Carcere in conversazione con Rita Bernardini e Riccardo Arena, era metà febbraio e ancora si nutrivano speranze che la riforma potesse non arenarsi al Consiglio dei Ministri del 22 febbraio scorso. Poi ho letto un intervento interessantissimo su questionegiustizia.it sempre a firma di Donatella Stasio, sullo stesso argomento: “La Costituzione ci sembra eversiva e i valori costituzionali disancorati dal contesto sociale. Esiste uno scollamento tra il Paese reale e il patrimonio dei nostro valori: bisogna riconciliarsi con questo patrimonio”. E qui viene l’analisi più lucida, parlando di integrazione oltre che di carceri: “L’integrazione presuppone che anche noi siamo integrati rispetto ai nostri valori”. Ma quali sono i nostri valori? Quelli della “democrazia emozionale” cui la politica spesso fa appello per spaventarci? Per farci sentire costantemente con l’acqua alla gola (da vedere il geniale cortometraggio di Gipi andato in onda il 23 febbraio su La7 a Propaganda Live)? Chi siamo veramente, dove stiamo stati prima di arrivare qui? Ricordiamo i racconti dei nostri nonni, racconti pieni di sofferenza, speranza, ma soprattutto di buon senso. Ricordiamo chi siamo: parole e terra, cultura e concime. Intervista a Franco Roberti. “Così si indebolisce il 41bis: rischio messaggi all’esterno” di Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 4 marzo 2018 “Così si indebolisce il 41bis”. Franco Roberti, fino a pochi mesi fa Procuratore nazionale antimafia, non ha dubbi sugli effetti della sentenza emessa dal Tribunale di Perugia il 21 febbraio scorso e rivelata ieri dal Fatto. Dopo un reclamo del boss di Torre Annunziata, Umberto Onda, i giudici hanno stabilito che i Garanti regionali dei detenuti, non solo quelli nazionali, possono colloquiare con i detenuti al 41bis senza le consuete cautele, come il vetro divisorio fino al soffitto e la registrazione audiovisiva. È una sentenza che potrà essere invocata da tutti i boss e che preoccupa molti magistrati, compreso Roberti. Dopo questa sentenza, che tipo di conseguenze potranno esserci sul regime del 41bis? Parlo con tutto il rispetto che si deve a un provvedimento giurisprudenziale. Ma credo che l’interpretazione fornita dai magistrati di Perugia non si corretta. Questa sentenza porterà all’indebolimento del 41bis. C’è, infatti, il forte rischio che anche il Garante regionale, seppur involontariamente, possa essere tramite di messaggi del detenuto. I giudici, in questa sentenza, elevano i Garanti locali al rango di quello nazionale perché, scrivono, “si sono già trovati a esercitare quei poteri di verifica delle situazioni detentive del ristretto ad affrontare le problematiche connesse alla tutela dei diritti fondamentali”. Perché per i Garanti regionali, come dice lei, c’è il rischio che siano tramite di messaggi mandati all’esterno? Perché sono collegati alle amministrazioni regionali, non dipendono direttamente dal garante nazionale. Io non vedo la ragione per la quale si deve consentire tutto ciò. Per tutelare quale diritto? Il boss può esprimere le proprie doglianze anche con un vetro che lo divide dal Garante. Ripeto: è un indebolimento del 41bis - che è uno strumento essenziale non per favorire la collaborazione ma per impedire di mandare messaggi all’esterno - senza un interesse particolare. Io ho difeso la circolare del Dap nel punto in cui consentiva ai detenuti al 41bis di fare il colloquio senza vetro con i figli minorenni. Questo ha senso perché si consente al minorenne di avere un contatto più ravvicinato con il padre. Stavolta non c’è alcuna ragione. Inoltre, è anche nell’interesse del Garante locale non avere momenti di riservatezza con il detenuto. Durante la sua carriera di magistrato lei ha incrociato, dal punto di vista investigativo, Umberto Onda, ossia il boss che ha fatto il reclamo da cui parte tutto e che ha portato alla sentenza del 21 febbraio. Lo so bene chi è Umberto Onda: è un killer di un clan camorristico di Torre Annunziata, che è stato latitante per molti anni. È un soggetto molto pericoloso. Ma al di là del caso specifico, qui occorre affermare un principio: ai detenuti al carcere duro è consentito avere anche più colloqui con i Garanti, di quelli che hanno con i familiari, ma bisogna che tutto sia controllato. La libertà di culto delle persone detenute di Stefania Sarallo confronti.net, 4 marzo 2018 Intervista a Mauro Palma (Garante dei diritti dei detenuti, fondatore dell’associazione Antigone). Nella riforma dell’ordinamento penitenziario si punta sulla responsabilizzazione del soggetto detenuto e sulla ridefinizione delle misure alternative, seguendo il principio fondamentale della funzione rieducativa della pena. L’importanza della tutela della libertà religiosa all’interno del sistema carcerario. Lo scorso dicembre è stato approvato dal Consiglio dei ministri il decreto legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario. Abbiamo intervistato il professor Mauro Palma, presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale (un organismo indipendente in grado di monitorare, visitandoli, i luoghi di privazione della libertà), per raccogliere una sua opinione sul testo approvato e sul tema più specifico del diritto alla libertà religiosa del detenuto. Qual è la sua opinione sul tema delle religioni in carcere? Credo che si tratti di una questione attualmente centrale nel contesto dell’individuazione di strategie che attenuino le tensioni all’interno degli istituti penitenziari. Al contrario, mi sembra invece che i meccanismi con i quali vengono affrontate questioni come la radicalizzazione all’interno del mondo detentivo - un mondo chiuso e totalizzante - spesso inaspriscano la situazione. Il tema delle religioni ha una doppia valenza: da una parte può essere un’apertura a una riflessione non contingente e che rafforza il concetto stesso di responsabilità, dall’altro può costituire un’incentivazione all’appartenenza, soprattutto un potente elemento di sostegno di identità deboli a rischio e in tal caso le religioni rischiano di essere un veicolo del fondamentalismo. In fondo la religione può essere il luogo in cui ti trovi non per classe, non per censo ma per un “Altro” diverso da te cui fai riferimento. E proprio questo aspetto è strutturalmente ambivalente. Negli istituti carcerari italiani vedo pochissimi interventi positivi in materia, anche se non è ovunque uguale e negli ultimi anni si è registrata un’evoluzione positiva. Le religioni possono essere a volte elemento di maggiore consolidamento, in negativo, delle identità deboli e altre volte un elemento di rottura di questo elemento. Ultimamente una questione mi ha colpito fortemente: nelle sezioni del 41bis (il regime detentivo definito comunemente “carcere duro”, ndr), quando i detenuti entrano in contatto con persone esterne devono successivamente essere perquisiti. Nel domandare quali fossero le occasioni di perquisizione successive agli incontri con i ministri di culto, mi è stato risposto che per il cappellano non sono previste perché, a differenza degli altri ministri di culto, egli appartiene all’Amministrazione penitenziaria. Il cappellano è visto come parte dell’istituzione e la differenza con i ministri di culto delle altre religioni risulta evidente. Lo scorso 22 dicembre è stato approvato dal Consiglio dei ministri il decreto legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario elaborato dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Quali sono, a suo giudizio, i punti di forza e i limiti di tale atto? Il mio parere su questo decreto è positivo: il decreto introduce complessivamente delle cose importanti, basate su due elementi secondo me essenziali. Il primo è la responsabilizzazione della persona, che è il contrario della “passivizzazione”. Troppo spesso, infatti, consideriamo i detenuti come degli adulti retrocessi a bambini, con giudici e direttori di carcere che parlano dei loro “ragazzi”. La responsabilizzazione invece da un lato garantisce maggiore consapevolezza di ciò che si è commesso, perché la percezione del disvalore è un punto importante, dall’altro lato dà maggiore sicurezza, perché è possibile capire come una persona sia in grado di tornare positivamente al contesto sociale esterno solo se le viene data la responsabilità del proprio agire anche nella fase di permanenza in istituto, riuscendo così a comprendere le sue interazioni, la sua capacità di agire positivamente. Si hanno così elementi di comprensione degli aspetti positivi e negativi nel suo futuro reinserimento sociale, che non si hanno certamente se la si tiene chiusa, senza fare nulla. Il secondo elemento importante è nel ridefinire le misure alternative alla detenzione come tappe di un percorso che si svolge in fasi successive e crescenti e non considerarle come mere riduzioni dell’afflizione detentiva o addirittura come rinuncia al diritto/dovere dell’autorità statuale a esercitare la potestà penale. Questa ridefinizione delle misure alternative garantisce maggiormente rispetto alla garanzia di non ricommettere reati una volta che il soggetto è fuori. Questi sono, quindi, i due aspetti importanti del decreto: responsabilizzazione del soggetto in esecuzione penale e ridefinizione delle alternative come percorso di progressivo ritorno alla società, eliminando così una visione strettamente retributiva della pena. Detto questo, ci sono anche delle mancanze nel decreto, per esempio sul tema del mantenimento delle relazioni affettive con la propria famiglia. D’altra parte il Governo aveva presentato una legge di delega abbastanza ampia, il Parlamento l’ha ridotta nella sua ampiezza, le commissioni che hanno scritto il decreto e, quindi, il decreto stesso si muovono all’interno delle riduzioni. La questione inerente al diritto alla libertà religiosa del detenuto sembra essere rimasta ancora una volta fuori dai tavoli di lavoro… In realtà la legge delega, alla lettera “v” del comma 85, parla di: “Revisione delle attuali previsioni in materia di libertà di culto e dei diritti ad essa connessi”. Quindi c’è una delega che, a mio giudizio, è stata parzialmente esercitata. Quanto affermato, infatti, è poca cosa. Solo riaffermazioni di principio. Credo che sia dovuto al fatto che, come per la questione dell’affettività, il decreto è stato approvato prima della legge di bilancio e senza impegno di spesa, mentre nel testo si parlava della presenza di locali idonei per il culto e ciò avrebbe previsto dei costi. Quali domande e quali risposte legate all’assistenza religiosa per i diversi culti hanno preso forma all’interno del carcere e in che misura l’istituzione penale è consapevole di queste nuove domande che derivano dalla pluralizzazione dell’universo religioso intra-carcerario? Ce ne sono molte di domande, soprattutto là dove c’è una carcerazione più lunga e una situazione detentiva più isolata, più dura. Molto spesso vengono poste da membri di organizzazioni criminali. Sulle celebrazioni comuni di culto cattolico, non semplici in tali contesti, si registrano le soluzioni più disparate: nelle sezioni dove i detenuti hanno l’impossibilità di incontro al di fuori del gruppo maggiore di quattro, si va da situazioni in cui hanno fatto una cappellina dove possono assistere alla celebrazione di una messa a turno, in gruppi appunto di quattro, a quella in cui i detenuti rimangono in cella e il cappellano passa con un carrello e celebra la messa camminando, alla comunicazione di una celebrazione in “filodiffusione”. Quanto poi alle esigenze che provengono da fedeli di religioni diverse dalla cattolica, spesso, nelle situazioni più complesse, è ben difficile dare risposte positive. Sicuramente c’è, tranne qualche eccezione, rispetto per le tradizioni alimentari per i fedeli di religione islamica, così come per loro sono rispettati i turni di preghiera giornaliera. Stanze per la preghiera in senso generale ce ne sono per la religione islamica perché sono i musulmani a farne più richiesta, essendo spesso soggettivamente più osservanti. Tuttavia, in generale, le pratiche religiose non cattoliche spesso avvengono in ambienti unici, stanzoni “per tutti” o in alcuni casi vengono utilizzati gli stessi luoghi di culto cattolici, dati in prestito. Del resto presenze forti come aggregazioni, escludendo cattolici e islamici, ne vedo poche. Solo una volta mi è stato segnalato in senso positivo un operatore buddhista, mentre, per esempio, non ho mai incontrato ministri di culto induisti. I buddhisti del resto hanno un maggior radicamento sul territorio italiano, le loro associazioni volontarie si muovono e veicolano la loro filosofia. Negli ultimi anni la questione dei diritti religiosi dei detenuti di religione islamica è stata associata dal Dap al tema della sicurezza e, in particolare, della radicalizzazione. Per aumentare i controlli si è tentato di limitare l’aggregazione religiosa dei detenuti di fede islamica. Crede che sia una soluzione percorribile? Il primo modo di combattere la radicalizzazione è la normalità di una vita detentiva rispettosa delle regole, dei doveri e dei diritti dei detenuti: una istituzione che non riesce a dare un chiaro messaggio in tal senso, favorisce il senso di esclusione ed è terreno di coltura della radicalizzazione. Quest’ultima è certamente un rischio reale all’interno di un’istituzione totale, lì dove è facile che le persone ristrette si isolino e in molti casi divengano vulnerabili, a rischio di essere cooptati da altri soggetti più forti, soprattutto se privati di un forte sostegno educativo e sociale. I problemi legati alla radicalizzazione - e in particolare alla radicalizzazione verso l’estremismo violento - sono diversi. Un primo problema, a cui facevo precedentemente riferimento, è legato alla prevenzione del proselitismo rispetto a soggetti vulnerabili. Un secondo problema è costituito dalla gestione dei detenuti già radicalizzati e che, a volte, abbiano già commesso reati connessi proprio al loro radicalismo violento. Per gli uni e per gli altri, è necessario avviare dei percorsi di de-radicalizzazione. Altra questione è relativa alla comunicazione con l’esterno: come trasmettere le informazioni relative al percorso detentivo all’esterno, quando il detenuto finisce l’esecuzione della sua sanzione penale e viene rilasciato, in modo da poter monitorare il suo ritorno alla società. Problemi diversi, tenuti insieme però dal principio fondamentale che non è mai lecito intaccare la dignità della persona: gli interventi di osservazione, di prevenzione, di de-radicalizzazione, di trasmissione di informazione devono essere implementati in un contesto di assoluto rispetto dell’articolo 3 della Convenzione europea per i diritti umani, che non consente alcun trattamento contrario al senso di umanità e alla dignità della persona. Abbiamo recentemente pubblicato un breve testo, dal titolo “Norme e Normalità. Standard per l’esecuzione penale detentiva degli adulti”, che contiene le raccomandazioni che abbiamo fatto agli istituti nel corso di questo primo anno e mezzo di attività. Nel testo ci sono anche raccomandazioni relative alle sezioni dove sono ospitate persone radicalizzate o sotto attenta osservazione per comportamenti che hanno a che vedere con il rischio di radicalizzazione. Una delle raccomandazioni fondamentali che abbiamo formulato per tali sezioni è che ogni supervisione o controllo dei contatti, delle comunicazioni o delle visite a questi detenuti “rispetti il criterio di proporzionalità e gli standard nazionali e internazionali, così come stabilito dalle Linee guida per i servizi penitenziari e di probation sulla radicalizzazione e l’estremismo violento adottate dal Consiglio d’Europa e dalla Regola 24 delle Regole penitenziarie europee”. Come Garante nazionale, inoltre, ho ricordato poi in questo testo che “il migliore strumento per sconfiggere il rischio di radicalizzazione è la normale applicazione delle regole dell’istituzione nel rigoroso rispetto della dignità e dei diritti delle persone”. Da qui, quindi, la raccomandazione a “porre particolare attenzione al rispetto delle prescrizioni religiose relativamente all’alimentazione, non solo relativamente alla preparazione e alla distribuzione del vitto, sia nei tempi ordinati che in periodi particolari, ma anche ridefinendo i prodotti del sopravvitto in modo che includano anche eventuali alimenti preparati secondo le specifiche prescrizioni religiose”. La democrazia che dobbiamo reinventare di Dario Di Vico Corriere della Sera, 4 marzo 2018 Svegliandoci questa mattina possiamo esser lieti almeno di una cosa, di esserci lasciati alle spalle una campagna elettorale così vacua e irritante. La parola passa agli elettori e mai come questa volta non sappiamo quale sarà l’indicazione degli italiani. Sappiamo che il Rosatellum è una legge con cui nessuno rischia di vincere o di scomparire, è una fotografia degli umori della nazione e niente di più. Le manca quel valore aggiunto che dovrebbe consistere nel trasformare il sentimento popolare in un’ipotesi di maggioranza parlamentare e di conseguenza in un’indicazione di governo. Queste critiche per quanto possano essere radicali non devono però mettere in ombra la forza della democrazia e del metodo della rappresentanza politica. Quale che sia il risultato di oggi dobbiamo tenere a mente che stiamo parlando di valori di lungo periodo, gli stessi che ci hanno assicurato negli anni un esteso ciclo di pace, prosperità, giustizia sociale, crescita della società civile e che hanno permesso a un Paese come l’Italia, pur di piccole dimensioni, di iscriversi nel ristretto rango delle nazioni che guidano il pianeta. Questo riconoscimento, e l’implicito invito a partecipare alle elezioni e a non accrescere il già largo campo degli astenuti, non vuol suonare come elogio dello status quo. La democrazia, per come dovremmo intenderla, è materia viva e ci rifiutiamo di considerarla un fossile. Gli anglosassoni usano con una certa frequenza l’espressione reinventing per segnare, anche in maniera volontaristica, il passaggio da una fase all’altra. Noi - più disincantati - siamo molto parchi nell’utilizzarla ma è questo il compito che ci attende, quasi a prescindere dall’esito del voto. Chiunque vinca e chiunque perda. Il guaio è che oggi sembra mancarci una classe dirigente - non solo politica - all’altezza del compito, capace di interpretare l’umore della società e fornire delle risposte adeguate. Questo deficit viene dalla somma di tante debolezze: potremmo partire dalle carenze della scuola e proseguire con la mancanza di luoghi di alta formazione, potremmo parlare di una storica tendenza ad ostacolare concorrenza/ricambio o dell’inadeguatezza del nostro capitalismo e persino dei peccati del giornalismo ma alla fine dovremmo concludere che l’ostacolo che abbiamo davanti a noi non è la protervia di una casta. Caso mai il pericolo è rappresentato dal vuoto. Votare oggi è quindi reinvestire sulla democrazia e sicuramente non in chiave retorica. Non è la nostalgia che ci spinge ma il desiderio di lasciare qualcosa in cui le nuove generazioni possano riconoscersi. Per farlo, con qualche speranza di successo, dobbiamo partire dalle profonde trasformazioni che l’hanno interessata e in qualche maniera depotenziata. I mercati politici restano nazionali mentre le dinamiche che veramente contano - dall’immigrazione alla diffusione delle tecnologie, dai flussi finanziari a quelli commerciali - sono globali. Per di più a fronte di sistemi di rappresentanza dell’Occidente che appaiono rissosi e inconcludenti, i regimi autoritari alla Putin ed ora alla Xi Jinping appaiono più efficienti e persino più moderni. Per tentare di rispondere a queste sfide le classi dirigenti dell’Ovest, ma forse noi tutti, sono/siamo chiamati a un doppio compito: tenere alta la bandiera dell’apertura delle frontiere, dei mercati, delle menti e al tempo stesso ridurre le distanze con le periferie dello scontento. Finora quest’abbinata non è assicurata per nessuno, compreso Macron, e per questo motivo abbiamo la sensazione di essere alla vigilia di un terremoto. Vedremo. E come è compito dell’informazione racconteremo. E chiunque vinca non cambieremo le domande. Una campagna elettorale di desolante e quasi comico nulla di Filippo Ceccarelli La Repubblica, 4 marzo 2018 Una campagna elettorale di buffa desolazione: e non c’è il benché minimo barlume d’incompatibilità fra prenderla a ridere e starci male, salvo scoprire, quest’ultima domenica, il richiamo del nulla, il brivido del vuoto, la potenza dello zero. Si perdoni qui, se possibile, l’irritante tono oracolare. Ma in termini più pedestri è pur vero che, appena iniziata la sarabanda, s’è capito che l’articolato che doveva disciplinarla, l’ingegnosissimo Rosatellum, era sbagliato, donde il beau geste di un democristiano (Tabacci) che ha inglobato una radicale (Bovino), fino a scomparire; e già questo era un segno dei tempi. Un altro, se si vuole, filtrava dai nomi dei grandi esclusi, nolenti o respinti che fossero: Albano, Tremonti, il “Viperetta” Ferrero, Elisabetta Gregoraci, Di Pietro, Toto Cotugno. La formazione delle liste ha porre crudelmente sacrificato il senatore Razzi: “Nessuno mi ha detto niente, ci vorrebbe un po’ di educazione, ho lavorato tanto per il bene degli italiani”. In Sicilia, alla riunione finale sulle candidature un dirigente del Pd si è presentato con una dava giocattolo. Mentre al Nazareno, dopo la notte delle scelte, l’onorevole Guerini ha dovuto negare che il ministro Orlando avesse cercato di entrare a spallate nella sua stanza metro più in là, Renzi non corre di questi pericoli disponendo di una porta blindata con videocitofono). Per cui davvero, e ancora una volta in linea con i due generi nazionali della commedia e del melodramma, c’è stato da ridere e al tempo avvilirsi, da soffocare le risa e insieme da preoccuparsi dinanzi agli occhi lucidi di Giorgia Meloni richiamata a sorpresa ai suoi doveri di mamma, ché la piccola Ginevra non la vedeva più tanto, come pure di fronte alla solenne motivazione con cui l’aspirante premier Di Maio, col suo “bel musivo da tv” (secondo Berlusconi), ha investito la criminologa Giannetakis nientemeno che alla guida del ministero dell’Interno: “Perché ha un carattere tosto”. A un certo punto da più parti si è sollevato un caso Orietta Berti, ma sul serio, nel senso che in qualche trasmissione la cantante aveva espresso le sue preferenze per i cinque stelle, pure soffermandosi sull’abbronzatura del loro leader (“sembra un mulatto”); e Berlusconi ha dato l’allarme su un incontro tra Grillo e il giudice Davigo, in quel caso anche sceneggiando la doppia e rinforzata stretta di mano fra i due; e Salvini, nel nome di Dio invano, ha cacciato di tasca il rosario e siccome non bastava ha pure giurato sul Vangelo; mentre per mettere fine all’angosciosa diatriba sulla titolarità della gloriosa Margherita, la ministra Lorenzin s’è prodotta in una perifrasi di una canzone di Sergio Endrigo su semi e alberi per concludere che il simbolo che aveva alle spalle, fino a poco prima coperto sotto un velo, era un fiore “petaloso e giallo come il sole” - e tra smorfiette e sorrisini sembrava un saggio di prima media. Ora, a smontarli e a rimontarli a freddo, i dispositivi degli spettacoli, specie quelli politici per cui non si paga il biglietto, paiono perfino rassicuranti. Uno pensa, con un sospiro: che s’ha da fa’ per acchiappare voti, e passa ad altro. Ma stavolta l’espediente dell’interpretazione drammaturgica zoppicava, ansimava, sbandava come sotto un peso maggiore. Gli “italiani rincoglioniti” (Dibba), la “razza bianca” (Fontana), il fantoccio di Boldrini bruciato in piazza, il maiale dei Casamonica postato dai Fratelli d’Italia, l’ipotetica lesbica dei cartoni animati, il cane sul podio di Brambilla, ecco che nel gran caos di vero circo e cimitero virtuale, chiacchiere e strilli, scemenze e cose pericolose, beh, mai come stavolta il paesaggio elettorale ha proiettato all’orizzonte la grande regressione del potere, il compiuto disfacimento di ogni residua cultura politica, la scorciatoia verso l’insignificanza. È troppo? E sarà anche eccessivo, ma se l’archeologia è davvero una via d’accesso al presente, la crisi del discorso pubblico è cominciata nei primissimi anni 90, e cinque lustri sembrano aver consumato non solo l’attenzione, ma anche il buonsenso. Grillo ha pubblicato un video in cui parla con una statua (Rousseau); l’altro giorno il generale Pappalardo voleva arrestare la presidente della Camera; e dopo aver disposto una specie di festosa coreografia davanti alle telecamere l’8lenne Berlusconi, immemore di valutazioni olgettinesche sulla compattezza dei glutei, ha piazzato lì: “Chi mi sta toccando il culo?”. Eh, saperlo! Il presidente Grasso preteso moroso col Pd; il suo creditore-accusatore Bonifazi mezzo nudo su un divano, pure lui con cani; il governatore De Luca poggia le braccia sul collo dei due figli; quando la Procura gliene ha toccato uno, eccolo subito in tv rabbioso: “Siamo alla barbarie”, promette “la resistenza”, si dichiara “partigiano”. Tutto sembra precipitato in basso, senza più distinzioni gerarchiche, di passione, di speranza, di decoro, di gravità, di niente. Vaccini, scontrini, Traini. L’eccesso di vaniloquio fa sì che i talk show risultino ormai muti, calamitando lo sguardo sui volti attoniti dei figuranti. Silvione ha rifirmato il Contratto chiamandolo Impegno, ha rifatto lo spiritoso sui capelli e promesso un posto a Vespa. La direzione artistica di Porta a porta, d’altra parte, ha consentito a Giorgia Meloni di portarsi in trasmissione la mamma di Pamela. Ma la definitiva centralità di Barbara D’Urso ha forzato e aggiornato i rituali di consacrazione televisiva con siglette soft, applauso di benvenuto, passeggiata piaciona dell’ospite con bacetto alla taccutissima conduttrice: “Mi avevano detto che eri un bel giovane - così a Di Battista - ma sei anche molto alto”. In compenso parlano, anzi rimbombano le foto, con l’energia di visioni provvisorie e stralunatissime. Sgarbi sulla tazza del cesso. Salvini con un fucile in braccio. Boschi al Carnevale tirolese. Casini sotto l’altarino del riformismo. Le nonne di Renzi garantiscono la bontà del nipote, ci mancherebbe. Nei giorni furibondi della campagna elettorale la società civile ha finito per adeguarsi. Un turista francese - quasi un presagio - ha fatto la pipì dentro una fioriera di Montecitorio; la testimone delle cene eleganti Ambra Battilana, ora decisiva in #MeToo made in Usa, vuoi fare un film; e per qualche ragione l’altra settimana è anche esploso il ristorante di pesce di Walterino Lavitola. Fra stupore e malinconia, viene da chiedersi che cosa resterà nella memoria collettiva dell’ex fidanzato rumeno che faceva i rimborsi all’onorevole cinque stelle Giulia Sarti; se sarà eletta la misteriosa Marta Fascetta candidata berlusconiana in quota Milan-Pascale; e quali altri fastidi sarà costretta a patire la signora De Falco - giù le mani - cui Gigino Di Maio ha portato la sua problematica solidarietà. Tutto scorre, in fondo, tutto se lo porteranno via le urne, tutto forse vale la pena di prenderlo come viene-viene in questo tempo interminabile di sconsolata buffoneria. Alla ricerca della sintonia con le proposte dei partiti di Agnese Moro La Stampa, 4 marzo 2018 Qualche volta le elezioni possono diventare l’occasione per fare il punto della situazione e valutare le intenzioni dei partiti rispetto a problemi che riguardano direttamente la vita dei cittadini. Lo ha fatto Secondo welfare, secondowelfare.it (sodalizio che coinvolge diversi attori economici e sociali) offrendoci uno strumento che aiuta a valutare la nostra consonanza con le intenzioni di questo o di quel partito, e a darci un’idea degli scenari possibili. Presentano così il loro lavoro di questi giorni. “All’interno del nostro gruppo di ricerca ci siamo chiesti quali siano le soluzioni proposte dai partiti per affrontare i cambiamenti in atto, in particolare per quel che riguarda le misure per attuare la ricalibratura del nostro sistema di protezione sociale, fra primo e secondo welfare. Partendo da questa domanda abbiamo scoperto, come messo in luce da una recente analisi dell’Istituto Cattaneo, che insieme all’istruzione, i temi legati al welfare sono quelli che ritornano con maggiore frequenza nei testi programmatici delle forze politiche, di cui rappresentano quasi il 25%”. Hanno quindi analizzato i programmi esaminando alcune questioni che sono parse particolarmente significative. In particolare sono state svolte analisi su: sostegno alla famiglia, contrasto alla povertà, sviluppo del welfare aziendale e contrattuale, misure per la non autosufficienza. Viene segnalato anche un e-book curato da Adapt (associazione che promuove studi e ricerche sulle relazioni industriali e di lavoro) che analizza i programmi dei partiti sulla cruciale materia del lavoro. Altrettanto interessante il dossier realizzato da Avviso pubblico (avvisopubblico.it, Enti locali e regioni per la formazione civile contro le mafie) che presenta una sintesi dei più rilevanti provvedimenti riguardanti la lotta alle mafie e alla corruzione approvati dalle Camere in questa legislatura. “Il documento - scrivono - contiene l’analisi non solo delle leggi generali di contrasto alle mafie e alla corruzione, ma anche le misure adottate con riferimento ai singoli settori (gestione dei rifiuti, appalti, caporalato, riciclaggio, etc.)”. Sono indicati anche progetti di legge il cui esame non è stato concluso nella Legislatura, e viene fornito un quadro del lavoro svolto dalla Commissione antimafia e da altre Commissioni parlamentari di inchiesta. L’usura, un problema che i candidati ignorano di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 4 marzo 2018 Impegnati a chieder voti promettendo tutto a tutti, i politici a caccia di consensi si sono totalmente scordati dell’angoscia di milioni di italiani che sono nelle mani degli strozzini. E l’usura? Impegnati a chieder voti promettendo tutto a tutti, i politici a caccia di consensi si sono totalmente scordati dell’angoscia di milioni di italiani. Quelli che si sentono al collo la corda degli strozzini. Le associazioni che se ne occupano sono scandalizzate: non uno dei candidati alle elezioni, dicono, si è sentito in dovere di rispondere a una lettera aperta sul tema. Non uno. Non è servita l’invettiva di Papa Francesco: “L’usura umilia e uccide. E’ un male antico che come un serpente strangola le vittime”. Non sono servite le grida di allarme lanciate all’ultimo convegno della Consulta nazionale antiusura dal direttore della Caritas ambrosiana Luciano Gualzetti: “Dieci milioni di persone non possono utilizzare oggi gli strumenti tradizionali del credito”. Non sono servite le cronache, come la storia d’una signora napoletana che, rimasta vedova, aveva chiesto un prestito di 1400 euro e si è ritrovata a doverne restituire 5000. Reazioni: zero. Al punto si spingere il vescovo Alberto d’Urso, che della Consulta è il presidente, a sospirare sul tema “alla periferia del mondo dei mass media”. Difficile negarlo. Basti dire che nell’archivio generale dell’Ansa, che non sarà la Bibbia ma è utile per capire “che tempo fa”, sono usciti negli ultimi tre anni 294 titoli con la parola usura e 559 sui cani o i gatti. Quanto ai leader, stando alla principale agenzia giornalistica italiana, non si è mai occupato del problema Berlusconi, mai Salvini, mai la Meloni, mai di Maio, mai Grillo, mai Grasso, mai Renzi… Sul tema dell’azzardo strettamente legato allo strozzinaggio, è vero, han dato battaglia diversi deputati, senatori, governatori e sindaci di vari schieramenti. In particolare grillini. Una denuncia vera, allarmata, centrata sulla gravità del fenomeno usura, però, dai leader non è mai arrivata. Eppure sono anni che la situazione è più pesante di dossier in dossier. Lo studio di contribuenti.it del gennaio 2009, quattro mesi dopo il crac della Lehman Brothers, parlava di 143.000 famiglie a rischio usura in Campania, 214.000 in Emilia-Romagna, 235.000 in Sicilia, 394.000 in Piemonte. Gli usurai, disse il cardinale di Torino Severino Poletto, “Crescono come funghi quando la stagione è buona ed è evidente che, purtroppo, questa stagione è buona”. L’anno dopo la Cgia di Mestre confermava fornendo percentuali nel Mezzogiorno ancora più preoccupanti. Fatta 100 la media italiana, il rischio di finire in pugno agli strozzini era basso in Alto Adige (50 punti), altissimo nel Lazio (118), in Sicilia (133), in Puglia (143) e in Calabria (144) fino a una quota stratosferico (174) in Campania. Nella primavera 2013 SOS Impresa elencava le percentuali dei commercianti trascinati dalla crisi del gorgo dello strozzinaggio: il 19,2% nella media italiana, con punte del 28% in Molise, del 29,2% in Sicilia, del 32% in Campania, del 34% in Calabria, del 34,8% nel Lazio. Tutte ricerche disomogenee, forse, ma concordi su un punto: l’enormità del problema. Ribadita nel 2016 da uno studio Eurispes secondo cui nel 2015, ultimo dato disponibile, il business dell’usura “arrivava a un totale annuo di quasi 81,9 miliardi di euro”. Una somma folle, superiore agli 81,2 miliardi complessivi “a regime” della dolorosissima finanziaria di Mario Monti. Di questi 81,9 miliardi (“Si tratta in ogni caso di un calcolo approssimativo per difetto a causa della significativa quota di “sommerso” che caratterizza un fenomeno criminale radicato come questo”, precisa Giovanni Maria Fara, che di Eurispes è presidente) toglie il fiato soprattutto la tabella su “chi” è stato coinvolto. Hanno dovuto restituire 11 miliardi contro i 5 avuti in prestito le Imprese di commercio e servizi, 4,95 miliardi contro 2,25 le imprese agricole e ben 66 miliardi contro i 30 ricevuti dagli usurai le famiglie. I risultati di questo baratro aperto sotto i piedi di una umanità in crisi, dice Maurizio Fiasco, uno dei massimi esperti del collegamento fra azzardo, usura e “compro oro” (cresciuti in una dozzina di anni nella sola Roma da 7 a 291) sono i seguenti: “La cessione dei crediti bancari in sofferenza di famiglie e di imprese a fondi speculativi che procedono in modo violento sulle esecuzioni immobiliari”. “Quelle già in corso in Italia sono 300mila”, spiega Luciano Gualzetti, “ma diventeranno presto mezzo milione con la cessione delle sofferenze ai fondi avvoltoio” e da lì giù, a picco verso l’abisso. La perdita della casa, l’abbandono, la deriva tra i clochard, spesso il suicidio… Un destino segnato se non sarà invertito “reinserendo nel circuito economico e bancario 700mila persone che ne sono state espulse” e permettendo alle banche “di recuperare un importo maggiore rispetto alla vendita ai fondi esteri e a mantenere i clienti e radicamento nei territori”. E chi ci dovrebbe pensare, se non la politica? La lettera aperta lo ha ricordato a tutti quelli che oggi saranno eletti in Parlamento. Peccato che nessuno abbia trovato il tempo di rispondere. La Cassazione: “Non ci sono indizi contro il senatore in galera” di Piero Sansonetti Il Dubbio, 4 marzo 2018 Il kafkiano caso di Antonio Caridi. Quasi nessuno lo sa ma da un anno e mezzo c’è un senatore della Repubblica in una cella di Rebibbia che aspetta che il tribunale del riesame decida sulla sua sorte. La Cassazione si è già pronunciata, e ora sono note le motivazioni della sua decisione di considerare incongrua la prima decisione del riesame, che è stata quella di tenerlo ancora in galera. La Cassazione dice che gli indizi sulla sua colpevolezza sono pochini, o forse non ci sono affatto. E allora spiega - o ne vengono portati di nuovi o va scarcerato. Il senatore in questione si chiama Antonio Caridi. È di Reggio Calabria. Alcune frasi contenute nelle motivazioni della Cassazione sono davvero inquietanti. Caridi è accusato dai Pm di Reggio di essere l’esecutore del programma di una cupola massonico-mafiosa che guiderebbe tutta la politica del reggino. E grazie a questo suo ruolo sarebbe riuscito a fare carriera politica. Il suo punto di riferimento sarebbe l’avvocato ed ex parlamentare Paolo Romeo, il quale, a sua volta, sarebbe uno dei quattro capi di questa cupola. Dice la Cassazione: “Ad eccezione di una conversazione intercettata nel 2014, avente ad oggetto questioni relative alla costituzione della città metropolitana di Reggio Calabria, non è stato indicato nessun altro contatto tra Romeo e Caridi, nessuna intercettazione, telefonica o ambientale, da cui evincere un nesso, un collegamento fra la carriera politica di Caridi e la prospettata struttura segreta”. In soldoni: l’accusa sostiene che Caridi è un uomo di Romeo, ma Caridi e Romeo non si sono mai visti e quando si sono parlati hanno parlato di una banale questione politica. Fa tremare le vene e i polsi l’idea che si possa finire in prigione, accusati di essere mafiosi, e poi essere dimenticati in fondo a una cella, sulla base di un teorema che la Cassazione giudica non solo non provato ma inconsistente. E che nonostante la doppia sentenza della Cassazione a proprio favore, si possa restare in prigione per mesi e mesi, senza che la cosa susciti alcuno scandalo. E fa ancor più sensazione il fatto che tutto questo capiti non ad un poveretto, ma addirittura ad un senatore. Poi c’è un’altra questione. Un anno e mezzo fa il Senato fu chiamato a decidere se autorizzare o no l’arresto di Caridi. Il Senato avrebbe dovuto esaminare le carte e stabilire se ci fossero indizi sufficienti, ed esigenze cautelari, perché nel caso non ci fossero, si sarebbe potuto ipotizzare il cosiddetto “fumus persecutionis”. Il Senato esaminò le carte (circa 2000 pagine) dell’accusa, e decise che Caridi andava arrestato. Probabilmente nessuno lesse quelle carte, altrimenti si sarebbe reso conto di quel che ha scoperto la Cassazione: non ci sono indizi. Possibile che in un paese democratico un senatore possa essere catturato e sepolto in un carcere, nel silenzio generale, in mancanza di indizi? Sepolto in un carcere di Roma, voglio dire: non di Ankara. E possibile che questo avvenga nel silenzio assoluto, e codardo, di tutto il mondo politico? Venezia: da detenuti a ponteggisti, un crowdfunding che porta al lavoro di Barbara Ganz Il Sole 24 Ore, 4 marzo 2018 Una raccolta fondi collettiva - crowdfunding - per dare una spinta a un progetto che mette insieme il lavoro e il rapporto fra detenuti e figli. “Da detenuti a ponteggisti” è un progetto è un’integrazione di un altro progetto già finanziato dalla Regione Veneto, “Lavorare per i propri figli”: obiettivo il restauro dell’ex chiostro del Carcere maschile di S.M. Maggiore, perché possa essere utilizzato per svolgere i colloqui tra i detenuti padri e i loro figli, anche all’aperto. Ma non solo: oltre al ripristino del chiostro - perché gli incontri genitori-figli avvengano lì, anziché nella sala colloqui stretta, lunga e spoglia - si può contemporaneamente far imparare un mestiere ai detenuti attraverso lezioni teorico-pratiche (e i dati mostrano come imparare un mestiere durante la detenzione riduca drasticamente le recidive). Non appena il progetto è cominciato si è posto il problema del noleggio dei ponteggi che sarebbero serviti per intonacare i muri del chiostro fino in cima: ecco perché si è pensato di integrare il primo progetto con un secondo, “Da detenuti a ponteggisti” appunto. La raccolta fondi è stata avviata con Produzioni dal Basso, e si può aderire in questa pagina dove si trovano anche tutti i particolari del progetto. L’architetto Athos Calafati, che segue tutti i lavori del chiostro, ha contattato il Centro Edili Venezia, perché tenga ai detenuti un corso di formazione abilitante al mestiere di ponteggista. Inoltre, ha ottenuto dal Consorzio Edili Veneti il noleggio, a prezzo contenuto e “solidale”, dei ponteggi. In questo modo si potrebbero fare i necessari ponteggi e i necessari intonaci. I principi di fondo del progetto originario sarebbero ribaditi e resi più efficaci dal fatto che il mestiere di ponteggista è davvero richiesto sul mercato del lavoro. “Senza il secondo finanziamento, che qui richiediamo - spiegano gli organizzatori - le mura del chiostro sarebbero intonacate solo ad altezza d’uomo e tutto il lavoro risulterebbe misero, meno completo e bello. Se invece questo secondo progetto venisse finanziato, le facciate sarebbero completate e acquisterebbero maggiore dignità. Inoltre i detenuti avrebbero la possibilità di ricevere una formazione professionale davvero utile da spendere dopo la conclusione della pena”. “Nel caso in cui non riuscissimo a raggiungere l’obiettivo di budget che ci consentirebbe di attivare il progetto “Da detenuti a ponteggisti”, utilizzeremmo le donazioni raccolte a favore delle attività dell’Associazione” fa sapere “La gabbianella e altri animali”, nata nel 1999 per occuparsi di adozione e di affidamento. E’ stata iscritta nel Registro Regionale delle Associazioni di Volontariato della Regione Veneto dalla nascita al settembre 2012, ora è un’associazione di Promozione Sociale. “La gabbianella” ha reperito, formato e sostenuto genitori adottivi e affidatari. Oggi cerca soprattutto di prevenire il distacco tra i bambini e i loro genitori nei vari modi possibili, attraverso forme diverse di solidarietà familiare. Si occupa dei bambini presenti nel carcere femminile della Giudecca: provvede ad accompagnarli ogni giorno all’asilo comunale, li porta a giocare fuori dalla casa di reclusione nelle festività e al mare d’estate. E’anche presente nella Casa Circondariale di S.M. Maggiore per sostenere i figli dei detenuti durante i colloqui con i padri. Bari: la scrittura del riscatto dei nostri ragazzi difficili Gazzetta del Mezzogiorno, 4 marzo 2018 La giustizia minorile individua percorsi alternativi alla semplice esecuzione della pena. L’aiuto di Comune e Regione. Il palazzo sul lungomare San Girolamo è uno straordinario contenitore di energia. Nello stabile confiscato al boss, com’è noto, ha sede la comunità educativa “Chiccolino” sostenuta con impegno dall’assessorato comunale al Welfare e dalla stessa Regione. Con i suoi ospiti la “Gazzetta” sta portando avanti un laboratorio di giornalismo sociale, un’iniziativa innovativa che intende fornire visuali nuove sui più stretti temi di cronaca e attualità. “In un territorio socialmente complesso, questa comunità per minori dell’area penale rappresenta il vessillo della vittoria dello Stato sull’anti Stato - spiega Raffaele Diomede, coordinatore pedagogico di Chiccolino - sia perché è patrimonio confiscato alla mafia, sia perché nel suo interno si sperimentano progetti educativi innovativi che guardano oltre la semplice esecuzione della pena dando l’opportunità ai minori devianti di diventare protagonisti attivi di nuovo progetto di vita. Le emozioni ed i sentimenti contrastanti dei minori devianti, le dinamiche emotive ed affettive distorte, richiedono senz’altro una particolare attenzione. I ragazzi coinvolti in procedimenti penali hanno quanto mai bisogno di essere accompagnati a scoprire il senso del bello, l’educazione alla spiritualità, la ricerca estetica attraverso la promozione di percorsi culturali, la valorizzazione dei loro talenti e delle loro unicità”. Varcano la soglia della comunità, minorenni che hanno sulle spalle pesi da adulti, esperienze criminogene e il disagio dell’esclusione. Comprendere come dialogare con questi ragazzi, come riuscire a riconquistarne la fiducia e a ispirarne un futuro migliore possibile, è l’impresa - non sempre facile - degli educatori. Ecco perché, come spiega Diomede, la comunità “ha ideato e progettato progetti innovativi in ambito penale minorile, quali il gioco di ruolo, la scrittura creativa, la partecipazione costante ad iniziative teatrali e culturali, orientati a trasformare il bello vissuto e percepito, in esperienza cosciente capace di far mettere in discussione la loro visione della realtà spesso distorta ed oscura, orientandola in un percorso positivo, in una direzione esistenziale che riconcili il proprio essere, che trasformi la rabbia, la delusione e la paura, in una interpretazione nuova della realtà attraverso una visione più ampia sul senso dell’essere”. Iniziative come la scrittura creativa attraverso le pagine della “Gazzetta”, il gioco di ruolo, l’educazione all’arte, dovrebbero rientrare nella formulazione di un progetto educativo individualizzato che preveda “la scoperta della bellezza”, come amano chiamarla gli operatori di “Chiccolino”, laddove per “bellezza” si intenda anche l’importanza di un abbraccio, la comprensione, l’empatia, la speranza. “Un minore deviante, vissuto tra violenza e brutture sociali, lo si recupera non attraverso l’esercizio dell’autorità, ma disarmandolo, attraverso la cura e l’educazione alla bellezza. Un mix di luce capace di penetrare nelle pieghe dell’anima e di destrutturare e trasformare percorsi comportamentali apparentemente ineluttabili”, spiega Raffaele Diomede. È d’altronde la strada che la giustizia minorile ha cominciato a percorrere negli ultimi anni, quando ha compreso che ancor più che per gli adulti, la detenzione carceraria è spesso la condanna a una vita di devianza e di illegalità. Sperimentare dunque nuovi modelli educativi è la formula che anche nella comunità di San Girolamo prova a introdurre nell’orizzonte dei minorenni entrati (talvolta davvero per caso) nell’area penale. Nuovi modelli “ispirati al bello, facilmente riconoscibili ed accettati, che possano essere trasmessi in una sorta di contagio positivo. Occorre passare da una ricerca teorica ad una progettualità in grado di coinvolgere concretamente i minori, evidenziando le loro unicità, i loro modi di essere, i loro bisogni, le aspirazioni più profonde ed il sapersi porre all’interno delle relazioni”, spiega ancora il coordinatore pedagogico. La chiave d’accesso del cuore dei ragazzi è esclusivamente “sentimentale”. Bisogna partire dalle emozioni, quelle positive come quelle negative, per iniziare a dialogare. La noia esistenziale, la fragilità emotiva e affettiva, la vulnerabilità sul piano personale, il disagio culturale ed ambientale. Si parte da qui, dal dolore. È il percorso che i giovanissimi ospiti di “Chiccolino” continuano a sperimentare ogni giorno. Sassari: nella nuova “Alcatraz” trasferiti i padrini più potenti di camorra e ‘ndrangheta di Fabio Postiglione Corriere del Mezzogiorno, 4 marzo 2018 La decisione arriva via fax ed è firmata dal Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria. Viene consegnata di sera, prima delle 19, direttamente sulla scrivania del direttore del carcere. Al detenuto di turno vengono dette poche parole: “Da domani si cambia, prepara la borsa”. Succede spesso a chi deve scontare reati per associazione mafiosa o è recluso nei padiglioni cosiddetti “dell’alta sorveglianza”. La decisione arriva via fax firmata dal Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria. La sera, prima delle 19, direttamente sulla scrivania del direttore del carcere. Al detenuto di turno vengono dette poche parole: “Da domani si cambia carcere, prepara la borsa che si parte”. Succede spesso a chi deve scontare reati per associazione mafiosa o è recluso nei padiglioni cosiddetti “dell’alta sorveglianza”, quelli destinati a chi commette reati con le aggravanti mafiose. La destinazione, fino alla fine, resta top secret, come da protocollo per questo tipo di trasferimento. Ed è proprio in quel preciso momento che ai capiclan, anche a quelli più duri e spietati, iniziano a tremare le gambe perché oramai tutti i pezzi da novanta sanno che prima o poi potranno finire lì. Dove? Nella ribattezzata “Alcatraz italiana”. All’alba gli agenti di polizia penitenziaria bussano alla porta blindata della cella. Il detenuto stende le braccia per farsi ammanettare, passa per corridoi stretti illuminati da luci artificiali, lancia un breve saluto ai “compagni” del piano e va dritto nella camionetta blindata che si dirige a sirene spiegate verso l’aeroporto più vicino. La destinazione è Alghero. È questo il “girone dell’inferno” di tutti i padrini di mafia e ‘ndrangheta e, da alcuni mesi, anche di quelli della camorra napoletana. Trasferimenti di massa fatti in gran segreto per tutti i boss di Napoli e provincia: uno, massimo due per clan di appartenenza e mai nemici tra loro, per evitare tensioni all’interno della struttura che ospita (si fa per dire) anche terroristi internazionali e donne detenute “al carcere duro”. L’Alcatraz italiana - Sono però trasferiti non i ras emergenti, quelli reclusi al carcere duro cosiddetto “ordinario”, come a Cuneo, Spoleto o a Secondigliano. Non ci sono, per intenderci, i ragazzi della “paranza dei bambini” di Forcella. Non arriveranno mai i pistoleri delle “stese” al rione Sanità. Nell’istituto penitenziario di Bancali, una frazione a 8 chilometri da Sassari, a 29 dall’aeroporto di Alghero, nella parte nord ovest della Sardegna, ci finiscono solo i super boss, quelli che negli anni non si sono mai piegati neanche per un momento allo Stato e che hanno deciso di scontare in silenzio la loro pena, che quasi sempre è all’ergastolo o a condanne che superano i venti anni. Entrano nel supercarcere completato solo nel 2015, costruito appositamente con 96 celle destinate al regime “super duro” e che è occupato adesso da 26 camorristi, trasferiti dagli altri penitenziari nel giro di pochi mesi, uno dopo l’altro. Senza clamore, guardati a vista, caricati su voli speciali e scortati da venticinque agenti armati. La struttura è intitolata a un agente della Polizia penitenziaria, Giovanni Bachiddu, ucciso nel 1945 mentre tentava di fermare un’evasione. E non è un nome scelto a caso. Nel nuovo penitenziario nessuno può evadere o anche solo pensare di farlo. Ci sono mura di cemento armato alte 20 metri e la struttura è blindata con triple protezioni. Ma non solo, ci sono regole molto stringenti per far si che non si possano passare ordini all’esterno in nessun modo. Struttura a nido d’ape. Le celle dove sono reclusi i napoletani - quelle destinate ai boss più pericolosi - sono al centro della struttura, disposta a nido d’ape, come un alveare, dove ogni corridoio non si incrocia con l’altro ed è lungo solo cinquanta metri. A perpendicolo e che affacciano su altre tre celle. Una struttura studiata appositamente per evitare gli “inchini” al passaggio del boss di turno o scambi di comunicazioni e ordini di morte. Ogni capoclan ha la sua ora d’aria e socialità in un piccolo cortile videosorvegliato con solo altri tre padrini che sono di regioni diverse, senza nessun contatto tra loro. Il mondo dei super boss napoletani inizia e finisce lì. Nelle stanze blindate di 12 metri quadrati, senza finestre, ci sono i riscaldamenti ma non i climatizzatori, un letto, un armadio, un gabinetto, un lavabo. Ogni stanza ha un accesso in una saletta dove hanno i colloqui una volta al mese con i loro familiari, dietro un vetro blindato e parlando al citofono. Accanto c’è un televisore per i collegamenti in videoconferenza con le aule di giustizia dove si celebrano i processi nei quali sono imputati. Nessuno più sarà trasferito. Napoletani “internati” I cancelli della sezione “incubo” del Bachiddu sono stati inaugurati da Leolu- ca Bagarella, il padrino corleonese, cognato di Totò Riina, responsabile di decine di omicidi, ed è stato il primo a protestare duramente contro gli agenti di Polizia penitenziaria che sorvegliano il blocco detentivo del supercarcere. La stessa sorpresa che ha accolto gli altri 89 detenuti, convinti di essere trasferiti come di routine e invece sono finiti dietro i cancelli del carcere. Lì è stato “spedito” il padrino di “Gomorra-La serie” Raffaele Amato, lo spagnolo, che nella fiction era Salvatore Conte. Non c’è invece il suo nemico giurato Paolo Di Lauro, mentre c’è suo cognato Raffaele D’Avanzo. Presente invece Antonio Mennetta, el Niño, boss dei “girati” della Vanella Grassi. Tra gli uomini di calibro è “ospite” Eduardo Contini ‘o Romano, al vertice dell’Alleanza di Secondigliano. C’è Michele Mazzarella, figlio di Vincenzo, per anni al comando di Forcella. Giovanni Aprea, capoclan di San Giovanni, soprannominato punta di coltello, per la sua capacità di usare le lame: è nel padiglione nord. Il super boss di Marano Giuseppe Polverino è nel lato est del penitenziario, vicino a Rocco Morabito, capo della ‘ndrangheta. La lista è lunga: nel super carcere ci sono Giovanni Birra, lo spietato killer di Ercolano; Francesco Bidognetti, Pasquale Zagaria, fratello di Michele e Vincenzo Schiavone detto Sandokan. Antonio De Luca Bossa, ergastolano di Ponticelli con aderenze anche a Pianura è stato trasferito da poco, così come Ciro Minichini, del quartiere di Barra. Ma non è finita qui perché ci sono altri 14 napoletani in lista: otto dei quali ergastolani. Sassari: il pm blocca il permesso di Gallico, doveva fare visita alla madre novantenne di Gianni Bazzoni La Nuova Sardegna, 4 marzo 2018 Il pluriergastolano detenuto a Bancali voleva far visita alla madre in Calabria. Ora si sa qual è l’elemento più grave che ha spinto il procuratore capo della Repubblica di Sassari Gianni Caria a chiedere al magistrato di sorveglianza di rivalutare la concessione del permesso al pluriergastolano Domenico Gallico, 60 anni, boss della ‘ndrangheta detenuto nel carcere sassarese di Bancali e sottoposto al regime del 41bis. Una telefonata avvenuta cinque giorni dopo la concessione del permesso (il contenuto è stato anticipato ieri dal Corriere della Sera), un colloquio tra il detenuto e il fratello Carmelo (sorvegliato speciale) ascoltato dal personale che - come da regolamento - ha l’incarico di monitorare eventuali “disposizioni” dei boss che partono dall’interno del carcere. Il contenuto di quella chiamata mensile è stato poi trasmesso ai vertici dell’amministrazione penitenziaria. Domenico Gallico si è prima informato sulle condizioni di salute dell’anziana madre, Lucia Giuseppe Morgante di 91 anni (proprio per andare a trovare la donna, il detenuto ha ottenuto il permesso di un’ora, con accompagnamento da Sassari a Palmi sotto scorta), poi è passato ad altro. Al fratello annuncia che “a breve arriverà il permesso” e raccomanda “di non farsi trovare impreparati”. Ma entra anche più nello specifico, Domenico Gallico, e chiede “come si sta organizzando”, insomma “di non aspettare all’ultimo momento”. Da Carmelo arrivano risposte rassicuranti per il fratello: dice che si sta occupando di tutto e di avere già interessato anche gli avvocati. Il dialogo tra fratelli, considerato anche il curriculum del detenuto, condannato a sette ergastoli più altri 25 anni per un delitto commesso quando era ancora minorenne, più altre condanne per mafia e reati connessi, oltre all’aggressione in carcere al pubblico ministero che indagava sul suo conto, hanno fatto scattare l’allarme. Perché dietro la richiesta (già autorizzata) di andare a visitare l’anziana madre potrebbe anche nascondersi dell’altro, compreso il tentativo di evasione, oppure qualche azione eclatante. Inoltre - secondo quanto trapelato - l’incontro familiare avrebbe dovuto svolgersi nella casa di Palmi (confiscata perché considerata provento di attività illecite) dove in passato era stato anche scoperto un bunker che sarebbe servito per nascondere i latitanti. Una situazione pericolosa, anche a parere del procuratore aggiunto di Reggio Calabria Gaetano Paci, tra i più preoccupati dell’evoluzione della situazione. E in considerazione della gravità della situazione, il questore di Reggio Calabria Raffaele Grassi ha sottolineato per iscritto che l’incontro madre-figlio, eventualmente, non dovrebbe svolgersi in casa ma in un luogo più sicuro, come la caserma dei carabinieri che dista poco dall’abitazione dei Gallico. Ora l’ultima parola spetta al Tribunale di sorveglianza di Sassari. Santa Maria Capua Vetere (Ce): liberi dieci ore al giorno, progetto made in carcere Il Mattino, 4 marzo 2018 Settanta detenuti meritevoli circoleranno in “free zone”. Liberi, ma in carcere grazie al nuovo modello detentivo che partirà dalla prossima settimana nel carcere di S. Maria C.V., grazie ad un progetto sperimentale che era in cantiere, reso esecutivo in cinquanta giorni dalla nuova direttrice del penitenziario, Elisabetta Palmieri. La “custodia aperta” è stata presentata ieri con la cornice augurale di un concerto a favore dei detenuti: ad esibirsi, il Gruppo Italiano di Ottoni. La Casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere ospita quasi stabilmente oltre novecento detenuti (400 nel reparto cosiddetto di Alta Sicurezza), tra cui 70 donne e ha un grado di sovraffollamento di un terzo, quasi perenne, che fa il paio con il sottodimensionamento dei 400 agenti penitenziari (potenziati di recente di alcune decine di unità). La struttura penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere ospita anche una sezione riservata ai sex offenders (detenuti autori di violenze sessuali) e anche una riservata a detenuti con problemi psichici. Numerose le iniziative state avviate con l’apporto della comunità esterna: dal frutteto didattico in convenzione con il Crea al corso di street art: dal laboratori di scrittura creativa ai laboratori di cucito e ricamo; dal corso di ballo alla creazione di bigiotteria fino al laboratorio di cucina, orientamento al lavoro e la mediazione culturale con il Cidis Onlus. Diverse le autorità invitate ieri per la presentazione, con concerto, della nuova area a custodia aperta tra vertici giudiziari e il sindaco di Santa Maria Capua Vetere. Apprezzato da tutti e dai cento detenuti dei reparti Nilo e Volturno ospitati nel teatro, il concerto del Gruppo Italiano di Ottoni che quale oltre ad annoverare ex docenti dell’accademia romana di Santa Cecilia è stato ospite delle migliori istituzioni concertistiche italiane, tra le quali, l’accademia Filarmonica Romana, l’istituzione Università dei Concerti, il Festival di Roma Europa, Progetto Musica 97, Nuovi Spazi Musicali ed altre realtà italiane. Diverse le attività e gli spettacoli teatrali previsti per i prossimi mesi o gli appuntamenti legati alle giornate culturali e musicali. Lo scorso gennaio, invece, come ogni anno, il carcere ha ospitato una giornata con un pranzo natalizio organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio in favore dei detenuti. Al pranzo avevano partecipato 100 detenuti (reclusi in media sicurezza) scelti tra coloro che sono più in difficoltà, perché privi del sostegno dei familiari e con scarsi mezzi economici. Non mancano i problemi, come il sottodimensionamento del personale di polizia penitenziaria o le difficoltà dell’approvvigionamento idrico soprattutto con il caldo estivo ma per quest’ultimo aspetto è già stato fatto un passo avanti dall’amministrazione comunale per velocizzare i tempi di allacciamento della rete idrica al penitenziario. Sala Consilina (Sa): nuova ipotesi di ricorso contro il decreto di soppressione del carcere di Vincenzo D’Amico Cronache dal Salernitano, 4 marzo 2018 “In questa campagna elettorale è tornato inevitabilmente l’argomento carcere e, di riflesso, anche del tribunale. Al convegno “Giustizia di Legittimità: realtà o utopia?” tenutosi il 18 febbraio si è parlato di un ulteriore ricorso al Tar contro il decreto ministeriale che ha soppresso l’Istituto Penitenziario. In quell’occasione mi permisi di suggerire che sarebbe stato opportuno sostenere il ricorso anche sul piano politico e sul piano economico, evidenziando altresì il danno subito dalla comunità di Sala Consilina da oltre 15 anni per la limitazione dell’utilizzo dell’arca di 150.000 mq. destinata al nuovo carcere approvato dal Ministero della Giustizia con una previsione di spesa di € 32.053.000”. Queste le parole del consigliere di minoranza al comune Giuseppe Colucci all’indomani della chiusura della campagna elettorale. “Sul piano politico - continua l’ex sindaco - e necessario che la Regione Campania sostenga “ad adiuvandum” il ricorso del Comune di Sala Consilina al Tar, e sul piano economico impegni concretamente la somma necessaria per l’adeguamento dell’attuale struttura, che ammonterebbe a circa 100.000 euro. Del resto la Regione Basilicata già mise a disposizione le risorse per l’adeguamento del Tribunale di Lagonegro e sicuramente lo farà per l’adeguamento del carcere di Chiaromontc o Lagonegro. per i quali necessitano risorse finanziarie da 1 milione di curo fino ad oltre 6 milioni di euro”. Il Vallo di Diano è stato un’altra volta mortificato, oltre che dagli scippi del Tribunale e del Carcere, anche dalle candidature scelte dai principali partiti, che non hanno tenuto conto di rappresentati locali “in pectore”, che avrebbero potuto ben rappresentare il nostro territorio; tra l’altro la politica locale ha avallato tale scelta, accettando supinamente le candidature, senza una decisa e visibile proposta di sostegno di un proprio candidato. In questa campagna elettorale dai caratteri spenti e sbiaditi, nessun rappresentante dei principali partiti, accreditati ad uno scranno in Parlamento, ha assunto un impegno preciso ad affrontare i problemi reali del territorio, la disoccupazione, i soprusi e scippi subiti, quali la soppressione del tribunale e la chiusura del carcere, che comunque rappresentavano non solo un baluardo di giustizia, ma soprattutto un elemento vitale per l’economia locale. Roma: “siamo gli invisibili”. Una lettera a Papa Francesco di Luigi Di Mauro* L’Osservatore Romano, 4 marzo 2018 Il Papa ha visitato nel pomeriggio del 2 marzo a Roma una casa protetta per mamme detenute con figli minori e ha ricevuto una lettera che pubblichiamo per intero. Santità, Padre caro, siamo gli invisibili. Noi siamo alcuni delle migliaia di bambine e bambini figli di genitori reclusi nelle carceri italiane che viviamo con loro in carcere o andiamo a trovarli. Noi siamo solo impronte lasciate su sudici e freddi pavimenti, dove arriviamo dopo viaggi estenuanti per incontrare o conoscere per la prima volta il nostro genitore o per crescervi nella violenza e nell’abbandono. Per difendere la dignità dei nostri genitori detenuti ci raccontano bugie facendoci credere di entrare in un collegio o in un posto di lavoro, “in un luogo dove si costruiscono torri, navi e aerei”. Ma noi lo sappiamo che in questi luoghi non volano gli aerei e non c’è il mare. I nostri genitori davanti ai nostri occhi hanno vergogna dei loro sbagli, dei loro errori. Le nostre madri davanti ai nostri occhi hanno vergogna persino di pronunciare la parola “carcere”. Per raggiungere i nostri genitori in squallide e irraggiungibili carceri sperdute nelle campagne desolate e male collegate, noi paghiamo con estenuanti viaggi in treno, con la moneta delle emozioni e delle paure. Paure che popolano i nostri incubi notturni e paure che crescono via via che ci avviciniamo al carcere. Per un abbraccio attraversiamo l’Italia su treni affollati, con le nostre mamme cariche di pacchi e di fratellini sulle braccia. Partiamo dalla Sicilia per raggiungere Milano, da Venezia per Palermo. Arriviamo stanchi e siamo costretti ad ore di attesa sotto la pioggia e al freddo, o sotto al sole cocente. Veniamo perquisiti, violentati nella nostra intimità dalle mani di adulti sconosciuti, che ci tolgono i peluche, i poveri giocattoli che sono i nostri amici, per aprirli, controllarli, a volte ci tolgono anche le mutandine per assicurarsi che le nostre mamme non vi abbiano nascosto droghe. Siamo fiori fragili nel deserto della burocrazia e delle misure di sicurezza, nell’indifferenza di adulti alienati dal brutto e dal violento lavoro. Siamo impronte sui muri scrostati, sui vetri dei banconi divisori. Per molti siamo statistiche, numeri: 4500 bambini che hanno una mamma in carcere, circa novantamila quelli che hanno un papà detenuto. Per altri siamo strumenti di propaganda, anche i nostri genitori a volte speculano su di noi. Ed ecco come, da un giorno all’altro, noi bambini entriamo in una quotidianità di silenzi, di parole dette e non dette, di luoghi e non luoghi. È come se nascessimo una seconda volta, noi diventiamo così i figli dei detenuti. E ogni giorno e in ogni posto dove andiamo, dalla scuola al quartiere dove viviamo, noi paghiamo un alto prezzo per errori mai compiuti. Siamo figli della complessità, della povertà, dell’ignoranza. Su di noi è impresso lo stigma sociale. Viviamo in solitudine con un solo genitore che non può dedicarci tempo perché lavora per mantenere la famiglia, perché deve andare dagli avvocati per difendere l’altro detenuto, o perché viviamo insieme in celle anguste e sovraffollate dove non si ha il tempo per l’amore, per crescere sereni, dove non si vive una crescita normale dove a volte non si ha nemmeno il tempo per abbracciarci. Il più delle volte veniamo abbandonati da parenti o da amici, o anche a famiglie sconosciute, a scuola siamo emarginati e dai nostri compagni allontanati. Quando svolgiamo temi o pensierini sui nostri genitori, per non essere additati raccontiamo che nostro padre lavora in paesi fantastici e lontani e nostra madre è una regina. Per difenderci diventiamo aggressivi e intrattabili, ma non siamo cattivi. Sono gli altri che ci vedono e ci vogliono così. Siamo i figli dei detenuti. Padre caro, grazie per averci oggi teso la Sua mano, ci ricordi nelle Sue preghiere a Dio, e gli chieda il perdono per i nostri genitori. Noi li amiamo nonostante tutto, per noi sono sempre i migliori, sono i nostri eroi che con un abbraccio fanno sparire tutti i mostri notturni e non li cambieremmo per tutto l’oro del mondo. Papa Francesco, noi chiediamo solo di essere riconosciuti per quello che siamo: bambini. Noi abbiamo avuto la “fortuna” di avere la mamma detenuta in una delle carceri di Roma e questo ci ha permesso di incontrare persone di amore che si occupano di noi. Uomini e donne, operatori e volontari di organizzazioni sociali che hanno per noi creato un’alternativa al carcere. Ci hanno offerto un alloggio con spazi colorati e accoglienti, dove possiamo vivere una vita più normale, andare a scuola come gli altri, giocare e vivere per tutto il tempo che le nostre mamme dovranno pagare il loro debito alla società e alla giustizia. Da anni questi uomini e queste donne lottano per garantire i nostri diritti, per assicurarci un’accoglienza più a misura di bambino, per consentirci di stare con i nostri genitori come quando si sta a casa, seduti su un divano o sul tappeto a disegnare. Ci stanno vicini, aiutano la nostra mamma a risolvere problemi, ad avere un futuro, ci educano al rispetto, tentano di fertilizzarci con quei sentimenti che ci vengono negati da altri. Noi bambini dipendiamo da voi adulti, se ci abbandonate noi siamo la paura, se ci riconoscete noi siamo l’amore. Ma noi vogliamo crescere, imparare, ascoltare e soprattutto noi vogliamo cambiare il nostro destino infame e quello dei nostri genitori. Oggi Lei, padre santo, ci copre del suo immenso amore, ci conforta con le sue carezze, ci accoglie amorevolmente nell’immensa casa di Dio. Noi preghiamo perché Dio La conservi. Noi preghiamo perché Dio Le doni la forza necessaria ad accogliere in sé i mali e le sofferenze del mondo. Tanti bambini come noi crudelmente stanno morendo nel silenzio e nell’indifferenza, nella violenza di guerre generate dall’odio e dal rancore di chi nel mondo non vuole vedere né sa amare. *Responsabile della Casa di Leda Novara: incontro sul tema “Detenuti al lavoro, riscatto e nuova inclusione sociale” kiwanis.it, 4 marzo 2018 Rosalia Marino è la direttrice della Casa circondariale di Novara e del penitenziario di Verbania dove, sino al 2014, è stata anche direttore della scuola di formazione per agenti di custodia. Una relazione, quella della Marino, che ha permesso di dare una sguardo alla realtà dall’altra parte delle sbarre. La relatrice, donna molto pragmatica, sostiene che solo il lavoro può rappresentare un’occasione di recupero sociale del detenuto e offrirgli una professionalità spendibile sul mercato del lavoro. Capire che esistono regole che vanno rispettate e imparare che le cose vanno meritate. Un percorso riabilitativo che, tra l’altro, riduce le recidive di reato. In caso contrario, tenere il carcerato a non far nulla in cella, vuol dire peggiorarne l’indole criminale. A Novara è in funzione una tipografia che riceve normali commesse di lavoro; a Verbania è nato un laboratorio di pasticceria: “La banda biscotti”, che dopo aver avuto come docenti i maestri pasticceri del novarese, ora produce e distribuisce confezioni di prodotti da forno. Sempre a Verbania è stato aperto anche un ristorante, il “Gattabuia” gestito da una cooperativa sociale che occupa anche dei carcerati. Lavoro che viene remunerato e con il quale il detenuto provvede a pagare le spese del suo mantenimento. “Ovvio - ha precisato la Marino - che non tutti i carcerati posso essere immessi nel circuito lavorativo. Dipende dal tipo di reato, dalla pena. Non possiamo certo far lavorare i condannati per associazione mafiosa, ergastolani autori di omicidi efferati, insomma soggetti che si devono tenere isolati. Men che meno farli uscire per effettuare lavori socialmente utili”. La direttrice del supercarcere ha infatti spiegato che sono state firmate intese con l’amministrazione comunale di Novara e Verbania per svolgere, volontariamente e a titolo gratuito, lavori socialmente utili affiancati ai cassintegrati, lavoratori in mobilità per interventi di bonifica, sistemazione del verde pubblico, di piccole strutture, pulizia e tinteggiatura di edifici scolastici, spesso in condizioni fatiscenti e che pure ospitano bambini. Sulla certezza della pena Rosalia Marino è stata molto chiara: non esiste! “Prendiamo una persona che ha commesso un reato condannabile a nove anni di reclusione, diciamo che l’ha fatta grossa. Il reo patteggia e ottiene lo sconto di un terzo della pena. Scende a sei anni, in carcere si comporta bene, è premiato con qualche sconto e, quando raggiunge la soglia dei tre anni da scontare, viene rilasciato”. “I penitenziari sono sovraffollati - ha proseguito la relatrice - ma non servono leggi svuota-carceri, indulti o costruire nuovi case di reclusione. In Italia il 60 per cento dei detenuti è straniero. E’ sufficiente stipulare intese bilaterali con gli altri governi. Ad esempio, un romeno che compie un reato in Italia e viene condannato da un nostro tribunale, andrà a scontare la pena in Romania, Paese che fa parte della Unione Europea. Pur pagando il “disturbo” andremmo a risparmiare, dato che un carcerato costa circa 140 euro al giorno. Non avremmo più carenze di personale e le carceri non sarebbero più sovraffollate. Purtroppo - ha concluso la dottoressa Marino - i politici assumono decisioni e varano leggi senza consultare i tecnici. E noi, che siamo al servizio della legge, abbiamo il dovere di rispettarle”. Lanciano (Ch): struttura sovraffollata e pochi agenti nel carcere chietitoday.it, 4 marzo 2018 La denuncia del Sappe: “Pronti a portare la protesta degli agenti a Roma”. Pochi agenti per una struttura sovraffollata: i poliziotti penitenziari aderenti al Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe tornano a denunciare le condizioni di lavoro nel carcere di Lanciano e si dicono pronti a portare la protesta in piazza a Roma. A spiegare le ragioni Donato Capece, segretario generale del Sappe: “Da tempo denunciamo una situazione allarmante, caratterizzata da un significativo sovraffollamento del carcere a cui si contrappone una significativa carenza di appartenenti alla Polizia Penitenziaria. Ma i problemi sono anche la precarietà dei posti di servizio e dei posti detentivi e la fatiscenza della caserma degli agenti di polizia penitenziaria, che non hanno neppure il vestiario a disposizione! A tutto questo, alle reiterate segnalazioni e denunce del Sappe, non è seguito alcun provvedimento concreto e per questo i colleghi di Lanciano sono pronti a manifestare davanti al Ministero della Giustizia ed al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria a Roma”. Il Sappe rammenta che “sono detenute a Lanciano 224 persone, di cui 65 imputati e 159 condannati. Gli stranieri in cella sono molto pochi, 21, cioè meno del 10% dei presenti. Nell’ultimo anno nel carcere di Lanciano si sono contati 19 episodi di autolesionismo, 2 tentati suicidi sventati in tempo dagli uomini della polizia penitenziaria e 28 colluttazioni, a testimoniare che si tratta di una carcere complicato sotto il profilo della gestione dell’ordine e della sicurezza interna che avviene sotto organico da parte degli agenti”. La situazione nelle carceri dell’Abruzzo Capece sottolinea le difficoltà operative della Polizia Penitenziaria in servizio nella Regione Abruzzo: “La situazione nelle carceri dell’Abruzzo, dove oggi sono detenute circa 1.890 persone rispetto ai circa 1.500 posti letto è sempre tesa ed allarmante”, denuncia. “I numeri riferiti agli eventi critici avvenuti nelle celle delle carceri abruzzesi nell’interno anno 2017 sono inquietanti: 191 atti di autolesionismo, 37 tentati suicidi, 176 colluttazioni e 60 ferimenti. Cinque sono state le morti in carcere, 4 per cause naturali ed una per suicidio in cella. i suicidi di detenuti e tre le morti in carcere per cause naturali. Le evasioni sono tate 8 a seguito della concessione di permesso premio o licenza ad internati. E la cosa grave è che questi numeri si sono concretizzati proprio quando sempre più carceri hanno introdotto la vigilanza dinamica ed il regime penitenziario ‘aperto’, ossia con i detenuti più ore al giorno liberi di girare per le Sezioni detentive con controlli sporadici ed occasionali della Polizia Penitenziaria”. Il Sappe sottolinea che “nel carcere di Teramo si è contato il più alto numero di atti di autolesionismo, 65, seguito da Pescara (59) e Vasto (29) mentre è nel penitenziario di Vasto che si è contato il maggior numero di tentati suicidi, 13, sventati in tempo dagli uomini della Polizia Penitenziaria: a seguire Teramo con 11 casi. Quello di Teramo è anche è il penitenziario che ha anche il record regionale di colluttazioni (59) e ferimenti (52)”. Grosseto: “carcere nuovo e marchio locale” di Francesca Ferri Il Tirreno, 4 marzo 2018 Alla vigilia della chiusura del tour elettorale, Fabrizio Rossi e Giovanni Donzelli, candidati a Senato e Camera per Fratelli d’Italia, tornano a Grosseto e tirano la riga delle loro proposte, concentrandosi sul territorio. Quattro le promesse che spiccano nel programma: la costruzione di un nuovo carcere da 150 posti a Grosseto, la messa in sicurezza della rete viaria e l’impegno per la Tirrenica, la creazione di un marchio MiM - Made in Maremma per la valorizzazione dei prodotti locali, l’uscita dalla Bolkestein. “Il carcere di Grosseto è obsoleto e nel cuore del centro storico - dice Rossi -. Il nostro proposito è di costruirne uno nuovo da 100-150 posti, accorpando quello di Massa Marittima. Dal governo Letta in poi è stato un susseguirsi di leggi svuota carceri e di inaccettabili automatismi di sconto di pena. Le carceri vanno costruite, non chiuse. Per noi la sicurezza dei cittadini passa prima di tutto dalla certezza della pena e non dalle sanatorie e dall’indulgenza che in questi anni hanno caratterizzato le politiche della sinistra”. Il carcere grossetano, che può ospitare una trentina di detenuti, da tempo è nella lista delle strutture da smantellare. Nel 2013 il ministero della giustizia ne annunciò l’imminente chiusura. Rossi ipotizza la nuova struttura sempre in città, ma fuori dal centro, “uno spazio di 5, 6 ettari”. Il costo stimato? “Venti o 30 milioni di euro” dice Donzelli, che sarebbero “fondi statali ed europei”. “Il carcere dismesso di via Saffi potrebbe essere messo a disposizione di chi vuole investirci, oppure ospitare altri tipi di attività”, dice Rossi. Da tempo il vicino Museo di Storia Naturale della Maremma culla l’idea di allargare i suoi locali, un’ipotesi che Rossi non scarta. Per le infrastrutture “non si può più indugiare - hanno aggiunto gli esponenti di Fratelli d’Italia - questo territorio ha bisogno di un rafforzamento delle infrastrutture stradali e aeroportuali”. Per la valorizzazione dei prodotti, Rossi e Donzelli promettono di creare un marchio di riconoscimento di quanto realizzato in Maremma, non solo nell’agroalimentare. “L’obiettivo - spiegano - è tutelare le peculiarità locali dall’assalto straniero dei surrogati low cost - dicono Donzelli e Rossi -. La Maremma è conosciuta in tutto il mondo ed è necessario sfruttare al meglio le sue potenzialità”. Quanto alla direttiva Bolkestein, l’obiettivo è di sottrarre gli ambulanti all’obbligo di osservarla, “come hanno fatto Spagna e Portogallo”, dicono Donzelli e Rossi. Taranto: i dipendenti “civili” del carcere protestano in Prefettura cronachetarantine.it, 4 marzo 2018 Si è svolta ieri la vibrante protesta dei dipendenti del carcere di Taranto, che da tempo lamentano scarsità di personale e la mancanza di zone dedicate, all’interno della casa circondariale, per quei detenuti affetti da problemi psichiatrici. Al termine della protesta, susseguente ad un incontro col Prefetto di Taranto, sono state rilasciate alcune dichiarazioni da parte di Lorenzo Caldaraio, rappresentante Fp-Cgil: “Il Prefetto di Taranto ha assunto un impegno, per i lavoratori del carcere e per la popolazione carceraria, che consideriamo soddisfacente. Attediamo ora che le sollecitazioni giunte da parte del rappresentante di governo si possano tramutare in impegni concreti. Abbiamo rappresentato al Prefetto Cafagna - ha continuato il rappresentante della Cgil - una condizione di assoluta precarietà all’interno di una struttura che per definizione avrebbe il compito di rieducare alla legalità e al rispetto dello Stato, mentre paradossalmente proprio all’interno paga il dazio di politiche di settore assolutamente inefficienti. Venti dipendenti civili infatti assicurerebbero attività di tipo amministrativo, educativo e tecnico in una struttura che a fronte di una capienza di detenuti prevista di 350 persone, in realtà ne ospita circa 530. Il Prefetto investirà in queste ore la stessa direzione del Carcere, ma anche i provveditorati regionale e nazionale e il Ministero di Grazia e Giustizia”. Milano: lo scrittore Gianni Biondillo a Bollate “io, in carcere contro i pregiudizi” di Stefania Consenti Il Giorno, 4 marzo 2018 Ci sono storie che altrimenti non verrebbero raccontate. E che invece si dischiudono, acquistano dignità, vengono raccolte, incoraggiate da parte di chi per mestiere le inventa, queste storie. Gianni Biondillo, scrittore, ha le orecchie pronte e il cuore aperto per ascoltare “i perché” dei detenuti di Bollate, progetto promosso dall’associazione “L’Arte di vivere con Lentezza” e sostenuto da Mediobanca, in occasione di Tempo di libri che apre i battenti dall’ 8 al 12 marzo. Ideato per le scuole e incentrato su Dino Buzzati, coinvolge pure cinque istituti penitenziari. A Bollate, il 21 marzo, l’aspettano trenta detenuti, alcuni con condanne pesanti. Molti hanno letto i suoi libri “Nelle mani di Dio” e “L’Africa non esiste”, è pronto a portare la cultura in carcere? “Sono anni che entro ed esco dal carcere.... no, a parte gli scherzi, sento che è un dovere civico. Anche per le cose che scrivo, racconto continuamente il mio territorio, e non posso far finta che nella mia città ci sono cittadini che vivono una condizione di carcerati. Alcune storie nei miei romanzi sono vere, di persone ai margini, storie che ho incontrato per ragioni autobiografiche, per dove ho vissuto, per dove vivo. Supererò quelle sbarre ed entrerò in carcere in maniera umile: non vado a pontificare. Non ho certezze, anzi vado a chiedere loro risposte”. Cosa la colpisce di queste domande? “Sono di incredibile maturità e consapevolezza. Mi fanno venire i brividi”. Perché non si riesce a superare il pregiudizio, chiedono? “Viviamo in una società che ha fatto del pregiudizio la sua cifra politica. Viviamo di luoghi comuni, ci fanno comodo. Siamo tutti dentro la prigione dei nostri luoghi comuni, spesso chi vive dietro le sbarre li ha verso il mondo esterno”. Si legge poco e i giovani amano stare sui social... “Non vedo i miei figli succubi degli strumenti tecnologici, non è tutto negativo o positivo ciò che viene dalla tecnologia. Dipende dalla proposta educativa di famiglia, scuola e società. Secondo me è più complicato leggere un libro...che usare i telefonini”. Da qui discende che... “Per essere critici bisogna comprendere la complessità che ci circonda senza cercare inutili scorciatoie. Ci rifugiamo nelle province mentali, abbiamo sempre bisogno di qualcuno che ci dica cosa fare”. Povertà e riscatto sono i temi forti sollevati dai detenuti. “Sono cresciuto in una famiglia numerosa, a Quarto Oggiaro, so cos’è l’emarginazione. L’ho vissuta sulla mia pelle, solo attraversare il ponte andare nella città, diciamo un po’ più borghese... mi portavo dietro i miei pregiudizi e i miei vincoli mentali, avevo il terrore di raccontare in quale quartiere abitavo perché rischiavo subito una ghettizzazione automatica. I libri mi hanno salvato! Per troppo tempo abbiamo sacralizzato l’oggetto libro mentre oggi finalmente veicoliamo una cultura più domestica e solo così riusciremo ad abbattere le barriere. Anche in carcere”. Eboli (Sa): i detenuti dell’Icatt incontrano gli studenti di Nocera Inferiore di Filippo Folliero La Città di Salerno, 4 marzo 2018 “Vivete la vostra vita, non sprecatela”. È questo il messaggio dei detenuti dell’Icatt di Eboli durante l’incontro con gli studenti della scuola “Fresa-Pascoli” di Nocera Inferiore avvenuto lunedì. Sono stati Giampaolo, Francesco, Massimo e Bartolomeo i quattro detenuti che hanno partecipato all’incontro organizzato dalla professoressa Marianna Giugliano e dalla direttrice dell’Icatt, Rita Romano, che già da tempo sta portando avanti quest’idea innovativa di “conoscenza” tra detenuti e scolaresche con il progetto “Pusher di Cultura”. Presente all’incontro anche il preside della scuola “Fresa-Pascoli”, il dirigente Michele Cirino. Il tutto si è svolto in un clima di emozione e commozione generale, dove i detenuti hanno raccontato le loro storie cercando di far capire ai ragazzi gli errori da non commettere nella vita: “Mia figlia ha compiuto diciott’anni senza di me. Mio figlio si è operato, io non c’ero. Quante cose mi sono perso. Ragazzi la vita è una. Il tempo non si recupera, non sprecatelo”, ha raccontato uno dei ragazzi di Eboli. Sia i detenuti che gli studenti e i professori, si sono emozionati nel raccontare e nell’ascoltare le esperienze che hanno privato i quattro ospiti dell’Icatt dei veri valori della vita e dell’affetto dei cari lasciati senza poter avere più notizie. “Noi che lavoriamo in carcere viviamo una grande frustrazione - spiega la direttrice del penitenziario, Rita Romano - quella di lavorare tanto insieme ai detenuti per far capire che c’è un’altra strada. Ma quando li lasciamo andare, quanto resisteranno senza lavoro prima che tornino a delinquere? Se dovessero tornare in prigione io non mi scandalizzerei come fanno tanti benpensanti. Siamo tutti coinvolti e sarà colpa anche nostra”. “Diario di una giudice. I miei cinquant’anni in magistratura”, di Gabriella Luccioli intervista a cura di Luigi Ferrarella La Lettura, 4 marzo 2018 Gabriella Luccioli ha contribuito a riscrivere il diritto di famiglia e il biodiritto. È stata la prima a vincere il concorso, la prima giudice in Cassazione, la prima presidente di sezione, eppure... “siamo il 52% ma una sola al Csm su 16 membri. E le giovani aspiranti toghe sembrano poco motivate sulle pari opportunità”. In queste pagine proponiamo altre tre prime volte: la prima donna in magistratura nel concorso che nel 1965 vide solo altre sette vincitrici, prima giudice in Cassazione nel 1988, prima donna ad essere nominata presidente di una sezione della Corte di Cassazione nel 2008, prima donna entrata in valutazione nel 2013 per la presidenza della Suprema Corte. E pensare che tutto iniziò, al giuramento, con il procuratore generale che evocava un filosofo ottocentesco del diritto inneggiante alle donne come esseri antropologicamente inclini al ricamo e al cucito, e auspicava che i danni dell’ingresso delle donne in magistratura fossero limitati alla giustizia minorile. Gabriella Luccioli - autrice di “Diario di una giudice. I miei cinquant’anni in magistratura”, giudice civile che con sentenze come quella su Eluana Englaro o sull’affido di bambini a coppie omosessuali ha contribuito a riscrivere il diritto di famiglia e il biodiritto - si indispettisce di più o si appassiona di più quando ancora le si domanda se esista una specificità di genere nel lavoro delle donne in magistratura? “Certo che sì, resto convinta dell’importanza di riconoscere che esista uno specifico di genere: solo che, nel nostro ambiente, resta un concetto difficile da digerire perché ci si trincera dietro il principio di parità formale (ovviamente non in discussione) per ignorare però quanto di differente e di autentico possa portare l’esperienza femminile. Non in termini di contrapposizione ma di arricchimento”. Di quali valori aggiunti? “Di esperienze, tempi di vita, rapporti di famiglia, atteggiamento meno competitivo, attitudine al lavoro più come servizio che come potere”. È stata discriminata sul lavoro? “Direi di no. Atteggiamenti paternalistici sì, anche diffidenze, posizioni d’attesa, curiosità di conoscere che cosa sapessi fare. Ma discriminazioni vere e proprie, no. Era comunque sempre un cammino tutto in salita, con la tensione di non poter sbagliare mai”. E le giovani magistrato di oggi? “È tutto cambiato: nel mio concorso otto donne, gli ultimi concorsi sono stati vinti circa al 60% da donne, e complessivamente in magistratura le donne sono oltre il 52%”. Pagano ancora l’essere donna? “Come tutte, anche quelle che fanno il magistrato si trovano a dover affrontare un carico prevalente nella cura dei figli, e a conciliare lavoro e famiglia. Ad esempio, nel caso dei giudici civili come me, che dunque scrivono per lo più a casa le loro sentenze, si tratta di far capire ai figli che, anche quando la mamma è a casa, se sta a casa per scrivere le sentenze è come se non ci fosse...”. Pur se aumentate negli anni, sono però ancora poche le dirigenti. “Per non parlare degli incarichi nelle posizioni apicali della magistratura. Basti pensare che sono stati appena rinnovati di recente i vertici della Cassazione e della Procura generale della stessa Corte, eppure, tra primo presidente e presidente aggiunto, tra procuratore generale e procuratore generale aggiunto, non c’è neanche una donna. L’unico piccolo passo è stato la prima volta di una donna al vertice del Tribunale Superiore delle Acque”. Donatella Stasio, autrice della postfazione al suo libro, scrive che l’essere donna (insieme all’ostracismo procuratole in alcuni ambienti da decisioni come la sentenza Englaro) le costò la presidenza della Cassazione quando fu in lizza nel 2013. “Non ne parlo volentieri, ci furono tante ragioni, forse tra esse il non essere adeguatamente sostenuta da alcuna corrente. Ma sicuramente influì anche l’essere donna: del resto ricordo che all’epoca il presidente uscente della Cassazione, Lupo, membro di diritto del Csm, a proposito di quella delibera fece riferimento esplicito al pregiudizio di genere”. Quindi propugna le quote rosa. “Ma vi sembra normale che nell’attuale consiliatura del Consiglio superiore della magistratura, su 16 membri togati (cioè eletti dai magistrati), vi sia una sola donna? Può mai considerarsi rappresentativo della magistratura un organo di autogoverno con una così marcata lacuna nella composizione? Nella commissione Scotti, istituita dal ministro Orlando per una possibile riforma del Csm, non si è approdati a una specifica proposta sul punto. In Parlamento c’è stata una proposta di legge dell’onorevole Ferranti, la doppia preferenza di genere nelle elezioni del Csm, ma con la fine della legislatura non se ne è fatto più niente. In ambito non istituzionale ma associativo, l’Anm anni fa ha previsto una percentuale di almeno il 30% nei propri organi direttivi, e qualcosa di analogo hanno introdotto alcune correnti. Del resto la legge Golfo-Mosca del 2011 ha fatto salire la presenza femminile nei consigli di amministrazione e nei collegi sindacali delle società quotate dal 12% al 23%. Altrimenti, se non si introducono le quote di risultato, quantomeno per un periodo temporaneo, temo bisognerà aspettare so anni perché una categoria che ha più del 52% di donne esprima anche in seno al Csm metà dei componenti donne”. Anche per questo fondò l’Associazione donne magistrato italiane? “Nata alla fine del 1990 dall’osservazione dell’esperienza americana, negli anni è stata determinante (oltre a spingere a introdurre i comitati per le pari opportunità) nell’approvazione di due leggi: sugli “ordini di protezione contro gli abusi familiari”, a imitazione proprio di Usa e Canada; e sui “magistrati distrettuali”, cioè quelli che vanno a sostituire le toghe in congedo dagli uffici per lunghi periodi, come ad esempio la maternità”. Certo che, tra le aspiranti borsiste dei corsi del docente Bellomo per il concorso, a giudicare dalle loro (non) reazioni alle (lunari) pretese del consigliere di Stato, non è parso di scorgere tante nuove Luccioli. “Vero, ma ho paura che questa osservazione, pur esatta, rischi di far guardare il dito e non la luna: che mi sembra, invece, l’esasperata strumentalizzazione del potere, fin quasi alle soglie del ricatto. Oggi vincere il concorso è diventato molto difficile, ci si impiega molto più tempo, si entra in magistratura molto più tardi (in media dopo i 30 anni): e già solo l’apparenza che qualcuno ti possa aiutare a passarlo, forse, può indebolire la capacità critica e di resistenza”. Però la sensazione è che, paradossalmente, proprio le giovani toghe siano meno sensibili ai temi che voi “pioniere”, entrate dopo che nel 1960 la Consulta dichiarò incostituzionale la legge del 1919 che escludeva le donne, avevate sviluppato. “In effetti è molto difficile coinvolgere le più giovani. Spesso sembrano così appagate dall’aver finalmente e faticosamente conquistato quella toga (sotto la quale pensano di dover annullare o dimenticare la propria specificità) che avvertono quasi come un passo indietro, anziché come un passo avanti, l’idea che essere giudice donna sia un valore da rivendicare, e non una condizione da occultare”. Il vento dell’odio di Umberto Gentiloni La Repubblica, 4 marzo 2018 Segnalare con un adesivo le residenze degli antifascisti in una città. Varcare il limite della riservatezza, della tranquillità di case e percorsi familiari. Una minaccia diretta che punta a dividere, discriminare, sottolineando differenze non componibili. Le parole sono pietre, segnano le culture, vengono trasmesse, modificate o comunicate in contesti diversi. Il passato è pieno di esempi di atti pubblici che usano le parole per offendere, mettere sulla difensiva. Il primo passo è quello di marcare una differenza, additare in pubblico un’identità altra e quindi pericolosa. Sembra un destino che si ripete: come i cartelli sui negozi degli ebrei, le scritte contro gli african american o i sudafricani di colore. Come si può cercare ancora di distinguere e marcare identità, appartenenze, convinzioni e idee? Sembra un brutto sogno, un film che dal passato riemerge pericoloso. Ma questa volta il messaggio è più profondo, porta con sé un cambio di significato per termini e culture che hanno accompagnato il dopoguerra della Repubblica italiana. Due i piani di lettura. Uno riguarda il significato della parola, il peso semantico dell’antifascismo che contiene e trasmette una parabola positiva che affonda le radici nella storia del Paese, nella fine della dittatura e nelle premesse costitutive della stagione successiva al 1945. È come se si volesse interrompere l’eredità di un cammino: l’antifascismo ha segnato generazioni d’italiani, ha contenuto differenze insopprimibili, ha favorito la costruzione di un’architettura comune. Sembrerebbe scontato richiamarne il valore fondante, la carica costituente, il risvolto inclusivo di una tensione continua. Eppure nulla è scontato nel nostro tempo. Le parole hanno bisogno di essere utilizzate con attenzione, serietà, rigore. Troppo spesso il ricorso al fascismo diventa una denuncia indistinta che accomuna situazioni e contesti distanti tra loro. E sull’altro versante l’antifascismo costituzionale non può essere considerato un arcaico richiamo a stagioni lontane. La forza di una democrazia è quella di misurare le parole, collocarle nello spazio e nel tempo dando loro un senso conseguente. Si arriva fino al punto di rovesciare il significato dell’antifascismo come se fosse la premessa di un comportamento inaccettabile, la base di un’identità da estirpare, il seme di una divisione tra culture. La storia ci mette in guardia, il vento dell’odio rischia di unire parole e gesti, proclami e azioni. Non sarebbe la prima volta. Non è mai troppo tardi per opporsi, prendere le distanze: un gesto, una dichiarazione, un richiamo al terreno condiviso di un cammino comune che possa sconfiggere tanto le parole dell’odio quanto l’indifferenza che può sostenerle. Turchia. Associazione dei Diritti Umani: “1.154 detenuti malati, 402 in gravi condizioni” uikionlus.com, 4 marzo 2018 La commissione carceri di Ihd (Associazione dei Diritti Umani) ha annunciato che ci sono 1154 detenuti malati nelle carceri in Turchia, 402 dei quali sono in gravi condizioni, e che ai detenuti deve essere garantito il diritto di accesso alle cure mediche. La commissione ha richiamato l’attenzione sulle violazioni dei diritti e ha chiesto un’indagine completa sulla violazione dei diritti, in primo luogo la tortura e le accuse di abusi, e di un’azione legale contro coloro ne siano responsabili. Condizioni che minacciano l’integrità fisica e mentale - Secondo l’articolo dell’agenzia Mesopotamia, la vice segretaria generale con l’incarico delle carceri Necla Sengül e la l’esponente della commissione centrale delle carceri Nehir Bilece hanno rilasciato una dichiarazione in materia nella sede di Ihd di Izmir. Affermando che ci sono 1154 detenuti malati, 402 dei quali in gravi condizioni sulla lista dei detenuti malati di IHD, Necla Sengül ha articolato le la richiesta immediata di rilascio dei 402 detenuti. Rilevando anche la necessità degli altri detenuti di ricevere cure il più presto possibile, Sengül ha affermato anche che questi dovrebbero rientrare nella categoria dei gravemente malati finché non vengono curati. Le condizioni del carcere minacciano l’integrità fisica e mentale dei detenuti ha affermato Nehir Bilece. Secondo le informazioni fornite dal Ministero della Giustizia il 2 novembre 2017, ci sono 228.993 detenuti arrestati/condannati in carcere, ra riferito Bilece, e ha affermato che ci sono 386 carceri in Turchia con una capacità totale di 208.830. “Questo significa che ci sono 20.000 detenuti che dormono in terra” ha affermato Bilece. Egitto. “Regeni un ricordo, con Renzi e Eni salvati i rapporti Italia-Egitto” di Pino Dragoni Il Manifesto, 4 marzo 2018 Le dichiarazioni dell’ex ambasciatore del Cairo a Roma Helmy svelano i retroscena delle relazioni tra i due paesi, mai in pericolo. L’appoggio italiano ad al-Sisi si concretizza fin dal golpe con la cancellazione del divieto all’esportazione di armi e camionette per la polizia egiziana. Non vuole parlare dell’omicidio di Giulio Regeni, per non rievocare “ricordi dolorosi” e la “profonda ferita” nelle relazioni tra i due paesi, che da poco “ha cominciato a guarire”. È questa la premessa dell’ex ambasciatore egiziano a Roma, Amr Helmy, nella lunga intervista concessa il 28 febbraio al quotidiano al-Youm al-Sabea. Un bilancio dei suoi quattro anni in Italia che fa luce su alcuni retroscena interessanti della politica estera italiana verso l’Egitto. Helmy, una lunga carriera diplomatica alle spalle, nominato ambasciatore in Italia nel marzo 2013, ha attraversato una fase piuttosto complicata delle relazioni italo-egiziane, ma oggi si compiace dei “successi” ottenuti. Nell’intervista il diplomatico ripete ossessivamente la teoria secondo cui una cospirazione di Paesi mediorientali avrebbe tentato di minare le relazioni strategiche tra Italia ed Egitto, prima con la bomba al consolato italiano nel luglio 2015 e poi sfruttando politicamente “il caso dello studente Giulio Regeni”. L’obiettivo del complotto, afferma Helmy, sarebbe stato il rapporto tra Eni ed Egitto e in particolare lo sviluppo del giacimento di Zohr, scoperto ad agosto 2015 e capace di ripagare Eni di anni di lavoro e miliardi di euro investiti. Il giacimento di gas naturale è il più grande del Mediterraneo e una delle maggiori scoperte degli ultimi dieci anni: entrato in funzione a dicembre 2017 con sei mesi di anticipo rispetto ai tempi attesi, è oggi il fiore all’occhiello di Eni. E proprio Eni avrebbe giocato un ruolo decisivo nel salvare i rapporti tra Italia ed Egitto, continuando a lavorare alacremente allo sviluppo di Zohr e facendo così fallire il presunto tentativo di sabotaggio di “alcuni Paesi”, che a un certo punto avrebbe seriamente messo a rischio la concessione del colosso petrolifero italiano. Helmy ricorda i suoi numerosi incontri con l’amministratore delegato Descalzi, che lo avrebbe sempre rassicurato dell’impegno a proseguire le operazioni di sviluppo dei giacimenti, a cui l’Egitto ha collaborato realizzando in tempi record le infrastrutture necessarie. Oggi l’Egitto grazie a Zohr può diventare una “potenza energetica” regionale, un hub del gas per il Mediterraneo, afferma Helmy con orgoglio. Il sogno è tornare a essere un esportatore di gas, anche se una recente inchiesta della piattaforma indipendente Mada Masr mette in dubbio queste previsioni, che non terrebbero conto del fabbisogno egiziano di gas. Ma la parte più interessante dell’intervista riguarda la politica italiana. Helmy ammette che i rapporti con l’Italia non sono sempre stati così idilliaci negli ultimi anni. Punta il dito contro il governo Letta e l’allora ministro degli Esteri Bonino, che avevano accolto in modo poco amichevole il colpo di stato del luglio 2013, con cui l’esercito aveva deposto il presidente eletto Morsi. Il governo italiano era troppo “condizionato” dalla posizione degli altri paesi europei, ma già da allora, continua Helmy, “i servizi di sicurezza italiani, alcune importanti personalità politiche e alcuni leader di partito esterni al governo” erano consapevoli del rischio che un Egitto guidato dalla Fratellanza Musulmana potesse diventare un “nuovo Iran”. E spingevano per un cambio di passo nelle relazioni bilaterali. Tutto cambia, aggiunge Helmy, con l’arrivo di Renzi nel febbraio 2014. Nel loro primo incontro Mogherini, nuova titolare degli Esteri, avrebbe rassicurato pienamente l’ambasciatore: “Dimentica il passato. Da oggi l’Egitto avrà l’appoggio politico ed economico dell’Italia”. E infatti da allora è un susseguirsi di missioni ufficiali di ministri al Cairo, due della stessa Mogherini, una di Alfano e una del ministro della Difesa Pinotti, che prepareranno la visita di al-Sisi a Roma nel novembre 2014, primo viaggio europeo del presidente eletto con il 97% dei voti. L’apertura dell’Italia si concretizza da subito con la cancellazione del divieto all’esportazione di armi e camionette anti-sommossa per la polizia egiziana. Da lì è un susseguirsi di intese e scambi di delegazioni commerciali di alto livello. Compresa quella arrivata al Cairo quel 3 febbraio 2016, che stappava bottiglie mentre il corpo martoriato di Giulio Regeni veniva ritrovato sul bordo di un’autostrada a poca distanza. Slovacchia. Omicidio Kuciak, rilasciati i sette calabresi di Jacub Hornacek Il Manifesto, 4 marzo 2018 La polizia non ha prove e scarcera gli imprenditori italiani. Nel giorno del funerale del giovane giornalista ucciso, il governo perde un altro pezzo, si dimette anche il capo di gabinetto. Nella notte tra venerdì e sabato sono stati rilasciati i sette imprenditori calabresi tirati in ballo nel doppio omicidio del giornalista Jan Kuciak e della fidanzata. A quanto pare, la polizia non è riuscita a raccogliere prove o indizi sufficienti per prolungare il fermo di 48 ore. “Nei termini concessi dalla legge gli inquirenti hanno indagato e verificato i fatti necessari per emettere una messa sotto accusa” informa sul suo portale la polizia slovacca. L’ipotesi circolata sui media di un eventuale coinvolgimento della ‘ndrangheta calabrese per ora non è stata suffragata. L’unico collegamento tra il doppio omicidio e i calabresi è l’ultimo articolo, non completato, di Kuciak sugli affari poco leciti degli imprenditori calabresi nella parte orientale del Paese. Intanto tra le autorità italiane e slovacche scoppia la polemica sul flusso di informazioni e sulle parole del procuratore di Reggio Calabria Gaetano Paci. Secondo Paci la Dda calabrese avrebbe inviato alle autorità slovacche informazioni su alcuni degli italiani finiti nel mirino per l’omicidio Kuciak. La polizia e la procura generale slovacche però negano di aver mai ricevuto segnalazioni dall’Italia. “Ogni informazione avuta dall’Italia è partita su nostra iniziativa - ha sottolineato il capo della polizia Tibor Gašpár - La parte italiana ha risposto con molta lentezza alle nostre richieste”. Gašpár ha anche annunciato che il team investigativo segue una nuova pista. Il governo è in difficoltà e perde un altro pezzo. Ieri ha annunciato le dimissioni Roman Sipos, che dal 2015 era capo di gabinetto del premier Robert Fico. Mentre continua lo scontro sul ministro degli Interni Robert Kalinák, che gode del sostegno del suo partito Smer-Sd (Direzione-Socialdemocrazia) e del premier. Il diretto interessato è intervenuto in tv per dire che rimane al suo posto: “Il mio compito è garantire il completamento delle indagini”. La questione spacca il partner di coalizione, il partito centrista ungherese Most-Híd che ha convocato una direzione nazionale per il 12 marzo per decidere come procedere sul caso. Per oggi è atteso il messaggio tv del presidente Andrej Kiska, cui seguirà quello di Fico. Ieri è stato anche il giorno dei funerali di Jan Kuciak celebrati nella sua città natale, Štiavnik pri Bytci. La piccola chiesa della cittadina di quattro mila abitanti sul confine con la Repubblica Ceca era gremita di abitanti e di molta gente venuta da fuori per salutare per l’ultima volta il giornalista. Non c’era nessuna autorità. I funerali di Martina Kušnirová sono stati celebrati invece venerdì, nella cittadina natale di Gregorovci nell’est della Slovacchia. Medio Oriente. Cadaveri, bulldozer, vendette: Raqqa e Mosul dopo l’Isis di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 4 marzo 2018 Tra le macerie, i corpi dei sunniti fedeli al “Califfato” uccisi dagli sciiti. E poi la paura del futuro: “Manca il lavoro e questi vestiti bagnati sono gli unici che abbiamo”. I cadaveri sono ammonticchiati gli uni sugli altri, strato su strato, nella stanza semidiroccata. Un miscuglio confuso di arti anneriti dalla decomposizione, volti diventati quasi teschi, resti di dita rattrappite. Alcuni ancora riconoscibili, sebbene siano trascorsi circa sette mesi dal massacro. Si vedono un paio di bambini. Forse una donna dai lunghi capelli impolverati. Però in grande maggioranza sono uomini giovani in mimetica. Per lo più calzano sandali. “Vittime di Isis, civili che cercavano di attraversare il Tigri per sfuggire ai bombardamenti”, riporta la versione ufficiale fornita dalle autorità irachene. La narrativa dei vincitori. Ma la realtà è più complicata. Questi morti di fronte a noi raggiunti camminando tra macerie instabili sono i risultati delle vendette-rappresaglie contro Isis consumate per lo più dalle “Hash al Shaabi”, che significa “Forze di Mobilitazione Popolare”, come vengono chiamate le milizie sciite inquadrate con le unità militari regolari dell’esercito iracheno. “Abbiamo trovato questi corpi nei quartieri di Shehawan e Meidan, lungo il fiume, evacuati nelle ultime tre settimane proprio dalle milizie sciite”, ci raccontano gli abitanti sunniti del posto. Quanti morti? Difficile dire. Solo al piano terra tra i resti pericolanti di una palazzina di due piani se ne vedono decine, l’olezzo è insopportabile: “Tra 72 e 120”, ci dicono. Tutto attorno, cercando con attenzione, se ne vedono altri. A detta di Daud Salem Mahmoud, volontario delle squadre della municipalità incontrato sul posto, i cadaveri dei militanti di Isis e delle loro famiglie recuperati qui da luglio sono “oltre tremila” e tanti sono ancora da trovare. È parte del grande problema di Mosul. A sette mesi dalla caduta della roccaforte di Isis in Iraq, la città rimane nettamente divisa in due parti. Nei quartieri a oriente del fiume Tigri le distruzioni sono contenute, la vita sta normalizzandosi. Ma a ovest, dove stanno il cuore della cittadella medioevale e la moschea Al Nouri nella quale Abu Bakr al Baghdadi si auto proclamò Califfo nel 2014, regnano desolazione e morte. Il nucleo urbano è annientato, al suo posto montagne di macerie maleodoranti cosparse di ordigni inesplosi. Ci siamo tornati dopo essere stati pochi giorni fa anche a Raqqa, la capitale siriana dell’Isis sull’Eufrate, catturata dalle milizie curde sostenute dagli americani attorno al 20 ottobre. Due città molto diverse tra loro. Mosul una metropoli con oltre due milioni di abitanti, metà della quale oggi resta morta, foriera di violenze. Raqqa anch’essa pesantemente danneggiata, però molto più piccola (solo 220 mila abitanti prima del 2014), ora cerca di rinascere. Qui le pattuglie curde siriane controllano gli accessi al perimetro urbano. Le loro forze stanno adesso combattendo lungo l’Eufrate a ridosso del confine iracheno, valutano che circa 5 mila irriducibili dell’Isis, in maggioranza stranieri, siano attestati in due grandi sacche. Ma dentro Raqqa stanno milizie arabe locali loro alleate, almeno per ora. “Circa il 60 per cento delle abitazioni è stato distrutto o danneggiato. Ma non arriva alcun aiuto. È tornata circa metà della popolazione”, ci dice Ahmad Ibrahim, il 29enne sindaco nominato dai curdi. L’unico progresso evidente da quando avevamo visto Raqqa nei giorni della sconfitta di Isis sono le strade per lo più sgombre dalle macerie. Alcuni medici locali cercano di rimettere in sesto un paio di cliniche. Chi può si adatta, ripara la casa da solo, bivacca tra le rovine. Ma mancano acqua ed elettricità: di notte trionfano buio e silenzio. Non ci sono le agenzie Onu o le organizzazioni umanitarie e il governo siriano deve ancora negoziare il futuro della città con i curdi. A Mosul ovest la situazione è però ancora più complessa. “Temiamo violenze con l’approssimarsi delle elezioni nazionali del prossimo 12 maggio. Sono stati gli stessi militari e i capi della polizia inviati da Bagdad a consigliarci la massima prudenza. La tensione politica tra partiti sciiti e sunniti rischia di rallentare qualsiasi ricostruzione”, confessa Orfan Nuaemi, direttore della “Rnvdo”, una agenzia umanitaria locale che è tra le pochissime a operare nella zona. Quando un suo bulldozer ha iniziato farsi strada tra le macerie abbiamo visto due famiglie scavare a mani nude tra i calcinacci per recuperare coperte, vecchie fotografie, sacchi di vestiti. “Non abbiamo alcun genere di aiuto. Manca lavoro e dobbiamo affittare un stanza nelle zone orientali. Questi vestiti bagnati sono gli unici che abbiamo”, dice Achmed Baathi, 32 anni mentre mostra una sua vecchia foto appena raccolta in cui sorride vicino alla sua botteguccia di generi alimentari. Dice: “Quattro anni fa ero ricco con il mio negozio ed un automobile. Non ho più nulla”. L’università di Mosul è devastata, le sue facoltà sono state spostate nei vecchi palazzi di Saddam Hussein. Vi si tiene una conferenza sulla ricostruzione. Ma il 64enne Mowafak al Layla, professore di statistica, è scettico: “In città dominano le milizie sciite. Non mancano cellule dormienti di Isis pronte a colpire. Ci sono caos, sporcizia, il risentimento è forte. Il futuro ci fa paura”.