Affidamento in prova, la Consulta arriva prima della riforma di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 marzo 2018 I giudici si sono espressi sulla questione sollevata dal Tribunale di Lecce in riferimento alla norma del 2013 che estende il beneficio, per taluni casi, anche a coloro i quali hanno ottenuto una condanna sino a 4 anni. La Corte costituzionale arriva prima della riforma dell’ordinamento penitenziario: è possibile ottenere l’affidamento in prova fino a una pena di quattro anni. Secondo i giudici della Consulta chi deve scontare una pena, anche residua, fino a 4 anni di carcere, ha quindi diritto alla sospensione dell’ordine di esecuzione allo scopo di chiedere e ottenere l’affidamento in prova ai servizi sociali, nella versione “allargata” introdotta dal legislatore nel 2013. È quindi incostituzionale il quinto comma dell’articolo 656 del Codice di procedura penale, che prevede la sospensione solo per pene fino a 3 anni. A sollevare la questione di legittimità costituzionale è stato il tribunale di Lecce il 13 marzo dell’anno scorso. La vicenda trae origine da una richiesta di sospensione dell’ordine di carcerazione emesso nei confronti di un soggetto condannato ad una pena detentiva di quattro anni di reclusione con riferimento al quale era stato notificato un ordine di esecuzione senza sospensione, stante il tenore dell’art. 656 comma 5 secondo il quale “se la pena detentiva non è superiore a tre anni” il pubblico ministero ne sospende l’esecuzione. La difesa chiedeva al giudice di dare alla disposizione un’interpretazione costituzionalmente orientata (nel senso di adeguarla al nuovo assetto normativo in tema di affidamento in prova ai servizi sociali) o, in subordine, di sollevare la questione di legittimità costituzionale. Si faceva, infatti, presente che con la nota legge “svuota- carceri” del 2013 il beneficio di usufruire della misura alternativa alla pena detentiva dell’affidamento in prova al servizio sociale era stato esteso, per taluni casi, anche a coloro i quali hanno ottenuto una condanna sino a 4 anni e pertanto, a rigor di logica, la sospensione dell’esecuzione dovrebbe essere riconosciuta anche a questi ultimi estendendo, di fatto, il beneficio di cui all’art. 656 comma 5 del codice penale. A sostegno di tale tesi avevano prodotto anche un parere del Csm, reso sul testo del decreto legge riguardante le misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria, che, sebbene non rappresenti una fonte, tuttavia, è indicativo di un’esigenza di coordinamento, con cui si faceva presente che: “ragioni di coerenza sistematica potrebbero suggerire l’allineamento tra le previsioni del riformato art. 47 Ord. Pen. e quelle dell’art. 656, comma 5, c. p. p. in tema di sospensione dell’esecuzione della pena, così come segnalato dalla Commissione Mista per lo studio dei problemi della magistratura di sorveglianza nel corso della seduta del 20 gennaio 2014”. Oltre a ciò, è stata evidenziata l’importanza delle misure alternative alla pena detentiva che servono per risocializzazione il condannato come richiede l’articolo 27 della nostra Costituzione. Il giudice aveva ritenuta fondata la questione “sussistendo profili di incostituzionalità dell’art. 656 comma 5 in relazione agli artt. 3 e 27 della Costituzione”. Ieri la Corte costituzionale, dopo un anno di tempo, ha emesso la sentenza, di cui è relatore il vicepresidente Giorgio Lattanzi, dando ragione al giudice. Nella sentenza si rileva che il legislatore ha creato un “tendenziale parallelismo” tra la sospensione della pena e la possibilità di fruire dell’affidamento in prova. Con la norma impugnata, dunque, vi era “un’incongruità” legislativa che si discosta dal “parallelismo” tra le due misure senza una ragionevole giustificazione. La Consulta sottolinea che “spetta alla discrezionalità del legislatore stabilire le deroghe a questo parallelismo”, in presenza, ad esempio, di situazioni particolari che impongono un passaggio in carcere in attesa della decisione sulla richiesta di affidamento (come per i reati valutati come indice di particolare pericolosità, o per quelli previsti dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, per cui la concessione della misura alternativa è soggetta a condizioni più stringenti). In queste ipotesi, spiega la Corte, le ragioni ostative “prevalgono sulla coerenza sistematica e si sottraggono a censure di incostituzionalità”. In pratica ha tenuto in caldo l’ordinanza per lasciare al legislatore il potere di legiferare come da separazione dei poteri. Ma nonostante la questione aperta in Consulta, il legislatore non l’ha fatto. Il Consiglio dei ministri ancora non si riunisce per “scongelare” il decreto delegato principale della riforma che contiene anche questa modifica che esplicita quando prevista dalla sentenza di ieri della Corte costituzionale. “A Roma, Insieme - Leda Colombini” su mancata approvazione riforma penitenziaria Comunicato stampa, 3 marzo 2018 Le volontarie e i volontari di “A Roma, Insieme - Leda Colombini”, da anni presenti ed attivi nella realtà delle carceri ove vivono bambini con le loro madri detenute, esprimono delusione e disappunto per la mancata approvazione definitiva ad oggi della riforma dell’Ordinamento Penitenziario. Questo avviene a pochissimi giorni dallo scioglimento del parlamento ed è fortissimo il rischio che il faticosissimo lavoro di preparazione e definizione dei contenuti della riforma da anni attesa, cui pure la nostra associazione ha dato un contributo anche attraverso gli Stati Generali e tante iniziative e confronti sui temi in particolare dell’affettività ed il carcere, non abbia quello sbocco e quella conclusione tanto attese. L’ultimo intervento di riforma delle carceri risale al 1975. “A Roma, Insieme Leda - Colombini” si unisce alle tante associazioni, agli ordini forensi, alle personalità della cultura e delle istituzioni, che in questi giorni hanno denunciato il pericolo che la legislatura si concluda con un rinvio. Ci sentiamo in questi giorni ancora più motivati a sviluppare la nostra attività, che testimoni con la presenza concreta il ruolo insostituibile del volontariato nelle carceri ed in ispecie in quella particolare realtà di madri detenute e bambini innocenti. A questo ci spinge la profonda convinzione che temi come quelli dell’umanizzazione della pena, al pari di quello della certezza di essa, ispirati ai valori della Costituzione e dell’affermazione dei valori di dignità della persona, non costituiscono merce trattabile secondo le varie convenienze e circostanze, ma sono alla base della convivenza civile del paese. Gioia Cesarini Passarelli Presidente dell’Associazione “A Roma, Insieme - Leda Colombini” Elezioni politiche, i Garanti regionali monitorano il voto dei detenuti tusciatimes.eu, 3 marzo 2018 Domenica 4 marzo, giornata di elezioni, il Coordinamento nazionale dei Garanti regionali e territoriali delle persone detenute ha proposto ed organizzato la presenza il più possibile capillare negli istituti di pena per monitorare le operazioni di voto e fare il punto sulla riforma dell’ordinamento penitenziario. Nella mattinata di domenica i Garanti comunali, metropolitani, provinciali o regionali entreranno in circa 30 dei 190 istituti penitenziari attivi nel nostro Paese per verificare direttamente la concreta possibilità del diritto di partecipazione al voto, nei seggi speciali allestiti per norma in ciascun carcere. Nelle settimane scorse i Garanti hanno sollecitato le Direzioni e gli Uffici elettorali comunali ad attivare la complicata e complessa procedura che permette al cittadino recluso che non abbia temporaneamente perso il diritto di voto a causa della condanna inflitta, di poter regolarmente esprimere o meno la propria responsabilità di elettore. Nell’ambito delle iniziative dei Garanti territoriali a sostegno di una rapida approvazione in via definitiva della Riforma sull’ordinamento penitenziario, il Garante dei detenuti della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, e la Garante di Roma Capitale, Gabriella Stramaccioni, domenica mattina seguiranno le operazioni di voto dei detenuti presso la Casa Circondariale Regina Coeli, all’uscita della quale alle 12 incontreranno la stampa. I Garanti, a seguito delle attività di monitoraggio effettuato nelle settimane scorse e nella giornata del voto, riferiranno le valutazioni emerse e le eventuali violazioni riscontrate nell’esercizio del diritto all’elettorato dei cittadini ristretti e porranno l’attenzione sul difficile percorso dell’approvazione della riforma dell’Ordinamento Penitenziario”. Garanti ai colloqui coi detenuti del 41bis: “è la fine del carcere duro” di Marco Lillo Il Fatto Quotidiano, 3 marzo 2018 Magistrati antimafia in allarme per i colloqui senza nessuna sorveglianza. Preoccupa la sentenza del Tribunale di Perugia, non ancora esecutiva e appellabile. Per gli alfieri dei diritti dei detenuti è un grande passo avanti. Per alcuni magistrati dell’Antimafia è una sentenza che rischia di modificare il regime di isolamento previsto dal 41bis. Il Tribunale di Perugia, il 21 febbraio, ha stabilito che anche i garanti locali dei detenuti, non solo quello nazionale, possono intrattenersi a colloquio con i detenuti sottoposti al regime di isolamento senza autorizzazione, senza il vetro divisorio fino al soffitto e senza la registrazione audio-video. La notizia ieri ha fatto il giro delle carceri e delle Procure antimafia italiane suscitando preoccupazioni che, sotto garanzia di anonimato, più magistrati hanno confidato al Fatto. Quali saranno le conseguenze della decisione del Tribunale umbro? Se diverrà definitiva (se la Procura generale non farà appello o se la Cassazione confermerà la sentenza) la conseguenza sarà che i detenuti al 41bis potranno incontrare i garanti degli enti locali senza che nessuno ascolti le loro conversazioni. Finora il colloquio non monitorato era ritenuto una prerogativa solo del garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma. Per il Dipartimento amministrazione penitenziaria i garanti locali, come i parlamentari, potevano verificare la condizione dei detenuti con semplici visite e non con un colloquio individuale. Tutto parte dal reclamo di Umberto Onda, 46 anni, boss di Torre Annunziata, arrestato nel 2010 e accusato di far parte del clan Gionta, recentemente condannato all’ergastolo per alcuni omicidi. Onda, che in passato ha protestato e che nel 2016 nel carcere di Opera è stato protagonista di un tentativo di suicidio, aveva chiesto al carcere di Terni di non computare tra i colloqui coi familiari quelli chiesti al garante dei detenuti dell’Umbria. Inoltre si era lamentato del controllo audio e video. Il 27 giugno 2017 il magistrato di sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi, aveva dato ragione al boss disponendo che fosse disapplicata la circolare del Dap: i colloqui non vanno computati e sono consentiti senza vetro e senza controllo audio-video anche se il garante è regionale. Qualcuno potrebbe storcere il naso ricordando che, per fare un esempio, nella Regione Lazio il garante era Angiolo Marroni, personalità della sinistra impegnata sul fronte dei diritti dei detenuti ma anche amico di Salvatore Buzzi. Oppure che, oltre ai garanti regionali, si stanno diffondendo i garanti nominati con una semplice delibera del consiglio comunale dalle città e dai paesi. La sentenza non cita i Comuni ma si potrebbe immaginare un garante dei detenuti nominato dal consiglio di Corleone o di Casal di Principe che vanta gli stessi diritti del garante dell’Umbria, del Lazio o della Calabria. Una tesi che il direttore generale dei detenuti e del trattamento del Dap, Roberto Piscitello, aveva impugnato, forte del precedente di Salvatore Madonia. Il boss di Resuttana è in cella al 41bis dal 1992. La moglie è stata arrestata a dicembre 2017 e per i pm di Palermo veicolava i suoi ordini dal carcere di Viterbo. Il killer di Libero Grassi, condannato in primo grado nel Borsellino quater, ha chiesto di incontrare senza controlli i garanti nominati dagli enti locali. In quel caso però il magistrato di sorveglianza di Viterbo, Maria Raffaella Falcone, nel 2017 ha respinto le sue richieste chiarendo che questa facoltà è prevista solo per il garante nazionale Mauro Palma, secondo la legge del 2013 “proprio in considerazione del ruolo del garante nazionale, organo nominato previa delibera del Consiglio dei ministri, con decreto del presidente del Consiglio dei ministri, sentite le competenti commissioni parlamentari e dei poteri allo stesso conferiti con legge dello Stato”. Ora la sentenza perugina del 21 febbraio scorso sul caso del boss Onda ribalta quella linea. Il collegio presieduto da Nicla Flavia Restivo eleva i garanti locali al rango di quello nazionale perché “avendo avuto un ruolo e un riconoscimento molto prima del garante nazionale i garanti regionali si sono già trovati ad esercitare quei poteri di verifica delle situazioni detentive del ristretto ad affrontare le problematiche connesse alla tutela dei diritti fondamentali”. La sentenza conclude che “qualunque detenuto ha diritto a svolgere un colloquio riservato (ovvero privo di controllo auditivo) con l’autorità garante territoriale senza che sia necessaria alcuna autorizzazione a svolgerlo da parte della Amministrazione”, compreso il detenuto al 41bis. Anzi: “Trattandosi di persone ristretta in regime differenziato in peius, in realtà era necessaria una presenza e un monitoraggio di tale regime detentivo superiore”. La sentenza potrà ora essere invocata da tutti i boss detenuti che vogliono parlare con i garanti locali. Il pm di Perugia aveva fatto notare al Tribunale “il pericolo attraverso il garante territoriale di collegamenti all’esterno con il sodalizio di appartenenza”. Ma quella tesi del pm per i giudici “appare fondata su immotivati quanto apodittici indici di sospetto privi di riscontri obiettivi”. Non è vero per il Tribunale di Perugia che il Garante regionale possa essere più facilmente “avvicinato” e quindi “strumentalizzato” dal detenuto e dai suoi sodali rimasti in libertà e possa veicolare all’esterno comunicazioni. Per il Tribunale già oggi ci sono le dovute garanzie in questo senso: i detenuti sono posti in carceri lontani dal luogo di operatività del loro clan e anche per gli avvocati dei boss la Corte costituzionale ha permesso i colloqui senza controllo “superando il sospetto”. Volontariato svolto da condannati: estensione dei soggetti inclusi dalla copertura infortuni ipsoa.it, 3 marzo 2018 Nella Circolare n. 14 del 2018, l’Inail elenca alcune ulteriori categorie di soggetti condannati che, se svolgono attività di volontariato, possono essere inclusi nella copertura infortuni prevista dal Fondo sperimentale “Diamoci una mano”. Con la circolare n. 14 del 2 marzo 2018, l’Inail fornisce alcune specifiche riguardo l’utilizzo del Fondo sperimentale “Diamoci una mano” per la copertura infortuni dei soggetti condannati che svolgono lavori di pubblica utilità. Si tratta in particolare di imputati ammessi alla prova nel processo penale, dei condannati per guida in stato di ebbrezza o sotto effetto di sostanze stupefacenti e dei tossicodipendenti condannati per un reato di “lieve entità” in materia di stupefacenti. Disposizione sperimentali - Secondo quanto previsto dalla Legge di bilancio 2018, il Fondo, istituito presso il Ministero del lavoro, è finanziato per 3 milioni di euro per gli anni 2018 e 2019. Dal 1° gennaio 2018 la copertura assicurativa a carico del Fondo comprende i soggetti impegnati in lavori di pubblica utilità a seguito di: sentenza di condanna per reati in materia di violazione del Codice della strada; sentenza di condanna per reati di violazione della legge sugli stupefacenti. Ulteriori soggetti inclusi - L’Istituto specifica che sono ricomprese nella copertura garantita dal Fondo anche: i beneficiari di ammortizzatori e di altre forme di integrazione e sostegno del reddito previste dalla normativa vigente, coinvolti in attività di volontariato a fini di utilità sociale in favore di comuni o enti locali; detenuti e internati impegnati in attività volontarie e gratuite; stranieri richiedenti asilo in possesso del relativo permesso di soggiorno. La mediocrità politica che alimenta l’indifferenza di Giuseppe De Rita Corriere della Sera, 3 marzo 2018 Serve che la società esprima una forte e civile cultura della complessità del sistema e faccia scattare un ambizioso “ridiamoci una casta”. È ormai opinione generale che la campagna elettorale abbia viaggiato sotto il segno tutelare della mediocrità, rischiando di sfociare in una mediocre classe di governo. Ma al di là di un soggettivo cedimento alla desolazione, una oggettiva mediocrità resta innegabile. Sono mediocri i personaggi, di questa campagna elettorale; sono mediocri i loro volti, nella versione del sorriso tirato come nell’accentuazione dei toni plebei; sono mediocri le loro argomentazioni e le loro interviste; sono mediocri i loro testi programmatici, chiunque li abbia scritti; sono mediocri le intenzioni di protagonismo (l’enfatico “quando sarò a Palazzo Chigi” è seguito dal vuoto o dalla vaghezza del pensiero); sono mediocri le squadre dei candidati; e sono addirittura diventati mediocri i riferimenti abitualmente alti (la sicurezza collettiva diventa legittimità dell’autodifesa e l’antifascismo diventa bisogno di andare in piazza). Perché, per quale processo reale o quale demoniaca condanna, è scattata questa discesa agli inferi della mediocrità? E si tratta di un fenomeno che attiene solo allo stretto mondo della politica o riguarda anche una più complessa mutazione del rapporto fra politica e società? Nei giorni scorsi alcuni stimati leader d’opinione (da de Bortoli a Turani, da Di Vico a Gentili) hanno meritoriamente sottolineato a tal riguardo la sospettosa indifferenza che si è instaurata fra la politica e la società civile, il mondo dell’impresa, la borghesia (alta o media che sia). Vorrei sottolineare il termine “meritorio”, perché essi corrono il rischio di coltivare una languida nostalgia delle élite o la tentazione di riproporre una classe dirigente un po’ castale. C’è infatti, nella attuale diffusa mediocrità, troppa voglia di rifuggire dal ruolo delle élite e della casta in nome della democrazia dal basso; dalla cultura della complessità, in nome di un radicale semplicismo delle opinioni; da severi approcci sistemici, in nome delle emozioni di massa; dalla guida dei processi strutturali, in nome di proposte e interventi estemporanei e a pioggia; dalla cultura della “lunga durata”, in nome della presenza nella alchimia della cronaca quotidiana. C’è, in ultima analisi, nella mediocrità, un voluto scantonamento da una seria concezione del governare, quasi sempre prendendo ad alibi la fedeltà alla lunga guerra “anti-casta” degli ultimi quindici anni. Forse però è tempo per tutti di riprendere a radicarsi nei processi reali, nell’approccio sistemico, nella logica della lunga durata, con una reazione in avanti che vada oltre i sedimenti anti-castali della realtà sociale; e che di fronte al dilemma oggi centrale (se la slavina di mediocrità nazionale sia un fenomeno della politica o riguardi invece tutta la società) prenda atto che nei decenni la società è cresciuta e la politica è decresciuta. È in questa dinamica divaricazione che va visto l’attuale disinteresse della società civile alla vita tutta autocentrata della politica (“non gliene può fregare di meno” sembra abbia detto Fedele Confalonieri). Se non si pone mano per ridurre tale divaricazione, la mediocrità politica è destinata a crescere in un mare di indifferenza e di propensione astensionistica, di cui si avvertono i prodromi. E per far ciò c’è bisogno che la società esprima, e la politica accolga, una forte e civile cultura della complessità del sistema. Per questo dobbiamo sperare che non scatti il rancoroso muggito della curva: “andate a lavorare”; ma il più sofisticato: “ridateci la casta”. Se la cosa appare non plausibile, allora c’è da pensare che, nella coscienza della propria autonoma forza, nella società civile possa scattare un ambizioso “ridiamoci una casta”. “Non è più una clava, perciò di giustizia non si parla più” di Errico Novi Il Dubbio, 3 marzo 2018 L’accusa: troppe promesse fatte in questa campagna elettorale scontano un altissimo indice di impraticabilità. Forse è vero. Ma lo scarto tra “il dire” e “il fare” della politica non si ferma qui, secondo Sandro Staiano, ordinario di Diritto costituzionale della “Federico II” con un passato da sindaco della sua città, Pompei. “Quando in un decreto legislativo delegato troviamo qualcosa come un’ottantina di errori materiali, e nell’ultima legislatura di esempi se ne potrebbero fornire a raffica, dobbiamo chiederci una cosa: ma di che parliamo, quando lamentiamo la latitanza delle grandi riforme costituzionali? Ma davvero si pensa di dover puntare così in alto o non avrebbe più senso chiedere che il Parlamento metta mano, più realisticamente, a una legislazione ordinaria di qualità, a cominciare dalla giustizia?”. Partiamo dal totem che ha condizionato l’ultimo ventennio, la giustizia appunto: non se ne parla più perché si fa avanti, finalmente, un processo di “disarmo”? A dire la verità tutto questo fair play, in proposito, non si è visto. Quando e dove è stato possibile, la corrida degli impresentabili è stata allestita. È anche vero che le forze politiche danno ancora meno peso che in passato, alle risultanze di eventuali pendenze penali, nella selezione dei candidati. Ma soprattutto c’è un aspetto di novità da non sottovalutare. Quale novità? Berlusconi. In fatto di credenziali giudiziarie, chiamiamole così, la polemica più aspra ha sempre colpito il centrodestra: per paradosso, l’impossibilità, per l’ex premier, di candidarsi è stata provvidenziale, perché ha inevitabilmente attenuato quel tipo di offensiva. D’accordo. Ma di giustizia non si parla neppure in termini di riforme ordinamentali. È vero. Ma nel momento in cui non si può usare più la giustizia come una clava, non la si considera neppure come argomento programmatico. Finché di certi temi si è potuto fare un uso strumentale, vi si è fatto ricorso come all’artiglieria più affidabile. Ma adesso, in un quadro in cui l’aspetto programmatico è piuttosto rarefatto, non ci sono proposte strutturate né nel campo della giustizia né in altri. Prevalgono istanze estemporanee, tenute insieme per lo più da un solo comune denominatore: la demagogia. Cosa servirebbe alla giustizia? In campo penale, una riforma sia del Codice di rito che del Codice penale sostanziale, in vista di un obiettivo di fondo: assicurare al processo un’impostazione più garantista, in cui sia più chiaramente realizzato il rito accusatorio, quindi l’effettiva parità nel contraddittorio tra accusa e difesa. È quello che chiede con insistenza l’avvocatura. Così come si potrebbe fare molto per migliorare i tempi della giustizia nel suo complesso, anche di quella penale, senza lasciarsi intrappolare nel vicolo cieco della prescrizione. Il centrodestra però ha inserito diverse proposte, nel programma. La prima: abolire l’appello del pm in caso di assoluzione. Se però una simile proposta non viene inserita nel quadro di una revisione più sistematica rischia di diventare controproducente. La separazione delle carriere è praticabile? Credo sia temerario a questo punto, parlare di riforme che richiedano interventi sulla Costituzione. Ripeto: c’è più di un motivo che dovrebbe indurre il prossimo Parlamento a concentrarsi su una legislazione riformista di tipo ordinario. È una strada lungo la quale sarebbe assolutamente possibile, per esempio, definire in modo più equilibrato la posizione del pubblico ministero. Pensare a modifiche costituzionali vuol dire inoltrarsi in un territorio reso ormai impraticabile. Il primo, forse decisivo errore risale alla revisione del Titolo V: da allora si è continuato a pensare alle riforme istituzionali in chiave oppositiva, con la condanna a maggioranze ristrette. E si è fallito, come sappiamo. La via d’uscita può essere un referendum d’indirizzo, indetto con legge costituzionale, che offra agli elettori la scelta tra almeno due ipotesi di riforma? Qui entrano in gioco equilibri che il procedimento di revisione previsto all’articolo 138 definisce in modo relativamente rigido. Il referendum ha sempre in sé una logica plebiscitaria, ma democrazia e plebiscito sono due cose opposte. Nel primo caso la deliberazione non è affidata all’espressione diretta della volontà popolare ma a una sede più ristretta in cui si decide con maggiore ponderazione, il plebiscito invece non è deliberazione responsabile ma adesione a una proposta. I nostri costituenti hanno preferito tracciare la prima delle due strade, per rivedere la Carta. Il ricorso al popolo, per via referendaria, è stato lasciato solo come opzione di riserva. Far precedere una revisione della Carta da un referendum significa attenuare quella rigidità e slittare comunque verso il plebiscito. Ci starei attento. Intanto dal voto di domani rischiamo di uscire senza alcuna maggioranza. Ma non per colpa della mancata riforma costituzionale. Torniamo sempre al punto di partenza: il nodo è la legge elettorale. Una legge ordinaria, che però negli ultimi anni è stata rimaneggiata sempre secondo una logica paradossale: visto che non posso vincere, faccio in modo che nessuno vinca. Ed eccoci qua. Scusi professore, ma a tirare le somme, lei dice che non si parla di giustizia perché, esaurita la sua funzione di arma contundente, non si è in grado di occuparsene in chiave programmatica; non ci si accosta più alla Costituzione anche perché non si è neppure in grado di legiferare bene a livello ordinario: il suo giudizio sulla classe politica è impietoso. Non è solo un problema di qualità ma ancor prima di metodo: anziché sui contenuti ci si aggrega sulle leadership personali, ora lo fanno persino le formazioni minori. Se vogliamo rimetterci nel solco tracciato dai costituenti, dobbiamo renderci conto di due cose: che quelli erano dei giganti, e che chi guida oggi la politica deve fare innanzitutto un bagno di umiltà. La nostra magistratura è lo specchio del paese di Vittorio Barosio* La Stampa, 3 marzo 2018 Che cosa succede al Consiglio di Stato, cioè al massimo organo della Giustizia amministrativa? Nel breve giro di due mesi si sono verificati tre episodi indubbiamente molto gravi. Prima il consigliere Francesco Bellomo è stato espulso dal Consiglio di Stato perché imponeva alle sue studentesse che aspiravano a superare il concorso in magistratura abbigliamenti sexy ed in genere comportamenti che nulla avevano a che vedere con la scienza giuridica. Poi Riccardo Virgilio, addirittura presidente di una sezione del Consiglio di Stato, è stato indagato per corruzione in atti giudiziari. Nei giorni scorsi il consigliere Nicola Russo è stato sottoposto agli arresti domiciliari anch’egli per corruzione in atti giudiziari. Come può accadere tutto questo all’interno di un’istituzione che ha sempre goduto, e che gode tuttora, di un prestigio così elevato come il nostro Consiglio di Stato? I giudici del Consiglio sono poco più di sessanta. Essi, tutti magistrati selezionatissimi e giuridicamente preparatissimi, decidono in via definitiva, in sede di appello contro le decisioni di tutti i Tar del Paese, e rappresentano un organismo che, muovendo dalla propria natura squisitamente giuridica, va peraltro a incidere sulle questioni più importanti e di più alto valore economico che interessano la Pubblica Amministrazione: grandi appalti, rilevanti interventi edilizi, infrastrutture, imprese e beni pubblici. È chiaro che la corruzione, o quanto meno la scorrettezza, si annida dove c’è il potere e dove - in un modo o nell’altro - si parla pur sempre di denaro. Anche il Consiglio di Stato, quindi, rischia di non essere immune da tentazioni. Tre casi (due dei quali peraltro ancora da verificare in sede giudiziaria) non possono evidentemente sminuire il valore morale di un’intera Istituzione, e per di più così autorevole. Ciò non toglie che anche le semplici imputazioni penali cagionino perplessità e impongano una riflessione. I giudici (che appartengano alla Magistratura Amministrativa, a quella Ordinaria o alla Corte dei Conti) svolgono una funzione la cui estrema delicatezza non ha bisogno di essere sottolineata e che li differenzia nettamente da qualsiasi altra professione. Se hanno scelto quel mestiere significa che sentono profondamente l’esigenza di giustizia, di correttezza e di moralità. Ma anch’essi sono uomini, come tutti noi. E mantengono per forza dentro di loro, sia pure inconsapevolmente, i caratteri fondamentali non solo positivi, ma anche negativi, di ogni uomo. La caratura morale dei giudici corrisponde inevitabilmente, almeno in parte, alla caratura morale del popolo da cui essi promanano. Per garantirsi la miglior correttezza dei giudici occorre quindi migliorare la correttezza, e il senso dello Stato, della gente comune. La speranza è che tutti si convincano che il bene collettivo è determinato dai comportamenti individuali virtuosi. Kant diceva: “Agisci sempre come se la tua azione fosse massima universale”. La Magistratura è lo specchio del Paese in cui opera. Ogni Paese avrà la Magistratura che saprà meritarsi. *Professore di Diritto amministrativo Affidamento allargato, si rafforza la sospensione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 3 marzo 2018 Consulta. Possibile anche per chi ha una condanna fino a 4 anni. Più spazio all’affidamento allargato. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 41 depositata ieri e scritta da Giorgio Lattanzi, ha di fatto stabilito che ha diritto alla sospensione dell’esecuzione della pena per chiedere e ottenere l’affidamento ai servizi sociali anche chi deve scontare una sanzione fino a 4 anni. È stata pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’articolo 656, comma 5, del Codice di procedura penale, nella parte in cui veniva disposta sì la sospensione dell’esecuzione della pena, anche residua, da parte del pubblico ministero, ma solo se non superiore a 3 anni e non a 4. Per effetto della decisione si allarga la platea dei soggetti interessati alla misura alternativa al carcere che potranno aspettare da liberi la valutazione dell’autorità giudiziaria. Si evita cioè quell’effetto di “porte girevoli”, con la permanenza in carcere di persone che potrebbero invece uscirvi, tra le incongruità del nostro sistema dell’esecuzione penale. La sentenza mette in evidenza che “il tendenziale collegamento della sospensione dell’ordine di esecuzione con i casi di accesso alle misure alternative costituisce un punto di equilibrio ottimale, ma appartiene pur sempre alla discrezionalità legislativa selezionare ipotesi di cesura, quando ragioni ostative appaiano prevalenti. Naturalmente è proprio la dimensione normativa ancillare della sospensione rispetto alle finalità delle misure alternative che rende particolarmente stretto il controllo di legittimità costituzionale riservato a dette ipotesi”. E nel caso esaminato, la Corte mette in evidenza la rottura del parallelismo, di particolare gravità, perché è proprio il modo con cui la legge ha delineato l’affidamento in prova allargato che esige, come conseguenza, la corrispondente sospensione dell’ordine di esecuzione. È vero che in linea di principio non è impedito al legislatore di dare vita a forme alternative alla detenzione riservate ai soli detenuti, ma nel caso dell’affidamento allargato la legge non ha utilizzato questo margine di discrezionalità perché ha esplicitamente scelto di equiparare detenuti e liberi per l’accesso alla misura alternativa. Bisogna allora considerare che è espressamente prevista la concessione dell’affidamento allargato al condannato in stato di libertà, “ma, se l’ordine di esecuzione di una pena detentiva tra 3 anni e un giorno e 4 anni non potesse essere sospeso, si tratterebbe di una previsione in concreto irrealizzabile, per quanto normativamente stabilita e voluta”. Infatti, conclude la Consulta, l’esecuzione dell’ordine di carcerazione, avvenuta senza aver dato al condannato il tempo di chiedere l’affidamento in prova allargato e comunque senza attendere una decisione al riguardo, renderebbe impossibile la concessione della misura alternativa prima dell’ingresso in carcere. Servizi sociali, platea ampliata. Niente cella per condannati fino a 4 anni di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 3 marzo 2018 La Consulta mette fine alle porte girevoli nelle misure alternative alla detenzione. Lontano dal carcere chi è stato condannato fi no a 4 anni (e non più solo fi no a 3 anni). Stop alle porte girevoli, che costringevano a entrare in galera per pochi mesi e poi uscirne per l’applicazione di misure alternative alla detenzione. Chi deve scontare una pena, anche residua, fino a 4 anni di carcere ha, dunque, diritto alla sospensione d’ufficio dell’ordine di esecuzione allo scopo di chiedere e ottenere l’affidamento in prova ai servizi sociali, nella versione “allargata” introdotta nel 2013. L’allungamento di un anno della condanna che non può essere eseguita, ma deve essere sospesa per legge, è stato deciso dalla Corte costituzionale (sentenza n. 41 depositata ieri 2 marzo 2018), che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 656, comma 1, codice di procedura penale. Nel caso specifico, a un giudice dell’esecuzione è stato chiesto di pronunciarsi sulla domanda di sospensione di un ordine di esecuzione della pena detentiva di 3 anni, 11 mesi e 17 giorni, che il pubblico ministero ha emesso senza sospenderlo, perché la pena da scontare eccedeva il limite di tre anni fissato dal quinto comma dell’articolo 656. La norma, infatti, impone al pm di sospendere l’ordine di esecuzione della condanna infra-triennale, in modo da consentire al condannato di presentare istanza per ottenere una misura alternativa alla detenzione. In sostanza fino a 3 anni di condanna, non si va in carcere, il pm sospende l’incarcerazione e si aspetta l’istanza di ottenere l’affidamento in prova ai servizi. Sempre nel caso specifico, il condannato ha sostenuto che l’ordine di esecuzione avrebbe dovuto essere sospeso anche per lui, anche se la sua condanna era superiore ai tre anni e questo per coerenza con una particolare forma di affidamento in prova ai servizi sociali, quando la pena detentiva da eseguire non è superiore a quattro anni (cosiddetto affidamento allargato). Insomma, la sospensione della pena si deve fare se la condanna è fi no a 3 anni e questo per permettere al condannato di non andare in carcere, ma di beneficiare di una misura alternativa. Ma se il beneficio riguarda anche condanne fi no a 4 anni, la disarmonia, si è chiesto il giudice dell’esecuzione, è costituzionale? La Corte si è pronunciata e ha detto di no, la norma è incostituzionale e ha eliminato l’effetto chiamato delle “porte girevoli” della norma impugnata, che comportava l’ingresso in carcere per un periodo di alcuni mesi del condannato che avesse titolo per scontare la pena con le misure alternative. Il cuore della decisione sta nel fatto che la Consulta ha riscontrato un parallelismo tra la sospensione della pena e la possibilità di fruire dell’affidamento in prova. Se il beneficio dell’affidamento in prova vale per le condanne fino a 4 anni, come si fa a sospendere le condanne solo fi no a 3 anni? Questo significa che il pm non può mettere in stand-by l’incarcerazione, nelle more della richiesta dell’affidamento in prova. L’ordinamento penale, quindi, zoppica, perché quando è stato introdotto l’affidamento in prova per pene da scontare fi no a 4 anni ci si è dimenticati dell’articolo 656 del codice di procedura penale sulla sospensione. In via di principio generale, scrive la Corte costituzionale, il mancato allineamento della norma sulla sospensione alla norma sull’affidamento è incostituzionale. Peraltro il legislatore può stabilire deroghe, per i reati più gravi, al parallelismo tra sospensione della incarcerazione e misure alternative al carcere e può pretendere un passaggio in carcere in attesa della decisione sulla richiesta di affidamento: ma si tratta di eccezioni alla regola del parallelismo, che deve essere ripristinata, anche con un intervento del giudice costituzionale. Intervento, questo, che non è un’invasione di campo rispetto alle prerogative del legislatore. La scelta di consentire l’affidamento in prova anche ai condannati con pene tra tre anni e un giorno e quattro anni, che si trovano in stato di libertà, spiega la sentenza in commento, rimarrebbe senza senso se non venisse anche sospeso l’ordine di esecuzione, perché di fatto la misura non potrebbe che essere applicata dopo l’ingresso in carcere. Il legislatore, dunque, si è contraddetto e così facendo ha creato una lesione del principio di uguaglianza: chi merita l’affidamento non deve entrare in carcere nemmeno un giorno, sia che si tratti di condanna fi no a 3 anni sia di condanna fi no a 4 anni. Al di là dei tecnicismi resta il fatto che una condanna fi no a 4 anni è comunque pesante e vi è solo da sperare che le misure alternative siano una reazione effettiva al crimine in grado di disincentivare il reo, ma siano anche una misura adeguata di tutela della collettività e della sicurezza sociale. Il “ne bis in idem” resiste alla Consulta di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 3 marzo 2018 Ma il legislatore è invitato a rimediare ai persistenti profili di contrasto con la Cedu. Regge all’esame di costituzionalità il doppio binario sanzionatorio penale-amministrativo in campo tributario. Soprattutto alla luce del nuovo orientamento della Corte europea dei diritti dell’uomo. Che però non è decisivo nell’azzerare il rischio di bis in idem. Tanto che resta attuale l’invito al legislatore a “stabilire quali soluzioni debbano adottarsi per porre rimedio alle frizioni” che il sistema del cosiddetto doppio binario “genera tra l’ordinamento nazionale e la Cedu”. Sono queste le conclusioni cui approda la Corte costituzionale con la sentenza n. 43, depositata ieri e scritta da Giorgio Lattanzi. La pronuncia, prima ad affrontare in maniera approfondita il tema della legittimità di una sanzione penale e di una amministrativa per la medesima infrazione alla disciplina fiscale, restituisce così gli atti al tribunale di Monza, che aveva sollevato la questione, per un nuovo esame alla luce delle osservazioni della Corte. I giudici lombardi avevano sollecitato l’intervento della Consulta, mettendo in luce come l’articolo 649 del Codice di procedura penale non prevede il divieto di doppio giudizio in un caso, come quello esaminato, di omessa dichiarazione. Per la medesima condotta, la persona interessata era già stata sottoposta a una sanzione amministrativa di importo equivalente al 120% delle imposte evase. Sanzione che, per i giudici, ha un’evidente natura penale, quanto ad afflittività, tanto da rendere evidente il profilo di contrasto con l’articolo 4 del Protocollo n. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Corte costituzionale, nell’esaminare la questione valorizza soprattutto la sentenza 15 novembre 2016, A e B contro Norvegia, con la quale la Corte dei diritti dell’uomo ha espresso il principio di diritto secondo cui il ne bis in idem non opera quando i procedimenti sono legati da un legame materiale e temporale. In particolare, il legame temporale non esige che i procedimenti siano contemporaneamente in corso ma ne permette la successione, a patto che essa sia tanto più stringente, quanto più si prolunga la durata dell’accertamento; il legame materiale dipende da obiettivi complementari collegati ad aspetti diversi della condotta, dalla prevedibilità della duplicazione dei procedimenti, dal grado di coordinamento probatorio tra di essi, e soprattutto dalla circostanza che nel determinare la seconda sanzione si possa tenere conto della prima. “In sintesi - sottolinea la sentenza - può dirsi che si è passati dal divieto imposto agli Stati aderenti di configurare per lo stesso fatto illecito due procedimenti che si concludono indipendentemente l’uno dall’altro, alla facoltà di coordinare nel tempo e nell’oggetto tali procedimenti, in modo che essi possano reputarsi nella sostanza come preordinati a un’unica, prevedibile e non sproporzionata risposta punitiva, avuto specialmente riguardo all’entità della pena (in senso convenzionale) complessivamente irrogata”. Un cambiamento che impone da una parte la restituzione degli atti al Tribale di Monza per valutare la persistenza dei dubbi di legittimità costituzionale ma, dall’altra, fa comunque scrivere alla Consulta che “non è affatto da escludere che tale applicazione (del divieto di bis in idem, ndr) si imponga di nuovo, sia nell’ambito degli illeciti tributari, sia in altri settori dell’ordinamento, ogni qual volta sia venuto a mancare l’adeguato legame temporale e materiale, a causa di un ostacolo normativo o del modo in cui si sono svolte le vicende procedimentali”. Il denaro per la frode non è un prestito di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 3 marzo 2018 Cassazione. Non può essere chiesta indietro la somma finalizzata a emettere fatture false per operazioni inesistenti. Chi “presta” del denaro sapendo che sarà utilizzato per emettere false fatture per operazioni inesistenti, non può certo far valere il suo diritto alla restituzione, perché lo scopo sotteso al prestito è contrario al buon costume. E se cerca di riavere indietro i soldi con metodi violenti, commette il reato di usura, senza poter “aspirare” al meno grave reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. La Corte di cassazione, con la sentenza 9494 depositata ieri, respinge il ricorso di uno dei numerosi imputati coinvolti in un procedimento relativo ad una serie di reati: usura, frodi fiscali e associazione per delinquere. In questo contesto si inseriva la richiesta di un ricorrente, condannato per estorsione, di ottenere una condanna meno grave per un reato minore. Sconto di pena al quale l’imputato riteneva di aver diritto, perché le frasi violente, dirette al sodale al quale aveva prestato del denaro, erano finalizzate ad una legittima restituzione che veniva negata. Il reato ipotizzabile era dunque l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Ma, con una lezione di morale, la Cassazione spiega che così non è. Chi presta soldi finalizzati a commettere reati tributari - nello specifico all’emissione di fatture false per operazioni inesistenti - non può richiederli indietro, perché lo scopo del prestito “indecente” è contraria a norme imperative e anche al buon costume. Un concetto che non può restare limitato alla sfera del pudore sessuale e della decenza ma che va esteso a tutti i “negozi” contrari all’etica e alla coscienza morale collettiva. E “il contratto” stipulato dal ricorrente rientra tra questi. Nell’attuale momento storico - afferma la Cassazione - in cui il legislatore sia interno sia comunitario è impegnato in una lotta strenua contro gli evasori fiscali, questi ultimi sono sempre più considerati dalla comune coscienza sociale, come malfattori. La Suprema corte rincara la dose ricordando che si tratta di malfattori particolarmente pericolosi perché da una parte sottraggono risorse allo Stato e dall’altra, “non solo si avvantaggiano, in modo parassitario, dei servizi comuni che vengono finanziati con le tasse che gli altri pagano, ma fanno anche concorrenza sleale agli imprenditori onesti, inquinando quindi l’economia e distorcendo le dinamiche della struttura produttiva in cui l’evasione è praticata”. Basta dunque per intuire che il reato non è derubricato, visto che l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni è ipotizzabile solo in presenza di una pretesa che si può far valere in giudizio. E non è questo il caso. Non passa neppure la pretesa di un altro ricorrente di considerare prescritto il reato di emissione di fatture o altri documenti relativi e operazioni inesistenti. La Cassazione precisa, infatti, che il reato previsto dall’articolo 8 del Dlgs 74/2000, avendo natura istantanea si perfeziona nel momento di emissione di ogni singola fattura o, nel caso di più episodi nello stesso periodo di imposta, nel momento di emissione dell’ultima, data dalla quale decorre la prescrizione. Questo anche se sono rilasciate più fatture per uno stesso periodo di imposta. Roma: il Papa visita la “Casa di Leda” che ospita detenute con figli Corriere della Sera, 3 marzo 2018 Il Pontefice si è intrattenuto a parlare con le mamme e a giocare con i bambini: “Noi siamo gli invisibili. Siamo solo i figli dei detenuti”. Papa Francesco si è recato a sorpresa venerdì pomeriggio all’Eur per visitare la “Casa di Leda”, una struttura protetta per detenute con figli, collocata in un edificio sottratto alla criminalità organizzata e gestita dalla cooperativa sociale “Cecilia Onlus”. Lì ha incontrato alcune giovani mamme detenute, condannate per reati minori, alle quali viene riconosciuta la capacità genitoriale e che possono quindi proseguire il periodo detentivo con i loro figli all’interno di questa casa-famiglia. Le giovani mamme salutate dal Papa sono di età compresa tra i 25 e i 30 anni, alcune di etnia rom, un’egiziana e un’italiana, ognuna col proprio bambino. “Siamo gli invisibili” - “Santità, Padre caro, siamo gli invisibili”. Con queste parole è stato dato il benvenuto al Papa a nome delle mamme e dei bambini, soprattutto di questi ultimi, accolto nel totale stupore, la cui condizione ha commosso visibilmente Francesco. “Noi - ha detto infatti a nome dei minori il direttore della struttura, Lillo De Mauro -siamo alcuni delle migliaia di bambine e bambini figli di genitori reclusi nelle carceri italiane che viviamo con loro in carcere o andiamo a trovarli. Per difendere la dignità dei nostri genitori detenuti ci raccontano bugie facendoci credere di entrare in un collegio o in un posto di lavoro. Veniamo perquisiti, violentati nella nostra intimità dalle mani di adulti sconosciuti, che ci tolgono i peluche, i poveri giocattoli che sono i nostri amici per aprirli, controllarli, a volte ci tolgono anche le mutandine per assicurarsi che le nostre mamme non vi abbiano nascosto droghe”. “Siamo fiori fragili”, ha aggiunto il responsabile della Casa di Leda, “nel deserto della burocrazia e delle misure di sicurezza, nell’indifferenza di adulti alienati dal brutto e dal violento lavoro. Per molti siamo statistiche: 4 mila e 500 bambini che hanno una mamma in carcere, circa 90 mila quelli che hanno un papà detenuto. Anche i nostri genitori a volte speculano su di noi”. “Per non essere additati raccontiamo che nostro padre lavora in paesi fantastici e lontani e nostra madre è una regina. Per difenderci diventiamo aggressivi e intrattabili, ma non siamo cattivi, sono gli altri che ci vedono e ci vogliono così: “Siamo i figli dei detenuti”“. In dono le uova di Pasqua - Francesco ha avuto modo di scambiare alcune parole con le mamme e con i ragazzi in servizio presso la Casa; ha giocato con i bambini, offrendo loro in dono delle uova di Pasqua, accolte con gioia dai bambini, che lo hanno invitato a fare merenda con loro. Le mamme hanno voluto lasciare al Papa un piccolo dono prodotto delle semplici attività e varie mansioni che svolgono all’interno della Casa, mentre gli raccontavano della opportunità che è stata data loro di crescere i propri figli, nonostante le tante difficoltà. La permanenza in questa struttura - è stato spiegato al Papa - consente alle mamme sia di accompagnare e di riprendere i bimbi a scuola, sia di svolgere attività utili all’apprendimento di un mestiere, in vista di un futuro reinserimento nel mondo del lavoro e nella società. Francesco, dopo aver lasciato alcuni doni alle giovani mamme, tra cui una pergamena firmata, a memoria della sua visita, è tornato a Santa Marta, in Vaticano. Roma: detenuto morto a Rebibbia per polmonite, a processo ex direttore sanitario La Repubblica, 3 marzo 2018 Per l’accusa il dirigente non aveva disposto i necessari controlli per curare il paziente. Per la morte di un detenuto, avvenuta a Rebibbia nel 2013, è stato rinviato a giudizio l’ex direttore sanitario del penitenziario, Luciano Aloise. Lo ha disposto il Gup Marco Mancinetti che ha fissato il processo al prossimo 16 ottobre davanti ai giudici alla VI sezione penale. La decisione del giudice è arrivata dopo l’annullamento del proscioglimento dell’imputato su una ricorso presentato dalla Procura. Nei confronti di Aloise l’accusa è di omicidio colposo. Il detenuto Danilo Orlandi era morto a 32 anni dopo essersi ammalato di polmonite. Per l’accusa l’ex direttore sanitario non aveva disposto i necessari controlli per curare il paziente durante la malattia. Orlandi si trovava a Rebibbia per scontare una condanna definitiva a sei mesi per resistenza a pubblico ufficiale. “Finalmente si arriva ad un dibattimento - afferma l’avvocato Stefano Maccioni, legale dei familiari del detenuto. Si potrà accertare la verità e capire cosa è avvenuto in carcere. Quando Orlandi era sotto la custodia dello Stato”. Padova: quindici anni di lauree in carcere, l’impegno di Unipd di Daniele Mont D’Arpizio unipd.it, 3 marzo 2018 “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”; un principio sacrosanto quello dell’art. 27 della nostra Costituzione, e per realizzarlo due sono gli strumenti principali: il lavoro e lo studio. Anche universitario. Erano molti i rappresentanti delle istituzioni presenti il 1 marzo nell’auditorium del carcere “Due Palazzi” di Padova per l’inaugurazione dell’anno accademico per gli studenti detenuti: oltre al direttore della casa di reclusione Claudio Mazzeo e al rettore Rosario Rizzuto, alla prorettrice Daniela Lucangeli e alla coordinatrice Francesca Vianello c’erano anche, tra gli altri, il provveditore dell’amministrazione penitenziaria Enrico Sbriglia, il sindaco Sergio Giordani, il prefetto di Padova Renato Franceschelli, il questore Paolo Fassari, il magistrato di sorveglianza Lara Fortuna e il comandante provinciale dei carabinieri, colonnello Oreste Liporace. Un’occasione per riflettere e fare il punto su un’esperienza che dura da 15 anni: era infatti il 2003 quando venne stipulata una convenzione tra università e ministero della giustizia per l’istituzione, nel carcere padovano, di un polo universitario. Oggi sono cinque le scuole dell’ateneo che mettono i loro corsi a disposizione dei detenuti: 30 i laureati finora mentre sono 27 gli iscritti ai vari corsi residenti a Due palazzi, a cui si aggiungono anche quella della vicina casa circondariale (riservata alle persone in attesa di giudizio o con condanne più brevi) e del carcere femminile della Giudecca a Venezia, per un totale di una quarantina di iscritti. Storie di chi vuole guardare oltre gli errori commessi e pensare al futuro: “Studiare in carcere non è facile, ogni laurea che riuscite a conseguire qui dentro è un grosso successo per voi, ma anche per noi - ha detto durante il suo intervento il rettore. Per questo cerco sempre, nonostante gli impegni, di non mancare a questo appuntamento”. I dati parlano chiaro: un percorso scolastico o universitario aiuta i detenuti a darsi degli obiettivi e a inserirsi nella società una volta usciti dal carcere, con un drastico abbattimento del tasso di recidiva. Elementi importanti per un ateneo che, come quello padovano, ha deciso di puntare verso un’istruzione sempre più aperta e inclusiva per tutti, a partire dai soggetti più fragili e svantaggiati (tra le ultime iniziative, per fare degli esempi, ci sono il General Course in Diritti Umani e Inclusione e il protocollo d’intesa tra università e ufficio scolastico regionale). Anche per questo è allo studio, da parte di università e amministrazione penitenziaria, l’introduzione tra le mura del Due Palazzi anche della laurea in scienze motorie, oggi particolarmente di successo tra i giovani. L’università mette a disposizione vari servizi a favore degli iscritti in stato di detenzione: fondamentale è l’opera di tutor e volontari, tra cui alcuni professori universitari in pensione. Per partecipare agli esami si utilizzano i permessi premio, se ci sono, altrimenti sono i docenti a recarsi in carcere; sono possibili, rispettando precise modalità, anche stage e inserimenti lavorativi. Questo non toglie che ci siano ancora alcune difficoltà, come ha sottolineato la coordinatrice Francesca Vianello, a cominciare dal fatto che l’università di Padova sia per ora l’unica a offrire un servizio del genere in tutto il Triveneto. Non è sempre semplice per i tutor e il personale universitario seguire persone detenute nelle strutture di Verona o di Trieste: per ora la soluzione è chiedere il trasferimento a Padova, mentre per il futuro si potrebbero attuare alcune forme di collaborazione con altri atenei più vicini. Lo studio, come il lavoro, serve anche ad aprire la mente, a riflettere sul proprio passato e a ritrovare dignità per la propria vita. È l’esperienza di Armand: “Sono molto contento di poter fare l’università: entrambi i miei genitori sono laureati ed erano molto delusi per il mio percorso; per me questa è un’occasione di riscatto”. Un’opportunità che rischiava di sfumare: Armand infatti era stato trasferito in un’altra struttura a causa delle nuove norme contro il sovraffollamento; alla fine però, dopo oltre tre mesi, è riuscito a tornare e a coronare il suo sogno: “Al primo esame ero teso, poi però è andato tutto bene e ho preso anche un bel voto. Merito soprattutto del professore: mi sono sentito accolto come un vero studente universitario”. Proprio alle emozioni e alla loro importanza per il nostro sviluppo cognitivo e interiore la prorettrice alla continuità formativa scuola-università-lavoro Daniela Lucangeli ha dedicato un’applauditissima prolusione: “Lo studio ci nutre e ci cambia in ogni momento. Anche da un punto di vista scientifico: ogni stimolo, positivo o negativo, modifica il nostro cervello”. Per questo è particolarmente importante imparare a coltivarsi e ad alimentare sentimenti positivi come il perdono e la gratitudine: “Più viviamo emozioni come l’ansia e l’angoscia, più ci ammaliamo di esse. La noia ci spegne come la fame, mentre studiare ci alimenta”. Bologna: detenute parrucchiere, Corso di formazione firmato Orea Malià di Fernando Pellerano Corriere di Bologna, 3 marzo 2018 Un corso da parrucchiere per le detenute della Dozza. Parte lunedì la nuova opportunità pensata da Orea Malià per una dozzina di donne. Ricostruirsi una vita, partendo magari dalla testa e usando, forbici, pettini, tondouses e spazzole. S’intitola “Ricci ribelli” l’ultima opportunità di crescita per le detenute della casa circondariale della Dozza: un corso per parrucchiere che inizierà il 5 marzo, nella magica giornata di lunedì, curato da uno dei più noti e apprezzati professionisti del settore, Orea Malià Parrucchieri & Truccatori. Due mesi intensi e concentrati di prove e controprove per una dozzina di ragazze, le più motivate, fra le attuali 90 detenute in carcere (i maschi sono circa 800) metà delle quali straniere e in maggioranza under 40.Due ore a lezione, sotto le direttive di Marco Zanardi vero nome di Orea Malià, di suo figlio Attila, ora impegnato in XFactor, e dell’esperto Giuseppe Lasorella, storico collaboratore, per far emergere talento e creatività. Le ragazze saranno sia modelle sia coiffeuses proprio per avere una prospettiva globale sul lavoro svolto e un maggior coinvolgimento relazionale nel team. Il progetto è stato elaborato da Angelica Sisera e Vannia Virgili dell’associazione Artemisia e produrrà non solo nuove e importati competenze per chi deve ricominciare a vivere e lavorare una volta uscito dal penitenziario, ma anche un docu-film in 8 puntate su questa esperienza realizzato da Davide Labanti e 3 suoi collaboratori dell’associazione Kinodromo, un libro con pensieri e parole delle detenute raccolte e con le foto/ritratto di Federico Guerra e infine uno spettacolo teatrale nel quale verranno coinvolte anche coloro che non hanno partecipato al corso. Lo staff di Orea Malià utilizzerà i migliori prodotti, grazie anche alla fornitura di alcune aziende leader del settore, da Parlux a Davines. Non c’era modo migliore, cioè offrendo liberamente il proprio sapere e il proprio tempo (lunedì), per Marco Zanardi per iniziare il suo 40° anno di attività a Bologna - era il 1978 - che dovrebbe essere festeggiato prossimamente con un evento di artistico/espositivo probabilmente insieme alle istituzioni. Cosenza: concluso il corso di LiberaMente “Volontari per le misure di comunità” cosenzapage.it, 3 marzo 2018 Hanno partecipato in 40, a Cosenza, al corso “Volontari per le misure di comunità” promosso dall’associazione LiberaMente nell’ambito dell’omonimo progetto Seac (Coordinamento enti ed associazioni di volontariato penitenziario) sostenuto dalla Fondazione Con Il Sud. Il progetto nasce per favorire il reinserimento sociale dei detenuti che devono scontare una pena prevista dalle misure di comunità e che, in alternativa al carcere, possono svolgere lavori di pubblica utilità o attività di volontariato. Il corso, che ha preso il via lo scorso 13 gennaio e si è concluso il 17 febbraio, ha visto la presenza, come relatori, di Adriana Delinna, direttrice dell’Uepe (Ufficio Esecuzione Penale Esterna) di Cosenza, Paola Lucente, magistrato di sorveglianza, Giusy Ferrucci, presidente sezione penale del tribunale di Castrovillari, Francesco Rao, presidente associazione nazionale sociologi Calabria e Filiberto Benevento, direttore della casa circondariale di Cosenza. Inoltre sono intervenuti gli avvocati penalisti Giuseppe Lanzino ed Emilio Lirangi e, per la Camera Penale di Cosenza, gli avvocati Giuseppe Malvasi, Giovanni Cadavero e Valentina Spizzirri. Diversi gli argomenti trattati durante i sei incontri come le misure alternative e di comunità, il processo penale, le funzioni dell’organo giudicante, del magistrato di sorveglianza e dell’avvocatura, i compiti dell’Uepe, la presenza del servizio sociale territoriale nel sistema penitenziario, la pena e l’ordinamento penitenziario e l’orientamento professionale come opportunità di recupero reale del reo. “Il progetto ora prevede - spiega il presidente di LiberaMente, Francesco Cosentini - l’avvio di gemellaggi con altre realtà sociali italiane che hanno già avviato un percorso per l’attuazione di misure di comunità, l’attivazione di borse lavoro per le persone ammesse alle misure di comunità e la sensibilizzazione dei cittadini, attraverso eventi, performance, flash mob e presentazioni di libri”. L’iniziativa coinvolge, nel Sud Italia, cinque associazioni tra cui LiberaMente e prevede la formazione dei volontari, il rafforzamento della rete tra le associazioni di volontariato penitenziario e la sensibilizzazione della società all’accoglienza delle persone in esecuzione penale esterna. “Ora chiederemo a coloro che hanno frequentato il corso - continua Cosentini - la disponibilità a continuare un percorso di volontariato”. Il ruolo del volontario sarà, infatti, quello di facilitatore dell’inclusione sociale dei soggetti in esecuzione penale esterna. Salerno: la porta dell’arte aperta sulla giustizia di Rosanna Gentile Il Mattino, 3 marzo 2018 Tre mesi di mostre, concerti e dibattiti. Lembo: accendiamo un faro su temi forti come femminicidio, follia e bullismo. Per Oscar Wilde esistevano due classi di uomini: i giusti e gli ingiusti. “La divisione viene fatta dai giusti”, scriveva. Operazione questa non certo facile, che necessita di una profonda comprensione di entrambe le facce della categoria umana. La conoscenza del bene e del male, infatti, è l’unica direttiva in grado di guidare l’uomo in modo consapevole sulla retta via. Procura della Repubblica di Salerno, Curia e Conservatorio Martucci, per il secondo anno consecutivo, tornano a fare quadrato per trasmettere il senso di giusto alla cittadinanza. E lo fanno coniugando i più spinosi temi dell’attualità in un mix di parole, immagini e musica. Torna dal 9 marzo al 15 giugno l’Arte della Giustizia: un viaggio lungo tre mesi che, in questa seconda edizione, dal Salone degli Stemmi del palazzo arcivescovile parte alla scoperta di otto temi sulla legalità: mercato dell’arte, donne e lavoro, cyberbullismo, malattie mentali, frodi alimentari, dipendenze, custodia del creato e maltrattamento degli animali. Otto argomenti accompagnati da altrettante mostre e concerti, il tutto spalmato su otto giornate alle quali contribuiscono giornalisti, responsabili di testate giornalistiche, dirigenti scolastici, rappresentanti della Procura della Repubblica e delle forze dell’ordine, docenti universitari, musicisti ed artisti. “Questa iniziativa - spiega il procuratore Corrado Lembo - vuole coniugare il valore della giustizia, intesa come punto di riferimento della cultura, con i grandi temi dell’umanità sui quali andremo ad accendere un faro, servendoci dell’arte e della musica per rassicurare il pubblico”. Si parte il 9 marzo con l’incontro moderato dal giornalista Eduardo Scotti dal titolo “Il mercato dell’arte” (ore 19,30, Salone degli Stemmi) incentrato sulle nostre eccellenze creative, che si concluderà con il concerto del violinista “made in Italy” Giuseppe Gibboni e l’inaugurazione della mostra “After”, allestita nella Sala Portico Alfano I - fruibile dalle ore 17,30 alle 20 fino al 14 marzo. “È una collettiva curata dalla Biennale d’Arte Contemporanea di Salerno che ha chiamato all’appello quarantacinque artisti nazionali ed internazionali che si sono cimentati nell’impresa di raccontare tutto il percorso delle opere d’arte, dalla genesi al mercato. Un tragitto interpretato da tutti nel medesimo formato trenta per trenta, ma utilizzando tecniche pittoriche diverse”, spiega Olga Marciano, artista che ha confermato dalla passata edizione la sua collaborazione, organizzando tutti i momenti espositivi: mostre collettive, di fotografia e personali di pittura, tra cui “State of Mind”, personale dell’artista laziale Antonella Tomei che ha interpretato il tema della malattie mentali con il forte linguaggio che la distingue (dal 20 al 24 aprile). “Sono lieto di ospitare questo evento che può creare le condizioni di crescita della comunità. La conoscenza è il presupposto per andare oltre e noi lo facciamo approfondendo tematiche delicate che andremo a comprendere senza, però, farci sopraffare dalla loro stessa natura negativa: vogliamo prendere coscienza dei problemi che affliggono l’uomo oggi e, attraverso la loro declinazione nell’arte, superarli: il bello ci guiderà come una cometa in questa impresa”, così monsignor Luigi Moretti particolarmente legato al tema ispirato dall’enciclica papale sulla salvaguardia del creato, in agenda l’8 giugno. “Questi incontri non vogliono avere la presunzione di trovare risposte. L’obiettivo è aprire un ragionamento che sensibilizzi alla comprensione emotiva del problema stesso”, chiarisce Imma Battista direttrice del Conservatorio di Salerno, che tra i vari concerti, tutti di altissimo livello, segnala “C’era una volta”: il musical sulla sopraffazione dei prepotenti nel mondo delle fiabe in programma il 6 aprile alle 20, in seguito al convegno sul cyberbullismo e all’inaugurazione della mostra “Uccidere con un clic” a cura dell’Università di Videogiochi e Animazione. Bologna: l’educazione religiosa ai detenuti musulmani in Italia e in Europa di Ignazio De Francesco* La Stampa, 3 marzo 2018 Dal 5 all’8 marzo la Fondazione per le scienze religiose “Giovanni XXIII” organizza a Bologna le giornate internazionali della European Academy of Religion. Il programma è articolato in sessioni di lavoro, sedute plenarie, lezioni magistrali e tavole rotonde. All’evento parteciperà anche Ignazio De Francesco, scrittore e monaco della Piccola Famiglia dell’Annunziata, che interverrà sul tema della educazione religiosa ai detenuti musulmani in Italia e in Europa. Può sembrare paradossale presentare la prigione - un luogo dove nessuno vorrebbe mai essere - come un laboratorio di esperienze utili per la società. Tuttavia, questo paradosso si è verificato nel carcere bolognese Dozza, uno delle più grandi strutture detentive d’Italia e con la più alta percentuale di detenuti musulmani: fino al 9 maggio 2017, su 758 detenuti, 418 erano registrati come stranieri, pari ad oltre il 55%. In base al paese d’origine, si può stimare che oltre un terzo del totale siano musulmani. Questo percorso è stato descritto in maniera molto dettagliata in tre pubblicazioni che ho scritto, da solo o in collaborazione con altri. In primis in “Leila della tempesta. Un’avventura di dialogo tra le culture” (Zikkaron 2016), una raccolta di dialoghi personali con un certo numero di detenuti musulmani; poi in “Diritti, doveri e solidarietà” (pubblicato dalla Regione Emilia Romagna, 2015 e 2016) che descrive il percorso didattico realizzato nella scuola penitenziaria. Iniziato nel 2009, sotto forma di interviste individuali, il percorso è culminato nel periodo tra il 2013 e il 2016, in due progetti inclusi nel programma scolastico, “In Viaggio con Ibn Battuta” (2013-2014) e “Diritti, doveri e solidarietà”. Si tratta di qualcosa di assolutamente nuovo, e non solo dal punto di vista italiano, nel panorama delle attività educative offerte ai detenuti. Sulla base dell’esperienza maturata durante le interviste individuali, entrambi i progetti partono dall’idea di utilizzare, per quanto possibile, il background culturale, etico e religioso degli studenti, in questo caso musulmani. I due programmi, svolti in 58 incontri, hanno coinvolto complessivamente circa 180 carcerati, la maggior parte dei quali provenienti da Nord Africa (Marocco, Tunisia, Algeria), con l’aggiunta di alcune presenze provenienti da Paesi come Egitto, Pakistan, Afghanistan e Nigeria. La chiave di volta del progetto è stata l’ampio ricorso a fonti arabo/musulmane: non solo il Corano e gli hadith, ma anche testi giuridici, compendi di etica, opere letterarie e infine alcune fra le recentissime Costituzioni promulgate nei Paesi arabi, quindi tutti scritti per lo più, se non interamente, da musulmani. L’idea guida era quella di mostrare l’Islam non come una minaccia da dover controllare e neutralizzare, ma al contrario, come partner nel progetto educativo dei detenuti musulmani. Questo significa anche superare una posizione che si limita a lasciare spazio all’Islam solo nel contesto della libera espressione della pratica religiosa, come esercizio di culto, sia individuale che di gruppo, la pratica del digiuno e l’osservazione dei divieti alimentari. In questo contributo presenterò quattro esempi del lavoro svolto, tutti documentati in video da Marco Santarelli, autore del docu-film intitolato “Dustur”: 1. Il diritto di Dio e/o il diritto degli uomini? Cercare di risolvere questo dilemma è molto importante perché rappresenta uno dei punti decisivi per orientare in modo armonico il proprio rapporto con i principi di cittadinanza in una società secolare, multietnica, multi-religiosa e multiculturale. I detenuti partecipanti al corso sono guidati nella scoperta dei fondamenti storici della sharia, i cui principi emergono in precisi contesti geografici e storici. Una riscoperta attenta alla storia aiuta a indicare, nell’attività interpretativa delle tradizioni, uno strumento fondamentale per adattare i precetti religiosi a nuovi contesti. 2. Relazioni di genere e parità tra uomini e donne. Si tratta di un tema di grande importanza, non solo per l’evoluzione del mondo musulmano in generale, ma soprattutto per la presenza dei musulmani in Europa e per i matrimoni tra musulmani e non musulmani. Tra gli effetti dei processi di inasprimento delle pene detentive, sono da annoverare quelli negativi sulle relazioni di genere. Il filmato mostra un percorso che parte dal Corano e si confronta con la Bibbia, per indicare i principi religiosi della parità tra uomini e donne. Un secondo passaggio parla dell’emergere di “tradizioni sacralizzate”, che però non solo sono prive di un vero e proprio sostegno da parte delle fonti sacre ma sono anche promotrici di disuguaglianza. La “critica delle tradizioni umane” di tipo maschile è quindi un percorso prezioso da sviluppare. 3. Una risposta religiosa alla presunta legalità religiosa del traffico di droga. Un gran numero di narcotrafficanti musulmani sono stati indotti a questa attività dall’asserzione, sostenuta anche dalla pseudo-fatwa (le risposte musulmane secondo la giurisprudenza) secondo cui le droghe sono vietate ai musulmani ma il loro commercio con i non musulmani è possibile. Si afferma addirittura che la vendita di droghe agli “infedeli” sia un atto lodevole verso Dio, oltre ad essere remunerato in Paradiso come atto di jihad. Di fronte a tale insidiosa argomentazione (di grande effetto nei processi di radicalizzazione}, cerchiamo di offrire risposte dettagliate direttamente dall’interno del codice religioso musulmano. Il filmato documenta ciò che è stato fatto a riguardo. 4. Libertà religiosa e/o libertà di coscienza. L’ultimo filmato indica la strategia da seguire per quanto riguarda un altro punto molto delicato: la libertà religiosa. La premessa è che questa libertà, garantita ai musulmani in Italia e in tutta Europa, significa anche libertà di propaganda religiosa e quindi di conversione all’Islam. La domanda che segue è: è vero anche il contrario? È possibile che un musulmano accetti la conversione di un altro musulmano verso un’altra religione o semplicemente che dichiari pubblicamente la sua rinuncia? La discussione in classe mira in primo luogo a far emergere, tra i partecipanti, una varietà di posizioni, ognuna delle quali ha una base religiosa: “Non c’è costrizione nella religione”, “io ho la mia religione, tu hai la tua”, fino a “l’apostata deve essere ucciso”. La pluralità delle posizioni è stimolata ad apparire senza censura. Su questa tela vuota di idee è possibile inserire, da un lato, ciò che la Costituzione italiana prescrive sulla libertà religiosa; dall’altro si possono indicare le importanti aperture delle Costituzioni arabo-musulmane, come quella tunisina, che introducono l’idea della libertà di coscienza (art. 6). *Scrittore e monaco della Piccola Famiglia dell’Annunziata Roma: “Racconti dal carcere”, i 15 finalisti del Premio Goliarda Sapienza di Martina Blasi indire.it, 3 marzo 2018 Scrivere per essere liberi, perché la fantasia porta lontano, certamente oltre quelle sbarre e quei muri all’interno dei quali si è stati condannati a vivere. Ma anche scrittura e lettura come strumenti di educazione e di rieducazione: sono anche questi i sentimenti e gli obiettivi con cui, ormai sette anni fa, è stato creato il Premio Goliarda Sapienza, un concorso letterario nazionale rivolto alle persone detenute, curato dalla giornalista Antonella Bolelli Ferrera, e promosso dalla Onlus Inverso, dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e dalla Siae. Gli autori dei racconti vengono affiancati da grandi scrittori, giornalisti e artisti che svolgono la funzione di tutor. I racconti finalisti, con le introduzioni dei tutor, sono pubblicati ogni anno in un libro i cui proventi sono devoluti a iniziative in favore della cultura della legalità. Tante storie di vita vissuta o di fantasia, tanti modi di intendere la scrittura, come unico veicolo di evasione, come sfogo catartico che fa immaginare, anche solo per poco e davanti a un foglio bianco, di essere qualcun altro, come doloroso modo di fare i conti con il proprio passato e venirne a patti. “Le persone che finiscono in carcere - commenta Dacia Maraini, tutor d’eccezione del corso di scrittura insieme ad altri nomi importanti della cultura e dello spettacolo - continuano a subire il dramma vissuto. Raccontarsi è un modo di capire e di prendere le distanze. Scrivere serve ad avere un respiro diverso, a riacquisire uno sguardo meno disperato, a guardare a se stessi senza rabbia e senza odio. La scrittura dà serenità. Credo molto nella possibilità della rieducazione, ma deve essere una rieducazione che parte da se stessi, non da qualcuno che ti addossa delle responsabilità. In questo senso, la cultura è di grande aiuto”. Su Epale, la piattaforma europea dedicata all’educazione degli adulti, è disponibile un articolo dedicato al Premio Goliarda Sapienza, con le principali novità introdotte quest’anno nel laboratorio di scrittura: tra queste l’e-writing e la scrittura a distanza. È possibile leggere e votare il migliore fra i 15 racconti finalisti entro l’11 marzo. La cyber-sicurezza in Italia? Ignorata dalla politica di Carola Frediani La Stampa, 3 marzo 2018 Aumentano gli attacchi e i costi che provocano. Ma per i politici non sono una priorità. Anche quando li subiscono. Per riprendersi da una violazione di cyber-sicurezza ci vogliono in media 74 giorni. Lo ha calcolato Ntt Data, multinazionale giapponese di servizi e consulenza di tecnologie dell’informazione. Certo, il periodo di gestione della crisi è in genere più ridotto; basti pensare che Maersk, il gigante danese dello shipping colpito l’anno scorso dall’infezione NotPetya, ha reinstallato tutto in dieci giorni, mentre le attività erano condotte “a mano”. Uno sforzo “eroico”, che normalmente avrebbe richiesto mesi, aveva specificato Jim Hagemann Snabe, il presidente della compagnia nordeuropea. A Maersk l’attacco è costato circa 250-300 milioni di dollari (175 milioni in costi e 135 milioni in mancate vendite). Anche il colosso farmaceutico Merk e quello delle spedizioni FedEX, entrambi colpiti da NotPetya, hanno avuto circa 300 milioni di danni a testa. Costi e attacchi in crescita - Non stupisce dunque che, secondo i calcoli di NTT Data, in media serva un milione di euro per risanare la situazione dopo un attacco informatico. E questo senza tenere in considerazioni i possibili costi d’immagine e reputazione, che ovviamente variano a seconda del tipo di azienda e delle eventuali negligenze. Tutto ciò mentre la quantità e l’entità delle minacce appaiono in crescita. Nel suo ultimo rapporto annuale sugli attacchi a livello globale, il Clusit, associazione italiana per la sicurezza informatica, rileva un “trend di costante crescita degli attacchi, della loro gravità e dei danni conseguenti, trend che in base alle nostre analisi persiste ormai senza interruzione da 7 anni”. Evidente l’accelerazione impressa dal biennio 2016-2017, tra attacchi sponsorizzati da Stati, infezioni globali (Wannacry e NotPetya), cybercriminalità. Tanto che anche l’ultimo rapporto sul rischio del World Economic Forum, rilasciato a gennaio, arriva a classificare i cyberattacchi al terzo posto tra i maggiori rischi globali, dopo disastri naturali ed eventi climatici estremi. E ritiene che possa ancora intensificarsi nel 2018. Mancano dati sull’Italia - Secondo l’analisi del Clusit, a crescere, sempre a livello globale, sono il cyber-crimine, l’information warfare (attività dentro cui probabilmente ricadono attacchi a soggetti politici e leak di dati), e soprattutto il cyber-spionaggio. Mentre appaiono in calo netto (-50%), come già l’anno precedente, le operazioni di hacktivisti. Peccato però come al solito non avere maggiori dati sull’Italia. Mentre infatti il costo stimato per l’economia Usa di “attività cyber malevole” si aggirerebbe tra i 57 e 109 miliardi di dollari (dati Council of Economic Adivisers), ovvero tra lo 0,3 e lo 0,6 del Pil di quell’anno, “sfortunatamente non possiamo, per la (ormai critica) mancanza di dati e statistiche ufficiali, svolgere una valutazione analoga per l’Italia”, scrive il Clusit. Anche se va detto, come anticipato da La Stampa, che in futuro dovrebbero arrivare dei dati sull’impatto degli attacchi almeno da due diverse iniziative di Bankitalia e Istat. Per altro la stessa Bankitalia ha già rilevato che il 45 per cento delle aziende nazionali sono state colpite da un qualche attacco nel corso di un anno. Senza contare l’effetto di maggior trasparenza sulle violazioni che dovrebbe avere l’entrata in vigore del nuovo Regolamento europeo sulla privacy (il Gdpr), applicabile dal 25 maggio. Pochi investimenti e interesse dalla politica - Nel mentre, “il problema più grave ed urgente rimane questo - scrive ancora il rapporto Clusit - ovvero la cronica (e drammatica) insufficienza degli investimenti in cybersecurity nel nostro Paese, che ci pone sostanzialmente ultimi tra i paesi avanzati e rischia di condizionare seriamente lo sviluppo dell’Italia ed il benessere dei suoi cittadini nei prossimi anni”. Il riferimento è ai 150 milioni di euro d’investimenti in cybersicurezza stanziati dalla Legge di stabilità del 2016 e per ora ancora abbastanza fumosi. Il rapporto prosegue con una bordata ai partiti in campagna elettorale. “In questo senso, l’assordante silenzio di tutte le forze politiche sulle tematiche di sicurezza cibernetica nel corso della campagna elettorale non fa ben sperare, ed anzi e` sintomo di una drammatica mancanza di sensibilità in materia, che deve essere urgentemente ricondotta a dei livelli accettabili per un Paese tecnologicamente avanzato come il nostro”. In effetti, i principali partiti sembrano essersi pressoché dimenticati del tema, a parte per esigui riferimenti nei loro programmi. Eppure, nel 2017 non sono mancati episodi eclatanti, dalla presunta campagna di spionaggio attribuita ai fratelli Occhionero, agli attacchi ai sistemi di Farnesina e dipartimento per la Funzione Pubblica, a campagne vaste di phishing contro utenti italiani (come quella via botnet Andromeda) per arrivare a telco, banche, cambiavalute online, ricorda il rapporto. Inoltre, va aggiunto, ancora recentemente ci sono stati attacchi e violazioni di dati proprio nei confronti di tre delle maggiori formazioni politiche. Nel solo mese di febbraio, ad esempio, PD, M5S e Lega hanno tutti subito violazioni. In particolare il gruppo Anonplus ha pubblicato l’elenco degli iscritti al Partito Democratico di Firenze. L’hacker r0gue_0, già protagonista della violazione della piattaforma Rousseau, si è rifatto vivo rilasciando dati sensibili su Davide Casaleggio (in risposta alla notizia dell’identificazione del white hat “Evariste Galois” che, in modo indipendente, aveva evidenziato le vulnerabilità della stessa piattaforma, ed era stato denunciato dalla Casaleggio). E infine, ancora AnonPlus ha violato il sito di Matteo Salvini; e successivamente ha anche diffuso un leak di email di iscritti della Lega. Migranti. Rosarno, 2000 persone vivono ancora nella baraccopoli bruciata di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 marzo 2018 Lo denunciano Amnesty International e l’associazione dei Medici per i Diritti Umani. Poco più di un mese fa, la notte tra il 26 e il 27 gennaio, un incendio ha distrutto la baraccopoli calabrese di San Ferdinando. Cenere e fango hanno preso il posto di alcune delle baracche, circa 200, costruite con pezzi di legno, lamiere e teli di plastica, in quella che avrebbe dovuto essere, 8 anni fa, una soluzione “temporanea” messa a punto dopo la rivolta dei braccianti di Rosarno. Un incendio che costò la vita di una donna nigeriana di 26 anni, venne ritrovata completamente carbonizzata. Nonostante ciò, ad oggi, vivono ancora quasi 2.000 persone senza servizi igienici, acqua o corrente elettrica, sopravvivendo in condizioni disumane. A denunciare la situazione è Amnesty International e Medu, l’associazione dei Medici per i diritti umani. La tensostruttura della Protezione civile, approntata nelle ore immediatamente successive al rogo e in grado di ospitare solo 198 persone, è stata smantellata la mattina del giorno 8 febbraio e solo parte delle persone accolte sono state trasferite presso una nuova tendopoli del ministero dell’Interno situata a poca distanza: secondo le due organizzazioni non governative è composta da 29 tende in grado di ospitare fino a 174 persone, senza servizi igienici, acqua ed elettricità, montate sulla terra nuda, in un’area che poche gocce si trasformano in una palude. Eppure, secondo un rapporto dell’Agenzia regionale per la Protezione dell’Ambiente della Calabria, consegnato qualche giorno fa alla prefettura di Reggio Calabria, occorre mettere in sicurezza quanto prima l’area su cui insiste la vecchia tendopoli e le persone che ci vivono visto l’alto grado di tossicità - dovuto alla combustione incontrollata di rifiuti eterogenei in grado di produrre diossine ed altre sostanze inquinanti dannose alla salute umana - che rende necessario e prioritario tutelare vite umane. Solo due giorni prima del nuovo trasferimento, le associazioni attive nella piana di Gioia Tauro erano state convocate dal Commissario straordinario di governo e dal Sindaco di San Ferdinando - unici interlocutori istituzionali presenti - per essere informate sulle soluzioni individuate dalle istituzioni per far fronte nell’immediato alle sempre più critiche condizioni di vita dei lavoratori rimasti a vivere nei resti insalubri della vecchia baraccopoli. In quell’occasione, i medici per i diritti umani, insieme alle altre associazioni presenti, avevano chiesto che la struttura in corso di allestimento fosse predisposta in modo tale da garantire condizioni di vita dignitose e adeguate, tra cui servizi igienico- sanitari in numero proporzionale alle persone accolte, adeguato allestimento e riscaldamento delle unità abitative, presenza di operatori professionali con formazione specifica, servizi di assistenza ed orientamento sociale e legale, mediazione linguistica e culturale, adeguata informativa rispetto ai diritti dei lavoratori agricoli. Niente di tutto questo è stato purtroppo realizzato. Le iniziative finora intraprese appaiono, quindi, una improvvisata soluzione d’emergenza, che non risponde alla necessità di garantire, nemmeno in maniera provvisoria, una capienza adeguata ad accogliere tutti i lavoratori attualmente presenti e di tutelare la sicurezza di tutti coloro che vivono nella zona industriale di San Ferdinando. Con i pochi posti a disposizione, è stato infatti possibile dare un letto soltanto a chi dormiva nella tensostruttura della Protezione civile (e probabilmente nemmeno a tutti, nonostante la struttura sia stata rimossa), lasciando gli abitanti della vecchia tendopoli a dormire ancora su strati di plastica e gomma bruciata. Inoltre, vista la prossimità all’area da bonificare, mancano garanzie - non fornite al momento - sul fatto che la tossicità del luogo non mantenga i suoi effetti nocivi anche a poche decine di metri di distanza. Alla luce dei concreti rischi in termini di salute e sicurezza, evidenziati a più riprese dalle istituzioni, Medu e Amnesty International Italia chiedono con forza che venga garantita nell’immediato a tutte le persone presenti nell’area una soluzione di accoglienza dignitosa e con standard igienico-sanitari e di sicurezza adeguati, in grado di tutelare in primo luogo la salute e i diritti fondamentali di ogni persona. Se la jihad risorge dall’Africa di Gianluca Di Feo La Repubblica, 3 marzo 2018 L’attacco nella capitale del Burkina Faso conferma le peggiori previsioni: è l’Africa il nuovo incubatoio del jihadismo. L’operazione scattata ieri a Ouagadougou ha preso di mira soprattutto l’ambasciata francese e il comando dell’esercito, lasciando a terra una trentina di morti. L’attacco nella capitale del Burkina Faso conferma le peggiori previsioni: è l’Africa il nuovo incubatoio del jihadismo. L’operazione scattata ieri nel centro di Ouagadougou ha preso di mira soprattutto l’ambasciata francese e il comando dell’esercito, lasciando a terra una trentina di morti e novanta feriti. Un assalto pianificato con cura: dopo l’esplosione di alcune autobombe, diversi gruppi sono entrati in azione, scatenando una battaglia durata ore. È il terzo attentato eclatante messo a segno in un Paese poverissimo che fino al 2015 non aveva mai conosciuto la violenza di matrice religiosa, nonostante metà degli abitanti siano musulmani e un terzo cristiani. Come nel resto del continente, il fondamentalismo armato si diffonde seguendo le antiche carovaniere del deserto, dal Sahel al Maghreb fino alle coste del Mediterraneo: le stesse strade su cui si incanala una marea di disperati che sogna di raggiungere l’Europa. Contrariamente a quanto accaduto in Medio Oriente, qui le diverse sigle che fanno riferimento ad Al Qaeda e all’Isis collaborano, almeno nel raggiungimento degli obiettivi. L’epicentro è la regione settentrionale del Mali, da cui partono predicatori d’odio e squadre combattenti: gli attacchi sono i manifesti, seguiti dal proselitismo tra le comunità islamiche. Con un disegno strategico da incubo: collegare l’insurrezione nigeriana di Boko Haram con i gruppi qaedisti attivi in Algeria, Tunisia e Libia, fino a creare un colossale territorio jihadista in tutta l’Africa Occidentale. I primi a reagire sono stati i francesi, che nel 2012 sono intervenuti contro la ribellione islamica in Mali allargando poi l’operazione a cinque Paesi del Sahel con l’impiego di tremila soldati. Al loro fianco c’è una crescente attività statunitense e alcuni contingenti europei, inclusa la missione italiana che sta prendendo posizione in Niger. In tutto, si tratta di circa 5.000 militari occidentali, che si dedicano in prevalenza ad addestrare eserciti e polizie locali. Impedire che il Sahel diventi la terra del nuovo Califfato è un compito che spetta all’Europa. Non solo nella repressione, ma soprattutto nell’imprimere uno sviluppo economico rapido. Il jihadismo si nutre delle storiche divisioni tribali e della povertà di questi Paesi, cavalcando l’insofferenza popolare per la cleptocrazia dei governi, che divorano le risorse e gli aiuti internazionali. Se la presenza europea sarà solo militare, finirà per apparire come una riproposizione moderna del colonialismo, amplificando così il messaggio fondamentalista. È necessario invece che l’intervento si trasformi in benessere per tutta la popolazione, trasmettendo un segnale concreto di cooperazione. L’Ue sembra avere chiaro il nodo della questione. Una settimana fa a Bruxelles, oltre ai 500 milioni per il potenziamento delle forze armate del Sahel, è stato rilanciato il piano di aiuti che prevede sei miliardi di euro entro il 2022: fondi da dividere in cinquecento progetti che generino lavoro, formazione, crescita. È questa la grande sfida: tenere la corruzione lontano dal tesoro e far diventare quest’ultimo la sorgente dello sviluppo africano. Solo così si potranno fermare la ferocia jihadista e le nuove ondate migratorie. Siria. Più di 600 civili uccisi a Ghouta est in 2 settimane di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 3 marzo 2018 Almeno 613 civili, tra cui almeno 147 bambini, sono rimasti uccisi dal 18 febbraio a Ghouta orientale, l’enclave ribelle siriana alla periferia est di Damasco, “martellata” da bombardamenti condotti dalle forze fedeli al presidente siriano e dai loro alleati. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, soltanto giovedì sono stati uccisi 9 civili. E il bilancio potrebbe essere ancora più alto. Secondo i Caschi bianchi (gli uomini e le donne della Syrian Civil Defence, un’organizzazione fondata nel 2013 per aiutare le vittime del conflitto siriano), dal 18 febbraio i bombardamenti del regime hanno causato oltre 666 morti e 2.278 feriti. Nonostante la diminuzione dell’intensità degli attacchi aerei, gli scontri terrestri non accennano a fermarsi in Ghouta orientale. I bombardamenti sono continuati anche negli ultimi giorni a dispetto della tregua di 30 giorni imposta in Siria dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e la “pausa umanitaria” di 5 ore al giorno, dalle 9 alle 14, decisa dal presidente russo Vladimir Putin. La tregua è prevista ogni giorno per consentire l’ingresso degli aiuti umanitari nell’area e la partenza dei civili dall’enclave ribelle assediata. Nessun civile, esclusa una coppia anziana di cittadini pakistani, o convoglio di aiuti ha ancora attraversato il corridoio umanitario istituito tre giorni fa presso la località di Al-Wafidine. Sono quasi 400mila i civili sono assediati in Ghouta orientale dalle forze fedeli al governo di Damasco. Quest’area, una delle ultime roccaforti della ribellione contro il governo, è una delle quattro “zone di de-escalation” individuate a maggio dalla Russia e dall’Iran, alleati del regime, e dalla Turchia, che sostiene i ribelli, che hanno dato vita a queste aree per cercare di raggiungere una tregua duratura in un paese, devastato da una guerra distruttiva che ha ucciso oltre 340mila persone. Oggi il presidente francese, Emmanuel Macron, e il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, nel corso di un colloquio telefonico, hanno detto di “esigere l’applicazione immediata della risoluzione Onu” sulla tregua in Siria. Arabia Saudita. Criticava la guerra nello Yemen: sei anni di carcere per un attivista La Repubblica, 3 marzo 2018 Secondo quanto riferisce il quotidiano Okaz è accusato di aver criticato l’intervento militare nel Paese dove è in atto una guerra dalle conseguenze catastrofiche che in 3 anni ha provocato quasi 10 mila morti e 22 milioni di persone che hanno bisogno di assistenza. Un tribunale saudita ha condannato a sei anni di prigione l’attivista pro diritti umani Issa al-Nukheifi. La sentenza - si apprende da Asia News - è giunta nel tardo pomeriggio di ieri e ha riconosciuto colpevole l’imputato per alcuni tweet critici verso il governo diffusi in passato. Secondo quanto riferisce il quotidiano Okaz, egli è accusato di aver criticato l’intervento saudita in Yemen, dove è in atto una guerra con conseguenze “catastrofiche” che - meglio ricordarlo - in 3 anni ha provocato quasi 10 mila morti e 22 milioni di persone che hanno bisogno di assistenza; di queste, circa 8 milioni e mezzo sopravvivono in condizioni di carestia. In più, sono stati accertati più di un milione di casi ed emergono casi di difterite. La caccia agli attivisti. Secondo l’accusa, l’attivista avrebbe anche “insultato” il governo e “messo in discussione” le decisioni, le misure di sicurezza e i provvedimenti in tema di giustizia penale. Il gruppo saudita pro diritti umani Alqst, con base a Londra, riferisce che l’attivista è stato arrestato nel dicembre 2016. Gli attivisti di Amnesty International parlano di condanna di natura politica e chiedono l’immediata scarcerazione dell’uomo. Invece di chiedere l’aiuto degli attivisti, per rafforzare il cammino di riforme - come quella recente voluta da Re Salman, che ha rinnovato i vertici delle forze di terra e di aria, a causa dei fallimenti militari nello Yemen - le autorità “danno loro la caccia, con tutti gli attivisti silenziati o imprigionati”, sottolinea Dana Ahmed responsabile per il Paese di Amnesty International. Oltre ai sei anni di carcere, Issa al-Nukheifi una volta liberato non potrà utilizzare per altri sei anni internet o i social media; per tutto il periodo non potrà nemmeno lasciare il Paese per viaggi all’estero. Già in carcere per 4 anni. L’attivista era già stato incarcerato nel 2012 e rilasciato nell’aprile del 2016. A soli otto mesi di distanza il nuovo fermo, conclusosi con la condanna di ieri. Nelle scorse settimane, alla vigilia del processo, al-Nukheifi aveva scritto una lettera al potente principe ereditario (e numero due del Paese) Mohammed bin Salman (Mbs) dicendosi felice per i suoi interventi “a favore della libertà di espressione e dei diritti umani”. “Le scrivo dalla mia cella - ha aggiunto l’uomo - dove sono stato rinchiuso per aver chiesto proprio questi passi”. Nel settembre scorso le autorità saudite hanno arrestato decine di religiosi, intellettuali e studiosi, attirandosi le critiche di gruppi e organizzazioni internazionali pro diritti umani. Queste azioni mirate contro quanti chiedono maggiori libertà e diritti è una “coordinata repressione del dissenso”. Arabia Saudita. La rivoluzione silenziosa di Danya e le altre di Paolo Lepri Corriere della Sera, 3 marzo 2018 Una rivoluzione silenziosa è il documentario, appena presentato a Berlino, in cui la regista saudita Danya Alhamrani racconta le donne che come lei sono arrivate dove nessuna prima di loro aveva mai sperato. Ci si chiede come abbiano fatto in un Paese nel quale l’interpretazione più rigida delle legge islamica prevede divieti incredibili e impedisce di prendere decisioni sulla propria vita senza il consenso di un tutore di sesso maschile. Tra queste donne - atlete, giornaliste, dirigenti dell’Onu - anche Raha Moharrak, la prima alpinista proveniente dalla monarchia wahabita che ha conquistato il Monte Everest. Danya, 45 anni, è nata in North Dakota. Madre americana, padre saudita. Dopo aver studiato cinema a San Diego, ha fondato a Gedda (dove la famiglia si era trasferita) la prima casa di produzione creata e diretta da una donna. “Niente è stato facile, ma il cambiamento è inevitabile”, ha detto in un’intervista a Deutsche Welle, spiegando il paradosso di una società dominata dalla segregazione in cui qualche volta si può salire in alto superando molti ostacoli ma è sempre stato impossibile - per chi appartiene all’altra metà del mondo - fare passi graduali partendo dal basso. Che cosa sta accadendo in questo Paese ultraconservatore, i cui spiragli di novità sono stati messi in evidenza recentemente da Thomas Friedman? Come ha scritto Viviana Mazza sul Corriere, con il piano “Vision 2030” il principe ereditario Mohammed bin Salman “vuole “saudizzare” l’economia, per ridurre la disoccupazione giovanile, e “femminilizzare” il mercato del lavoro”, affiancando aperture sociali alle riforme in grado di garantire l’indipendenza dal petrolio. Intanto è stato abolito il divieto di guida per le donne, che da dicembre possono partecipare a manifestazioni sportive. Ma non bisogna fare l’errore, avverte lo studioso tedesco Sebastian Sons, autore di Costruito sulla sabbia. Arabia Saudita,un alleato problematico, di chiudere gli occhi sulla “catastrofica” situazione dei diritti umani: il numero delle condanne a morte e dei prigionieri politici è aumentato fortemente da quando re Salman è salito al trono. La rivoluzione silenziosa, insomma, deve trovare qualche altoparlante da noi, in Europa.