Giornata di digiuno per l’abolizione dell’ergastolo di Peppe Sini* pressenza.com, 31 marzo 2018 Ieri ho preso parte alla giornata di digiuno per l’abolizione dell’ergastolo promossa dall’associazione Liberarsi, un’esperienza da molti anni impegnata per i diritti umani di tutti gli esseri umani. So che un giorno di digiuno non è una gran cosa. Ma se è un gesto condiviso da tante persone, e che si unisce a tanti altri gesti, può forse contribuire ad ottenere che finalmente il Parlamento italiano abolisca l’ergastolo, che è una barbarie incompatibile con la dignità umana, con un ordinamento giuridico democratico, con la Costituzione della Repubblica Italiana. E valga il vero. L’ergastolo è incompatibile con la Costituzione della Repubblica Italiana che prevede che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”: una perpetua segregazione dal resto dell’umanità è evidentemente un trattamento contrario al senso di umanità. L’ergastolo è incompatibile con un ordinamento giuridico democratico, che a tutti gli esseri umani riconosce il diritto ad esistere, a vivere una vita degna ed a migliorare le proprie condizioni di vita: una perpetua segregazione dal resto dell’umanità nega l’umanità delle vittime di tale misura, e quindi nega l’umanità dell’intera umanità. L’ergastolo è incompatibile con la dignità umana, poiché imporre a una persona una perpetua segregazione dal resto dell’umanità equivale ad annientarla nella sua fondamentale struttura relazionale ed a negarne la qualità stessa di persona. La civiltà comincia con la decisione di non uccidere, di salvare le vite. Segregare per sempre una persona dal resto dell’umanità è come seppellirla viva: è un crimine ed una tortura; è una barbarie incompatibile con ogni valore morale e civile. Unisco pertanto anche la mia voce all’appello al Parlamento affinché sia finalmente abolita la flagrante barbarie dell’ergastolo. *Responsabile del “Centro di ricerca per la pace e i diritti umani” di Viterbo Oltre 2.500 detenuti digiunano per l’abolizione dell’ergastolo Redattore Sociale, 31 marzo 2018 Nel giorno del Venerdì Santo, adesioni in 30 carceri all’iniziativa della Chiesa Valdese di Firenze, della Comunità delle Piagge e dell’Associazione Liberarsi. “Riteniamo necessario scuotere le coscienze, sensibilizzare l’opinione pubblica, e mettere in luce la situazione reale dei 1.677 ergastolani”. Questa sera veglia alle Murate di Firenze. “Una morte bianca”: i familiari dei detenuti contro l’ergastolo ostativo di Giuliana Covella Il Mattino, 31 marzo 2018 “Ogni volta è una Via Crucis e in questi giorni che precedono le feste ancora di più. Ma a pagarne le spese sono soprattutto i bambini, costretti a un calvario di attese interminabili”. Vittoria ha 35 anni, una figlia di 2 anni e un marito detenuto da tre anni per associazione camorristica. Due volte a settimana, per lo più il giovedì e il venerdì, la donna viene dall’altra parte della città per fare visita al consorte che è recluso nel carcere di Secondigliano. “Mi alzo quando è notte fonda per venire da Pianura - spiega - e la nostra odissea comincia alle 5.30, quando siamo già fuori al carcere ad aspettare in auto il turno per avere un numero. Oggi sono qui dalle 10 e, se tutto va bene, uscirò verso le 16”. La lunga attesa per i colloqui segue la stessa prassi: dopo aver aspettato il proprio turno all’ingresso per un paio d’ore, si accede ad una piccola sala ai piani superiori: “ci sono poche sedie - racconta la 35enne - non c’è un’area fumatori e se un bambino vuole bere non c’è nemmeno un distributore automatico”. Insieme ad altri familiari e ai rappresentanti di alcune associazioni, Vittoria ha partecipato al presidio che si è svolto questa mattina fuori al penitenziario per chiedere al ministero della Giustizia l’abolizione dell’ergastolo e dell’ergastolo ostativo. “Siamo qui a protestare contro un sistema malato - tuona Pietro Ioia, presidente dell’associazione Ex Detenuti Organizzati - in particolare contro una misura restrittiva come l’ergastolo bianco, che altro non è che una “morte bianca” per il carcerato. Dopo 30 anni si presume che chi ha sbagliato sia quantomeno cambiato. Ma se non gliene viene data la possibilità, gli si annulla anche la speranza di un futuro migliore. L’articolo 27 della Costituzione prevede la rieducazione del detenuto, ma questo regime carcerario è disumano e anti costituzionale”. In prima linea per i diritti dei detenuti, Ioia ha denunciato alcune guardie penitenziarie di Poggioreale, accusate di aver perpetrato presunte violenze ai danni dei reclusi nella cosiddetta cella zero. “Strano che proprio oggi mi abbiano bloccato per le visite ispettive che compio da due anni nelle carceri campane - denuncia Ioia - nemmeno il Dap ci ha dato spiegazioni, ma io andrò avanti con le mie battaglie perché alcuni istituti di pena della nostra regione sono repressivi e sono “carceri a delinquere”. Si può fare giornalismo sbeffeggiando la verità? di Piero Sansonetti Il Dubbio, 31 marzo 2018 È giusto chiedere che tra il giornalismo e i fatti realmente accaduti ci sia un qualche collegamento? O è una fisima da vecchi, legata a un’idea novecentesca e sorpassata di informazione? Ieri ho dato un’occhiata ai giornali - diciamo così - populisti, quelli più vicini, cioè, alla probabile nuova maggioranza di governo, e ho avuto l’impressione di una scelta fredda e consapevole: separiamo i fatti dalle opinioni - come dicevano gli inglesi - ma separiamoli in modo definitivo: cancellando i fatti, e permettendo alle opinioni di vivere in una propria piena e assoluta autonomia dalla realtà. Trascrivo alcuni di questi titoli, pubblicati in prima pagina a caratteri cubitali. Libero: “Scoprono solo ora che siamo pieni di terroristi bastardi”. (Sopra titolo, piccolino: “Retata di musulmani violenti”). La Verità, titolo simile: “Così importiamo terroristi”. Sopra titolo: “Presi i complici di Anis Amri”. Fermiamoci un momento qui. Qual è il fatto al quale ci si riferisce? La cattura, da parte delle autorità italiane, di una serie di persone di origine nordafricana sospettate di essere legate al terrorismo. Noi non sappiamo se effettivamente queste persone siano colpevoli. Ogni tanto - sapete bene vengono arrestati, o inquisiti, anche degli innocenti. È successo appena una settimana fa a un tunisino, che è stato linciato (dai mass media) lui e la famiglia prima che si scoprisse che non c’entrava niente. Ma ora non è questo il punto. Proviamo a capire quali sono le cose certe in questa vicenda. Che i servizi segreti italiani, o la polizia, hanno trovato dei sospetti terroristi. Che è in corso una operazione volta a sventare attentati. Che finora l’Italia è l’unico grande paese europeo che non è stato colpito da attentati. Che l’Italia è l’unico paese che ha catturato diversi sospetti terroristi. Che, tra l’altro, l’Italia è il paese che ha preso quel famoso Anis Amri (del quale parla La Verità) e cioè l’uomo accusato di una strage in Germania. È sfuggito alla polizia e agli 007 tedeschi ma non ai nostri. Punto. Traduzione in lingua giornalistica dell’arresto di Amri e di alcuni suoi probabili complici? “Importiamo terroristi”. Voi penserete: li importiamo dal mondo arabo. No, dalla Germania. In Germania loro sono liberi, qui vengono fermati. Traduzione. Invece dell’azione del governo, degli 007 e della polizia per fermare il terrorismo arabo (che ci fa invidiare da tutti gli altri europei): “Scoprono solo ora che siamo pieni di bastardi islamici”. C’è una barzelletta famosa, che qualche anno fa fu polemicamente raccontata ai giornalisti da Mitterrand, il presidente francese, e qualche anno dopo da Clinton (cambiando il protagonista). In mare c’è un ragazzo che sta affogando. Mitterrand lo vede e inizia a camminare sul pelo dell’acqua, arriva fino a lui ormai allo stremo, con un braccio lo tira su, se lo carica sulle spalle e lo riporta a riva. Salvandogli la vita. Tutto ciò, come avete capito, lo fa camminando sull’acqua, e non nuotando. Il giorno dopo i giornali francesi titolano: “Mitterrand non sa nuotare”. Mi pare che la barzelletta calzi bene e possa essere riferita ai titoli di Libero e della Verità Il Fatto invece non si occupa dei terroristi ma del Pd (il grado di ossessione di Libero e Verità per i terroristi, che, come è noto, negli ultimi vent’anni hanno messo a ferro e fuoco l’Italia, è simile al grado di ossessione del Fatto per il Pd). Titola: “Rivolta anti-Renzi: Basta Aventino vogliamo giocare”. La parola giocare è usata in senso positivo: partecipare, essere attivi. La rivolta in corso sarebbe stata avviata da Franceschini e Orlando. In cosa consisterebbe? Nel chiedere un atteggiamento amichevole del Pd verso i 5 Stelle, in contrasto con Renzi che invece vuole che il Pd resti all’opposizione. Dopodiché uno legge l’articolo del direttore, cioè di Travaglio, e scopre che Orlando e Franceschini se ne stanno in realtà zitti zitti e rintanati. E per questo Travaglio li rimprovera. Cioè li rimprovera proprio per non aver dato il via ad alcuna rivolta, che invece servirebbe. E servirebbe allo scopo di bloccare l’Aventino e di spingere il Pd ad una scelta simile a quella dei socialdemocratici tedeschi, i quali hanno chiamato i loro elettori ad un referendum interno per avere il permesso di collaborare con la Merkel. Travaglio dice che il Pd deve fare la stessa cosa. Però ci sono due imprecisioni, nel ragionamento. La prima è che il Pd non ha scelto l’Aventino, ma l’opposizione. Sono due cose molto, molto diverse. L’Aventino (cioè il ritiro dei propri deputati dal Parlamento) fu scelto dai socialisti e dai liberali, dopo l’assassinio di Matteotti (segretario del Psi). Socialisti e liberali, guidati da Giovanni Amendola, decisero di disertare il parlamento per delegittimarlo e dunque delegittimare il fascismo. I comunisti (guidati da Gramsci) fecero una scelta diversa. Dissero: restiamo dentro a combattere. Cioè rifiutarono l’Aventino e scelsero l’opposizione. In realtà andò male a tutti e due: il fascismo non fu delegittimato da Amendola e Turati né fermato da Gramsci, e finì per fare arrestare sia i socialisti sia i comunisti. Ma che c’entra tutto questo con l’attuale situazione? Niente. Qualcuno forse pensa - o ha detto che il Parlamento non è legittimo, e che le elezioni non valgono, e che i vincitori non sono legittimati a governare? Hanno detto tutti l’esatto contrario. Quanto all’alleanza tra Merkel e Spd è una alleanza che è impossibile paragonare a una possibile alleanza tra 5 Stelle e Pd. La Spd ha accettato di sostenere la Merkel esattamente con l’idea opposta a quella di Travaglio: e cioè per sbarrare la strada ai populisti. La Merkel e i socialdemocratici hanno già governato insieme e dunque non solo affatto incompatibili. Ma lasciamo stare la polemica politica, nella quale, effettivamente, è ovvio che le opinioni prevalgano su tutto. Restiamo nel campo del giornalismo. La domanda che mi tormenta è sempre la stessa: il giornalismo moderno ha bisogno dei fatti, delle notizie vere, delle verifiche, della somiglianza con la realtà, o invece si è trasformato in una specie di nuovo genere letterario, basato sulla fantasia, e volto esclusivamente a costruire polemiche politiche o culturali e ad influenzare, indirizzare, spostare l’opinione pubblica? Naturalmente nel giornalismo c’è stata sempre questa componente e questa aspirazione: di influenzare lo spirito pubblico. In tutte le attività culturali c’è questa aspirazione. Anche nella pittura, anche nel cinema. Però, fino a qualche anno fa, il giornalismo aveva - come la fotografia - la caratteristica di essere una attività intellettuale legata strettamente alla realtà, e il cui grado di autorevolezza si misurava esclusivamente valutando la sua vicinanza alla verità. Sempre meno è così. I giornali populisti vengono confezionati con un metodo che si fonda sul disprezzo per la realtà. La loro forza è direttamente proporzionale alla lontananza dalla realtà. Gli altri giornali oscillano, tentati dai vecchi valori e dai vecchi schemi del giornalismo europeo e americano, ma alla fine rassegnati a inseguire Vittorio Feltri. In dieci anni - cifra approssimativa - il giornalismo italiano ha completamente cambiato faccia. E le possibilità per i cittadini di essere informati si è enormemente ridotta. Dobbiamo prenderne atto e basta? Cioè considerare il divorzio tra giornalismo e verità e la sua trasformazione in genere letterario fantasioso, come un’inevitabile conseguenza della modernità? Se è così però bisognerà trovare qualche altro modo per informare e informarsi. La ricerca di questo nuovo modo dovrebbe essere la preoccupazione principale dei politici e degli intellettuali. E anche dei tantissimi giornalisti che sono stati tagliati fuori da questa nuova tednenza. La preoccupazione principale: perché nessuna democrazia può sopravvivere, senza una informazione decente. Caso Alpi, 3 milioni di risarcimento ad Hassan per errore giudiziario di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 marzo 2018 La Corte di appello di Perugia gli ha riconosciuto 500 euro al giorno per i 17 anni in carcere. Riconosciuto un risarcimento di oltre 3 milioni di euro per i 17 anni scontati da innocente. È quanto è stato disposto in favore di Hashi Omar Hassan, il somalo che ha scontato, da innocente, quasi 17 anni di carcere per gli omicidi di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin. Hassan, poi è stato assolto in un processo di revisione. La notizia, anticipata da Chi l’ha visto? - trasmissione che fece riaprire il caso, è stata poi confermata all’Ansa dall’avvocato Antonio Moriconi, uno dei legali di Hassan. La Corte di Appello di Perugia, che il 19 ottobre 2016 aveva assolto Hashi Omar Hassan dall’accusa di aver ucciso nel marzo 1994 a Mogadiscio la giornalista Ilaria Alpi e l’operatore Miran Hrovatin, gli ha riconosciuto un risarcimento di 3.181.500 euro per 6.363 giorni scaturiti da un errore giudiziario. Cinquecento euro per ogni giorno trascorso in carcere da innocente. Unico condannato (26 anni di reclusione) per l’omicidio della giornalista del Tg3, Ilaria Alpi e dell’operatore Miran Hrovatin, avvenuta a Mogadisco il 20 marzo del 1994, è stato scagionato nel 2016 e rimesso in libertà dalla Corte di Perugia che ha accolto la richiesta del sostituto procuratore generale Dario Razzi. “Se è vero che Hassan è stato condannato dobbiamo avere anche il coraggio di ammettere che possa essere innocente”, aveva detto il magistrato. Convinta dell’innocenza di Hassan si è sempre detta la famiglia di Ilaria Alpi. Teste chiave del processo a suo carico era stato un altro somalo, Ahmed Ali Rage, detto Jelle, il quale però prima alla trasmissione “Chi l’ha visto”, andata in onda il 18 febbraio 2015, aveva ritrattato le sue accuse. In particolare sostenendo di non aver “detto a nessuno” che Hassan “faceva parte del commando” autore del duplice delitto e “nemmeno che è stato lui a uccidere”. Spiegando di averlo collocato sull’auto degli assassini solo “per dare credibilità” al racconto, costruito su particolari raccolti da chi vide l’agguato. “L’ho fatto solo per andarmene via dal Paese”, aveva ribadito. Rimane però senza colpevole l’agguato che costò la vita a Ilaria Alpi e l’operatore Miran Hrovatin. Sul caso si sono alternati negli anni ben cinque magistrati e tre procuratori. Eppure, nessuno è riuscito a porre fine ai troppi evidenti depistaggi che hanno caratterizzato questa vicenda. L’unica certezza è che a pagarne ingiustamente le spese è stato il somalo Omar Hassan. Nel 2000 venne arrestato e inserito nel circuito E.I.V. (elevato indice di vigilanza) sezione “protetti”, riservata a soggetti che temono per la propria incolumità personale. Nel 2009 venne poi assegnato nel circuito “Media Sicurezza” riservato ai detenuti comuni e trasferito presso la sezione “protetti” del carcere di Padova. Presso tale sede non si verificarono criticità e dal 30.04.2013 ha iniziato a fruire di regolari permessi premio concessi dalla locale magistratura di sorveglianza; in data 19.04.2015 è stato scarcerato per affidamento in prova al servizio sociale. Nessuno potrà ridargli i 17 anni di vita rubati, ma almeno ha avuto il giusto risarcimento per l’errore giudiziario. È necessario distinguere il risarcimento per l’ingiusta detenzione da quello per l’errore giudiziario. Nel primo caso si fa riferimento alla detenzione subita in via preventiva prima dello svolgimento del processo e quindi prima della condanna eventuale, mentre nel secondo si presuppone invece una condanna a cui sia stata data esecuzione e un successivo giudizio di revisione del processo in base a nuove prove o alla dimostrazione che la condanna è stata pronunciata in conseguenza della falsità in atti. Campania: i Radicali e la Pasqua nelle carceri, i dati della visita ispettiva a Pozzuoli di Fabrizio Ferrante Ristretti Orizzonti, 31 marzo 2018 Si è svolta ieri pomeriggio, 30 marzo, una lunga visita ispettiva che una delegazione di Radicali Italiani ha effettuato all’interno del carcere femminile di Pozzuoli. Visita che ha seguito di poche ore quella che ha avuto luogo ad Aversa nell’ex Opg, oggi a tutti gli effetti un carcere modello (ci torneremo) e che ha preceduto l’ispezione che avrà luogo domattina nel carcere di Poggioreale. A Pozzuoli la delegazione guidata dai membri del comitato nazionale di Radicali Italiani, Emilio Quintieri e Sarah Meraviglia, ha potuto riscontrare l’impegno della direttrice Stella Scialpi e degli operatori, finalizzato a rendere la casa circondariale flegrea conforme alle normative nazionali e comunitarie. Dunque spazio a numerosi progetti e ad opportunità lavorative per le detenute e rispetto della sentenza Torreggiani, almeno secondo quanto dichiarato sia dalla direttrice che da Maria Di Falco, assistente capo coordinatore della Polizia Penitenziaria, la quale ha affiancato i radicali durante l’ispezione. Visita che ha riguardato praticamente l’intero penitenziario, composto da tre piani e da un reparto psichiatrico, non senza uno sguardo al teatro (fulcro di moltissime attività a causa della carenza di spazi nella struttura) alla biblioteca, all’infermeria e alla cucina. Qui le detenute erano alle prese con la preparazione delle tipiche pietanze pasquali in un ambiente attrezzato e pulito munito perfino di forno a legna. I numeri raccontano tuttavia una realtà non esente da problemi, anche di sovraffollamento: in 109 posti di capienza regolamentare, attualmente il carcere di Pozzuoli ospita 160 detenute. Tuttavia è un minimo storico, secondo quanto raccontato dalla direttrice, rispetto a un recente passato che un anno fa vedeva 180 ristrette con picchi di 220 fino a pochi anni fa. Di queste 160 donne ristrette, circa 70 sono in attesa di giudizio, ci sono tre detenute semilibere e un quinto delle detenute di Pozzuoli è di nazionalità straniera. In particolare è folta la rappresentanza di nigeriane. Pozzuoli ospita inoltre un reparto psichiatrico che al momento conta sei detenute in otto posti disponibili. Sebbene le celle siano spaziose ci si imbatte in stanze che contengono fino a dodici detenute, con un solo bagno e una sola doccia per tutte. Ciò nonostante, le condizioni dei servizi igienici sono buone come buona è quella delle celle e così la condizione generale delle detenute. Vi sono diversivi come una biblioteca, corsi di zumba, di ginnastica (con la presenza di Rosa Todisco del Coni) di ricamo e perfino un accordo con Marinella per la produzione di cravatte, attualmente in uso proprio dal corpo di polizia penitenziaria. C’è inoltre la ormai storica torrefazione del caffè “Le lazzarelle” con l’omonima cooperativa e perfino una boutique con prodotti di abbigliamento e cosmesi donati dalla Caritas a disposizione delle detenute. Inoltre, i lavori di manutenzione, di ristrutturazione e di pulizia un tempo appaltati a ditte esterne sono stati affidati alle detenute in articolo 21, ovvero con la possibilità di lavoro esterno. Essendo ciò difficile, come ha confermato la direttrice, ecco che il carcere diventa datore di lavoro come fosse un ente terzo, favorendo in tal modo la riabilitazione delle ristrette. Un caso in cui l’articolo 27 della Costituzione, insomma, trova riscontro nei fatti. Al momento sono sette le detenute in articolo 21, mentre sono più di 50 quelle che, a vario titolo, svolgono attività lavorative nel carcere. Quanto all’istruzione, questa si ferma al biennio delle scuole superiori, non è dunque possibile conseguire la maturità e a breve sarà istituito un corso di informatica. In cantiere, inoltre, la nascita di un call center con mansioni di C.U.P. (centro unico di prenotazione per prestazioni sanitarie) ma l’endemica carenza di spazio ha fin qui impedito la realizzazione del progetto. Vi è inoltre un’infermeria, anch’essa oggetto della visita, con dentista, ginecologo, tac e radiologia. La pianta organica della polizia penitenziaria in servizio nel carcere di Pozzuoli è stata rivista al ribasso: dai 170 agenti un tempo previsti si è passati a 135 ma solo (al massimo) 110 sono effettivamente in servizio nella struttura. Vi sono infatti una trentina di agenti dislocati altrove. Nonostante la pianta organica non del tutto coperta, a Pozzuoli (casa circondariale di media sicurezza) si applica la politica delle celle aperte: al primo e al secondo piano le detenute possono girare per la struttura dalle 7 alle 12 e dalle 13:30 alle 18:00. Al terzo piano stanze aperte dalle sette di mattina alle sette del pomeriggio. Il primo piano ospita detenute condannate in via definitiva e detenute ricorrenti, il secondo piano quelle in attesa di primo giudizio o di sentenza d’Appello, il terzo piano altre ristrette con sentenza passata in giudicato. Domani mattina, 31 marzo, nell’ambito delle visite ispettive di Radicali Italiani nelle carceri durante il periodo pasquale, la delegazione visiterà dalle ore 9:30 la casa circondariale di Napoli Poggioreale. Roma: Giornata per l’abolizione dell’ergastolo, parlamentare europea in visita a Rebibbia di Ylenia Sina romatoday.it, 31 marzo 2018 Ad entrare nella struttura carceraria Eleonora Forenza insieme all’associazione Yairaiha Onlus. Visita ispettiva a sorpresa questa mattina nelle sezioni di alta sicurezza e del 41bis del carcere di Rebibbia. Ad entrare nella struttura la parlamentare europea del gruppo della sinistra europea Gue, Eleonora Forenza, accompagnata da Sandra Berardi dell’associazione che si batte per i diritti dei detenuti, Yairaiha Onlus. “Abbiamo deciso di effettuare questa visita per denunciare ancora una volta l’incostituzionalità del fine pena mai e della tortura del 41bis” ha spiegato Forenza al termine della visita. Un’azione messa in campo in occasione della giornata di mobilitazione nazionale e di digiuno per l’abolizione dell’ergastolo promossa dalle associazioni: Liberarsi, Yairaiha, Ristretti Orizzonti, Fuori dall’Ombra, Comunità papa Giovanni XXIII. Giornata a cui hanno aderito migliaia di detenuti e loro familiari in tutta Italia. “Sono due, secondo noi, i nodi che andrebbero affrontati dalla politica quando parliamo di diritti inalienabili, garantiti anche a livello europeo: da un lato la legittimità dell’ergastolo, là dove viene negata ogni possibilità alla libertà condizionata; dall’altro il comportamento arbitrario della magistratura di sorveglianza” la denuncia. “In questi giorni in cui la riforma penitenziaria in discussione non affronta i nodi più pesanti della situazione carceraria non andrebbe ignorato il fatto che sia il 41bis, sia l’ergastolo ostativo sono in contraddizione con l’articolo 27 della Costituzione”. In particolare, nella struttura di Rebibbia, “abbiamo riscontrato casi di incompatibilità con il regime detentivo del 41bis e carenze nell’assistenza sanitaria. Per esempio, ad alcuni detenuti diabetici viene servito un vitto non compatibile con la loro malattia o altri dovrebbero essere alloggiati presso le Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, strutture che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari, ndr) ma sono in attesa per mancanza di posti letto”. Tra gli incontri effettuati questa mattina, “mi ha colpito la determinazione di alcuni detenuti nel continuare a studiare e a istruirsi. Alcuni di loro hanno conseguito anche più lauree. Queste persone rivendicano un diritto alla speranza che non gli viene riconosciuto e invece non dovrebbe essere negato a nessuno”. Teramo: Rita Bernardini e la pasquetta nel carcere di Castrogno, in ricordo di Pannella di Elisabetta Di Carlo certastampa.it, 31 marzo 2018 “Per me ha un significato particolare recarmi al carcere di Castrogno a Teramo in occasione delle festività pasquali, avendolo fatto in più di una occasione insieme a Marco Pannella. Nell’annunciare questa visita, però, non posso fare a meno di sottolineare che nonostante promesse e réclame il Consiglio regionale non ha ancora nominato il Garante dei detenuti”. È quando dichiara Rita Bernardini, membro della presidenza del Partito Radicale che si recherà al carcere di Castrogno il Lunedì dell’Angelo alle ore 11:30 con una delegazione composta da Laura Longo, già presidente del Tribunale di sorveglianza de L’Aquila, Maurizio Acerbo, segretario nazionale di Rifondazione Comunista, Vincenzo Di Nanna, segretario di Amnistia Giustizia e Libertà Abruzzi, e Germano D’Aurelio, in arte ‘Nduccio. “Stiamo continuando a monitorare la riforma dell’ordinamento penitenziario”, prosegue la Bernardini che, con il sostegno di decine di migliaia di detenuti, dei compagni del Partito Radicale, dell’Unione delle Camere Penali e delle più importanti associazioni del volontariato, ha condotto una lunga e intensa iniziativa nonviolenta per l’approvazione dei decreti attuativi. “Nei prossimi giorni dovremmo saperne di più, per ora consideriamo una vittoria di per sé, nell’attuale contesto politico, l’aver raggiunto questo traguardo sul primo decreto legislativo che è un passo fondamentale verso la visione di una pena intesa come percorso di rieducazione e reinserimento sociale, e il conseguente calo del tasso di recidiva che ci attendiamo qualora le misure fossero definitivamente approvate”. Vibo Valentia: i Radicali in visita al carcere “subito il Garante regionale dei detenuti” zoom24.it, 31 marzo 2018 “Anche quest’anno, come consuetudine Radicale che ci ha insegnato Marco Pannella, la domenica di Pasqua, per la Resurrezione della vita del Diritto, faremo visita ai detenuti e agli agenti di custodia della casa circondariale di Vibo Valentia. Già, in carcere: quel luogo non luogo di cui la politica non si preoccupa né si occupa, se non per dire: buttate le chiavi assieme allo Stato di diritto”. Lo affermano, in una nota congiunta, Rocco Ruffa, componente del comitato nazionale di Radicali Italiani, e Giuseppe Candido segretario dell’associazione radicale nonviolenta calabrese “Abolire la miseria - 19 maggio”. Assieme a Ruffa e Candido faranno visita ai detenuti anche altri due militanti radicali Cesare Russo ed Ernesto Mauro. “Quando c’eravamo stati un anno fa - sostengono Ruffa e Candido - con il digiuno a staffetta chiedevamo conta forza della nonviolenza e amore per la verità, ai politici calabresi, di approvare la legge istitutiva del Garante regionale dei diritti delle persone private della libertà affinché, anche nella nostra regione, vi fosse questa importante figura di garanzia, terza rispetto all’amministrazione giudiziaria e penitenziaria oltreché indipendente dalla politica. Finalmente a gennaio è stata approvata e per questo non molliamo. Anzi, ricordiamo che l’assenza del Garante dei detenuti in Calabria è aggravata dalla assenza contemporanea di un’altra figura di garanzia molto importante per tutti i cittadini, migranti e detenuti compresi: il garante regionale per la Salute. Una figura istituita, nella nostra Regione, dal 2008 con la legge regionale n°22, ma che da allora non è mai stata nominata”. Napoli: “no al 41 bis”, i familiari dei detenuti protestano al carcere di Secondigliano di Antonio Sabbatino internapoli.it, 31 marzo 2018 Uno sciopero della fame per denunciare le difficili condizioni delle carceri e per dire basta al 41 bis, il cosiddetto ergastolo ostativo, giudicato “una tortura di Stato”. Ieri mattina dinanzi al Penitenziario di Secondigliano le associazioni dei familiari dei detenuti, associazioni, movimenti hanno aderito all’iniziativa replicata in diverse carceri in tutt’Italia. Sia chi è in cella che chi soffre per una persona cara detenuta ha rifiutato il cibo per, dicono gli organizzatori della giornata, “far sentire la nostra vicinanza ai detenuti che alzano la testa. L’ergastolo è l’emblema - così come le altre misure afflittive estreme del 41bis e del 14bis - dell’inutilità del carcere al raggiungimento dell’obiettivo tanto sbandierato del reinserimento sociale dei condannati: come potrebbe un “fine pena mai” tendere alla rieducazione del condannato? Verso quale reinserimento dovrebbe tendere una “pena di morte in vita” come l’ergastolo? Ma ancor prima - e per tutti i reclusi - che pretesa di rieducazione potrebbero avere le gabbie di una società che si basa su disuguaglianza ed esclusione, miseria e disoccupazione, spingendo migliaia di persone all’illegalità?” Una simile iniziativa, proprio dinanzi al carcere di Secondigliano, si tenne lo scorso dicembre. Oggi come allora a parteciparvi vi fu, tra gli altri, Pietro Ioia ex detenuto e autore del libro sui pestaggi e le torture nella cosiddetta “Cella Zero” di Poggioreale. “La nostra battaglia per una maggiore attenzione sulle difficili condizioni dei detenuti in carcere e sul 41bis, che è una tortura di Stato. Dopo trent’anni di carcere, a cosa serve tenere ancora dentro chi ha commesso un reato? Quali danni ancora potrebbe arrecare?” Lo stesso Ioia dà poi appuntamento “al prossimo 10 maggio al Tribunale di Napoli per l’udienza del processo su quanto è avvenuto nella cella zero a Poggioreale, dove anche io sono stato. In molti stanno ancora oggi tentando di bloccare il processo facendolo cadere in prescrizione. Ma i responsabili devono essere puniti”. Milano: finisce l’incubo dell’internato da un anno a San Vittore di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 marzo 2018 Il Garante del Lazio ha ricevuto la notifica della disponibilità della Rems di Palombara Sabina. Era internato illegalmente da un anno in carcere, ma a breve sarà ospite della residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza sanitaria (Rems) di Palombara Sabina. Finisce l’incubo di Massimiliano Spinelli, una storia descritta da Il Dubbio. Fu coinvolto in una vicenda processuale che poi l’ha visto uscire assolto a luglio del 2017 per incapacità di intendere e volere, ma da allora egli è rimasto dove si trovava, cioè in carcere come quando vi era detenuto in custodia cautelare: è stato assolto, nessuna pena ha da scontare, bensì una misura di sicurezza. Massimiliano, in sintesi, si trova trattenuto illegalmente presso il carcere milanese di San Vittore. Il motivo? Quello che riguarda tanti altri internati psichiatrici come lui: è in attesa di entrare in una Rems. Come accade spesso, l’hanno ritenuto socialmente pericoloso e il giudice ha dato l’ordine di essere sottoposto in misura di sicurezza. Ma è rimasto in lista d’attesa. Ad incontrare Massimiliano Spinelli è stata la delegazione del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale Transpartito, guidata dall’associazione Opera Radicale, alla presenza del dottor D’Amato, psichiatra responsabile del reparto psichiatria del Centro Clinico, il quale lo ha in cura e che ha accompagnato la delegazione a incontrarlo in quanto unico internato della Casa circondariale. Della posizione giuridica di Massimiliano ne aveva parlato anche lo stesso direttore del carcere dottor Siciliano e la vice direttora dottoressa Mazzotta durante il colloquio con la delegazione radicale per riferire sulla situazione dell’Istituto: la direzione ha confermato di essere in attesa da mesi di ricevere una risposta dalle Rems sulla disponibilità ad accogliere Massimiliano. Anche il dottor D’Amato ha riferito di aver inviato parecchie richieste di intervento alle Rems, nell’interesse di Massimiliano perché potesse uscire dalla sua situazione di detenuto non detenuto. L’internato è di Roma, per questo si attendevano le risposte delle tre Rems della regione Lazio: ovvero quelle di Palombara Sabina, Subiaco o Ceccano. La risposta finalmente è arrivata. Il garante regionale del Lazio Stefano Anastasia ha ricevuto ieri la notifica della disponibilità della Rems di Palombara Sabina ad accogliere Spinelli a partire da martedì 17 Aprile. Oltre alle sollecitazioni pervenute dall’associazione Opera Radicale, questo è stato anche un risultato dell’attivazione della rete dei Garanti: ad Anastasia ne aveva parlato il garante della Lombardia Carlo Lio e si è subito attivato portando il caso al tavolo Rems del Lazio. “Non possiamo che dirci soddisfatti per il risultato che ha ricondotto - commenta l’Associazione “Opera Radicale”, nella salvaguardia dei diritti costituzionali di libertà e salute, una situazione che si stava trasformando in una falla dello Stato di Diritto”. Una storia, quindi, a lieto fine. Permane però il problema degli internati psichiatrici che si trovano trattenuti illegalmente in carcere in attesa di entrare in una Rems. Quest’ultima è stata istituita con la legge 81/ 2014 che ha sancito il superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). Fu un grande passo di civiltà. Dentro gli Opg, in effetti, i “folli rei” non erano seguiti dai servizi sanitari territoriali e potevano rimanere all’infinito tra quelle antiche mura, per la continua proroga delle misure di sicurezza: i cosiddetti “ergastoli bianchi”. Condizioni disumane, come dimostrò nel 2011 la Commissione d’inchiesta parlamentare guidata dal senatore Ignazio Marino. Adesso, la legge 81 stabilisce un limite per la permanenza nelle Rems e i Dipartimenti di salute mentale devono elaborare piani terapeutici ad hoc per ogni recluso. Però sono affollate - questo è anche dovuto dal fatto che i giudici, con grande facilità, emettono troppi ordinanze di misure di sicurezza - e si creano le liste d’attesa. Alcuni attendono in libertà e altri, invece, sono reclusi anche se non sono ufficialmente dei detenuti. Pescara: manca il “braccialetto”, detenuto resta in carcere e fa lo sciopero della fame di Flavia Buccilli Il Centro, 31 marzo 2018 Il giudice concede i domiciliari a un 53enne e impone di applicare il dispositivo, ma dal 19 marzo lo strumento non è mai arrivato. Dovrebbe stare ai domiciliari, con il braccialetto elettronico, come disposto dal giudice. E invece è in carcere in attesa di ricevere il braccialetto, al momento non disponibile. E senza questo apparecchio non può lasciare la Casa circondariale. Il detenuto M.P., 53 anni, della provincia di Pescara, aspetta dal 19 marzo di tornare nella sua abitazione, seppure in stato di arresto. E vive nell’incertezza perché, nonostante la disposizione del giudice che gli consente di lasciare il carcere, non sa quanto dovrà rimanere in cella. Ecco perché ha cominciato lo sciopero della fame. Il 53enne si è messo nei guai il primo marzo, quando è stato arrestato dalla polizia. È successo tutto su un autobus, dove l’uomo ha aggredito una ragazzina di 14 anni, figlia della sua ex compagna. Voleva che la giovane scendesse con lui dal pullman ma il conducente del mezzo si è accorto del trambusto e l’uomo si è visto costretto alla fuga. Lo ha bloccato un finanziere, poi è stato raggiunto dalla squadra volante che lo ha trovato in possesso di un coltello e appurato che nei suoi confronti esisteva un divieto di avvicinamento all’ex compagna a seguito degli atti persecutori e delle minacce di cui si sarebbe reso responsabile in passato. Dopo quasi tre settimane in carcere per il 53enne si è concretizzata la possibilità di passare ai domiciliari. Il 19 marzo il Tribunale del riesame dell’Aquila ha accolto la richiesta di sostituzione della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari. L’istanza è stata presentata dal difensore dell’uomo, Luca Aceto. È stata fissata, però, una condizione: l’utilizzo del braccialetto elettronico. Con questo dispositivo è possibile monitorare a distanza i movimenti di chi si trova ai domiciliari in modo da poter intervenire in tempo reale in caso di evasione. Ma di questi strumenti ce ne sono pochi, in Italia, e il 53enne è finito in lista d’attesa. Ecco perché è rimasto, nonostante che un giudice abbia disposto altro per lui. Aceto ha provato ad uscirne, informandosi sui tempi di attesa, ma non c’è nulla di certo perché potrebbero essere necessari mesi prima di veder recapitare il braccialetto al detenuto. Intanto sono già passati più di dieci giorni. E nulla è accaduto. Aceto, che ha raccolto lo sfogo del suo assistito, parla di “una paradossale lesione dei diritti” del 53enne, perché “da una parte è stato ritenuto meritevole della misura cautelare dei domiciliari, meno afflittiva rispetto al carcere, e dall’altra non può beneficiarne per mancanza di braccialetti. Questo apparecchio”, fa notare, “potrebbe davvero servire a svuotare le carceri da migliaia di detenuti a basso indice di pericolosità, sottraendoli alle lezioni di scuola del crimine che caratterizzano inevitabilmente le strutture penitenziarie”. Nel caso specifico l’indagato vive con “sei compagni di cella” ed è sprofondato in uno stato di “prostrazione psicologica”, subendo una situazione surreale e vivendo sulla sua pelle i limiti concreti di un sistema traballante. Ed è proprio pensando al caso del suo assistito Aceto commenta che “il braccialetto contribuirebbe a risolvere il drammatico problema del sovraffollamento carcerario”, esistente anche a Pescara. Ma in Italia sono stati acquistati “solo duemila di questi dispositivi perché nel 2004 si pensava che fossero sufficienti” ed è evidente che non è così. Sempre Aceto fa notare che lo Stato spende “9 milioni all’anno, con Telecom, per far funzionare” i braccialetti ed è una cifra enorme visto che “in Italia il costo giornaliero è di 115 euro, in Germania 7 e in America 5”. Al danno si aggiunge la beffa. Per il 53enne è stato chiesto e ottenuto il giudizio abbreviato, fissato al 12 aprile, giorno in cui si definirà l’episodio del primo marzo. È possibile che per quel giorno l’uomo sarà ancora in carcere, nella speranza di ricevere il braccialetto. E la vicenda giudiziaria si concluderà prima ancora dell’arrivo del tanto atteso dispositivo elettronico. Se le cose andranno così, il ricorso al Tribunale del Riesame sarà stato vano. E il suo pronunciamento inutile. Ieri mattina il malore in cella. Si sente male questa mattina in cella dopo alcuni giorni di sciopero della fame e viene ricoverato in ospedale a Pescara per accertamenti. Aveva cominciato la protesta perché costretto a restare al San Donato, mentre avrebbe dovuto essere ai domiciliari con il braccialetto elettronico, come deciso dal Tribunale del Riesame dell’Aquila. A causa dell’indisponibilità del dispositivo, però, è rimasto nella casa circondariale pescarese e questa mattina ha avuto un malore legato alla protesta e alla mancanza di alimentazione. Verona: Galleria di San Zeno, scout e detenuti all’opera per riaprire l’accesso L’Arena, 31 marzo 2018 Sono ripresi oggi i lavori di scavo al bastione di San Zeno, già iniziati a novembre 2017. La giornata di pulizia della galleria di contromina che parte dal cavaliere di San Zeno e giunge sotto il bastione San Zeno passando sotto la porta, è dovuto al coordinamento di Legambiente e la collaborazione del Comune e agli scout Agesci provenienti da tutto il nord Italia: Milano, Trento, Padova, e dalla Provincia di Verona, che sono ospiti a Villa Buri. Una trentina di ragazzi armati di pale e secchi hanno asportato detriti per tutta la mattina. Partecipano inoltre alla pulizia della galleria anche quattro detenuti, chiamati a collaborare nell’ambito della convenzione tra Legambiente e carcere, per la gestione dei bastioni di destra Adige. La galleria di contromina di San Zeno, vede ancora la presenza di detriti e rifiuti che si sono accumulati negli anni. È un’opera cinquecentesca che fa parte delle strutture fortificate veneziane, che percorre per alcuni tratti i bastioni di destra Adige. Un tratto di galleria di contromina è già visibile presso il bastione di santo Spirito (ex zoo) grazie all’opera di scavo e asportazione dei detriti realizzata negli scorsi anni dai volontari di Legambiente; un altro tratto di galleria, illuminato e percorribile in sicurezza è visitabile accedendo da Porta Palio. Palermo: l’archeologia e i detenuti, il museo di Petralia Soprana si racconta al Malaspina palermotoday.it, 31 marzo 2018 Un laboratorio per far conoscere ai ragazzi dell’Istituto minorile la storia di un luogo dove un tempo c’era un carcere. Il sindaco Macaluso: “Museo segno di speranza e di riscatto per i giovani e la società”. Nell’edificio dove un tempo c’era un carcere, che oggi ospita il Municipio di Petralia Soprana, presto aprirà i battenti un museo. Un cambio di destinazione d’uso da luogo di reclusione in luogo di cultura che diventa segno di speranza e di riscatto. Questa storia ieri è stata la protagonista del laboratorio “Ti racconto il Museo di Petralia Soprana” realizzato all’interno dell’istituto minorile Malaspina. L’idea nasce dalla proficua e costruttiva esperienza del 2016, che ha interessato il monumento palermitano del Castello a Mare, nell’ambito nel progetto “Fatti un giro Bellezza”, promosso dal dipartimento dei Beni culturali della Regione Siciliana. I ragazzi, ospiti della struttura, hanno potuto “incontrare” l’archeologia grazie ai racconti degli operatori del carcere, dei rappresentanti della Soprintendenza, del Museo Civico di Petralia Soprana e di Icom, il network dei musei e dei professionisti museali, e alla proiezione di un video realizzato da Francesco Panasci. “Sono contento - ha detto il sindaco di Petralia Soprana, Pietro Macaluso - per l’interesse che già desta il nascente museo. Mi complimento per l’iniziativa che ha anche messo in evidenza l’importanza di presidi culturali, come può essere appunto un museo, quale segno di speranza e di riscatto per i giovani e la società”. All’incontro hanno partecipato, per la Soprintendenza dei Beni culturali, il responsabile dell’Unità Operativa Beni Archeologici Stefano Vassallo, l’archeologa Rosa Maria Cucco, l’architetto Valeria Brunazzi e Riccardo Sapia. Presenti anche il direttore dell’istituto penale Michelangelo Capitano e il coordinatore di Icom Sicilia Guido Meli. Per il Comune di Petralia Soprana, infine, oltra al sindaco c’erano il presidente del Consiglio Leo Agnello e gli assessore Laura Sabatino, Daniela Li Puma e Marinella Prestigiacomo. Per il Museo Civico Ernesto Messineo e Dario Scarpati. Nei prossimi mesi il progetto, mostrato in anteprima al Maxxi di Roma lo scorso 20 marzo, sarà presentato anche a Petralia Soprana. Terrorismo. L’ex pm Dambruoso: il pericolo maggiore? la radicalizzazione dei più giovani” di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 31 marzo 2018 L’ex deputato tornato in magistratura: “L’inchiesta di Foggia è un campanello d’allarme. Spero che Minniti rilanci la legge che avevamo proposto, ma che il Parlamento non ha varato”. “I vessilli neri del Califfato non sventolano più su Raqqa e Mosul, ma le indagini mostrano come quella propaganda di odio e di terrore abbia colonizzato giovani menti, anche in Italia. È il pericolo maggiore: se non sapremo arginarlo, non solo sul piano investigativo ma anche sociale e culturale, rischieremo di pagare un amaro tributo in futuro”. Dopo una legislatura come deputato di Scelta civica e questore della Camera, Stefano Dambruoso sta per indossare di nuovo la toga: se il plenum del Csm confermerà quanto deciso in terza commissione, andrà in Procura a Bologna, dove potrebbe tornare a occuparsi di contrasto al terrorismo, sul quale ha indagato per anni come pm a Milano. Al telefono dagli Usa, ragiona con Avvenire sulle ultime indagini: “Le preoccupazioni del Viminale sono condivisibili, sia sul rischio ‘lupi solitari’ che sulla minaccia rappresentata dai returnees”. Per quali ragioni? Dalle aree di conflitto di Siria e Iraq, c’è un reducismo numeroso. I combattenti partiti dal nostro Paese non sono tanti, ma per molti altri siamo stati terra di transito e, dunque, di potenziale ‘ritorno’ verso i Paesi d’origine. La inquietano le presenze “nostrane”, come la presunta rete nel Lazio che dava appoggio ad Anis Amri? Ci sono persone che offrono assistenza “logistica”, case “sicure” e documenti falsi. E ci sono reti di indottrinamento e reclutamento che possono fare proseliti fra persone fragili, giovani stranieri o italiani convertiti. A Foggia, la polizia ha arrestato un “cattivo maestro” che, in italiano, indottrinava bambini come a Raqqa, nel Califfato. È un campanello d’allarme. Quell’indagine mostra quanto sia facile per i seminatori d’odio pescare fra i più giovani, perfino fra i bimbi, per trasformarli col tempo in jihadisti. Il ministro dell’Interno parla di “un cuore di tenebra” nel nostro Paese. È un’immagine angosciante, ma efficace. La sabbia nella clessidra scorre e ormai abbiamo pochi anni per lavorare sul piano della prevenzione culturale e sociale, per evitare che crescano nuovi italiani non integrati, portatori di risentimento sociale. È nelle Molenbeek italiane e nelle carceri che bisogna entrare, per evitare che nascano “soldati” del terrore. Sarebbe una iattura che pagheremmo con anni di attacchi, come sta avvenendo in Francia, Belgio, Germania e altri Paesi europei, dove diversi attentatori sono figli del malessere delle seconde e terze generazioni. Roma sta vivendo una Pasqua ‘blindatà, con la vigilanza di 10mila agenti. La minaccia è cresciuta? È un prezzo da pagare, in tempi segnati da attentati e migliaia di falsi allarmi. E non è detto che basti: come si è visto, un uomo solo con un’arma o un furgone può colpire luoghi non presidiati, come il supermercato di Carcassonne. L’Islam moderato italiano ha maturato gli anticorpi sufficienti a isolare gli estremisti? Nella comunità musulmana cresce la consapevolezza di non volersi far contagiare da predicatori radicali. Ma da sola non è sufficiente. Serve un ventaglio di interventi. E, nella legislatura appena conclusa, il Parlamento ha perso un’occasione. Si riferisce al disegno di legge sui fenomeni di radicalizzazione, proposto da lei e dal deputato del Pd Andrea Manciulli? Già. Siamo arrivati letteralmente all’ultimo giorno della legislatura e neppure allora il Parlamento è riuscito ad approvarlo, nonostante ci fossero le coperture necessarie. Può sembrare un rimpianto solo personale, ma non è così. Perché? Perché quel testo avrebbe introdotto politiche per analizzare e prevenire la radicalizzazione. Per una volta, l’Italia avrebbe potuto alzare antenne istituzionali e sociali prima, invece di pensare a norme d’emergenza, dopo. Chi non ha voluto quella legge? È un caso di miopia del legislatore. Forse, in assenza di attentati in Italia, governo e Parlamento si sono convinti che la situazione sia gestibile attraverso le eccellenti capacità investigative di forze dell’ordine e intelligence - dimostrate anche in queste ore - e con le espulsioni di elementi radicali. Lei e Manciulli non siete stati ricandidati. Chi rilancerà quelle proposte nel nuovo Parlamento? Non so. In cuor mio, confido che il ministro dell’Interno uscente Marco Minniti, che ha competenza e autorevolezza, possa portare a compimento quel progetto che, a onor del vero, era nato da una sua intuizione. Migranti. Dal foglio di via alla strada, così nascono i “fantasmi” di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 31 marzo 2018 La Commissione parlamentare d’inchiesta sulle periferie della scorsa legislatura ha stabilito che sul territorio nazionale vagano circa 500 mila migranti “invisibili”. Sunday è scappato, perché scappare dall’hotspot di Taranto, giura, “era facilissimo”: poi è saltato su un pullman, pensava d’arrivare alla periferia di Roma e s’è ritrovato a Perugia senza sapere come. Pure Mustafa è scappato, da un Cas, un centro d’accoglienza romano dove dice che lo mangiavano vivo gli insetti e avevano un bagno in quattrocento: è finito a Milano, sfruttato da un connazionale, a svuotare in nero cantine in zona Maciachini. Amir no, non è scappato, l’hanno semplicemente buttato fuori da un Cie (“tornatene a casa tua”) con un foglio di via in mano: lui non ha capito nemmeno cosa c’era scritto in mezzo a quei timbri ed è rimasto 24 ore seduto sul marciapiede di fronte al cancello, in trance, abbracciato al fagotto dei suoi stracci. “Mi sentivo un fantasma”, sospira. Ecco come si diventa fantasmi in Italia. La Commissione parlamentare d’inchiesta sulle periferie della scorsa legislatura ha stabilito che sul territorio nazionale vagano circa 500 mila “invisibili”: migranti senza dimora e senza identità, quasi tutti rifluiti nella clandestinità per effetto di qualche passo falso più o meno grave o di una domanda d’asilo respinta che li ha fatti scivolare senza paracadute fuori dai circuiti dei Cas, dei Cie, degli Sprar (sigle esoteriche per livelli d’accoglienza diversi). “Campano per strada” - Qualche mese fa il prefetto di Roma, Paola Basilone, ha illustrato il meccanismo ai commissari con estrema chiarezza: “Un censimento degli invisibili? Le forze di polizia lo fanno ogni volta che ne prendono qualcuno: lo identificano e gli consegnano il foglio di via. Soprattutto se non hanno precedenti penali, queste persone non possono essere arrestate e condotte nei Cie. Viene assegnato loro un termine entro il quale devono lasciare l’Italia, dopodiché è finita lì. Questo va a incidere pesantemente sul degrado della città, perché sono tutte persone che campano per strada... una situazione terribile”. Così terribile che possiamo considerare il tunisino Amir, 36 anni, l’egiziano Mustafa, 18 e mezzo, e il nigeriano Sunday, 19, tre ragazzi fortunati. Perché a ripescarli dalla strada e a dar loro una seconda chance è apparso don Vittorio Bernardi, un prete tosto che a Roma li accoglie a Casa San Giovanni, in fondo alla Prenestina, senza prendere un soldo dei famosi 35 euro pro capite da sempre al centro delle polemiche. Fa tutto “con il cinque per mille e qualche donazione”, don Vittorio, che ce l’ha col sistema, coi politici, con noi giornalisti. “Sia bravo: copra l’identità dei ragazzi con altri nomi, se no non troveranno mai più lavoro”, è la sola condizione a questi colloqui. Sa bene che basta un bivio sbagliato perché i “suoi ragazzi” scivolino di nuovo fuori dal circuito, nella terra di nessuno dove i migranti diventano malacarne. E magari sarebbe toccato ad Amir quel giorno d’estate del 2011 in cui lo misero alla porta del Cie: “Mi avevano negato l’asilo politico ma non avevo commesso reati e non volevano più trattenermi. Così mi dissero: vattene, hai sette giorni. Ma non avevo documenti né soldi”. Pareva uno zombie sul marciapiede quando lo vide Floriana, una psicoterapeuta buona che lo aveva assistito nei suoi cinque mesi al centro: “Che stai a fà qua?”, gli chiese. E lo portò da don Vittorio. “Da allora ho lavorato coi cani”, dice lui: “Li addestro”. Ora però è disoccupato, anche se alla fine ha ottenuto almeno la protezione umanitaria. “Eh, ma tra un anno mi scade: se non trovo un altro lavoro rischio di tornare un fantasma”. “Il pullman sbagliato” - Sulla Prenestina c’è insomma questo via vai di anime. Inquieta, assai inquieta è l’anima di Mustafa, fuggito (forse) per fame a 13 anni dall’Egitto. Nove mesi a Priolo, Sicilia. “Poi sono scappato. Mi hanno ripreso. Sono riscappato”. I mesi di Milano sono un altro brutto ricordo. “Adesso voglio fare l’imbianchino e riprovare a prendere la terza media, m’hanno bocciato perché avevo troppo sonno per studiare dopo il lavoro, non sono pigro, giuro”. Sunday voleva studiare davvero, a Lagos, a casa di suo zio. Ma è cristiano, lo zio musulmano gli ha detto “convertiti e ti manderò a scuola”. Lui se n’è andato via a 16 anni: calvario classico, sevizie incluse, fino alla costa libica. Dall’hotspot di Taranto è riscappato perché, dice, nemmeno lì lo facevano studiare. A Roma, in uno Sprar per minorenni, pareva avesse trovato pace (e libri: ha preso con successo il diploma di terza media). Ma un giorno d’inverno sono arrivati i poliziotti: “Tu non sei minorenne, mi hanno detto”. Lo era ancora, ma è finito per strada. Morto di freddo, è salito su un pullman: “Volevo andare a un commissariato per spiegarmi, farmi aiutare”. Non era il pullman giusto: s’è addormentato e s’è risvegliato a Perugia. Da don Vittorio l’hanno portato tre giorni dopo, spaventato come un gatto. Ha chiesto asilo (“ma non me lo danno perché nella mia zona della Nigeria non c’è Boko Haram”, solo uno zio integralista non basta). Lavora da pizzaiolo a Ponte Milvio. In nero. “Senza contratto non mi danno il permesso di soggiorno e senza permesso di soggiorno non mi danno il contratto”. Sembra un tragicomico Comma 22. Invece è l’ennesima curva dove si può deragliare. “I migranti che escono dalle misure di protezione, perché non hanno titolo o commettono reati, non possono stare liberi nella nostra comunità, vanno mandati in un luogo confinato”. Lo sosteneva Romano Carancini, non un naziskin, il sindaco pd di Macerata: il nigeriano Innocent Oseghale, tracimato da uno Sprar e diventato spacciatore, era da poco in galera con l’accusa di avere massacrato Pamela Mastropietro. Luca Traini aveva appena sparato a sei migranti “per rappresaglia”. Migranti. “Polizia francese armata in territorio italiano a caccia di migranti” di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 31 marzo 2018 È quanto riferiscono i volontari di Rainbow4Africa: “I gendarmi hanno fatto irruzione nei nostri locali, cercavano uno straniero da loro appena respinto”. La Val di Susa, nuova “prima linea” dell’immigrazione clandestina. Quattro gendarmi francesi che fanno irruzione in un locale in territorio italiano, adibito all’assistenza ai migranti. È quanto ha denunciato la Ong Rainbow4Africa, associazione di volontari che da tempo soccorrono i migranti che si avventurano sulla nuova rotta verso la Francia, quella che risale la Val di Susa e passa in Francia attraverso il Monginevro e le zone circostanti. Secondo quanto riferisce la Ong, la pattuglia della polizia francese ha “invaso” il territorio italiano per cercare di raggiungere un migrante appena respinto alla frontiera ferroviaria di Bardonecchia e che volevano a tutti i costi sottoporre a un esame delle urine, ritenendolo un “corriere” della droga. “Un chilometro dentro l’Italia” - “L’episodio è avvenuto attorno alle 21 - racconta Eloisa Franchi, portavoce di Rainbow4Africa - quando i quattro gendarmi sono entrati armi in pugno nei locali di Bardonecchia dove è allestito l’ambulatorio che assiste i migranti. Sono spazi messi a disposizione dal Comune di Bardonecchia e dove l’accesso è consentito solo ai volontari, ai medici e ai mediatori. Che erano appunto presenti al momento dell’irruzione”. L’ambulatorio dista un chilometro scarso dal confine fisico tra Italia e Francia, ed è già dentro l’abitato di Bardonecchia; nessun poliziotto italiano sarebbe stato presente al momento del fatto. Sempre secondo quanto riferiscono i rappresentanti della Ong, obiettivo della polizia francese era raggiungere un migrante respinto poco prima alla frontiera. “Lo straniero aveva un biglietto da Napoli a Parigi - ecco ancora la testimonianza di Eloisa Franchi - un tragitto che secondo i francesi corrisponde a quello del traffico di stupefacenti”. La linea dura dei francesi - L’”invasione di campo” è stata stigmatizzata dal sindaco del comune piemontese di confine ed è la cartina di tornasole delle tensioni crescenti tra Italia e Francia sul tema dell’immigrazione. Le montagne alle spalle della Val di Susa, in questa stagione ricoperte di neve, sono diventate il varco da cui tentato di passare extracomunitari che fino a poco tempo provavano a forzare il confine a Ventimiglia. Ogni giorno vengono intercettati tra le dieci e venti persone, a volte semi assiderate o prive di orientamento. Se sono fortunate incontrano volontari o guide alpine che prestano loro soccorso, altrimenti finiscono nelle maglie sempre più strette della polizia francese che le riporta in Italia. Le autorità francesi hanno adottato infatti una linea molto rigida nei confronti del fenomeno. Pochi giorni fa una donna nigeriana in avanzato stato di gravidanza era stata lasciata priva di assistenza alla stazione di Bardonecchia mentre una guida francese, sorpreso mentre stava portando in ospedale un’altra migrante in preda alle doglie del parto, è stato denunciato e rischia fino a cinque anni di carcere. Svizzera. Buttare via la chiave di Lorenzo Erroi La Regione, 31 marzo 2018 “Ormai c’è da aver paura ad andare in giro”. È una frase che sento pronunciare da anni, e che non manca mai di farmi salire la carogna. Anzitutto perché quell’”ormai” non ha alcun senso: tutte le statistiche dicono che viviamo in condizioni di sicurezza sempre maggiore. Solo fra il 2013 e il 2016, per dirne una, i reati penali in Ticino sono calati del 25%. Di essi, quelli contro “la vita e l’integrità della persona” (che superano a stento il migliaio) sono scesi del 2%, furti e altri reati contro il patrimonio del 34%. E la discesa si accentua ulteriormente se si vanno a vedere i numeri degli anni precedenti. Il mercato della paura - Si tratta di una tendenza strutturale che coinvolge tutta l’Europa, dovuta a evoluzioni sociali e non solo “poliziesche”. Ma sebbene anche la sicurezza percepita registri un miglioramento, in linea con gli altri Paesi Ocse, una parte della classe politica e dei media continua ad alimentare un malsano senso di assedio. Sarà che come dice il direttore del ‘Foglio’ Claudio Cerasa “il mercato della paura è il cugino del mercato del malumore”: l’uomo nero aiuta a vendere copie e a raccattare voti. Uomo nero in tutti i sensi, dato che inventarsi una criminalità diffusa aiuta anche a gonfiare la diffidenza nei confronti di stranieri e migranti. (E infatti in giro si leggono titoli del tipo “kosovaro massacra vecchietta”, mentre “ticinese strozza la nonna”, fateci caso, non s’è mai visto.) Berna, Bellinzona, Teheran - Il tutto ha chiare conseguenze politiche, come ha dimostrato negli ultimi anni l’approvazione di diverse leggi e iniziative. Alcuni esempi: l’iniziativa popolare ‘internamento a vita per criminali sessuomani o violenti estremamente pericolosi e refrattari alla terapià del 2004, sintetizzabile con un “buttate via la chiave” senz’appello neanche dopo decenni di detenzione; l’iniziativa ‘per l’espulsione degli stranieri che commettono reati’ approvata nel 2010, che pretende di obbligare i giudici a espellere uno straniero anche solo per lo spaccio di due canne; la nuova legge sui servizi segreti del 2016, che ha ampliato enormemente la possibilità per la Confederazione di spiare i suoi stessi cittadini. Anche a livello cantonale si sono registrati sussulti di questo tipo. Come quando si pretese la presentazione del casellario giudiziale - “a tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico” - per un semplice permesso di soggiorno. E più di recente, con la proposta di revisione della legge sulla polizia, che darebbe agli agenti il diritto di fermare per 24 ore una persona senza neanche prendersi il disturbo di chiedere l’ok a un magistrato (tecnicamente si parla di custodia di polizia). Da guardie a sceriffi, insomma, e sempre con la solita scusa: la “salvaguardia dell’incolumità dell’individuo e di terze persone”. Sicurezza minacciosa - Sarà. Ma in tutta questa corsa alla sicurezza, non mi sento mica tanto al sicuro. Prima di tutto perché temo che il Leviatano pubblico, gonfiandosi oltremisura, finisca per schiacciare le libertà del privato cittadino. Soprattutto quando si tratta di gente alla quale capita di allontanarsi dal gregge: “Gli anarchici li han sempre bastonati / e il libertario è sempre controllato / dal clero e dallo Stato…” cantava Guccini. Figuriamoci quelli che, inzuppati da uno dei tanti acquazzoni che può riservarti la vita, s’infilano semplicemente in qualche boiata di troppo. Poi c’è una questione di diritto: fra sicurezza e giustizia “e quindi anche fra sicurezza e democrazia” a volte ce ne passa. Se pur di blindarsi via da ogni rischio si mettono in discussione i diritti civili e le più ovvie norme a tutela del cittadino, le conseguenze rischiano di essere ferali. Lo si vede bene nella “vicina Penisola”: dove l’accanimento legislativo e giudiziario ha raggiunto livelli parossistici, e il risultato è che le carceri sono strapiene di tossici e poveracci, che con ogni probabilità lasceranno il gabbio ancora più delinquenti di prima. Common ground - Infine, quello che provo è una sorta di dispiacere politico. Il garantismo - l’idea, per semplificare, che è meglio un criminale a piede libero che un innocente in galera, e che comunque anche coi criminali ci vuole rispetto - è passato di moda. Peccato davvero, perché era uno dei pochi terreni comuni che tenevano insieme socialisti, liberali, cattolici, perfino anarchici. Garantisti i socialisti, perché da Marx in poi hanno capito che sono spesso i disgraziati a finire nelle patrie galere. I cattolici, perché sapevano che c’è speranza per ogni ladrone, e che una delle opere di misericordia è assistere i carcerati. I liberali, perché leggevano John Stuart Mill: “C’è un limite alla legittima interferenza dell’opinione collettiva sull’indipendenza individuale: e trovare quel limite, e difenderlo dalle invasioni, è tanto indispensabile a una buona conduzione degli affari umani quanto lo è la protezione dal dispotismo politico”. Per non parlare degli anarchici, che in nome della libertà individuale si fecero massacrare tanto dai franchisti quanto dagli stalinisti, ai tempi della guerra civile spagnola. Adesso il vento tira altrove. “Tanto io non ho niente da nascondere”, ci raccontiamo. E accettiamo di tutto: pene draconiane, stati di polizia, telecamere, schedature, grandi fratelli assortiti. Nella speranza che nella rete dei manettari finiscano solo gli altri. Perché da che mondo è mondo sono sempre gli altri, i cattivi. Buona fortuna. Gaza. 16 palestinesi uccisi dall’esercito israeliano. Oltre mille feriti La Repubblica, 31 marzo 2018 L’Autorità nazionale palestinese (Anp) ha chiesto l’intervento della comunità internazionale dopo la violentissima battaglia al confine con la Striscia dove ha preso il via la “Grande marcia del ritorno” che commemora gli scontri del marzo 1976. La mobilitazione durerà fino al 15 maggio, giorno della Nakba. Fonti diplomatiche: all’Onu riunione d’urgenza a porte chiuse del Consiglio di Sicurezza. Sedici morti e più di mille feriti nella Striscia, secondo il ministero della Sanità. Tra le vittime, la più giovane ha 16 anni. È il bilancio, ancora provvisorio secondo fonti mediche di Gaza, degli scontri tra palestinesi e forze della sicurezza israeliane scoppiati al confine tra il sud della Striscia e Israele, dove ha preso il via la ‘Grande marcia del ritorno’ convocata da Hamas nell’anniversario dell’esproprio delle terre arabe per creare lo Stato di Israele nel 1948. Da fonti diplomatiche si apprende che il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, su richiesta del Kuwait, terrà una riunione d’urgenza sui tragici eventi di Gaza. La stessa fonte, coperta da anonimato, ha precisato che la riunione avverrà a porte chiuse a partire dalle 18.30 ora locale (le 00.30 in Italia). La Grande Marcia si è aperta nella Giornata della Terra che ricorda l’esproprio da parte del governo israeliano di terre di proprietà araba in Galilea, il 30 marzo 1976. Le proteste dureranno fino al 15 maggio, anniversario della fondazione di Israele, per i palestinesi “Nakba”, la “catastrofe”, come la chiamano, perché molti furono costretti ad abbandonare per sempre case e villaggi. L’esercito ha aperto il fuoco in più occasioni con colpi di artiglieria, munizioni vere e proiettili di gomma vicino alla barriera di sicurezza davanti a cui hanno manifestato 17 mila palestinesi. Dalla folla sono stati lanciati sassi e bottiglie molotov verso i militari. Di primo mattino il colpo di artiglieria di un carro armato aveva ucciso Omar Samour, un agricoltore palestinese di 27 anni che era entrato nella fascia di sicurezza istituita dalle forze armate israeliane. Testimoni hanno raccontato che si trovava su terreni vicini alla frontiera e un portavoce dell’esercito ha spiegato l’episodio parlando di “due sospetti che si sono avvicinati alla barriera di sicurezza nel sud della Striscia di Gaza e hanno cominciato a comportarsi in maniera strana”, e i carri armati hanno sparato contro di loro”. Successivamente è stato ucciso con un colpo allo stomaco un 25enne a est di Jabaliya, nel nord del territorio costiero e altri due (fra cui un 38enne) in punti diversi della frontiera. La maggior parte dei feriti sono stati colpiti da proiettili di gomma e gas lacrimogeni. L’Autorità nazionale palestinese (Anp) ha chiesto l’intervento della comunità internazionale. Yusef al Mahmoud, portavoce dell’Anp a Ramallah, ha chiesto “un intervento internazionale immediato e urgente per fermare lo spargimento del sangue del nostro popolo palestinese da parte delle forze di occupazione israeliane”. L’esercito israeliano ha precisato di aver preso di mira “i principali istigatori” delle proteste violente e ha ribadito che non verrà permesso a nessuno di violare la sovranità di Israele superando la barriera di sicurezza e per questo ha anche schierato un centinaio di tiratori scelti. Secondo il generale israeliano Eyal Zamir, l’esercito è intervenuto perché ha “identificato alcuni terroristi che cercano di condurre attacchi, camuffandosi da manifestanti”. Zamir ha chiesto ai residenti palestinesi di stare lontano dal confine e ha accusato Hamas di essere responsabile degli scontri in corso. Le manifestazioni sono partite da sei punti dell’arido confine tra Gaza e Israele, lungo una cinquantina di chilometri: in particolare Rafah e Khan Younis nel sud, el-Bureij e Gaza City al centro, Jabalya nel nord. Il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ha arringato la folla assicurando che “è l’inizio del ritorno di tutti i palestinesi”. Fonti dell’esercito di Tel Aviv hanno descritto gli scontri: “Fanno rotolare pneumatici incendiati e lanciano pietre verso la barriera di sicurezza, i soldati israeliani ricorrono a mezzi antisommossa e sparano in direzione dei principali responsabili e hanno imposto una zona militare chiusa attorno alla Striscia di Gaza, una zona dove ogni attività necessita di autorizzazione”. L’esercito israeliano ha detto che una ragazzina palestinese di 7 anni è stata “mandata verso Israele per superare la barriera difensiva”. “Quando i soldati hanno realizzato che era una ragazzina - ha continuato l’esercito - l’hanno presa e si sono sono assicurati che tornasse in sicurezza dai genitori”. Secondo l’esercito - citato dai media - la ragazzina è stata inviata da Hamas che “cinicamente usa le donne e i bambini, li manda verso la frontiera e mette in pericolo le loro vite”. La protesta, che secondo gli organizzatori sarebbe dovuta essere pacifica, ha l’obiettivo di realizzare il “diritto al ritorno”, la richiesta palestinese che i discendenti dei rifugiati privati delle case nel 1948 possano ritornare alle proprietà della loro famiglia nei territori che attualmente appartengono a Israele. Sono giorni che Israele fa intendere che avrebbe usato le maniere forti. Il ministro della Difesa, Avigdor Liberman, aveva avvertito che qualsiasi palestinese si fosse avvicinato a una barriera di sicurezza avrebbe messo a repentaglio la propria vita. Secondo i media israeliani, Liberman da stamane si trova presso il quartier generale dell’esercito per monitorare la situazione. L’esercito ha dichiarato la zona “area militare interdetta”. Scontri sono in corso anche in Cisgiordania, nelle zone di Ramallah e di Hebron. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz la mobilitazione chiamata da Hamas è anche un modo per sviare l’attenzione dal pantano politico all’interno della Striscia: dove dopo la guerra del 2014 le infrastrutture sono in rovina e la gestione delle necessità quotidiane è sempre più complicato. “Condanniamo in modo forte l’uso sproporzionato della forza da parte di Israele contro i palestinesi durante le proteste pacifiche di oggi a Gaza”, ha detto il ministro degli Esteri della Turchia. “È necessario che Israele ponga fine rapidamente all’uso della forza, che innalzerebbe ulteriormente le tensioni nella regione”, afferma Ankara, lanciando un invito “alla comunità internazionale a rispettare la sua responsabilità di convincere Israele ad abbandonare il suo atteggiamento ostile”. Medio Oriente. Il destino triste dei popoli obbligati a darsi battaglia di Fabio Nicolucci Il Messaggero, 31 marzo 2018 Il conflitto israelo-palestinese è oramai la crisi più lunga dell’età contemporanea. Ci sono fiammate improvvise e altre al contrario prevedibili. La crisi della Spianata del Tempio del luglio scorso era catalogabile tra le prime. Gli scontri che ieri a Gaza hanno portato alla morte di sette palestinesi, invece, appartengono alla seconda categoria. Tanto che già da giorni erano al lavoro i bulldozer dell’esercito israeliano per creare delle barriere di terra lungo il confine con la Striscia di Gaza, lì dove probabilmente si sarebbe concentrato il grosso dei manifestanti. La marcia di ieri è del resto parte di uno dei rituali più antichi, anche per quanto riguarda il costo umano, dell’annoso conflitto israelo-palestinese: è lo Yaum al-Ard, “il giorno della Terra” in arabo. Con questa ricorrenza, che quest’anno cade di venerdì, giorno della preghiera musulmana, comincia infatti un periodo di 45 giorni di tradizionale protesta nazionalista palestinese, che culmina ogni anno il 15 maggio nel Yaum al-Nakba, “giorno della catastrofe” in arabo. In questo modo, indissolubilmente legati - come è la natura di questo conflitto, dove alla fine ci si salverà o ci si perderà inevitabilmente insieme - anche nelle date, i due popoli israeliano e palestinese alla metà di maggio fanno ognuno il proprio bilancio. Gli israeliani lo fanno il 14 maggio, celebrando con lo Yom Ha-Atzmaut (il “giorno dell’indipendenza” in ebraico, ndr) la tanto sospirata istituzione di uno stato ebraico indipendente. Uno Stato uscito vincitore dalla guerra scoppiata dopo la proclamazione dello Stato d’Israele in metà dell’ex mandato britannico di Palestina, avvenuta con voto dell’Onu il 29 novembre1947, e finita nei primi mesi de11949. I Palestinesi lo fanno invece ricordando con il 15 maggio l’inizio della loro sconfitta, accompagnata da un esodo in parte istigato dai regimi arabi e in parte dovuto - come ha ben scritto Ari Shavit nel suo “La mia Terra Promessa” - all’esercito israeliano. Una marea di profughi che in parte si è diretta verso il Libano, in parte verso la Giordania, e in parte proprio verso Gaza, allora egiziana. Così oggi il 70 per cento della popolazione di Gaza è composta da profughi, o più precisamente dai loro figli e loro nipoti. E se questa è la massa di manovra per le ricorrenti dimostrazioni che ogni anno segnano il “mese nazionalista” che va dal 30 marzo al15 maggio, a fornire benzina per le fiamme contribuiscono le terribili condizioni della Striscia di Gaza, dove al netto delle bombe e dei combattimenti oramai si vive come nelle zone siriane sotto assedio, tra scarsa elettricità e impossibilità di fuga. E che la condizione di “prigione a cielo aperto” della Striscia di Gaza e dei suoi due milioni di abitanti sia un pericolo per tutti oltre che uno scandalo umanitario è lo stesso Stato maggiore dell’esercito israeliano ad averlo ripetuto più volte negli ultimi mesi alla sua leadership politica. Tanto che tra le idee discusse per fronteggiare le manifestazioni iniziate ieri, pare che il governo di Israele avesse valutato anche la possibilità di paracadutare cibo e medicinali nella Striscia. Ma purtroppo non è con il lancio di alcune derrate che sarà possibile risolvere questo annoso conflitto, e neppure evitare i morti che ci sono stati ieri. E che forse si ripeteranno domani e nei 45 giorni seguenti, proprio perché si è come prigionieri di una recita secondo binari prestabiliti, dove le due parti recitano oramai a soggetto secondo i loro peggiori vizi. La parte israeliana, trattando - malgrado gli avvisi contrari dello ShinBet, (il servizio segreto interno, ndr) - un evento politico come fosse militare, e dunque ammassando sul confine truppe e oltre 100 cecchini. La parte palestinese, al contrario, spingendo cinicamente i propri concittadini con rimostranze politiche a comportarsi come fossero soldati di un vero esercito, in grado di invadere e magari “riprendere” simbolicamente la propria terra. Cosa che è già successa da ultimo martedì scorso, con tre palestinesi che da Gaza sono penetrati fino alla base militare israeliana di Tsèelim. Una narrativa sbagliata, perché implicitamente nega in radice il fatto che quella terra non sarà mai più palestinese ed è di diritto “Israele”. Uno Stato che, come tutti gli Stati, ha diritto di impedire violazioni del proprio territorio. Una narrativa storta a cui si contrappone però una lettura della situazione dei palestinesi da parte di Israele altrettanto sbagliata. Perché difendersi come si avesse davanti non un popolo nudo bensì un altro Stato è del tutto fuorviante, e impedisce di affrontare il resto del contesto di Gaza. Oltre che di lavorare per crearlo davvero, uno Stato palestinese. Siamo dunque in presenza di due narrative che si guardano solo attraverso specchi deformanti invece che diritto negli occhi. Una situazione molto simile ai duellanti raccontati da Conrad, dove l’unico racconto condiviso rischia di essere quello di 45 giorni molto difficili. Israele. Il “panico” del ritorno uccide la pace di Zvi Schuldiner Il Manifesto, 31 marzo 2018 Di fronte a un atto simbolico evocante l’idea del ritorno, l’uso della forza da parte israeliana è un messaggio ben chiaro: chi vuole attraversare la frontiera può essere solo un uomo morto. Non è un semplice scontro e non lo si può misurare solo con il numero delle vittime. Comunque, a poche ore dall’inizio degli incidenti alla frontiera che chiude la Striscia di Gaza, i morti mentre scriviamo sono già quindici e centinaia i feriti. Già nelle scorse settimane, la tensione era palpabile e sempre più crescente: le varie manifestazioni in programma recavano un titolo, “la marcia del ritorno”, che scuoteva l’essenza stessa di Israele. Il ritorno dei rifugiati palestinesi. Il ritorno di quanti furono espulsi dalle loro case o decisero di fuggire nel 1948. La guerra del 1967 cambiò la realtà territoriale del conflitto israelo-palestinese e la questione territoriale offrì - forse lo fa tuttora - la possibilità di arrivare un accordo storico fra i due popoli, fra due movimenti cresciuti a partire dalla fine del XIX secolo. Da una parte, il sionismo che proponeva “il ritorno alla terra dopo l’espulsione” quasi duemila anni prima; dall’altra il nazionalismo palestinese che iniziava a manifestarsi e si accentuava nel confronto con il sionismo. E a partire dal 1948 ecco l’idea del “ritorno alla terra dopo l’espulsione”, come parte dell’essere palestinese. L’inesistente processo di pace dopo l’assassinio del premier israeliano Ytzhak Rabin da parte di un israeliano estremista nel 1995, offre teoricamente la possibilità di un accordo basato sulla spartizione: i territori occupati nel 1967 sarebbero la base per uno Stato palestinese e il tanto atteso ritorno sarebbe circoscritto a quei territori e - forse - alcuni chilometri quadrati torneranno a quello che adesso è Israele. L’altra possibilità, uno Stato unico in tutti i territori attualmente occupati da Israele, apre la porta a due possibilità: un apartheid sotto il dominio israeliano, oppure uno Stato democratico senza più la connotazione ebraico-sionista attuale. I 343 chilometri quadrati della Striscia di Gaza nella quale due milioni di palestinesi vivono in miseria e sulla soglia di un’enorme crisi umanitaria, sono circondati da una zona militare chiusa che però non è ermetica, tanto che frequentemente alcuni palestinesi riescono ad attraversarla. Ma nelle ultime settimane il nervosismo è cresciuto enormemente; tutti temevano quanto sarebbe successo di fronte a una massa di palestinesi pacificamente in marcia per cercare di materializzare visivamente il ritorno. Che succederà? Dovremo reprimerli con la forza e il mondo ci accuserà di crimini contro i civili? Il panico creato da questo possibile “ritorno” tocca i sentimenti più profondi degli israeliani. È anche la giornata della terra. In questo stesso giorno, nel 1976, le confische delle terre palestinesi in Israele portarono a scontri sanguinosi e la polizia israeliana assassinò sei palestinesi cittadini arabo-israeliani. Oggi, in una delle espressioni più imponenti della resistenza palestinese, migliaia di persone stanno manifestando lungo il confine della Striscia. Enorme il nervosismo fra le truppe israeliane: “Potrebbero passare il confine e minacciare lo Stato”; ed ecco le prime vittime. Era “previsto”. Di fronte a un atto simbolico evocante l’idea del ritorno, l’uso della forza da parte israeliana è un messaggio ben chiaro: chi vuole attraversare la frontiera può essere solo un uomo morto, la forza è dalla nostra parte, attenzione. Tutto ciò appartiene a una storia che la destra israeliana non può più permettersi: il panico creato dal ritorno è un chiaro condizionamento nei confronti della necessità di arrivare a un processo di pace evitando un peggioramento certo della situazione. Dopo un lungo periodo di “quasi silenzio” del mondo intero, durante il quale solo proteste sporadiche hanno fatto ricordare agli israeliani che non possono continuare a dominare milioni di palestinesi senza diritti, ora la frontiera esplode. È un nuovo giorno della terra e il sangue versato è un’avvisaglia di conseguenze più gravi se non si prenderà una nuova strada. Siria. Ghouta Est, svelate le prigioni segrete dei miliziani jihadisti La Repubblica, 31 marzo 2018 I civili nella mani delle milizie anti Bashar di Jaych Al-Islam. I prigionieri vittime di torture, sfruttati per la costruzione di tunnel segreti e usati come scudi umani. Nelle gabbie lasciate nelle vie e nelle piazze, all’aperto. Le suore trappiste fra le prime a segnalare gli abusi. La denuncia del Nunzio Apostolico, cardinal Mario Zenari. Con la caduta della Ghouta orientale, enclave alla periferia di Damasco, da tempo sotto assedio e sottoposta a bombardamenti da parte delle forze militari governative, emergono - si apprende da AsiaNews - i primi dettagli di violenze e abusi commessi dai gruppi di miliziani jihadisti della complessa e opaca galassia anti-Bashar, che hanno controllato per anni l’area. Fra questi, vi sono le milizie di Jaych Al-Islam, che hanno rinchiuso in carceri di fortuna nell’area di Douma un gran numero di prigionieri, fra i quali vi erano anche donne e bambini. Fonti locali riferiscono che la vicenda dei detenuti nelle mani del gruppo jihadista hanno rappresentato per molto tempo un soggetto tabù fra gli abitanti di Ghouta Est. Vi era infatti il timore diffuso di una rappresaglia da parte dei membri della potente milizia in lotta contro l’esercito del presidente siriano Bashar al-Assad. Intimidazioni e torture: la denuncia del Nunzio Apostolicoi. A denunciare per primi i crimini commessi dalle milizie, sono stati alcuni membri della stessa opposizione al regime di Bashar al-Assad, che parlano di intimidazioni e pratica diffusa della tortura. Nel tempo si sono moltiplicati i casi di intimidazione - anche sui civili - e le violenze sui prigionieri. Molti i dissidenti o i combattenti di fazioni rivali rinchiusi in carceri ufficiali e clandestine, assieme a civili accusati di collaborazionismo con Damasco. Violenze quotidiane perpetrate dai miliziani “nel silenzio dei media e dei governi occidentali”, come è sottolineato in una lettera di accusa delle suore trappiste e denunciato dal nunzio apostolico cardinal Mario Zenari. Nella missiva, le religiose denunciano la pratica di rinchiudere “in gabbie di ferro” uomini e donne “esposti all’aperto e usati come scudi umani”. Con la ripresa della Ghouta orientale, quelli che un tempo sono stati prigionieri ora possono raccontare il dramma vissuto. La sorte di militari e civili, fra cui donne e bambini prelevati in territori all’epoca fedeli al governo, è stata uno dei punti della trattativa fra mediatori russi ed esponenti di Jaych Al-Islam. Il numero maggiore di prigionieri è a Douma. Ad eccezione della città di Douma, l’esercito fedele al presidente Assad controlla ormai il 90% dei territori un tempo nelle mani dei miliziani. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, nell’offensiva sono morti oltre 1600 civili. Fonti locali citate da Le Monde riferiscono che il 26 marzo scorso i soldati governativi hanno liberato almeno 28 persone, soldati o civili, detenute a lungo nelle carceri dei ribelli. Tuttavia, il numero maggiore di detenuti e prigionieri si troverebbe proprio a Douma, ancora nelle mani dei ribelli. Si tratta dei “rapiti di Adra”, membri del servizio di sicurezza, funzionari e loro famiglie, prelevati nel 2013 nel contesto dell’avanzata dei gruppi anti-Assad, assieme ad altri gruppi di prigionieri di guerra. Usati come “monata di scambio” per le trattative. I media governativi siriani accusano i vertici di Jaych Al-Islam di essersi rifiutati di rilasciare anche questi ultimi detenuti nel corso degli ultimi negoziati della scorsa settimana. I prigionieri vengono trattenuti anche per questioni di carattere confessionale, essendo in maggioranza alawiti (l’etnia del presidente Assad). Sono considerati “moneta di scambio” per future trattative. In questi anni i vertici governativi hanno privilegiato le trattative per la liberazione di ufficiali e combattenti, abbandonando al loro destino i civili. Questi ultimi sono stati utilizzati dai gruppi ribelli per la costruzione di tunnel nella zona assediata dai soldati governativi, per sfuggire alla cattura. Altri ancora torturati. Un clima di violenze e terrore. Secondo quanto riferiscono gli esperti del Centro di documentazione sugli abusi in Siria, il gruppo combattente di Jaych Al-Islam è fra quelli che hanno ammassato il maggior numero di prigionieri. I numeri sono difficili da quantificare, anche se restano pur sempre inferiori a quelli detenuti nelle carceri governative. Quanti sono stati liberati in seguito a trattative descrivono un clima di violenze e terrore. Le donne e i bambini venivano separati dagli uomini, alcuni rinchiusi in gabbie poste nelle vie e nelle piazze della cittadina, utilizzati come scudi umani per ripararsi dagli attacchi dell’aviazione siriana e dell’alleato russo. Ancora oggi, fra le decine di detenuti anche nelle mani dei gruppi ribelli e jihadisti, vi sono donne e bambini appartenenti alle minoranze religiose. Niger. Arresti e rastrellamenti nelle organizzazioni umanitarie, l’allarme del Cospe La Repubblica, 31 marzo 2018 La Ong toscana denuncia: “Notizie allarmanti su quanto sta accadendo in Niger in questi ultimi giorni: manifestazioni sedate con la violenza dalla polizia, 23 arresti tra attivisti e giornalisti, un’irruzione in una tv privata, rastrellamenti nelle sedi di associazioni”. “Riceviamo notizie allarmanti su quanto sta accadendo in Niger in questi ultimi giorni: manifestazioni sedate con la violenza dalla polizia, 23 arresti tra attivisti e giornalisti, un’irruzione in una tv privata, rastrellamenti nelle sedi di associazioni e di altre agenzie di media”. È quando denuncia la Ong toscana Cospe, da anni impegnati in progetti di sviluppo in Niger, - come si apprende da Redattore Sociale. “I manifestanti - prosegue una nota dell’associazione - erano scesi in strada a Niamey lo scorso 25 marzo per protestare contro la legge finanziaria 2018 che prevede una nuova tassazione su case, elettricità ecc. Durante il pacifico corteo la polizia ha assalito con i lacrimogeni i partecipanti”. Un’escalation che preoccupa. “Gli arresti - si legge ancora nella nota diffusa da Cospe - sono poi proseguiti nelle sedi di alcuni associazioni: tra le persone arrestate anche Moussa Tchangari, segretario generale Alternative Espace Citoyens, nostro partner della società civile nigerina. Arrestato senza motivi - racconta il cooperante dell’Ong, Simone Teggi, in costante contatto con i membri dell’associazione - Moussa si trova da due giorni in stato di fermo presso la polizia giudiziaria ma nessuno sa in quale carcere si trovi. Sembra che ora dovrà comparire davanti ai giudici”. Un’escalation che preoccupa gli attori internazionali presenti, come Amnesty International e Cospe. “Si tratta di un grave attacco alla democrazia e alla società civile - dichiara Giorgio Menchini, presidente della Ong - Chiediamo al governo nigerino di liberare immediatamente gli attivisti”. Nigeria. 30 condanne a morte commutate dal governatore del delta nessunotocchicaino.it, 31 marzo 2018 Il senatore Ifeanyi Okowa, governatore dello Stato nigeriano del Delta, ha commutato in ergastolo le condanne a morte di 30 prigionieri e concesso la grazia totale a cinque detenuti che stavano scontando pene di varia lunghezza. La grazia concessa dal Governatore rientra nell’esercizio della sua Prerogativa di Grazia ai sensi della Sezione 212 della Costituzione della Repubblica Federale della Nigeria del 1999 (come modificata). Una dichiarazione rilasciata dall’Ufficio del Procuratore generale e Commissario alla Giustizia, Peter Mrakpor, ha precisato che il governatore ha agito in base ai poteri conferitigli nell’esercizio dei suoi poteri di prerogativa di grazia nello spirito della celebrazione pasquale e ha preso in considerazione le numerose richieste internazionali e locali, comprese quelle di Amnesty International. Il Procuratore generale e Commissario alla Giustizia ha spiegato che il governatore ha agito in conformità con i suoi poteri costituzionali sulla base delle raccomandazioni del Consiglio Consultivo dei Sette uomini sulla Prerogativa della Grazia, diretto da Patrick Okpakpor, che è stato inaugurato dal Governatore del Delta il 30 marzo 2017. Ha detto che il governatore ha approvato la concessione del pieno perdono ai seguenti detenuti e ha ordinato il loro rilascio immediato: Livinus Ugwu, che era stato condannato a 20 anni, Enebeli Dike, Orji Pascal, che era stato condannato a 10 anni di prigione, Moses Agedah che era anche nel braccio della morte e Martins Ishiekwene, un prigioniero condannato a morte il 30 novembre 1998. I 30 detenuti le cui sentenze sono state commutate dal governatore erano tutti detenuti nel braccio della morte, condannati a morte per impiccagione.