Papa Francesco: “Dio non dimentica nessuno. Inumana la pena di morte” di Annachiara Valle Famiglia Cristiana, 30 marzo 2018 Il Papa lava i piedi a dodici detenuti, otto di loro di religione cattolica. A tutti dice che il gesto di Gesù è il segno che Gesù non abbandona nessuno. “Se i capi di Stato avessero capito gli insegnamenti di Gesù, quante guerre non sarebbero state fatte!”, afferma. Poi annuncia che verrà operato di cataratta. Prima l’incontro con i detenuti ammalati in infermeria, dopo con quelli della VIII sezione che scontano la pena in isolamento. In mezzo la messa nella rotonda del carcere di regina Coeli. Papa Francesco ha voluto incontrare proprio tutti i reclusi del carcere romano più antico. Dopo Casal del marmo, Rebibbia e Paliano, per la messa in Coena Domini Bergoglio sceglie 12 persone di Regina Coeli: 4 sono italiani, 2 filippini, 2 marocchini, 1 moldavo, 1 colombiano, 1 nigeriano e 1 della Sierra Leone. Otto di loro sono di religione cattolica; due musulmani; uno ortodosso e uno buddista. Il Papa ha voluto che fosse un incontro privato, senza diretta tv. Nell’omelia, che è stata resa nota al termine della messa, ha ricordato il significato del gesto del lavare i piedi: “Lavare i piedi. I piedi, in quel tempo, erano lavati dagli schiavi: era un compito da schiavo. La gente percorreva la strada, non c’era l’asfalto, non c’erano i sampietrini; in quel tempo c’era la polvere della strada e la gente si sporcava i piedi. E all’entrata della casa c’erano gli schiavi che lavavano i piedi. Era un lavoro da schiavi. Ma era un servizio: un servizio fatto da schiavi. E Gesù volle fare questo servizio, per darci un esempio di come noi dobbiamo servirci gli uni gli altri”. Ricorda la disputa tra i suoi discepoli, che avrebbero voluto stare uno alla sua destra e l’altro alla sua sinistra per sottolineare che “Gesù li ha guardati con amore - Gesù guardava sempre con amore - e ha detto: “Voi non sapete ciò che domandate”. I capi delle Nazioni - dice Gesù - comandano, si fanno servire, e loro stanno bene. Pensiamo a quell’epoca dei re, degli imperatori tanto crudeli, che si facevano servire dagli schiavi… Ma fra voi - dice Gesù - non deve essere lo stesso: chi comanda deve servire. Il capo vostro deve essere il vostro servitore”. Gesù capovolge le cose, capovolge “l’abitudine storica, culturale di quell’epoca - anche questa di oggi - colui che comanda, per essere bravo capo, sia dove sia, deve servire”. Bergoglio ricorda che “se tanti re, imperatori, capi di Stato avessero capito questo insegnamento di Gesù e invece di comandare, di essere crudeli, di uccidere la gente avessero fatto questo, quante guerre non sarebbero state fatte! Il servizio: davvero c’è gente che non facilita questo atteggiamento, gente superba, gente odiosa, gente che forse ci augura del male; ma noi siamo chiamati a servirli di più. E anche c’è gente che soffre, che è scartata dalla società, almeno per un periodo, Gesù va lì a dir loro: “Tu sei importante per me”. Una importanza che è sottolineata proprio dal gesto di lavare i piedi: “Gesù viene a servirci, e il segnale che Gesù ci serve oggi qui, al carcere di Regina Coeli, è che ha voluto scegliere 12 di voi, come i 12 apostoli, per lavare i piedi. Gesù rischia su ognuno di noi. Sappiate questo: Gesù si chiama Gesù, non si chiama Ponzio Pilato. Gesù non sa lavarsi le mani: soltanto sa rischiare! Guardate questa immagine tanto bella: Gesù chinato tra le spine, rischiando di ferirsi per prendere la pecorella smarrita”, dice mostrando il regalo che ha portato: l’altare sul quale ha celebrato messa che resterà nel centro penitenziario. “Oggi io, che sono peccatore come voi, ma rappresentò Gesù”, dice il Papa, “sono ambasciatore di Gesù. Oggi, quando io mi inchino davanti a ognuno di voi, pensate: “Gesù ha rischiato in quest’uomo, un peccatore, per venire da me e dirmi che mi ama”. Questo è il servizio, questo è Gesù: non ci abbandona mai; non si stanca mai di perdonarci. Ci ama tanto. Guardate come rischia, Gesù!”. E ancora, allo scambio della pace, il Papa ha voluto aggiungere queste parole: “E adesso, tutti noi - sono sicuro che tutti noi - abbiamo la voglia di essere in pace con tutti. Ma nel nostro cuore ci sono tante volte sentimenti contrastanti. È facile essere in pace con coloro a cui vogliamo bene e con quanti ci fanno del bene; ma non è facile essere in pace con quelli che ci hanno fatto torto, che non ci vogliono bene, con i quali siamo in inimicizia. In silenzio, un attimo, ognuno pensi a coloro che ci vogliono bene e a cui noi vogliamo bene, e anche ognuno di noi pensi a coloro che non ci vogliono bene e anche a coloro a cui noi non vogliamo e anche - anzi - a coloro su cui noi vorremmo vendicarci. E chiediamo al Signore, in silenzio, la grazia di dare a tutti, buoni e cattivi, il dono della pace”. Infine, salutando la direttrice del carcere e un detenuto ha ricordato che “non c’è alcuna pena giusta - giusta! - senza che sia aperta alla speranza. Una pena che non sia aperta alla speranza non è cristiana, non è umana! Ci sono le difficoltà nella vita, le cose brutte, la tristezza - uno pensa ai suoi, pensa alla mamma, al papà, alla moglie, al marito, ai figli… è brutta, quella tristezza. Ma non lasciarsi andare giù: no, no. Io sono qui, ma per reinserirmi, rinnovato o rinnovata. E questa è la speranza. Seminare speranza. Sempre, sempre. Il vostro lavoro è questo: aiutare a seminare la speranza di reinserimento, e questo ci farà bene a tutti. Sempre. Ogni pena dev’essere aperta all’orizzonte della speranza. Per questo, non è né umana né cristiana la pena di morte. Ogni pena dev’essere aperta alla speranza, al reinserimento, anche per dare l’esperienza vissuta per il bene delle altre persone”. E, dopo le parole del detenuto ha aggiunto: “Tu hai parlato di uno sguardo nuovo: rinnovare lo sguardo… Questo fa bene, perché alla mia età, per esempio, vengono le cateratte, e non si vede bene la realtà: l’anno prossimo dovremo fare l’intervento. Ma così succede con l’anima: il lavoro della vita, la stanchezza, gli sbagli, le delusioni oscurano lo sguardo, lo sguardo dell’anima. E per questo, quello che tu hai detto è vero: approfittare delle opportunità per rinnovare lo sguardo”. La scrittrice Nadia Terranova: “in carcere c’è un grande bisogno di letteratura” di Roberta Barbi vaticannews.va, 30 marzo 2018 La nota scrittrice di libri per ragazzi è quest’anno tra i giurati del Premio letterario Goliarda Sapienza, ma non disdegnerebbe, in futuro, ricoprire il ruolo di tutor: “Un’esperienza forte e molto importante”. In carcere ha notato “un grande bisogno di letteratura”: sia quella degli altri, e quindi da leggere; sia la propria, quella da scrivere, che permette di trasformare con la fantasia l’autobiografia in un racconto. È così che Nadia Terranova, autrice di storie per ragazzi e non solo, sta vivendo la propria esperienza da membro della giuria degli esperti per l’attuale edizione di Goliarda Sapienza: “Ho lavorato in solitudine e votato il mio racconto preferito - spiega - ma è stato difficilissimo scegliere, ho dovuto dormirci su qualche notte”. “In carcere ho trovato un concentrato esplosivo di umanità”. A emozionarla, nelle parole dei detenuti partecipanti, “il modo in cui le vite diventavano storie, ma è un qualcosa che mi colpisce sempre, come si riesca a fare della propria esistenza letteratura”. Autenticità, dunque, la ricetta vincente, e non potrebbe essere altrimenti all’interno di un contesto come quello carcerario: “Un luogo troppo spesso dimenticato, oppure evocato senza cognizione di causa - è il suo pensiero - dove invece si trova un concentrato esplosivo di umanità”. Quando si scrive non si può fingere - Non ha esitato un attimo quando le hanno proposto di entrare in giuria: “Fare qualcosa per i detenuti lo ritengo un dovere civile - afferma - le persone che stanno dentro devono restare in contatto con il mondo di fuori”. Chissà, in futuro potrebbe anche fare il tutor, d’altronde non le manca l’esperienza da insegnante di scrittura creativa: “Mi piacerebbe, ma mi chiederei continuamente se sono all’altezza - rivela - quando si insegna, come quando si scrive, non si può fingere, e tantomeno si può fingere in carcere”. Non si diventa scrittori con un solo racconto - Non si sbottona su come stanno andando le valutazioni dei giudici, ma è convinta che l’esperienza di Goliarda Sapienza faccia bene ai reclusi: “È importante vedere la propria esperienza scritta su un foglio, farla leggere; è sempre un bene per uno scrittore che qualcuno maneggi il suo materiale incandescente”. D’altronde, però, non si diventa scrittori dopo aver scritto un solo racconto: “Al vincitore consiglio di continuare a scrivere e proporre i propri racconti - raccomanda - oppure di metterli da parte e iniziare un romanzo, meglio se non direttamente connesso con la realtà del carcere, che nella storia può entrare anche dalla porta posteriore”. L’informazione oscura la realtà e la politica o si adegua o affonda di Tonino Perna Il Manifesto, 30 marzo 2018 Nell’era dei paradossi accade che mai la società umana ha prodotto tanta ricchezza e mai così alto è stato il numero di chi muore di fame. Più tecnologia e conoscenze produciamo e più ci avviciniamo alla soglia della catastrofe ambientale e nucleare. Mai abbiamo avuto tanti mezzi di informazione, tanta facilità di comunicazione in tempo reale e contemporaneamente tanta ignoranza a livello di massa. Naturalmente con conseguenze enormi sul piano politico. La nostra visione del mondo si basa essenzialmente sulla percezione e, ad esclusione degli addetti ai lavori, su qualunque fenomeno sociale del nostro tempo la coscienza collettiva si forma solo sulla percezione. L’ultimo delitto visto in televisione, ripreso dalla stampa, dibattuto sui talk show. Stragi di donne, tragedie familiari, giovani uccisi da assassini che restano ignoti: è il piatto forte dei telegiornali Tg. Chi sa che siamo, insieme alla Grecia e Malta, il paese europeo con il più basso tasso di omicidi ? Malgrado mafia, camorra e ‘ndrangheta viviamo in un paese tra i più tranquilli dell’Unione europea, che a sua volta è un’area tra le meno violente del mondo relativamente ai fatti di cronaca nera. Stesso discorso vale per i migranti. Quando chiedo ai miei studenti quanti sono gli immigrati in Italia, la maggior parte pensa che siano tra il 30 e il 40 per cento della popolazione italiana. Una vera e propria invasione! Quando gli comunichi che non arriva al 9 per cento, una delle percentuali più basse della Ue, rimangono perplessi e increduli. Se questo succede nelle aule universitarie, possiamo immaginare cosa accade fuori. Solo una estrema minoranza conosce la realtà, approfondisce i dati, ha un approccio scientifico alle questioni più delicate e importanti del nostro tempo. Anche in passato l’umanità ha convissuto con una percezione falsa della realtà. Siamo stati convinti per millenni che il sole girasse intorno alla terra, così come pensavamo che gli animali e le piante fossero stati creati con le attuali fattezze fin dalla notte dei tempi. Galileo, Darwin e altri scienziati ci hanno convinto che la nostra percezione era falsa, ma ci sono voluti molti decenni, qualche volta secoli. Credo che in questa fase della storia umana sia diventata una necessità di prima grandezza diffondere un approccio scientifico ai fenomeni sociali, economici e politici. Non tutti possiamo diventare scienziati, ma tutti possono avere a disposizione una cassetta degli attrezzi che faccia leggere in maniera non superficiale, istintiva la realtà sociale. Abbiamo bisogno di giornalisti, artisti, docenti, educatori - a partire dalla scuola elementare- capaci di costruire uno spirito critico, per aiutare a selezionare le informazioni, a difendersi dal bombardamento mediatico. Non a caso stanno distruggendo definitivamente il ruolo della scuola come palestra di idee e individui pensanti, per questo è ricorrente l’idea di abolire la Tv pubblica che ancora riserva qualche spazio all’approfondimento. È un’onda reazionaria che coinvolge l’Europa, e la risposta non può essere cercata nel breve periodo o in un cambio del brand politico. Si tratta piuttosto di una sfida antropologica: il profilo di essere umano costruito da questo modo di produzione capitalistico nell’era dell’iper-informazione/deformazione della realtà. Non dimentichiamo che una parte preponderante della sinistra storica aveva le sue basi nel marxismo, una visione che tentava di interpretare la storia con un metodo scientifico. Forse è proprio da quell’approccio che dovremmo ripartire, in maniera non meccanicistica, per contrastare il mix di razzismo-neoliberismo che ha impregnato la gran parte della società contemporanea. È il terribile e reale rischio di far trionfare il “disumano”, denunciato più volte da Marco Revelli, con cui dobbiamo fare i conti prima di pensare alle alchimie dei governi e dei partiti. È quel “restiamo umani!”, quel grido disperato di un grande testimone del nostro tempo, come Vittorio Arrigoni, che ci deve spingere a spendere le nostre migliori energie, ognuno secondo le proprie capacità, per far riemergere l’umanità dentro la nostra società. Zitti tutti. Per difendere l’informazione libera di Costantino Cossu Il Manifesto, 30 marzo 2018 Cronista della Nuova Sardegna scrive dei “veleni” nel palazzo di giustizia di Tempio Pausania: perquisita e indagata. L’Ordine e la Fnsi si mobilitano e inviano una lettera a Orlando e Mattarella. I fatti parlano da soli. E sono molto gravi, sia in relazione al singolo episodio sia rispetto a un quadro più generale - dentro il quale stanno precedenti episodi analoghi - che segnala un rischio molto serio per la libertà di informazione. Martedì scorso i carabinieri, su mandato della procura di Tempio, hanno sottoposto a perquisizione personale la giornalista della Nuova Sardegna Tiziana Simula e messo sottosopra la sua postazione di lavoro. Hanno perquisito anche l’auto e l’abitazione della cronista. Il motivo per cui l’attività della redattrice del quotidiano sardo è finita nel mirino degli inquirenti è legato a due articoli pubblicati sabato e domenica scorsi e relativi ai “veleni” che circolano nel palazzo di giustizia di Tempio, sconquassato da una bufera investigativa. Dall’arresto del giudice Vincenzo Cristiano per corruzione in atti giudiziari a una maxi inchiesta su alcune aste pilotate, con sei magistrati indagati; sino all’esposto trasmesso qualche giorno fa dalla Procura di Tempio a quella di Perugia, un dossier di 28 pagine in cui l’ex presidente del palazzo di giustizia Francesco Mazzaroppi accusa l’ex procuratore Domenico Fiordalisi di aver “nascosto” un fascicolo relativo a un’inchiesta per bancarotta fraudolenta. Ed è proprio quel documento, di cui La Nuova Sardegna ha dato conto, ad aver provocato l’indagine nei confronti di Tiziana Simula, indagata non per violazione del segreto istruttorio ma, in base all’articolo 362 del codice penale, per omessa denuncia da parte di un incaricato di pubblico servizio. Un’accusa palesemente senza fondamento: Tiziana Simula è una giornalista e non un’incaricata di pubblico servizio. L’episodio sta suscitando reazioni molto forti contro la condotta del magistrato Andrea Garau, il pm di Tempio che ha disposto la perquisizione e le indagini nei confronti della cronista. “Sconcerto e forte condanna” sono stati espressi dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti in una lettera inviata a Sergio Mattarella, al ministro della giustizia Andrea Orlando e al procuratore generale presso la corte d’appello di Cagliari Maria Gabriella Pintus. Alla lettera ha aderito anche la Federazione nazionale della stampa. L’altro ieri i consiglieri dell’Ordine e la segreteria della Fnsi hanno organizzato, nella sede romana dell’associazione professionale dei giornalisti, un flash mob, tappandosi le bocca e le orecchie e oscurandosi gli occhi, per mostrare - hanno spiegato in una conferenza stampa il presidente dell’Ordine Carlo Verna e il segretario della Fnsi Raffaele Lorusso - “indignazione per il grave attacco alla libertà di stampa”. Nella lettera si chiede anche “un immediato intervento anche ispettivo per accertare comportamenti fortemente lesivi dei primari diritti costituzionali e della libertà di stampa, principi costantemente ribaditi anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo”. “La nostra è una reazione ferma e decisa - ha detto Lorusso - Il messaggio deve essere chiaro: nessuno qui fa una difesa corporativa, il caso ha una rilevanza generale. La perquisizione di Olbia, ordinata da un magistrato contro una giornalista che ha fatto solo il suo lavoro, è la punta di un iceberg, un elemento che si inserisce nell’escalation che punta a ridurre gli spazi della libertà di stampa”. Lorusso ha quindi citato gli ultimi casi di perquisizioni di giornalisti alla Stampa a Torino, al Sole 24 ore a Milano, a Napoli e Salerno. “C’è la volontà - ha aggiunto Lorusso - di dire alla stampa di non impicciarsi troppo. Quello che è avvenuto a Olbia è gravissimo, non solo perché i carabinieri hanno profanato il tempio laico che è la redazione, ma anche perché la collega ha subito una perquisizione per aver dato la notizia di un esposto su presunte irregolarità commesse da magistrati. In un paese civile non ci possono essere santuari intoccabili. Comincio a chiedermi dove stiamo andando e dove siano le differenze tra il nostro paese e la Turchia”. “Siamo indignati per quanto accaduto in Sardegna e prima anche altrove - ha aggiunto Verna - Ora basta, non è possibile che l’Italia, che è già indietro nelle classifiche per la libertà di stampa, scenda ancora e che si continui con queste minacce a diritti tutelati dalla Costituzione e dalle norme europee”. Lorusso ha anche annunciato la richiesta di un incontro ai nuovi presidenti delle Camere per riprendere i dossier lasciati aperti nella scorsa legislatura, che sono: le norme sulla cancellazione del carcere per i cronisti, sul contrasto alle querele bavaglio e sull’eliminazione del lavoro precario nelle redazioni. Sangermano: “la nostra Anm ha chiuso con la linea Davigo, anche grazie all’avvocatura” di Errico Novi Il Dubbio, 30 marzo 2018 “Potremmo dirci soddisfatti dei risultati colti nell’interlocuzione col governo, chiaramente superiori rispetto a quelli ottenuti dalla giunta precedente. Ma credo che l’esecutivo guidato da Albamonte, di cui ho fatto parte, debba rivendicare innanzitutto un merito: aver sottratto l’Anm al rischio del moralismo isolazionista, averla restituita a una dimensione aperta e plurale, anche attraverso il fronte comune con l’avvocatura”. È la sintesi che Antonio Sangermano propone sulla fase dell’Anm di cui è stato protagonista, da vicepresidente della giunta esecutiva centrale. Una svolta “silenziosa”, come la definisce lui, di cui forse non si è colto il significato per l’approccio meno fragoroso rispetto a quello di Davigo. Certo non è stato un anno facile: per alcune indagini che hanno visto magistrati sotto accusa e per un certo clima di insofferenza nei confronti dell’ordine giudiziario. Dopo l’anno che ha visto Davigo al vertice dell’Associazione abbiamo dovuto gestire una fase delicata. Il compito principale svolto, egregiamente, dalla giunta Albamonte è stato quello di accreditare un’immagine diversa della magistratura associata. Che è tornata a essere un’agorà in cui si discute e ci si confronta, affrancata da una dimensione meramente corporativa o di chiusura verso il resto del mondo. È stato questo il segno della presidenza Davigo? Posso dire che l’immagine proposta dalla nostra giunta è stata decisamente più aperta, polifonica, in chiara contrapposizione a quella incarnata, anche al di là della sua volontà, da Davigo. Durante la sua presidenza è stato trasmesso all’esterno il messaggio di una magistratura inquirente giustizialista, quasi un contropotere di pochi eletti che si contrappone alla politica. Ripeto: questa è la narrazione che la stampa ha restituito. Possibile che un presidente, da solo, avesse cambiato il volto dell’Anm? Davigo non ha avuto alcun idoneo contraltare culturale. La sua guida carismatica ha fagocitato l’immagine dell’intera magistratura. Certo, è stato possibile anche grazie a un’agibilità mediatica e a una capacità comunicativa senza precedenti. A quell’assenza di dialettica mi piace contrapporre l’ultimo congresso celebrato dall’Anm, che ha restituito voce a tanti colleghi ridotti al silenzio da una narrazione monocorde della magistratura. Va detto che il riscontro mediatico della presidenza Davigo non è stato accompagnato dal successo “sindacale”. La sua giunta, oggettivamente, non ha colto alcun obiettivo. In quest’anno appena concluso di presidenza Albamonte, viceversa, siamo riusciti a raggiungere risultati importanti. Abbiamo dialogato con il governo, innanzitutto con il ministro della Giustizia, sempre rispettando l’autonomia della politica. E per esempio si è riusciti a ottenere, in materia di intercettazioni, che fossero armonizzate le più stridenti discrasie, pur subendo una riforma che continua a non convincerci. Abbiamo indotto correzioni senza strillare, senza andare nei talk show, ma con sobria determinazione. In qualche caso siamo riusciti a scongiurare del tutto il pericolo di interventi che ritenevamo sbagliati. Ad esempio? Tengo a sottolineare lo stralcio della riforma del minorile, tema che, da procuratore presso il Tribunale dei minori di Firenze, mi preme molto. Era stata prevista la cancellazione dell’assetto attuale: avrebbe voluto dire rinunciare alla peculiarità di un universo giudiziario che invece era necessario mettere in salvo. E però in questo modo sono rimasti irrisolti nodi quali l’assoluta mancanza di uniformità delle procedure, che il Cnf ritiene indispensabile superare. Io sono convinto che il prezioso dialogo con l’avvocatura, già avviato, potrà portare a una riforma condivisa, che pur superando le disarmonie esistenti preservi la specificità dell’universo minorile. Si dire chiusa la fase, inaugurata da Mani pulite, dell’impropria supplenza della magistratura rispetto alla politica? A quel potere di supplenza sono sempre stato contrario. I magistrati non lo vogliono, casomai lo subiscono, perché crea un’impropria sovraesposizione in cui può allignare qualche protagonismo peronistico. La magistratura deve occupare lo spazio che le è proprio, rivendicando la propria autonomia senza collateralismi e senza intestarsi palingenesi etiche che non le competono. Questo può portare a un minore interventismo sui temi eticamente sensibili? Guardi, se dovessi indicare il senso più profondo della mia esperienza da vicepresidente sceglierei di certo il tentativo, che ho portato avanti, di dare rilevanza e visibilità culturale a una componente della magistratura indisponibile alla subalternità ideologica e culturale rispetto a ogni forma di “neo-conformismo democratico”. Ma la mia posizione sui nuovi diritti è stata totalmente fraintesa: voleva essere una riflessione sul senso del limite della giurisdizione, che non dovrebbe essere mai demiurgica né dovrebbe assecondare l’impropria supplenza che le viene assegnata. Lo dico, sia chiaro, senza pregiudizi verso alcun orientamento, anzi con profondo rispetto verso tutti. L’autonomia può assolutamente sì. Uno dei tratti caratterizzanti della giunta Albamonte è nella definizione di un fronte comune con l’avvocatura attorno a questioni condivise: è una strategia fondamentale per rapportarsi alla politica in modo autorevole. Ed è una strategia che i due soggetti della giurisdizione possono praticare mantenendo ciascuna i propri indeclinabili punti di vista sulle tematiche che li dividono: penso alla separazione delle carriere, sulla quale restiamo fermamente contrari. Alla comune urgenza di tutelare l’autonomia della giurisdizione si può dare risposta con un più forte riconoscimento del ruolo dell’avvocato in Costituzione? Parto da un presupposto: vanno mantenute chiare le differenze tra magistrato e avvocato, ma va anche implementata la comune cultura della giurisdizione e valorizzato sempre più il ruolo dell’avvocato quale tutore dei diritti, oltre che prezioso interlocutore dialettico. Ripeto, la sola revisione che mi vede nettamente contrario riguarda la creazione di surrettizie forme di dipendenza del pm dal potere politico. Il pm deve rimanere indipendente e non può diventare un avvocato dell’accusa. Certo l’indipendenza ha un prezzo: servono comportamenti coerenti, garantisti e ispirati al senso di umanità. A proposito di pm: cosa pensa del nascente coordinamento che riunisce tutti i procuratori? Se ne occuperà la nuova giunta, che peraltro è composta da persone dallo spiccato profilo. Personalmente mi limito ad auspicare un dialogo e un confronto con l’Anm, privo di asprezze e pregiudiziali, costruttivo e consapevole dell’insostituibile ruolo democratico svolto dall’associazionismo. L’Anm non è una piazza che ospita una rissa perenne: è un luogo di confronto prezioso, che può aprirsi alle novità senza demonizzarle, ma al contempo senza disperdere la propria funzione. Processo Expo, il Sindaco Sala prosciolto: l’insuccesso dello zig zag dei giudici di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 30 marzo 2018 Sulla fornitura degli alberi di Expo i pg hanno fatto notare i ripetuti cambi di imputazione all’attuale sindaco di Milano. Comunque sia andata, è stato un insuccesso. L’aforisma di Chiambretti, ritoccato per adeguarlo agli zig zag togati nelle inchieste Expo, calza alla fase iniziale 2013-2015, quando sarebbe stato il momento giusto per indagare a fondo e invece la Procura della Repubblica alzò il piede dall’acceleratore, intervenendo su stretti collaboratori di Sala con arresti e rapide condanne per circoscritte tangenti ma badando poi - nello scontro tra il procuratore Bruti Liberati e il vice Robledo - a non rischiare che ulteriori verifiche potessero interferire con l’apertura già in affanno di Expo. Ma l’aforisma vale anche per l’avocazione nel 2016 da parte della Procura Generale, pur risultata in grado di non sorvolare più per Sala sulla retrodatazione nel 2012 della sostituzione di due commissari di gara, e anzi di dimostrare che nelle stesse carte scartate dalla Procura della Repubblica esistessero a carico di altri 7 indagati anche ipotesi di reato giudicate ieri molto serie dalla giudice (come la corruzione del progettista della Piastra). Sulla fornitura degli alberi di Expo, infatti, i pg si sono incistati su ripetuti cambi di imputazione a Sala: da niente a turbativa d’asta, da turbativa ad abuso d’ufficio, da abuso all’insaputa di Sala ad abuso in concorso con Sala, dall’illegittimità dell’articolo 57 del codice appalti a quella dell’articolo 2384 del codice civile. Slalom che i due magistrati - subentrati all’iniziale titolare (poi pensionato) sempre sotto l’egida del procuratore generale Alfonso, dopo la fine inchiesta ma prima della richiesta di giudizio - in aula hanno motivato con la “rilettura degli atti da parte di pm diverse persone fisiche”. Non proprio l’idea di un ufficio impersonale, se l’imputazione cambia al ritmo della pensione di questo o quel magistrato. La non punibilità per tenuità del fatto è inapplicabile all’esercizio abusivo della professione Il Sole 24 Ore, 30 marzo 2018 Corte di Cassazione - Sezione VI - Sentenza 29 marzo 2018 n. 14501. Non è applicabile la non punibilità per tenuità del fatto, prevista dall’articolo 131-bis del codice penale, in caso di esercizio abusivo della professione. Lo ha precisato la Cassazione, sesta sezione penale, con la sentenza 29 marzo 2018 n. 14.501. Il caso esaminato era quello di un “falso” odontoiatra che aveva ricoperto il ruolo di direttore sanitario in uno studio dentistico senza avere le necessarie abilitazioni e che inoltre si era qualificato come odontoiatra nella dichiarazione alla Asl. I magistrati hanno sottolineato che questo comportamento non può essere considerato di modesta gravità. Inoltre hanno specificato che l’articolo 131-bis del codice penale non si può applicare all’esercizio abusivo della professione “in quanto tale delitto presuppone una condotta che, in quanto connotata di ripetitività, continuità o, comunque, dalla pluralità degli atti tipici, è di per sé ostativa al riconoscimento della causa di non punibilità”. Apologia di terrorismo a chi esalta l’Isis e mantiene contatti con l’organizzazione di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 30 marzo 2018 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 29 marzo 2018 n. 14503. Apologia di terrorismo e quindi piena legittimità della misura cautelare per il soggetto che mostra di avere dei reali contatti con l’organizzazione a delinquere religiosa quale l’Isis. La vicenda - La Cassazione - con la sentenza n. 14503/18 - ha così accolto la tesi della Procura che chiedeva la misura nei confronti di un cittadino marocchino residente in Italia e che aveva mostrato di avere e mantenere i contatti con la struttura nel proprio paese. In maniera del tutto inopportuna - si legge nella sentenza - il Tribunale nella motivazione ha citato una conversazione tra l’indagato e una donna “quando quest’ultima aveva pronunciato la parola “Daesh” il soggetto indagato aveva avuto una reazione stizzita negando di fare parte dell’Isis”. Secondo i Supremi giudici si tratta di una conversazione che si prestava a letture diverse rispetto alla quale il Tribunale aveva fornito una motivazione sul significato prescelto che sbrigativamente consentiva di demolire la portata degli assunti accusatori ma che non considerava il contesto nel cui ambito quella affermazione fu compiuta. Si legge testualmente nella decisione che rispetto alle nuove forme di manifestazione del terrorismo globale e specialmente del terrorismo islamista, l’uso della parola, al di là del tema del contenuto apologetico, assume un ruolo, correttamente definito in dottrina, “costitutivo”, perché può non essere limitato alla semplice divulgazione alla mera manifestazione del pensiero: incitamento, propaganda, apologia o anche solo manifestazioni di simpatia possono essere componenti di un più ampio raggio di azione finalizzato a indottrinare a prospettare cambiamenti di vita a infondere idee e senso di potenza nei fedeli, a incrementare l’arruolamento tra le fila radicali, soprattutto nei casi, come quello in esame in cui l’oggetto della comunicazione non riguarda uno specifico evento, un singolo attentato, quanto piuttosto, la vocazione al martirio, e soprattutto, la partecipazione a un gruppo terroristico. Conclusioni - In definitiva perché ci sia apologia del terrorismo occorre che l’esaltazione di un’organizzazione terroristica, l’invito ad aderirvi, la militanza ideologica hanno una valenza diversa se compiuti da un soggetto che abbia davvero rapporti con l’associazione terroristica di cui parla. Discorso diverso è se la manifestazione di pensiero provenga da una persona del tutto slegata da contesti di criminalità organizzata. Calabria: Candido e Ruffa (Radicali) “nominare subito il Garante dei detenuti” lameziaoggi.it, 30 marzo 2018 “Anche quest’anno, - come consuetudine Radicale che ci ha insegnato Marco Pannella - la domenica di Pasqua, per la Resurrezione della vita del Diritto, faremo visita ai detenuti e agli agenti di custodia della casa circondariale di Vibo Valentia. Già, in Carcere: quel luogo non luogo di cui la politica non si preoccupa né si occupa, se non per dire: buttate le chiavi assieme allo Stato di diritto”. Così in una nota stampa Rocco Ruffa e Giuseppe Candido, entrambi militanti del Partito Radicale Nonviolento, rispettivamente, membro del comitato nazionale di Radicali Italiani il primo, segretario dell’associazione radicale nonviolenta calabrese “Abolire la miseria - 19 maggio”, il secondo. E anche quest’anno specifica la nota stampa - grazie all’ex deputata Radicale Rita Bernardini - la visita è stata autorizzata - ai sensi dell’art. 117 del d.P.R. 230/2000, - dal dottor Marco Del Gaudio, vice capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia per una delegazione ufficiale del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale Transpartito composta da quattro persone: assieme a Giuseppe Candido e Rocco Ruffa entreranno nel carcere di Vibo Valentia la mattina di Pasqua alle ore 9:00 anche Cesare Russo ed Ernesto Mauro, pure loro militanti del Partito che era di Marco Pannella. “Quando c’eravamo stati un anno fa” - prosegue la nota stampa - “con il digiuno a staffetta chiedevamo conta forza della nonviolenza e amore per la verità, ai politici calabresi, di approvare la legge istitutiva del Garante regionale dei diritti delle persone private della libertà affinché, anche nella nostra Regione, vi fosse questa importante figura di garanzia, terza rispetto all’amministrazione giudiziaria e penitenziaria oltreché indipendente dalla politica. Finalmente a gennaio è stata approvata e per questo non molliamo. Anzi, ricordiamo che l’assenza del Garante dei detenuti in Calabria è aggravata dalla assenza contemporanea di un’altra figura di garanzia molto importante per tutti i cittadini, migranti e detenuti compresi: il garante regionale per la Salute. Una figura istituita, nella nostra Regione, dal 2008 con la legge regionale n°22, ma che da allora non è mai stata nominata. All’articolo 1 della norma si legge 22 del 10/7/200 si capisce che “È istituito presso il Consiglio regionale della Calabria l’Ufficio del Garante della Salute cui è attribuito il compito di verificare la piena attuazione nel territorio regionale dei diritti di tutte le persone, di ogni colore, religione, cultura ed etnia, compresi i detenuti, in materia di assistenza sanitaria e socio-sanitaria”, ma poi scopri che, da oltre undici anni, un garante per la salute in Calabria non è mai stato nominato. E ciò nonostante la stessa legge prevedesse che, qualora fossero “decorsi centottanta giorni dalla entrata in vigore della stessa” senza che il Consiglio regionale avesse provveduto alla nomina del Garante, “a norma dell’art. 4, vi provvede il presidente del Consiglio regionale con decreto”. Una legge dimenticata, inattuata. E quando sono le istituzioni a non rispettare ed attuare le proprie stesse leggi significa che a venire meno è lo Stato di diritto. Non vorremmo che, come per il Garante per la Salute che, seppur istituto da una legge, manca da oltre undici anni, anche per il Garante dei diritti dei detenuti - finalmente istituito a gennaio dopo tre anni di iter legislativo - si debba aspettare così tanto tempo per individuare la figura e nominarla. Per questo, come ci ha insegnato negli anni Marco Pannella, noi non molliamo la lotta nonviolenta per chiedere la nomina del garante dei detenuti e affermare lo Stato di diritto anche nella nostra Regione”. Aosta: carcere di Brissogne, parla il Garante dei detenuti “un quadro desolante” di Luca Ventrice aostasera.it, 30 marzo 2018 A spiegarlo, oggi Enrico Formento Dojot. Oltre ai problemi strutturali son gravi le carenze di personale: “La situazione del carcere è divenuta insostenibile per l’assenza di un Direttore titolare e per altre criticità”. “La situazione è quella che è, se fossi un attore sarei venuto qui ad esporre una bandiera bianca”. Basterebbero, da sole, queste poche parole di Enrico Formento Dojot, garante dei diritti dei detenuti in Valle d’Aosta, per descrivere la sua relazione sull’attività svolta nell’anno 2017 all’interno del carcere di Brissogne. Relazione nella quale campeggia la scritta “La situazione del carcere di Brissogne è divenuta infatti insostenibile per l’assenza di un Direttore titolare e per altre criticità”. Che non sono poche: “La struttura comincia ad avere i suoi anni e di manutenzione se ne fa poca - spiega Formento Dojot - ci sono gli spifferi nelle celle e d’inverno fa freddo”. I problemi non sono però solo strutturali, ma rischiano di diventare numerici, come il garante ha già spiegato spesse volte: “Ad oggi son presenti 199 detenuti (la capienza regolamentare è di 181, ma comunque molto sotto i 281 del 2012), due terzi dei quali stranieri e un terzo italiani, il doppio della media nazionale, molto eterogenei, con gli stranieri eterogenei a loro volta tra di loro. Non ancora si può ancora parlare di sovraffollamento, ma il dato è da monitorare, non vorrei che le misure ‘svuota carceri’ stessero scemando”. Il punto debolissimo è la questione del personale, come spiega Formento in un “fuoco di fila”: “Manca il Direttore titolare anche quest’anno, c’è un educatore distaccato temporaneamente che si spera ritorni perché è figura centrale e al momento ce ne sono due, come critica è la situazione degli assistenti sociali: sono in 3, una a tempo pieno, una a tempo parziale ma che viene dal Piemonte e uno a contratto annuale, ma nessuno è presente nell’istituto. Mancano psicologo e psichiatra e manca il comandante, con gli uffici scoordinati tra di loro, senza guida”. Nel mezzo, disagi, tensioni e risse. E non basta aver risolto il problema dell’acqua potabile, che Formento attribuisce ad un impianto vetusto e ad un pozzetto in cattive condizioni. La visione d’insieme è nefasta: “È un quadro veramente desolante - spiega, peggiorato ulteriormente dall’anno scorso a causa dell’elevato turn-over tra i dipendenti che pregiudica le attività di formazione, ma anche per l’assunzione della struttura del ruolo di “polmone” dei carceri con problemi di sovraffollamento come le vicine Opera e Vallette”. Un dato positivo, però, il garante lo riesce a trovare, non senza sforzo: “È motivo di speranza l’istituto della “messa alla prova”. La giustizia pensata non per fare espiare una pena ma per reinserire il reo, come peraltro dice l’articolo 27 della Costituzione. Perché se il concetto è solo “puniamo”, anche detenuto sarà infantilizzato, e paradossalmente diventa un alibi anche per lui”. Benevento: il Garante fa visita ai detenuti dell’Ipm di Airola ottopagine.it, 30 marzo 2018 Ciambriello: “Dispiaciuto che non si sia approvata riforma su giustizia minorile”. Ieri il Garante dei detenuti Campano, Samuele Ciambriello, con il suo staff, in vista delle festività pasquali, si è recato presso l’istituto minorile di Airola (BN) dove attualmente sono ristretti 41 adolescenti (di cui 4 minorenni e gli altri giovani adulti dai 18 ai 25 anni). Il Garante ha organizzato un pranzo pasquale, d’intesa con il Direttore dell’Istituto, Dario Caggia, per vivere un momento di convivialità e condivisione con i giovani detenuti lì ristretti. Gli adolescenti, contenti dell’iniziativa, hanno potuto assaggiare antipasti pasquali (tortano, mozzarella, prosciutto, salame) e i vari dolci pasquali. Il Garante all’uscita dell’Istituto ha dichiarato: “sono dispiaciuto che il Parlamento ed il Governo uscenti non siano riusciti ad approvare la riforma sulla giustizia minorile. Prendo atto che grazie al codice di procedura minorile del 1988 c’è stata in Italia una progressiva decarcerizzazione per i minori. Lavorerò durante il mio mandato di Garante per promuovere sempre di più la vita quotidiana degli istituti per minorenni, per creare qualcosa di sempre meno simile alla vita delle carceri e invece sempre più assimilabile a quanto deve accadere nei luoghi educativi per gli adolescenti e nelle strutture sociali di prevenzione e di recupero. Liberare i minori ed educare gli adulti, pur sapendo che da un po’ di tempo, episodi violenti ad opera di minori, hanno elevato un muro di ostilità e indifferenza nei loro confronti. In questo senso mi auguro, che come strumento di prevenzione, e certezza della pena possa essere introdotto il reato di “aggravante di branco”. Torino: Ivan, il carpentiere che si è tolto la vita perché non lo pagavano di Maurizio Pagliassotti Il Manifesto, 30 marzo 2018 Nel grande parco di Stupinigi, poco distante da Torino, un uomo di cinquanta anni ieri si è suicidato impiccandosi al ramo di un vecchio olmo. Si chiamava Ivan Simion, nelle tasche dei suoi pantaloni i carabinieri hanno trovato un biglietto vergato di suo pugno recante queste parole: “Non vengo pagato e non riesco a mantenere la mia famiglia, preferisco farla finita”. L’uomo era scomparso il pomeriggio precedente, e per l’intera notte la moglie Ekaterina aveva atteso il suo ritorno. Sconvolta dall’assenza prolungata, ha dato l’allarme: le ricerche, durate solo poche ore dato che l’uomo era solito andare a passeggiare nel grande parco, si sono concluse drammaticamente ieri mattina quando i carabinieri hanno trovato il suo corpo senza vita. Ivan Simion era un carpentiere molto stimato che offriva il suo lavoro sul mercato, regolare e non, del settore edile. È rimasto da solo a fronteggiare la crisi del settore, mancati pagamenti, ritardi, furbizie, nonché catene di disperazione di cui è stato il terminale finale. L’uomo, a causa delle vicissitudine economiche che minacciavano la sua famiglia, da tempo era caduto in depressione. La moglie fa la collaboratrice domestica e il suo magro guadagno non permetteva alla famiglia di sopravvivere. La tragedia di Ivan Simion è la punta dell’iceberg di un settore in grave crisi da quasi dieci anni. Dopo il vorticoso periodo di espansione dei primi anni duemila, l’edilizia ha subito un crollo verticale nel torinese. Da un’indagine di Ance Piemonte sulla congiuntura del comparto edilizio nel periodo gennaio-luglio 2018 emerge che l’87,7 per cento delle imprese edili prevede una ulteriore riduzione del fatturato nei prossimi sei mesi, mentre il 21,7 per cento delle aziende dovrà ricorrere alla riduzione del personale e 1.186 imprese hanno già chiuso a causa della crisi. Si calcola che i posti di lavoro perduti nel settore sfiorino le diecimila unità. Ivan Simion era finito dentro questo vortice da diversi mesi. La magistratura dovrà fare luce sulla vicenda che mette in luce la debolezza del lavoratore nel fronteggiare rapporti di lavoro selvaggi. Ivan Simion rappresentava uno dei tanti che a livello statistico sono “occupati”, un lavoro lo aveva, però non lo pagavano. Si è impiccato ad un albero in parco poco distante dalla palazzina di caccia dei Savoia. Padova: le colombe e le uova dei detenuti pasticcieri di Felice Paduano Il Mattino di Padova, 30 marzo 2018 Quest’anno i 35 detenuti-pasticcieri della Cooperativa Giotto, che lavorano all’interno dei Due Palazzi, hanno preparato già 16 mila “colombe del carcere”. Ma ci sono anche 200 confezioni di grandi uova da 230 grammi ciascuna e una serie di ovetti in eleganti scatole di varie misure. Le colombe vengono vendute a 25 euro l’una sia in città che in tante altre località della penisola, fino in Sicilia. A Padova è possibile trovarle nei due punti vendita dell’Officina Giotto in via Eremitani e via Forcellini, ma anche al Pedrocchi, alla Drogheria Preti, in via Luca Belludi. I dolci tipici di Pasqua prodotti dai detenuti guidati dal maestro pasticciere Matteo Marchetto, vengono inviati anche all’estero. Una colomba speciale è stata inviata anche a Papa Francesco e un’altra al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Non tutti i 25 euro vanno alla cooperativa. Come succede anche a Natale per i panettoni, una parte del ricavato viene donato a due associazioni di solidarietà: gli enti di beneficenza Margherita Coletta e la Fondazione Morini Pedrina di Este, i cui volontari lavorano a stretto contatto con giovani disabili. “I detenuti pasticcieri diventano sempre più bravi e professionali” osserva Nicola Boscoletto, direttore della cooperativa Giotto, “preparano non solo panettoni e colombe, ma anche brioche buonissime e dolci di vario genere, che vengono distribuiti nei locali pubblici della città e della provincia. Lavorano sempre con passione e con una grande partecipazione personale perché sono coscienti che, quando avranno scontato la pena avranno in mano già un lavoro proficuo, che gli renderà facile l’inserimento in società”. Intanto sempre Boscoletto annuncia una novità: i detenuti pasticceri diventeranno anche gelatai. Presto si potrà assaggiare il loro gelato di alta qualità. Roma: la lavanda dei piedi di Francesco ai detenuti di Regina Coeli di Valentina Stella Il Dubbio, 30 marzo 2018 Papa Francesco e Partito Radicale di nuovo sullo stesso cammino accanto ai detenuti: ieri mentre il pontefice era nel carcere romano di Regina Coeli per la lavanda dei piedi ai reclusi, fuori una folta delegazione di radicali, capeggiata da Rita Bernardini, lo accoglieva mostrando due striscioni con su scritto “Viva Papa Francesco” e “Amnistia” e annunciando il programma di visite che terrà in diversi istituti di pena da domenica di Pasqua per una settimana. Oltre le mura dell’antico e storico carcere papa Francesco intanto presiedeva la messa in Coena Domini di Giovedì Santo nella rotonda del carcere, dove ogni domenica alle 9 si allestisce l’altare per celebrare la messa, ed è luogo simbolico dove convergono tutte le sezioni del carcere: sono stati dodici i detenuti di diversa nazionalità ma anche di diversa religione - tra loro c’erano cattolici, protestanti, ortodossi, buddisti e musulmani- che hanno ricevuto la lavanda dei piedi dal pontefice: quattro italiani, due filippini, due marocchini, un moldavo, un colombiano, un nigeriano e uno della Sierra Leone. “Chi comanda deve saper servire, il vostro capo deve essere il vostro servitore”, ha detto il Papa durante la sua omelia, spiegando il senso della lavanda dei piedi, e ha continuato soffermandosi sul fatto che “c’è gente che soffre, che è scartata dalla società, almeno per un tempo, e Gesù va a lì a dirgli “tu sei importante per me”. Gesù viene a servirci, e ha voluto scegliere dodici di voi per lavare i piedi”. “Io sono peccatore come voi - ha aggiunto papa Francesco rivolgendosi ai detenuti - ma oggi rappresento Gesù, sono ambasciatore di Gesù. Quando mi inchinerò davanti ad ognuno di voi pensate: Gesù ha rischiato in questo uomo, un peccatore, per venire da me e dirmi che mi ama. Dio non ci abbandona mai, non si stanca mai di perdonarci”. E senza saperlo - richiamando quella stereofonia tra radicali e cattolici sul tema delle carceri di cui scriveva il direttore di Avvenire Marco Tarquinio un anno e mezzo fa - Rita Bernardini parla- va fuori anch’ella di perdono: “Proprio in queste occasioni convergono i valori cristiani del perdono e della misericordia con quelli della nostra Costituzione a favore di una pena umana e rieducativa. La nostra iniziativa si pone in continuità con la Marcia per l’Amnistia che il Partito Radicale organizzò nel novembre 2016 nel giorno del giubileo del carcerato, marcia che si svolse proprio a partire da questo istituto di pena fino a Piazza San Pietro per ringraziare Papa Francesco e il leader Marco Pannella per il loro impegno a favore della comunità penitenziaria e di una pena riabilitativa”. Essendo Regina Coeli un carcere di prima accoglienza - riferisce l’agenzia di stampa Sir - il 60-65% della popolazione è costituito da giovani tra i 18 e i 35 anni, appartenenti a 60 diverse nazionalità. Oltre 600 sono stati i partecipanti all’incontro, tra reclusi e personale carcerario. Prima della celebrazione Papa Francesco si è recato nell’infermeria e dopo nella sezione ottava, che ospita le persone che hanno commesso reati particolari, quali quelli di natura sessuale, e che quindi hanno bisogno di protezione da particolari aggressioni. Papa Francesco è stato il quarto Papa in visita a Regina Coeli, l’ultimo è stato Giovanni Paolo nel 2000, anno del Grande Giubileo. Non è la prima volta che Papa Francesco decide di trascorrere il Giovedì Santo con i carcerati: appena eletto andò nel carcere minorile di Casal del Marmo, tre anni fa a Rebibbia, l’anno scorso nella casa di reclusione di Paliano, in provincia di Frosinone. Per il Partito Radicale, invece, accade più spesso di trascorrere le festività - come il Natale e il Capodanno - con la comunità penitenziaria. Domenica una delegazione di radicali, guidata sempre dalla Bernardini, membro della presidenza del Partito Radicale, sarà nel nuovo complesso del carcere romano di Rebibbia. Lunedì di pasquetta la tappa sarà Teramo, con una delegazione composta anche da Laura Longo, già presidente del Tribunale di sorveglianza de L’Aquila, Maurizio Acerbo, segretario nazionale di Rifondazione Comunista, Vincenzo Di Nanna, segretario di Amnistia Giustizia e Libertà Abruzzi, e Germano D’Aurelio, in arte ‘Nduccio “Per me ha un significato particolare recarmi al carcere di Castrogno a Teramo in occasione delle festività pasquali - dice Rita Bernardini - avendolo fatto in più di una occasione insieme a Marco Pannella. Nell’annunciare questa visita, però, non posso fare a meno di sottolineare che nonostante promesse e réclame il Consiglio regionale non ha ancora nominato il Garante dei detenuti”. Qualche giorno di pausa e poi la piccola carovana radicale sarà in Toscana: sabato visiteranno il carcere fiorentino di Sollicciano, domenica quello di Pisa, e lunedì quello di San Gimignano. E sul tema ancora caldo della riforma dell’ordinamento penitenziario Rita Bernardini che, con il sostegno di decine di migliaia di detenuti, dei compagni del Partito Radicale, dell’Unione delle Camere Penali e delle più importanti associazioni del volontariato, ha condotto una lunga e intensa iniziativa nonviolenta per l’approvazione dei decreti attuativi, conclude: “stiamo continuando a monitorare la situazione. Nei prossimi giorni dovremmo saperne di più, per ora consideriamo una vittoria di per sé” la decisione di due giorni fa della Conferenza dei capigruppo del Senato di istituire una commissione speciale che dovrà esaminare i decreti legislativi pendenti, come ad esempio quello sull’ordinamento penitenziario. Chieti: il presidente dell’Odg “un giornalismo dalla parte dei soggetti deboli” abruzzonews.eu, 30 marzo 2018 Il presidente dell’Ordine dei giornalisti d’Abruzzo Stefano Pallotta “battezza” il nuovo numero del giornale “Voci di dentro - Anemos Metaboles, presentato mercoledì mattina nel liceo G.B. Vico. Carcere e scuola, studenti e detenuti per realizzare un progetto di qualità. È quello che emerge sfogliando l’ultimo numero della rivista Voci di dentro - Anemos Metaboles, frutto del laboratorio di scrittura nella sede della Onlus. Un numero realizzato in collaborazione con i laboratori di Voci di dentro nelle Case Circondariale di Chieti e Pescara assieme alla redazione di Anemos Metaboles, il giornale del liceo classico G.B. Vico di Chieti, e reso possibile grazie al contributo dell’azienda Lazzaroni. Mercoledì mattina (28 marzo) la presentazione nell’aula Carpineto del liceo teatino, alla presenza del presidente dell’Ordine dei giornalisti d’Abruzzo Stefano Pallotta; della dottoressa Cinzia Turli, responsabile Risorse umane Lazzaroni; dell’educatrice della casa circondariale di Pescara Angela Dipersia, della dirigente scolastica del “Vico” Paola Di Renzo; della professoressa Silvia Elena Di Donato, coordinatrice del progetto scolastico; del direttore della rivista Voci di dentro Francesco Lo Piccolo. Emozionati e soddisfatti in aula alcuni detenuti della Casa circondariale di Pescara che hanno preso parte al laboratorio di scrittura e gli studenti del liceo coinvolti nel progetto di alternanza scuola lavoro. A loro il presidente dell’Ordine dei giornalisti Stefano Pallotta ha rivolto parole piene di stima e compiacimento. Ricordando poi come “Francesco Lo Piccolo, nel suo lavoro nel sociale e nella direzione della rivista, mantenga fede al ruolo del giornalista che non sta dalla parte del potere, ma al contrario è di pungolo dalla parte dei soggetti deboli e ai quali dà loro voce”, ha aggiunto: “Questo è buon giornalismo volto alla formazione di una opinione pubblica consapevole. Rimango piacevolmente impressionato dalla qualità di questa rivista. C’è un articolo scritto due giorni dopo le elezioni, l’ha scritto un detenuto in semilibertà, ma se avessi letto questo fondo sul Corriere della sera non avrei avuto niente da eccepire dal punto di vista dell’analisi politica che in un certo senso ha prefigurato il dibattito politico in atto in questi giorni. Queste persone hanno una capacità di analisi culturale che assolutamente va premiata”. Trentasei pagine, a colori, carta patinata, nel nuovo numero sono affrontati temi come il femminicidio, il pregiudizio, le elezioni del 4 marzo, la scomparsa di idee di pace e di solidarietà, la violenza contro chi è diverso. Nella parte centrale quattro pagine sono dedicate al teatro, a “Quando si spengono le luci”, lavoro teatrale messo in scena nel carcere di Pescara. Chiude la rivista la sezione scritti corsari: vi sono raccolti, come frammenti, sensazioni, poesie. “Punti di vista - ha detto Francesco Lo Piccolo -che sono uniti da un filo conduttore: il pensiero di chi è fuori e di chi è dentro, un ponte dunque, in opposizione ai tanti muri, per unire le tante rive di cui si compone il fiume della nostra umanità e che abbiamo interpretato con la frase che campeggia nella copertina nella rivista: Non si può dividere il cielo”. “Noi viviamo nella società del consumo - ha spiegato ancora Francesco Lo Piccolo -il nostro giornale vuole rompere questa idea che ci ha fatto diventate dei consumati più che dei consumatori. Non è la ricchezza materiale ma quello che abbiamo dentro che ci può far cambiare e crescere. E quel cambiare bisogna avere il coraggio di scriverlo. E noi lo scriviamo da sempre, da dieci anni, nella nostra rivista. E lo abbiamo scritto in questo numero dedicato ai muri. Contro i muri, strumenti politici, barriere per dividere uomini da altri uomini, per limitare, escludere, proibire. Invece che muri occorre aprire porte e bisogna costruire ponti, per unire. Lo facciamo col giornale, con i nostri laboratori, con l’esperienza che stiamo facendo anche in collaborazione con il Cas di Manoppello. Non a caso il giornale ospita l’articolo di un richiedente asilo che parla proprio di umanità, e che è pubblicato oltre che in italiano, in inglese, francese e urdu”. Il giornale è stata un’esperienza assolutamente emozionante e formativa per tutti i partecipanti, come Pasquale, che dal carcere di Pescara questa mattina ha partecipato all’incontro al G.B. Vico: “Tramite la scrittura possiamo dare vita a tanti pensieri che non sempre riusciamo ad esprimere a voce. Nella vita tutti ci troviamo davanti a un muro, quello che mi ha ostacolato è stato il muro del carcere perché questo muro ti fa perdere tutto: la libertà, le persone più care che non puoi più vedere”. La dirigente del Liceo Paola Di Renzo ha ricordato che quello presentato oggi “è il secondo numero della rivista condivisa e che il progetto di alternanza scuola lavoro proseguirà anche l’anno prossimo con Voci di dentro. L’obiettivo comune è poter immaginare che al termine di questo percorso i ragazzi interessati possano iscriversi all’albo dei giornalisti”. Per Micaela e Marco del liceo “Vico” partecipare alla redazione e alla pubblicazione del nuovo numero del giornale “è stato un punto di partenza, un momento di collaborazione prezioso e di crescita per noi studenti. Abbiamo avuto la possibilità di esprimerci e confrontarci sul tema delle barriere”. Volterra (Pi): Armando Punzo e la Compagnia della Fortezza, 30 anni di teatro-carcere di Alessandra Pirisi la Regione, 30 marzo 2018 Armando Punzo e la Compagnia della Fortezza, da trent’anni nella Casa di reclusione di Volterra. Cancellare il carcere “per trovare altro”: per il regista è questo il vero senso del teatro, capace di aprire un nuovo orizzonte a chi cerca un’altra possibilità. L’ingresso del carcere di Volterra è in cima a una ripida salita. Superati i controlli, tre ingressi e attraversato un cortile alberato, si accede a un lungo corridoio verde pallido, si oltrepassano altri cancelli, fino ad arrivare a una porta, sulla destra, che dà su una stanzina: la sede della Compagnia della Fortezza. Sono passati trent’anni da quando Armando Punzo, regista e drammaturgo, è entrato per la prima volta nel carcere di Volterra. Quello che doveva essere un laboratorio teatrale di qualche mese è diventato una compagnia formata da detenuti-attori e collaboratori esterni, la Compagnia della Fortezza appunto, che quest’anno festeggia il trentennale. Trent’anni di lavoro, una trentina di spettacoli vincitori di premi prestigiosi, una compagnia, diventata un modello per il teatro in carcere, conosciuta a livello nazionale e internazionale, l’istituzione nel carcere di Volterra del Centro nazionale di teatro e carcere e un progetto per un Teatro stabile. Un’altra possibilità - “In questi 30 anni abbiamo costruito un labirinto di spettacoli in cui il pubblico potesse perdersi per poi ritrovarsi”, riflette Punzo. Lo stesso meccanismo alla base della sua poetica: una ricerca costante di trasformare la realtà, darne un’immagine diversa, scoprire e mostrare che esiste un’altra possibilità. Perdere sé stessi, abbandonare il proprio punto di vista, sottrarsi a un ruolo che sembra stabilito una volta per tutte e ritrovarsi capaci di un altro sguardo sulle cose. L’obiettivo di Punzo è “cancellare il carcere”, nei detenuti-attori e negli spettatori, per far emergere un’altra realtà. “Quello che cerco di fare, che noi cerchiamo di fare, è di non farsi trovare dove gli altri pensano che tu sia. Questo è il vero teatro. Poi che noi lo facciamo all’interno di un carcere e che questo amplifichi e moltiplichi il senso è un’altra cosa, non è solo quello. La questione è di eliminarsi, farsi fuori. L’esperienza fondamentale del teatro per me è trovare dentro sé stessi, nella pratica teatrale, altro”, ha spiegato il regista in una conferenza tenuta a Milano l’anno scorso. Proprio per questo Punzo rifiuta la definizione di “teatro carcere”: il suo è un teatro in carcere, certo, perché il luogo in cui prova, mette in scena gli spettacoli e in cui stanno i suoi attori è quello, ma non è teatro carcere. È teatro, e basta. Nessun fine riabilitativo: l’unico scopo è costruire uno spettacolo. Forse è proprio per questo atteggiamento che trent’anni di presenza ininterrotta della compagnia hanno contribuito a migliorare notevolmente la situazione del carcere di Volterra, caratterizzato da un’atmosfera di collaborazione e distensione tra detenuti, guardie e amministrazione. Il ritmo della creazione - Tutti i giorni, Punzo entra nella Casa di reclusione, dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 19, per leggere, discutere, fare esercizi e improvvisazioni con i detenuti-attori. Lo spazio del teatro è il Teatrino Renzo Graziani (il direttore del carcere che per primo aveva sostenuto il laboratorio), una stanza lunga e stretta, con sedie di legno lungo il perimetro e un pianoforte in mezzo, le pareti coperte da teli di velluto nero e numerosi specchi, residui di vecchi spettacoli. Da settembre a giugno ci si ritrova lì. Da fine giugno, invece, i luoghi a disposizione della Compagnia aumentano: diventa possibile provare nel “campino”, una parte del cortile che viene ceduta al teatro e che sarà il luogo dello spettacolo, messo in scena a fine luglio; vicino al Teatrino si aprono altre due stanze, sede della sartoria. L’atmosfera diventa frenetica, nel carcere entra sempre più gente “esterna”: oltre ai collaboratori stabili della Compagnia e agli organizzatori di Carte Blanche, l’associazione fondata da Punzo che cura le attività della Compagnia, arrivano gli stagisti e innumerevoli amici di lunga data che passano anche solo per un giorno per osservare o dare una mano. Le parole di Borges - L’ultimo spettacolo messo in scena, a luglio 2017, è “Le parole lievi. Cerco il volto che avevo prima che il mondo fosse creato”. È il primo studio di un lavoro che è continuato anche questo inverno e che proseguirà fino a luglio 2018, quando sarà presentato nella sua realizzazione “compiuta”. Concentrarsi su uno stesso progetto per due anni permette a Punzo e ai detenuti-attori un tempo ancora più dilatato in cui riflettere su ciò che vogliono portare in scena. La preparazione di uno spettacolo parte sempre da un autore che esprima dei temi vicini alla ricerca della Compagnia. L’autore che ha ispirato ‘Le parole lievi’ è Jorge Luis Borges, lo scrittore argentino che ha immaginato innumerevoli mondi altri, interrogando continuamente il concetto di reale (“Cosa è reale? È reale quella finestra? Sono reali quelle punte di ferro? Sono reali quelle mura che ci proteggono?” si chiede Punzo nello spettacolo). Tutti i libri di Borges sono stati letti e riletti, da Punzo e da alcuni detenuti-attori - quelli che lui chiama i “grandi lettori della Compagnia”, i più interessati al lavoro di riflessione e drammaturgia -, alla ricerca di una chiave di lettura che permettesse di appropriarsi dell’opera e trasformarla nel testo dello spettacolo, testo che non è mai preesistente, ma è una sorta di collage di tanti frammenti. “Cerco frammenti che diventino sempre più poetici, che siano evocativi ma che non raccontino una storia con un intreccio e uno sviluppo psicologico dei personaggi” spiega Punzo. Durante l’anno, i detenuti-attori propongono al regista brani che hanno trovato leggendo le opere o all’interno di una prima selezione di testi, brani frutto di una scelta personale, cosa che rende la recitazione molto efficace. Lo spettacolo è composto nel mese di luglio, quando tutti i membri esterni della Compagnia entrano in carcere. Si può quindi cominciare a dare una forma concreta alle riflessioni e alle idee, realizzare i costumi, la scenografia, i movimenti scenici, sentire l’effetto delle voci nello spazio del “campino”, creare le scene sullo sfondo costante della musica, fino ad arrivare alla prima, quando lo spettacolo finalmente si svolge davanti agli occhi degli spettatori. Il carcere è scomparso, rimane il teatro. Migranti. I legali dell’Ong ProActiva: “il respingimento è vietato per legge” di Fabio Albanese La Stampa, 30 marzo 2018 Pozzallo, la difesa davanti ai giornalisti: “Il sequestro disposto dalla procura di Catania è stato un provvedimento abnorme”. “Il respingimento dei migranti è vietato per legge. Se la nave Open Arms avesse consegnato i migranti alla Guardia costiera libica avrebbe fatto respingimento. È doveroso non aver consegnato i migranti”. Alessandro Gamberini è uno dei due legali di fiducia dell’Ong spagnola ProActiva Open Arms incaricato di seguire la vicenda giudiziaria che ha portato al sequestro dell’imbarcazione da parte della procura di Catania. Oggi, con l’altra collega e con i responsabili della ProActiva, ha incontrato i giornalisti al porto di Pozzallo, dove la loro nave è sotto sequestro dal 18 marzo: una difesa pubblica dell’operato della Ong in attesa di poterla rappresentare anche ai pm della procura di Ragusa che hanno ricevuto dal gip di Catania l’inchiesta. “Il provvedimento della procura di Catania è stato abnorme. L’accusa di associazione a delinquere è stata strumentale per portare la competenza alla direzione distrettuale antimafia, non a caso il gip di Catania non l’ha accolta. Non aver considerato quest’ipotesi di reato lo consideriamo un successo. Ora sarà il gip di Ragusa a pronunciarsi entro il 16 aprile sul definitivo sequestro dell’imbarcazione dell’Open Arms”, ha aggiunto Gamberini. “Abbiamo sempre agito nella legalità - ha detto il capo missione di ProActiva Riccardo Gatti -. Non c’è nessun accanimento da parte nostra di voler portare a tutti i costi i migranti in Sicilia. Il nostro unico obiettivo è portare i migranti salvati in mare, nel posto più sicuro è più vicino e nel più breve tempo possibile”. Il gip di Catania, così come la procura, ritiene invece che unico scopo della Ong spagnola sia stato quello di portare in Italia, e in nessun altro Paese che si affaccia sul Mediterraneo, i migranti soccorsi. Sono indagati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina il comandante della nave Marc Rieg e la capo missione Anabel Montes. “L’ipotesi di reato di associazione a delinquere avanzata dalla procura catanese che ha proceduto al sequestro dell’imbarcazione, resta però in campo perché l’informazione di garanzia in capo a Reig e alla Montes non è stata mutata dopo il pronunciamento del Gip di Catania”, ha a sua volta chiarito Rosa Emanuela Lo Faro, l’altro legale di fiducia dei due indagati. La Ong spagnola è alla ricerca di un’altra imbarcazione da noleggiare perché vorrebbe subito tornare in mare, dove al momento la presenza di navi umanitarie è ridottissima: dopo il sequestro della Open Arms, infatti, nel Canale di Sicilia è rimasta solo la Aquarius di Sos Mediterranee e Medici senza frontiere che proprio ieri ha effettuato il primo soccorso davanti alla Libia, dopo il contestato e controverso salvataggio della Open Arms del 15 marzo scorso: a 23 miglia dalla costa libica sono stati recuperati 112 migranti, tra loro 30 minori non accompagnati e 15 donne, che erano a bordo di un gommone. Oggi, in zona Sar è riapparsa, dopo mesi di stop, la Seefuchs, la nave di soccorso della Ong tedesca Sea Eye che ha ripreso le operazioni di soccorso dopo uno stop di parecchi mesi: “La minaccia in corso da parte della guardia costiera libica e i tentativi della magistratura italiana di fermare il salvataggio privato in mare non possono impedirci di adempiere al nostro dovere umanitario”, ha detto il fondatore della Ong tedesca, Michael Buschheuer. Spagna. Da Saviano a Pennac, appello per la libertà dei leader catalani di Alessandro Oppes La Repubblica, 30 marzo 2018 Proprio ora che hanno la maggior parte dei loro leader in carcere, gli indipendentisti catalani stanno segnando un punto a loro favore: quello di “internazionalizzare il conflitto” come avevano sperato sin dall’inizio della crisi. Prima il duro editoriale del Times contro il governo spagnolo, poi il New York Times che chiede alla Germania (dove è detenuto Puigdemont) di compiere un “gesto conciliante” per calmare la situazione in Catalogna. E ieri, sulle colonne del quotidiano francese Le Monde, un appello molto esplicito a firma di Roberto Saviano, Daniel Pennac, Erri De Luca e Jean Marie Laclavetine: “Noi, cittadini d’Europa, chiediamo la liberazione immediata dei cittadini catalani incarcerati per le loro convinzioni politiche. Sono stati incriminati per ribellione e sovversione - ricordano i firmatari - e rischiano una condanna a 30 anni di reclusione, ma nelle mani non portavano nessuna pietra”. E concludono: “Le opinioni e le convinzioni si possono discutere, non mettere in prigione”. La definizione dei detenuti catalani come “prigionieri politici” comincia a prendere sempre più piede all’estero, ma in Spagna, con grande imbarazzo per la Casa Reale, è la stessa zia della regina Letizia, Henar Ortiz (vicina politicamente a Podemos) a chiedere sui social “la libertà immediata di tutti i prigionieri perseguiti per il semplice fatto di difendere le loro idee con metodi pacifici”. E sul fronte degli anti-nazionalisti, lo scrittore Arturo Pérez-Reverte se la prende con il governo di Mariano Rajoy (“mediocri e inetti”) per la sua “incapacità di smontare all’estero la campagna di discredito contro la Spagna”. Venezuela. Morti in carcere, l’Onu chiede indagini rapide ed esaustive Nova, 30 marzo 2018 L’ufficio dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani ha sollecitato il governo venezuelano a chiarire al più presto le cause della morte di 68 persone all’interno del carcere della stazione di polizia dello stato di Carabobo, nel nord del paese. “Siamo costernati” dalla notizia delle “terribili morti” registrate “dopo che un incendio ha distrutto mercoledì “il carcere di una stazione di polizia a causa di presunti scontri tra detenuti e membri delle forze di sicurezza”. Nella nota, l’Agenzia chiede a Caracas di aprire “un’inchiesta rapida, esaustiva ed effettiva per stabilire la causa di queste morti, offrire risarcimenti alle famiglie delle vittime e, se possibile, identificare e portare i responsabili alla giustizia”. L’Alto commissariato esprime “preoccupazione” per i rapporti che “indicano che le forze di sicurezza hanno usato gas lacrimogeni per disperdere i familiari che si erano riuniti dinanzi la stazione di polizia” per chiedere informazioni “dei loro cari. Invitiamo le autorità a rispettare il diritto delle famiglie all’informazione e alla riunione pacifica”. Il documento segnala che nelle carceri di polizia in Venezuela, “usate normalmente come centri permanenti di detenzione, c’è un generale sovraffollamento e condizioni terribili di reclusione. Le cattive condizioni, esacerbate dai ritardi processuali e dall’uso eccessivo della carcerazione preventiva, scusano ripetuti episodi di violenza e sommosse”. Ricordando la responsabilità degli stati nel garantire “la vita e l’integrità personale delle persone private della libertà”, l’ufficio onusiano invita Caracas ad adottare “immediatamente le misure per migliorare le condizioni di detenzione nel rispetto delle norme e standard internazionali dei diritti umani, compresa la proibizione della tortura così come i trattamenti crudeli, inumani e degradanti”. la notizia delle morti era stata confermata nella mattina dal procuratore generale della Repubblica, Tarek William Saab, che, in un messaggio su twitter ha comunicato di aver istruito apposite indagini per “i drammatici fatti”. L’incidente si è prodotto nelle prime ore della mattina, quando alcuni detenuti - nel tentativo di fuggire dalle celle della stazione locale di polizia - avrebbero disarmato un agente e dato fuoco ad alcuni materassi. Secondo quanto riferiscono i familiari, 1 66 reclusi uomini e le due donne che si trovavano in visita sarebbero morti per asfissia e ustioni. Venezuela. Violenze, malattie, denutrizione: ecco le carceri peggiori del mondo di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 30 marzo 2018 Il paradosso è che il primo Paese moderno ad aver abolito la pena di morte è stato proprio il Venezuela nel 1863: “La legge non può condannare a morte, e nessuna autorità può eseguire una condanna a morte” ribadiva poi con orgoglio la Costituzione chavista del 1999. Eppure nel sistema carcerario venezuelano la morte è un evento quotidiano mentre la vita di un detenuto comune, oltre a contare meno di zero, assomiglia all’inferno in terra. Sovraffollamento, violenze, soprusi, denutrizione, disidratazione, mancanza di cure mediche, rivolte, scioperi della fame sono solo alcune delle piaghe endemiche degli istituti di pena. Circa una quarantina di penitenziari, ospitati da strutture fatiscenti, quasi sempre ex ospedali, ex scuole, ex caserme, lontani anni luce dai requisiti minimi previsti dall’ordinamento. E a nulla è servita la riforma carceraria del 2011 che si prefissava di migliorare la vita di prigionieri e secondini avviando un ambizioso piano di ammodernamento delle strutture. Nel corso degli ultimi anni la situazione è addirittura peggiorata e oggi il Venezuela conta oltre 55mila reclusi su non più di 14mila posti previsti. Tra le testimonianze di questo universo selvaggio colpisce quella dell’imprenditore canadese Stéphan G. Zbikowski arrestato nel 1995 a Caracas per traffico di stupefacenti e spedito proprio nella prigione La Maxima di Carabobo, teatro della tragedia di ieri. Zbikowski, che ha passato tre anni a La Maxima prima di essere estradato in Quebecq, ha raccolto la sua esperienza in un libro pieno di dettagli raggelanti L’enfer derrière les barreaux: “Dormivo tra gli escrementi e l’urina dei miei compagni di cella, una barbarie. Ero l’unico bianco in tutta prigione le guardie mi picchiavano regolarmente, ho rischiato di essere ucciso decine di volte e ho visto decine di persone accoltellate davanti ai miei occhi, il rumore che fa una persona prima di venire accoltellata è qualcosa che non dimentichi mai, non so come spiegarlo, ma quando senti l’urlo della persona colpita da una lama tu già sai che questa morirà”. “Le prigioni del Venezuela sono le più violente del Sudamerica, sono controllate dalla criminalità organizzata e ogni anno centinaia di persone perdono la vita al loro interno”, denunciava lo scorso anno José Miguel Vivanco, direttore di Human Right Watch per il l’America Latina. Nel 2016 sono morti oltre 500 detenuti, in gran parte per fatti di sangue (70%), ma anche per malattie e incidenti legati alle vergognose condizioni di sicurezza. In alcuni casi l’incapacità dello Stato di mantenere l’ordine all’interno degli istituti si tramuta in una resa completa al potere delle gang che ormai controllano diverse carceri in tutto il Paese, una specie di legislazione parallela come il carcere di Tocoròn dove i cartelli hanno fatto costruire una discoteca, un centro ippico, una piscina e un ristorante, imponendo, naturalmente, il “pizzo” ai non affiliati. Stessa musica nella prigione di San Antonio che sorge sull’isola Margarita. A San Juan de los Morros, nello Stato di Guárico (150 km a sud di Caracas) le guardie rimangono all’esterno del perimetro, i membri delle gang girano tranquillamente armati (pistole, fucili, mitra ma anche granate) e autogestiscono tutta la vita carceraria, imponendo agli altri detenuti una gerarchia feroce e punizioni indicibili per chi non si adegua. Come notava il fotografo Oscar B. Castillo, autore di numerosi reportage nei penitenziari venezuelani, aver consegnato di fatto alcune prigioni alle gang ha migliorato la sicurezza interna: “In una delle nazioni con il tasso di criminalità più alto del mondo e con una penuria alimentare che tormenta la popolazione, dentro queste prigioni regna un certo ordine”. Giappone. Si avvicina l’esecuzione del capo della setta Aum Shinrikyo e di 12 adepti di Riccardo Noury Corriere della Sera, 30 marzo 2018 Tredici morti, oltre 6.000 feriti di cui 60 in modo permanente. Nessuno ha dimenticato gli attacchi col sarin compiuti nella metropolitana di Tokyo, 23 anni fa, dalla setta apocalittica Aum Shinrikyo, fondata dal “guru” Shoko Asahara. Il rivoltante carisma di Asahara convinse tanti giapponesi ad aderire al culto e a compiere azioni atroci, tra cui l’avvelenamento di un intero quartiere di Matsumoto (sette morti e 600 feriti) nel 1994, prova generale di quanto sarebbe avvenuto il 20 marzo 1995 in tre stazioni della metropolitana. Dopo 256 udienze, sono arrivate 189 condanne: cinque ergastoli e 13 impiccagioni, tra cui naturalmente quella inflitta ad Asahara. Dal segretissimo mondo della pena capitale in Giappone è trapelata la notizia che i 13 condannati a morte sono stati trasferiti in centri di detenzione lontani dalla capitale, ciò che per prassi avviene quando l’impiccagione - che, va ricordato, avviene solitamente senza preavviso - è prossima. Non è chiaro se le esecuzioni saranno nello stesso giorno o comunque in rapida successione. È invece pressoché certo che di tempo ce n’è poco. I prossimi due anni saranno estremamente importanti per il Giappone e tutto dovrà filare liscio: nel 2020 il paese ospiterà le Olimpiadi estive e, soprattutto, l’imperatore Akihito abdicherà il 30 aprile 2019 e il giorno dopo inizierà l’era di Naruhito, suo figlio primogenito. Le autorità giapponesi fanno di tutto per evitare che la pena di morte sia oggetto di un dibattito pubblico o assuma un rilievo internazionale. Le impiccagioni hanno luogo durante le festività o quando il parlamento è chiuso. Per quanto si cercherà di fare tutto in segreto, è inevitabile che l’impiccagione di Asahara - se e quando avrà luogo: la difesa sta giocando la carta dell’infermità mentale - farà rumore. Meglio fare presto, allora. Qui l’appello di Amnesty International per scongiurare le 13 esecuzioni. Quando si è abolisti per principio, occorre intervenire anche nei casi più spregevoli.