“Al Dap qualcosa sta cambiando: passi indietro sulla trasparenza” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 marzo 2018 La denuncia di Rita Bernardini restituisce un clima che il brutto episodio avvenuto a Padova. Patrizio Gonnella, Presidente di Antigone: “i Sindacati autonomi di Polizia penitenziaria sono i legittimi vincitori della mancata riforma dell’ordinamento” “Lasciali passare, tanto dopo il 4 marzo non entreranno più”, così ha detto un agente penitenziario all’ingresso della Casa di Reclusione di Padova nei confronti della presidente della cooperativa AltraCittà. Se è vero che per misurare il grado di civiltà del nostro Paese si misura osservando le condizioni delle nostre carceri, è altrettanto vero che il clima interno (e esterno) ad esse possono anche essere una profezia di quello che potrebbe accadere, sempre nel nostro Paese, dopo il voto. La frase buttata là nei confronti di Rossella Favero, la presidente di AltraCittà, ha creato inquietudine e, soprattutto, le ha fatto del male visto che opera dentro il carcere da 23 anni. “Mi pare che il clima - denuncia pubblicamente Favero - stia velocemente degenerando anche a Padova, che dove c’erano spazi positivi si cerchi di chiuderli. Faccio male a inquietarmi?”. Ma se il clima è cambiato, questo si evince anche dalle ultime visite effettuate dai militanti del Partito Radicale. “Più che clima interno alle carceri - spiega l’esponente radicale Rita Bernardini a Il Dubbio -, si tratta di quello esterno, e mi riferisco direttamente al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, da quando il ministro Orlando ha insediato il nuovo vice capo del Dap, il magistrato Marco Del Gaudio. La Bernardini si riferisce agli ordini emanati direttamente da Del Gaudio agli istituti penitenziari. “Ad esempio - spiega l’esponente radicale - è stato dato ordine ai direttori di non compilare più i questionari che presentavamo in occasione delle nostre visite per conoscere dati sulle professionalità presenti e sugli eventi critici quali i suicidi e gli atti di autolesionismo”. Ma non solo. “Ultimamente - denuncia ancora Rita Bernardini - non ci hanno autorizzato di visitare i reclusi al 41bis e se ce lo autorizza, lo si fa con la condizione di non parlare con loro per capire i loro problemi e disagi”. La denuncia di Rita Bernardini è netta: “Da quando c’è Del Gaudio, si è tornati molto indietro sulla trasparenza relativa alla vita dentro gli istituti”. A questo, però, si aggiunge anche il discorso della fedina penale dei volontari o militanti politici che entrano in carcere. Polemica montata soprattutto da alcuni sindacati di polizia penitenziaria ed esponenti del Movimento 5Stelle. Prima fra tutte, quella nei confronti di Sergio Segio, ex militante dell’organizzazione armata Prima Linea e condannato all’ergastolo. In seguito si dissociò e da un quarto di secolo è impegnato nel volontariato, a partire dal Gruppo Abele di don Luigi Ciotti e nella difesa dei diritti umani. Tra le diverse attività è anche membro del direttivo nazionale dell’associazione Nessuno Tocchi Caino del Partito Radicale e si occupa soprattutto del miglioramento del sistema penitenziario. È proprio per quest’ ultima sua attività, che lo vede molto spesso partecipe alle iniziative organizzate dentro il carcere, che subisce polemiche da parte di alcuni sindacati di polizia penitenziaria e non solo. Anzi, a partire da questi casi, il deputato grillino Ferraresi aveva proposto di mettere dei filtri per chi fa azioni di volontariato all’interno delle carceri, magari attraverso il nulla osta da parte di un magistrato. “Eppure - spiega Rita Bernardini - uno come Sergio Segio è l’esempio della funzione rieducativa della pena e quindi chi meglio di lui può fare un discorso sulla necessità di rispettare il dettato costituzionale in carcere. Il problema - conclude l’esponente radicale - è che non si vuole questo”. Il volontariato, quindi, rimane una funzione importante nel carcere ed è tuttora fin troppo ostacolato. Proprio per questo, tra i decreti delegati elaborati dalla commissione Giostra per la riforma dell’ordinamento penitenziario, c’è un capitolo dedicato alla valorizzazione e implementazione della figura del volontario. L’associazione Antigone, invece, non ha riscontrato alcun problema con il Dipartimento di amministrazione penitenziaria. A dirlo è il presidente Patrizio Gonnella. “Rispetto, però, a quello che accade nei penitenziari - spiega Gonnella a Il Dubbio, riferendomi soprattutto sul caso avvenuto a Padova, posso ragionevolmente pensare che ci sia una insofferenza nei confronti della società esterna che vuole entrare”. Gonnella spiega che non è la prima volta che accade, perché “quando siamo in una fase di passaggio - sottolinea il presidente di Antigone - c’è chi fa il passo più lungo e pensa già di interpretare il volere dei futuri vincitori delle elezioni politiche”. Insomma, si parla di una tendenza che c’è sempre stata. “Quello che dobbiamo augurarci - spiega sempre Gonnella - è che l’amministrazione penitenziaria continui a fornire trasparenza nei regimi penitenziari e, soprattutto, continui ad essere indipendente dal clima politico”. Gonnella ricorda che Antigone ha vissuto periodi difficili nella legislatura del 2001 - 2006 quando c’era il ministro leghista Roberto Castelli e Gianni Tinebra come capo del Dap. “Fummo trattati - spiega il presidente di Antigone - come se fossimo dei criminali e, addirittura, fummo accostati agli anarchici insurrezionalisti allertando le sentinelle quando effettuavamo le visite nei penitenziari”. Il pericolo, prospettato da Antigone, è quello che certe storie possano ripetersi. “Anche in forme peggiori - aggiunge, visto che le destre attuali sono diventante ancor più estremiste e prendono come punti di riferimento un Orban o un Putin”. A questo si aggiunge la resistenza di alcuni sindacati autonomi di polizia penitenziaria ai cambiamenti, come ad esempio la riforma dell’ordinamento penitenziario, oppure, ai cambiamenti - già avvenuti - all’interno della vita penitenziaria dei detenuti come la cosiddetta vigilanza dinamica. “Abbiamo seguito queste opposizioni - spiega Gonnella-, anche le critiche di alcuni sindacati autonomi sia a noi che nei confronti dell’esponente radicale Rita Bernardini. Loro d’altronde sono i legittimi vincitori della non passata riforma dell’ordinamento penitenziario, perché sono stati i primi acerrimi nemici. Si oppongono a qualsiasi riforma, interpretando - conclude il presidente di Antigone - il loro ruolo assolutamente premoderno”. La riforma rinviata. Ma “più carcere” non significa avere più sicurezza di Luca Bisori* e Gabriele Terranova** Corriere Fiorentino, 2 marzo 2018 La settimana scorsa si è consumata una pagina triste nel nostro Paese. Dopo anni di studi si era giunti, in attuazione della delega per la riforma dell’Ordinamento Penitenziario, alla predisposizione di un testo ampiamente condiviso, frutto del lavoro di una commissione ministeriale (di cui uno degli scriventi fa parte), fatta di accademici, magistrati e avvocati: ma a un passo dal traguardo, il Consiglio dei ministri ha rinviato l’approvazione dei decreti attuativi al dopo-elezioni, di fatto sine die. Il timore è che si tratti di un affossamento definitivo. Non ci occupiamo, qui, delle ragioni della scelta del Governo: vogliamo invece spiegare perché si tratti di una riforma indispensabile, che aumenterebbe non solo il grado di civiltà delle carceri, ma soprattutto la sicurezza dei cittadini. Un’insopportabile vulgata - propagandata dalle forze politiche che cavalcano il sentimento di insicurezza dei cittadini - vuole che dai delitti ci si difenda solo col carcere: pene sempre più elevate, in un parossismo sanzionatorio senza fine, in una logica medievale secondo cui la pena dovrebbe servire solo a porre il reo in condizioni di non nuocere più. Più lunga la pena, maggiore la sicurezza: così che, di fatto, la più efficace misura per garantire i cittadini consisterebbe nell’eliminazione stessa del reo o nella sua separazione dal corpo sociale per il resto dei giorni. Pazienza se tutto ciò è platealmente contrario alla funzione della pena come disegnata dalla Costituzione: la pena deve tendere alla rieducazione, non può essere strumento di segregazione sociale. Ma cosa c’è realmente dentro questa riforma? Si dice che porterà a svuotare le carceri e a riversare per strada orde di delinquenti. È una sciocchezza. La riforma non innalza il limite di pena per l’accesso alle misure alternative, già innalzato con leggi precedenti: il problema è che quegli interventi non erano stati armonizzati con altri istituti, e ciò ha creato una serie di inconvenienti per i quali si è dovuto persino ricorrere alla Corte Costituzionale. Da un altro punto di vista, la legge elimina alcuni automatismi che impediscono l’accesso alle misure alternative a talune categorie di condannati, ma non tocca i divieti pressoché assoluti di concessione per reati di mafia o terrorismo (anche se in ciò a parere di molti, compresi i penalisti, la riforma è persino troppo timida). Chi dice che con la riforma usciranno i boss dice il falso. L’eliminazione delle preclusioni risponde al principio che deve essere il Giudice a scegliere caso per caso. La riforma non presenta alcun carattere di clemenza o buonismo: è anzitutto un intervento di ammodernamento di un sistema irrazionale, e se è vero che offre di più ai condannati, è vero che pretende assai di più. Lo fa sulla base di un’evidenza documentata da studi condotti a ogni latitudine: che il carcere, specie se degradante e sovraffollato, non produce maggiore sicurezza. A chi invoca l’esigenza di inflessibili detenzioni carcerarie, occorrerebbe ricordare che è dimostrato (da statistiche ufficiali) che chi sconta una pena esclusivamente carceraria ha probabilità 3 volte superiori di commettere un nuovo reato rispetto a chi espia la pena in regime alternativo. Puntare su misure alternative non è dunque solo più giusto: è anche (cinicamente, se si vuole) infinitamente più efficace per rendere più sicura la società. *Presidente della Camera penale di Firenze **Osservatorio Carcere Ucpi, componente della commissione ministeriale di riforma “Intercettazioni, cambieremo tutto” di Francesco Lo Dico Il Mattino, 2 marzo 2018 Bonafede, aspirante Guardasigilli del M5S: “È finita l’ora del duello tra giustizialisti e garantisti. Ho visitato istituti di detenzione nei quali i detenuti versavano in condizioni di vita indegne. Ed è per questo motivo che occorre varare un piano carceri serio: oltre ad aprire due nuovi istituti, è necessario manutenere tutte quelle carceri chiuse perché prive di manutenzione e quelle che presentano strutture fatiscenti e servizi non civili nel rispetto che si deve al detenuto, che resta una persona”. Le Camere penali combattono contro l’allungamento della prescrizione... “Le Camere penali dicono che c’è una correlazione tra prescrizione e durata ragionevole dei processi, ma non è così. Ma il vero problema è un altro: bisogna fornire nuovo personale alla magistratura, sennò la prescrizione rischia di ritorcersi contro le garanzie dell’imputato. Chi se ne serve lo fa legittimamente, ma molti perdono così la possibilità di dimostrare la propria innocenza. Lo Stato deve prendersi la responsabilità di fare in modo che il processo accerti in tempi ragionevoli se l’imputato è colpevole o meno”. Il fatto è che molte prescrizioni non arrivano neppure al processo. “Si tratta di permettere ai magistrati di smaltire un carico di processi enorme. Ma più in generale di scrivere norme penali più chiare, molte sono scritte male. E offrono così molte scappatoie che impediscono spesso di fare giustizia”. Di Battista ha lanciato l’agente provocatore. Ma la Cedu condanna questi metodi. “È così. Ed è proprio per questa ragione che bisogna affrontare il tema con equilibrio: in condizioni particolari, di delinquenza abituale, la misura si può prevedere. Ma a condizione che l’agente provocatore non istighi il reato. Su questo si dovrà aprire un dibattito”. Codice antimafia. Cantone e Flick l’hanno bocciato perché esteso ai reati contro la P.a rischia di far saltare le misure antimafia. Lei che ne pensa? “Il Codice presenta oltre a questa diverse zone d’ombra. Che vanno verificate e monitorate in concreto per stabilire se rischiano di mettere in crisi la lotta alla criminalità organizzata”. Intercettazioni. La riforma la convince? “Non sono contenti né magistrati né avvocati: segno che si tratta di una riforma scritta con i piedi, un’autentica follia. Non va bene che il filtro delle conversazioni più o meno rilevanti sia applicato e deciso dalle forze dell’ordine. È un grave vulnus per gli indagati”. Magistratura militare a rischio chiusura per esiguità procedimenti di Alberto Custodero La Repubblica, 2 marzo 2018 Inaugurazione dell’anno giudiziario: presentata la relazione del presidente Gioacchino Tornatore che lancia un appello al futuro Governo. Registrati anche tra le Forze Armate nuovi reati in linea con l’evoluzione dei tempi: i social usati per la diffamazione dei commilitoni, primi episodi di stalking sessuale nei confronti delle donne in divisa, anche tra i soldati i furbetti del cartellino. Il militare che fa il furbetto col cartellino, quello che paga lavori mai eseguiti, quello che fa il doppio lavoro (incompatibile con l’appartenenza alle Forze Armate), quello che prende i buoni benzina dei veicoli militari ma li usa per fare il pieno sulla propria auto, quello che sull’auto di servizio scarrozza moglie e figli di un parlamentare. Quello che usa un fotomontaggio pubblicato su Facebook per irridere il generale mostrandolo nudo che legge fumetti porno-gay. Il Caporal Maggiore del 187° Reggimento Paracadutisti “Folgore” che diffama commilitoni pubblicando su Whatsapp fotomontaggi che li ritraggono in posizioni sconce. Il sottufficiale dell’Arma che fa stalking sessuale a una carabiniera. Il sottufficiale dell’Aeronautica Militare che infrange il segreto e fa trapelare che su un velivolo Falcon 50 volò il ministro della Difesa. I Marò in servizio anti-pirati sui Mercantili che prestano a civili le loro armi per farsi un selfie. Il soldato che durante le missioni all’estero truffa sugli acquisti. Sono, questi, alcuni dei reati di cui si sono occupati gli uffici della magistratura militare secondo la relazione del presidente vicario della Corte Militare di Appello Gioacchino Tornatore, presentata oggi in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Tornatore ha affrontato il delicato tema della eventuale soppressione dell’Organo di giustizia militare per esiguità dei procedimenti. E coglie l’occasione per lanciare un appello al futuro governo affinché alla magistratura militare sia affidata una giurisdizione più ampia. In molti casi si tratta di fattispecie di reato già note da tempo nel mondo delle divise, in molti casi invece sono illeciti nuovi figli, diciamo così, dei tempi. È il caso delle diffamazioni sui social, o degli insulti sessisti nei confronti delle donne militari in un ambiente ancora a forte presenza maschilista. In molti casi si sono conclusi con condanne, in altri i procedimenti sono ancora pendenti. I dati statistici raccontano di una magistratura militare che si occupa di un numero esigui di reati ma molto efficiente. La durata media dei procedimenti definiti, nel corso dell’anno 2017, dalla Corte Militare di Appello, si attesta in 182 giorni (circa sei mesi). Nel corso dell’anno 2017 sono sopravvenuti 122 procedimenti, risultano esauriti 109 procedimenti, con una pendenza, a fine anno, di 60 procedimenti. Presso i tre Tribunali militari territoriali, di Roma, Verona e Napoli, risultano sopravvenuti 181 procedimenti (nello specifico, 69 a Roma, 57 a Verona e 55 a Napoli) e ne sono stati definiti 221, con una pendenza totale, al termine dell’anno, di 163 procedimenti. La Procura generale militare presso la Corte di Cassazione ha trattato, nel corso dell’anno in esame, 63 ricorsi. Ma c’è un “male oscuro” che mina la magistratura militare. È l’esiguità del numero dei procedimenti penali di cui si occupa e che fa dire a molti che forse questa istituzione non ha più senso di esistere. Molti infatti sostengono che sia meglio accorpare i magistrati militari nella magistratura ordinaria costituendo magari delle apposite sezioni specializzate. Il dottor Tornatore su questo punto non è d’accordo e lancia un appello al futuro governo. “Nell’ultimo scorcio di Legislatura - ha affermato - si è registrata un’attenzione verso la magistratura militare pressoché univocamente diretta a prevedere la soppressione di tale ordine giudiziario speciale, con conseguente attribuzione della sfera di attuale competenza riservata allo stesso alla magistratura ordinaria, in un’ottica di unità della giurisdizione e con l’eventuale creazione di sezioni specializzate per materia che possano continuare a occuparsi dei reati attualmente riservati alla competenza dei Tribunali militari”. “Appare davvero contrario a ogni logica - ha proseguito - continuare a ipotizzare la definitiva soppressione di un apparato giudiziario che ha sempre fornito una adeguata risposta, anche in termini di celerità nelle definizione dei processi, alle esigenze di accertamento e repressione del fenomeno criminoso nel settore riservato alla sua sfera di competenza e che anche per quel che concerne le modalità di esecuzione della pena prevede un modello carcerario pienamente in linea con i parametri dettati e richiesti in sede comunitaria”. “Il tema del mantenimento o meno della speciale giurisdizione penale militare - ha sottolineato Tornatore - è stato ultimamente affrontato partendo dal dato della particolare esiguità del numero di procedimenti penali annualmente incardinati presso gli organi della giustizia militare e dell’ancor più esiguo numero di sentenze emesse a seguito dell’esercizio dell’azione penale”. “L’errore da non compiere - avverte il presidente della Corte d’Appello Militare - è quello di confondere l’utilità di un organismo, in questo caso di una magistratura speciale, con la sottoutilizzazione dello stesso, perché il primo concetto presuppone un giudizio coinvolgente le capacità e la qualità del servizio offerto alla collettività da quel determinato Organo, e richiede che l’esito di tale giudizio sia evidentemente negativo perché si determini la eliminazione di tale organo. Il secondo coinvolge, invece, la problematica della migliore utilizzazione delle risorse offerte da tale Organo”. “Se il problema attuale della giustizia militare è quello di una ‘scarsa produttività’ di tale magistratura speciale, non determinata però da inefficienza e incapacità della stessa a fornire la risposta di giustizia che è lecito da essa attendersi, bensì dalla esiguità della materia attualmente affidata alla sua sfera di competenza, riteniamo che la soluzione non possa che essere una sola e sia sotto gli occhi di tutti”. Una riforma, secondo Tornatore, che dia e restituisca ai giudici militare competenze giurisdizionali di cui oggi si occupa la magistratura ordinaria. Arriva la ‘ndrangheta da esportazione. Gli affari dei boss alla fiera dell’Est di Roberto Saviano La Repubblica, 2 marzo 2018 I clan non si sentono più ospiti ma considerano la Slovacchia e gli altri Paesi come estensioni della Locride. Chi uccide giornalisti lancia un messaggio: “Siete tutti esposti, possiamo colpirvi”. La Slovacchia scopre la mafia. Come drammaticamente accade sempre il sangue è l’unica prova dell’esistenza delle organizzazioni criminali. Ján Kuciak - come sembra ormai evidente dalle indagini - ha pagato per il suo lavoro, per il suo impegno giornalistico. Nell’ultimo periodo si stava occupando di un’inchiesta sui rapporti tra imprenditoria, ‘ndrangheta e politica, un sistema che funziona sempre con lo stesso algoritmo: la ‘ndrangheta porta il capitale, l’imprenditore lo investe, il politico agevola l’investimento in cambio di danaro e tutte le parti ne hanno un vantaggio esponenziale. Nei Paesi dell’Est la politica non riceve solo danaro, ma anche consenso politico, perché diventare hub degli investimenti mafiosi spesso provoca una crescita dopata dell’economia del proprio Paese. Le organizzazioni criminali mafiose possono essere considerate i primi gruppi imprenditoriali occidentali ad aver avuto rapporti costanti con i regimi comunisti, l’autostrada che le organizzazioni criminali hanno usato per insediarsi in tutto l’Est Europa. Sotto i regimi le mafie non potevano comprare proprietà ma potevano contare su due cose: la corruzione politica per ottenere la gestione dei traffici illeciti e una sorta di monopolio di prodotti occidentali che venivano contrabbandati nei Paesi del socialismo reale. Ecco perché alla caduta del Muro di Berlino non c’era nessuna azienda più inserita ad Est delle organizzazioni criminali italiane. Le mafie italiane diventarono la stampella a cui si appoggiò la fragile borghesia dei Paesi dell’Est in ascesa economica: agirono da mediatori con l’imprenditoria italiana che non trovava un interlocutore affidabile nell’Europa post-comunista. Le aziende italiane volevano dislocarsi ad Est, ma trovare una via legale era praticamente impossibile, perché il regime aveva lasciato solo macerie e un sistema burocratico completamente fallito. Affidarsi al clan significava trovare un’agenzia di servizi che in poco tempo sbrigava le formalità amministrative e rendeva operativa l’azienda. Alle aziende occidentali le mafie garantivano manodopera a basso costo, velocità di produzione e assenza di sindacati: il paradiso degli imprenditori. È quello che, come ha raccontato il pentito Carmine Schiavone, fece il gruppo Bardellino. Francesco Schiavone “Cicciariello” ha investito in Slovacchia e Polonia, Luigi Diana ha investito in Ungheria, la cosca Grande Aracri ha investito in Romania, Antonio Prudentino (Sacra corona unita) investiva in Albania, Cosa nostra ha investito nel ciclo dei rifiuti in Romania. La lista è lunghissima e a questa si associa una possibilità di latitanza nei Paesi dove si investe: Ugo De Lucia a Poprad (Slovacchia), Pietro Licciardi a Praga, Giancarlo De Luca a Nagylak (in Ungheria al confine con la Romania), Pino Bonavita a Praga, Pasqualino Ariganello ad Alba Iulia (Romania), Antonio Cella a Glogow (Polonia), Pasquale Avagliano a Timisoara (Romania). Kuciak, come altri rari e preziosi giornalisti dell’Est, sopperisce alla mancanza di indagini delle polizie e di attenzione politica indagando su queste dinamiche, e porta alla luce, in un Paese dove non esiste il reato di associazione mafiosa, gli interessi nell’economia slovacca di imprenditori legati alla ‘ndrangheta: famiglie calabresi vicine alle ‘ndrine di Bova Marina (appartenenti a un territorio su cui insiste l’aristocrazia della mafia calabrese) che dopo la caduta del Muro sono arrivate in Slovacchia per prendere in mano il business agricolo del Paese, usato come copertura per ottenere i fondi europei messi a disposizione per il settore, con il silenzio-assenso del governo di Robert Fico. Ma il primo grande business che le organizzazioni italiane cercano di monopolizzare nei Paesi dell’Est è quello delle armi. La Cecoslovacchia, rispetto agli altri Paesi est-europei, vanta un bene profondamente ambito, un bene progettato nel 1958 dall’Ing. Jimí Kermák il VZ58, un fucile d’assalto da 800 colpi al minuto, variazione dell’AK47, ma meno costoso. Sulle migliaia di fucili nei depositi dell’ex esercito cecoslovacco nasce il grande affare delle organizzazioni criminali italiane. Le armi cecoslovacche non fanno gola solo alle mafie italiane: gli attentatori dell’Isis che nel 2015 colpirono la sede di Charlie Hebdo e il supermercato Hyper Cacher di Parigi imbracciavano armi rottamate dell’esercito comunista cecoslovacco. Il business delle armi con le mafie italiane riguarda tutta l’Europa dell’Est: nel febbraio del 1986 venne intercettata una telefonata in cui esponenti del clan Nuvoletta trattavano l’acquisto di un carro armato Leopard con l’allora Germania dell’Est. Oltre alle armi la droga. In passato i flussi di droga avevano reso la Slovacchia territorio di transito (soprattutto dell’eroina afgana diretta in Occidente), ma con l’avvio delle compagnie low cost un turismo giovane è arrivato a Bratislava, una città impreparata al turismo rispetto a mete più famose come Praga, e quindi pronta per essere mangiata dal business illegale: dai ristoranti agli hotel, dalla marijuana alla coca, dalla prostituzione al gioco d’azzardo, gran parte degli affari è stata gestita dalle organizzazioni criminali. Repubblica Ceca e Slovacchia sono sempre stati territori ambiti anche dalla mafia russa: il 31 maggio 1995 i poliziotti fecero irruzione nel ristorante di Praga U Holub mentre era in corso un summit tra alcuni membri dell’organizzazione di Semion Mogilevich e la Solntsevskaya Bratva e arrestarono 200 persone. L’Est Europa è un buco nero: di riciclaggio e di presenza mafiosa, non solo italiana. Una responsabilità non secondaria è da attribuire alla Germania: la strategia delle mafie è quella di inserirsi in quello che si può considerare il “Commonwealth tedesco”, cioè i Paesi dell’Est europeo confinanti con la Germania. Il governo tedesco ha un ruolo economico importantissimo in questi Paesi, eppure sia nel proprio territorio sia fuori non porta avanti un controllo adeguato sui capitali finanziari, sulla filiera produttiva di merci realizzate a Est per aziende tedesche. La giurisprudenza tedesca e delle repubbliche dell’Est Europa è totalmente inadeguata ad affrontare la potenza militare ed economica delle mafie. L’esecuzione di Ján Kuciak attribuita alla ‘ndrangheta svela un comportamento inedito delle organizzazioni criminali calabresi che nella loro storia hanno sempre evitato di attaccare giornalisti. Non sono in pochi a credere che i mandanti possano essere mafiosi italiani, ma gli esecutori killer slavi. Il perché è nei dettagli: l’esecuzione nell’appartamento, colpire la fidanzata alla nuca. È questa una prassi che non sembra in coerenza con l’agguato mafioso che in genere si fa in strada (anche per renderlo il più pubblico possibile). Ma solo le indagini ci faranno comprendere. Il metodo ‘ndranghetista, e in generale delle organizzazioni italiane negli ultimi anni, è la minaccia fisica o il tentativo di omicidio civile, cioè distruggere la credibilità del giornalista. Qualora la pista dell’esecuzione di ‘ndrangheta venisse confermata, significherebbe che l’organizzazione ha avuto la necessità di intervenire velocemente per bloccare la diffusione di informazioni. In poche parole non c’era il tempo di delegittimare Kuciak, bisognava fermarlo e basta. Quando agisce in questo modo, un’organizzazione criminale sa che pagherà un prezzo alto in termini di repressione e attenzione mediatica, e quindi in termini di affari. Ma tutto questo l’ha già messo in conto. Ciò significa, quindi, che in questo caso sacrificare un pezzo di affari e di organizzazione era necessario per coprire interessi più alti e complessi. Non solo, ammazzando introducono una strategia terroristica verso tutti gli altri giornalisti: “Siete tutti raggiungibili, siete tutti esposti”, è il messaggio che l’esecuzione ha dato. La ‘ndrangheta non si sente più ospite in Slovacchia, tutt’altro: come da tempo l’Olanda o la Germania, si tratta ormai di “territori”, ossia luoghi dove puoi agire come faresti a Platì o San Luca. Prima la regola era: fuori non si può fare tutto ciò che si fa a casa. Ma dopo Duisburg tutte le regole sono saltate. L’Europa del Nord e quella dell’Est sono diventate estensioni della Locride. Ján Kuciak è il secondo giornalista ucciso in Europa in pochi mesi, dopo Daphne Caruana Galizia. Ammazzare giornalisti potrebbe sembrare un errore strategico, perché convalida d’immediato, senza dover passare per un processo, le tesi del giornalista ucciso. Questo accadeva però quando la società civile e i media riuscivano a mantenere sul caso un’attenzione così alta da mostrare sino in fondo cosa era accaduto. Oggi invece i mafiosi sanno che - esattamente come accadeva tra gli anni 50 e 70 - l’omicidio di un giornalista dura il tempo di qualche giorno di indignazione e poche ore di homepage. Quindi tutto si riduce al perimetro dei processi, dove sanno che potranno pagare il segmento militare ma salvare quello economico. Ora tutti piangono Ján, questo coraggioso ragazzo ammazzato, ma quando i giornalisti sono in vita nulla si fa per sostenerli, lasciando che diventino bersaglio di isolamento, di condanne per diffamazione e di insinuazioni (come accaduto a Daphne Caruana Galizia). Anche in Europa, come in America Latina, l’unico giornalista che riceve sostegno è il giornalista morto. General contractor pubblico di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 2 marzo 2018 Corte di cassazione, Sesta sezione penale, sentenza 1° marzo 2018 n. 9385. Il general contractor è incaricato di pubblico servizio. E quindi è del tutto legittimo l’obbligo di dimora nei confronti di un imprenditore accusato di corruzione e turbata libertà degli incanti per la dazione di denaro agli amministratori di un consorzio che svolgeva funzioni di stazione appaltante. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 9385della VI sezione penale depositata ieri. Tra i motivi di ricorso, la difesa aveva sostenuto invece che i rapporti del contraente generale con i terzi devono essere considerati di diritto privato. La sentenza sottolinea che, nel momento in cui i contraenti generali effettuano la scelta di soggetti terzi a cui dovranno essere sub-affidate le opere o le forniture che permetteranno di ottenere il risultato che si sono obbligati a fornire all’amministrazione aggiudicatrice, rispondono non come soggetti privati, ma come incaricati di pubblico servizio, ogni volta che scelgono di seguire una procedura concorrenziale. Si tratta infatti di affidamenti effettuati per conto della Pa, indirizzati alla realizzazione di un’opera finanziata con denaro pubblico. La Cassazione fa propria una ricostruzione della figura del general contractor che valorizza, più che qualifiche soggettive e formali, il dovere pubblicistico di agire nell’interesse dell’amministrazione e, in concreto, i compiti che il contraente generale assume su di sé “in un ambito, cioè la scelta dei soggetti terzi contraenti ai quali sub-affidare le opere e/o le forniture che permettano di ottenere il risultato connesso si è obbligato a fornire all’amministrazione aggiudicatrice”. Quanto poi alla nozione di gara, contestata dalla difesa, la sentenza ricorda che, se è vero che non può essere integrata una gara per il solo fatto della pluralità dei soggetti interpellati, quando ciascuno presenta la propria offerta e l’amministrazione conserva libertà di scelta, è indiscutibile che gara ci sia quando esiste una libera competizione tra una pluralità di soggetti e l’ente appaltante ha indicato i criteri di aggiudicazione. Per gara, così, si deve intendere “la previsione di un meccanismo selettivo delle offerte nel quale i soggetti che vi partecipano, consapevoli delle offerte di terzi, propongono le proprie condizioni quali contropartita di ciò che serve alla pubblica amministrazione”. Elezioni: reato portare il cellulare in cabina di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 2 marzo 2018 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 1 marzo 2018 n. 9400. Rischia una sanzione di 15 mila euro chi entra nella cabina elettorale con il cellulare e fotografa la scheda. Ed è inutile minimizzare l’accaduto chiedendo la non punibilità per particolare tenuità del fatto. La Cassazione (sentenza 9400) conferma la decisione della Corte d’Appello che si era limitata a trasformare la pena detentiva in pecuniaria per la violazione della legge sulla segretezza del voto (articolo 1 legge 96/2008). Il difensore del “fotografo” negava la consumazione del reato. A suo avviso, infatti, il presidente del seggio avrebbe dovuto prevenire l’azione con l’invito a non portare in cabina mezzi di riproduzione visiva, cosa che non era avvenuta. In subordine l’imputato chiedeva la non punibilità per particolare tenuità del fatto (articolo 131-bis). I giudici della quinta sezione penale respingono però il ricorso. La Suprema corte conferma che il presidente di seggio deve invitare l’elettore a lasciare i cellulari in custodia insieme al documento, entrambi da restituire all’uscita. Tuttavia non sono previste conseguenze penali per il presidente che viene meno al suo dovere, mentre la stessa cosa non si può dire per l’elettore che porta in cabina il cellulare o altri dispositivi con i quali si può fotografare. Un divieto (comma 1 della legge) la cui sola violazione fa scattare il reato. E l’imputato era andato anche oltre “attuando il pericolo che il precetto penale intende scongiurare, fotografando la sua espressione di voto”. Azione che non può essere considerata di particolare tenuità. Non passa neppure la richiesta di applicazione del regime di favore sulle sanzioni introdotto con il comma 1 bis nell’articolo 459, del nuovo codice di rito penale (legge 103/2017). La norma, in caso di procedimento per decreto penale, consente al giudice di determinare la sanzione sostitutiva non più in termini generali (250 euro al giorno) ma in misura variabile: da un minimo di 75 euro al triplo della cifra, secondo le condizioni economiche e familiari dell’imputato. Un trattamento che, ad avviso del ricorrente, andava applicato in tutti i casi di “trasformazione” della pena detentiva in pecuniaria e dunque anche nel rito abbreviato. La Cassazione precisa però che l’intenzione del legislatore, nell’aggiungere il comma 1-bis all’articolo 459, era di favorire una definizione contratta del processo penale, con un evidente scopo deflattivo. Nel solo rito alternativo del decreto penale, il più semplificato tra quelli previsti dall’ordinamento, ha dunque consentito un’ulteriore contrazione della sanzione, che può essere già diminuita in misura maggiore rispetto agli riti semplificati: della metà anziché di un terzo come nel caso di patteggiamento o di giudizio abbreviato. La Suprema corte sottolinea che il diverso trattamento è giustificato “dal risparmio di attività processuali e che, per tale ragione, non può essere considerata, come vorrebbe il ricorrente, una norma di applicazione generale, se non ponendo in dubbio l’intero impianto premiale del codice di rito”. Niente ergastolo per l’omicidio del figlio adottivo di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 2 marzo 2018 Niente ergastolo per l’uccisione del figlio se adottivo. La Cassazione ha depositato ieri le motivazioni della sentenza con la quale aveva escluso il carcere a vita per Andrei Talpis che nel 2013 aveva accoltellato a morte il figlio adottivo ventenne e tentato di uccidere la moglie. I giudici hanno applicato il Codice penale che mantiene la distinzione con i figli legittimi, negando così la possibilità di contestare l’aggravante prevista dal primo comma dell’articolo 577 che scatta in caso di omicidio del discendente. La Suprema corte precisa che nel caso esaminato andava invece considerato il comma secondo in base al quale “la pena è della reclusione da 24 a 30 anni, se il fatto è commesso contro il coniuge, il fratello o la sorella, il padre o la madre adottivi, o il figlio adottivo, o contro un affine in linea retta”. Per i giudici non c’è dubbio che l’ergastolo non è in linea con il diritto. Tuttavia la pena che la corte d’Assise d’appello dovrà comminare non dovrà essere inferiore ai 16 anni, con lo sconto effetto del rito abbreviato. I giudici con la sentenza 9427affrontano anche un aspetto procedurale, considerato rilevante: la questione dell’aggravante, non era, infatti, stata sollevata di fronte alla Corte d’Assiste d’Appello, ma riportata soltanto nei motivi di ricorso. Un problema risolto in via interpretativa sulla base dei due principi fondamentali dell’articolo 597 del codice di rito penale: quello devolutivo e quello del divieto di reformatio in peius. La Suprema corte ricorda che la facoltà del giudice d’appello di dare il corretto inquadramento giuridico al fatto sottoposto alla sua attenzione non rappresenta una violazione del principio devolutivo. Questo a maggior ragione quando la decisione sia migliorativa e non si ponga neppure astrattamente il problema della violazione del divieto di reformatio in peius, che in ogni modo, non vale per la semplice riqualificazione giuridica. Il caso di Andrei Talpis era costato all’Italia una condanna a 30 mila euro inflitte dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo. Per i giudici di Strasburgo le autorità non avevano fatto abbastanza per proteggere la donna e i figli dalla violenze dell’uomo, malgrado la signora e il ragazzo avessero segnalato le violenze domestiche. “le autorità italiane avevano scritto i giudici - hanno privato la denuncia di qualsiasi effetto, creando una situazione di impunità che ha contribuito al ripetersi di atti di violenza che alla fine hanno condotto al tentato omicidio della donna e alla morte di suo figlio”. Solo il ragazzo infatti aveva cercato di difendere la madre, perdendo così la vita. Reati tributari, l’istanza di rateo non basta per l’impunibilità di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 2 marzo 2018 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 1 marzo 2018 n. 9365. L’adesione all’accertamento e la richiesta di rateizzazione del debito di imposta non sono sufficienti per far scattare la causa di non punibilità prevista per alcuni delitti tributari essendo invece necessario il pagamento al fisco dell’intero debito. In ogni caso tale causa non riguarda il reato di occultamento e distruzione di scritture contabili. Sono questi i principi espressi dalla Corte di Cassazione sezione 3 penale nella sentenza n. 9365 depositata ieri. Un contribuente era imputato di emissione di false fatture e di occultamento di scritture contabili. Veniva condannato in primo grado, la corte di appello diminuiva la pena inflitta ritenendo prescritto, nel frattempo il reato di emissione di falsi documenti. Il condannato ricorreva in cassazione lamentando, tra l’altro, che non era stata considerata la richiesta di sospensione del processo verosimilmente finalizzata al pagamento del debito tributario e quindi alla fruizione della causa di non punibilità prevista dal Dlgs 74/2000 I giudici di legittimità hanno respinto il ricorso precisando innanzitutto che nella sentenza di appello era stata correttamente rilevata l’inapplicabilità della citata causa di non punibilità la quale opera soltanto, a determinate condizioni, per i reati di omesso versamento Iva, delle ritenute, per l’indebita compensazione di crediti non spettanti (con esclusione di quelli inesistenti).In ipotesi invece di dichiarazione, infedele e omessa, è necessario anche che la presentazione della dichiarazione omessa sia avvenuta entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, e il ravvedimento o la presentazione prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali. Dichiarazione infedele, abuso del diritto senza rilevanza penale di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 2 marzo 2018 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 1 marzo 2018 n. 9378. Non è penalmente perseguibile un’operazione finalizzata esclusivamente a conseguire un indebito vantaggio fiscale relativa a operazioni economiche reali. Il giudice, prima di affermare la tesi contraria, deve verificare che le operazioni non siano state realizzate ovvero siano riferite a soggetti fittiziamente interposti. A fornire queste indicazioni è la Cassazione con la sentenza 9378 /2018 di ieri. Una contribuente chiedeva al tribunale dell’esecuzione la revoca della sentenza definitiva di condanna per dichiarazione infedele. Da quanto emerge dalla sentenza, alla condannata era stato contestato, quale socia di due Sas, l’omessa dichiarazione degli utili percepiti da una delle due società e i corrispettivi della cessione delle proprie quote. Nell’istanza veniva prospettata la natura meramente abusiva della propria condotta in quanto le operazioni erano state poste in essere al solo scopo di conseguire un indebito vantaggio fiscale. Di conseguenza la condotta non era più non punibile in base al nuovo articolo 10-bis della legge 212/2000 secondo cui le operazioni meramente abusive non danno luogo a illeciti penali tributari. Il giudice dell’esecuzione escludeva la configurabilità di un mero abuso del diritto evidenziando che alcune operazioni contestate erano inesistenti sul piano economico giuridico e che le finalità perseguite non si esaurivano nel risparmio fiscale avendo avuto altri scopi (distribuzione anticipata degli utili, risoluzione di una controversia previdenziale del coniuge ecc.). Avverso l’ordinanza era proposto ricorso per cassazione rilevando, tra l’altro, l’erronea esclusione delle mera condotta abusiva a causa del perseguimento delle finalità extra tributarie. Secondo la tesi difensiva non era stato considerato che per la sussistenza dell’abuso del diritto non è richiesto che il risparmio fiscale costituisca l’interesse esclusivo dell’operazione essendo sufficiente che l’operazione realizzi vantaggi fiscali indebiti che devono avere soltanto valore predominante. La presenza nella specie di ulteriori valide ragioni extrafiscali escludeva la rilevanza penale all’operazione esaminata. La Cassazione ha accolto il ricorso ribadendo innanzitutto che non è più configurabile la dichiarazione infedele in presenza di condotte puramente elusive ai fini fiscali. Nella specie il giudice dell’esecuzione per escludere la non punibilità ha ritenuto inesistenti le operazioni senza considerare che il reato ascritto era l’articolo 4 (che esclude tali operazioni) e non l’articolo 3 (che invece le include) operando così una diversa qualificazione giuridica della condotta non ammessa in sede esecutiva. L’ordinanza poi risulterebbe contraddittoria perché da una lato - per confermare la punibilità - fa riferimento a operazioni inesistenti e, dall’altro, ammetterebbe il perseguimento di altre finalità con tali operazioni (che quindi ci sarebbero state). La Cassazione ha ritenuto così necessario un nuovo riesame da parte del tribunale per valutare se siano state effettivamente realizzate operazioni in tutto o in parte inesistenti o invece realmente poste in essere, ma soltanto volte a conseguire un indebito vantaggio fiscale con la conseguente irrilevanza del reato di dichiarazione infedele. Umbria: colloqui con il Garante anche per i detenuti in 41bis umbriaon.it, 2 marzo 2018 Il Tribunale di sorveglianza di Perugia conferma il diritto dei detenuti rigettando un reclamo sulla Casa circondariale di Terni. Soddisfazione del Garante Anastasìa. Soddisfazione da parte del Garante delle persone private della libertà della Regione Umbria, Stefano Anastasìa, per il rigetto, da parte del Tribunale di sorveglianza di Perugia, del reclamo del Pubblico ministero e dell’amministrazione penitenziaria con cui il Magistrato di Spoleto, disapplicando una circolare dell’amministrazione penitenziaria, consentiva a un detenuto nella casa circondariale di Terni di svolgere un colloquio con il Garante regionale delle persone private della libertà senza il vetro divisorio, senza controllo uditivo e senza che fosse computato nel numero massimo di quelli consentiti con i familiari. Garanzia dei diritti - Ad avviso del Tribunale di sorveglianza di Perugia, “le limitazioni al colloquio con il garante costituiscono grave limitazione ai diritti del detenuto e non trovano alcun fondamento” nell’ordinamento giuridico. Il Tribunale ribadisce che ‘la figura del Garante costituisce per tutti i detenuti un’ulteriore garanzia dei loro diritti, che è l’unica interpretazione che può essere data conformemente alla Costituzione e alle norme sovranazionali’ della sua istituzione anche a livello regionale e locale. Per Anastasìa “si tratta di un’importante affermazione del diritto e della ragione. Ancor prima che venisse proposto il reclamo accolto dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto, la cui decisione è stata ora confermata dal Tribunale di sorveglianza, avevo scritto al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, sollecitandolo alla revisione di una circolare evidentemente illegittima. Così non è stato e si è preferito lasciare la parola ai giudici”. Il Garante spera che questa decisione del Tribunale di sorveglianza di Perugia “possa spingere finalmente l’amministrazione penitenziaria a revocare quella vecchia circolare e ristabilire la pienezza del diritto di accesso a tutti i Garanti per tutti i detenuti, senza alimentare ulteriore contenzioso giudiziario e senza perseverare nella violazione dei diritti dei detenuti e dei poteri di Garanti istituiti dagli enti territoriali della Repubblica e riconosciuti dalla legge dello Stato”. Cuneo: pronte a due sezioni per ospitare i detenuti al 41bis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 marzo 2018 Nel carcere di Cuneo sono stati ultimati i lavori del reparto destinato alla riapertura del 41bis. Lo rende noto il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, evidenziando che il recupero delle due sezioni del reparto, che a breve accoglieranno 46 detenuti, è stato eseguito, su indicazione del Capo del Dipartimento Santi Consolo, in economia, facendo ricorso alla mano d’opera dei detenuti del carcere cuneese, formatisi alla scuola professionale edile attiva nell’istituto. L’impiego della mano d’opera dei detenuti nei lavori di tinteggiatura, adeguamento degli impianti idrico e di riscaldamento, ha avuto un costo di 13.000 euro, decisamente inferiore alle previsioni di spesa per l’affidamento dei lavori a ditte esterne. Le camere detentive sono dotate di nuovi arredi realizzati nei laboratori della Casa di reclusione di Noto. L’apertura delle due sezioni, oltre a garantire una più sicura allocazione dei detenuti 41bis, consente una razionale ridistribuzione di posti detentivi con il recupero di ulteriori 90 posti per detenuti comuni. Il Capo del Dap esprime soddisfazione per il lavoro svolto dal Provveditore regionale del Piemonte, Liguria, Valle d’Aosta Liberato Guerriero, dal direttore Claudio Mazzeo, recentemente incaricato della direzione del carcere di Padova e dall’ingegnere del Prap del Piemonte Gaetano De Ruvo i quali hanno consentito di ottenere visibili risultati nell’ottica della spending review e della valorizzazione di risorse interne all’Amministrazione. Il capo del Dap esprime, infine, un grande apprezzamento al responsabile del Gruppo Operativo Mobile Mauro D’Amico e a tutto il personale di Polizia penitenziaria, “la cui alta professionalità consente di gestire in sicurezza i trasferimenti e la custodia dei detenuti”. Da ricordare che i vecchi detenuti del 41bis al carcere di Cuneo, gli ultimi venti, a inizio 2016 erano stati trasferiti in Sardegna. In passato quello di Cuneo era stato il reparto di 41bis più grande d’Italia: oltre 90 “ospiti”. Padova: l’università al carcere Due Palazzi, “lo studio della libertà” di Alberta Pierobon Il Mattino di Padova, 2 marzo 2018 Inaugurazione dell’anno accademico in carcere: Padova capofila in Italia. Il rettore annuncia la nascita di un nuovo corso di laurea in scienze motorie. Apertura dell’anno accademico del Bo, al Due Palazzi. Ha organizzato le cose in grande il nuovo direttore Claudio Mazzeo, 58 anni, e il risultato è stato un vero seminario a molte voci a testimoniare come la volontà, la passione, il forte credo nelle opportunità di cambiamento personale e sociale che offre la cultura, abitino Padova. Modello e traino in ambito nazionale dell’esperienza di università in carcere. L’Ateneo dentro al Due Palazzi segue, con tutor e docenti che entrano a tenere gli esami, 42 studenti (su 60 mila) iscritti per lo più a giurisprudenza, ingegneria, scienze forestali. La casa di reclusione (537 detenuti, con pene definitive), carcere trattamentale per eccellenza e per buona volontà, dal 2003 dà la possibilità ai detenuti di fare un percorso universitario (si sono laureati in 30). Erano stipati ieri i gradoni dell’auditorium del Due Palazzi con i poster di vecchi film dipinti sui muri da detenuti, a partire da “I soliti ignoti”. Al tavolo dei relatori, i vertici di tutte le istituzioni possibili. Ogni intervento, uno squarcio motivato, propositivo, senza paludamenti. “Il mio impegno è incrementare il numero degli studenti” inizia il direttore Mazzeo, e butta lì una proposta che il rettore Rizzuto accoglie: l’avvio di un nuovo corso in Scienze motorie. Fatto. Tocca al rettore: “Il nostro ateneo tiene moltissimo a questo impegno e sono grato a quelli che lo rendono possibile. Dico grazie ai detenuti che hanno voluto studiare, guardare avanti, credere nella cultura e chiedo l’orgoglio di essere iscritti alla nostra università”. Il microfono passa a Enrico Sbriglia, provveditore dell’amministrazione penitenziaria Nordest: “Qui non ci sarà evasione scolastica...”, il ridacchiare è d’obbligo; “Non ci può essere cultura se non c’è cultura della libertà, ma non libertà a basso prezzo: la democrazia non è naturale, comporta fatica”. Sergio Giordani, il sindaco, che il direttore Mazzeo ha chiamato in causa chiedendogli che Padova consideri il carcere una parte di sé, non un pulviscolo nell’occhio, accetta l’impegno e cita la casa del Comune per i semiliberi, gestita dall’associazione Piccoli Passi. C’è, e per fortuna, ma non basta. Ci vorrebbe un altro, grande passo. “Studio e lavoro sono fondanti nel trattamento” dice a ragion molto veduta Lara Fortuna, Magistrato di sorveglianza, “i detenuti acquistano dignità, impiegano e non perdono il tempo, è motivo di orgoglio nei confronti delle loro famiglie, fuori”. Il prefetto Renato Franceschelli, concreto, garantisce disponibilità a partecipare e organizzare incontri in carcere “per raccontare il nostro lavoro”. Efficace il neo-questore Paolo Fassari: “Chi lavora sulla sicurezza deve lavorare sulla prevenzione, non basta la repressione. E sappiamo bene che tra i detenuti che studiano o lavorano, il tasso di recidiva è molto minore”. Anche Oreste Liporace, comandante provinciale del carabinieri, si fa trascinare dalla corrente di motivazione collettiva e “verrò con i colleghi a collaborare con le attività del carcere”. Potrebbe essere utile agli studenti “interni” di giurisprudenza, metti un ripassino. Il comandante della polizia penitenziaria Carlo Torres dà voce agli agenti di custodia caricati dal normale lavoro più quello legato al trattamento dei detenuti ovvero la mobilità derivata dalle attività interne: accompagnare, aprire e chiudere cancelli, tornare a prendere e via controllando. La responsabile dell’università al Due Palazzi è Francesca Vianello, il suo lavoro è prezioso e lei guarda avanti: “Abbiamo anche iscritte alcune detenute della Giudecca e qualcuno del circondariale” spiega; sogna di allargare la collaborazione alle altre università venete; chiede più collaborazione dai docenti perché mica è tutto oro anche se luccica e insiste per ampliare il Polo universitario del Due Palazzi. Dove c’è un’ala (sette celle per 10 posti) destinata a chi frequenta l’università: con sala studio, cucina dove preparare e mangiare assieme, biblioteca. Ci stanno in sette, gli altri iscritti sono nelle normali sezioni. Applausi col cuore per la prorettrice Daniela Lucangeli che ha parlato di emozioni, chimica del cervello, degli strumenti per ostacolare l’onda lunga e pervasiva dell’angoscia, della noia, della tristezza, di come e perché lo studiare alimenti le emozioni antagoniste al lasciarsi andare. Poi il finale con Andrea Pennacchi attore (ha fatto teatro con i detenuti) e Giorgio Gobbo, musicista, i quali hanno convinto tutti che Shakespeare era veneto. Compreso il colonnello immerso nelle mostrine che, seduto accanto alla postazione del volpone Pennacchi, è stato suo malgrado coinvolto da qualche boutade. Basito per un istante, ha poi tirato fuori un inedito “esprit du théâtre”. Pièce esilarante cum laude. E corali risate hanno seppellito per un po’ la pesantezza delle sbarre. La tesi di Bruno: un progetto di carcere modello Si chiama Bruno, ha 62 anni, è di Genova. In carcere da 16, ne ha ancora 5 da scontare. Da giovane si diplomò all’artistico. È uno dei detenuti studenti, vive nel Polo universitario: “Ho cominciato l’università in carcere a Padova, mi mancano tre esami per la laurea in architettura allo Iuav. Sto finendo la tesi”. Una tesi speciale: “Abitare la pena”, il titolo. Ed è un progetto, fatto e finito, per trasformare il borgo di Piemonte d’Istria disabitato e trasformarlo in luogo di esecuzione della pena. “In osmosi con la comunità di lì, integrato, dove si fa formazione, agricoltura. Capienza 100 persone circa, piccole palazzine”. Un progetto notevole, conferma Giulia Giusti, laureanda e sua tutor. Maurizio Guglielmo Ferro, 59 anni, di Udine, ha 8 anni per bancarotta. La sua azienda era nel settore ambientale. È iscritto a Tecnologie forestali e ambientali e sta lavorando a un suo progetto originale di bonifica del fiumi italiani. Armand, albanese, interviene invece durante il convegno e porta una testimonianza forte: “I miei genitori sono laureati, io non lo ero. Li avevo delusi. Sapevo che l’università di Padova è la migliore in Europa e appena arrivato in carcere qui, mi sono iscritto. Un mese fa ho fatto il primo esame, in carcere: ero agitatissimo, in ansia, mi sembrava di non riuscire nemmeno più a parlare l’italiano. Il professore mi ha messo a mio agio, mi ha fatto sentire uno studente vero e ho preso un voto alto”. “Nessuno cambia da solo” conclude Armand “e io vi ringrazio tutti”. Airola (Bn): Ciambriello spiega diritti e doveri ai giovani detenuti Il Mattino, 2 marzo 2018 Istituto penale minorile, ieri la visita del Garante dei detenuti. La struttura, anche pochi giorni fa al centro delle cronache per un tentativo di evasione sventato dagli aventi, ospita attualmente 39 minori e giovani adulti di cui 4 stranieri. Ad occuparsi di loto sono 43 unità di polizia penitenziaria e 4 educatori. Nella visita il Garante, Samuele Ciambriello, è stato accompagnato dal nuovo direttore del carcere minorile, Dario Caggia e dal suo vice Dino Discanno. Con sé ha portato, per consegnarla ai giovani che ha incontrato, la guida ai diritti e doveri dei detenuti. Diritti come l’opportunità di “crescere”, umanamente e professionalmente, attraverso appositi percorsi formativi. A questo proposito va ricordato che sono 7 i ragazzi che lavorano all’interno dell’istituto e 2 a cui è stato concesso di poter lavorare all’esterno del carcere: sono inoltre stati attivati diversi corsi finalizzati alla rieducazione e al futuro reinserimento lavorativo. Proprio ieri Ciambriello ha avuto modo di vedere all’opera gli aspiranti pizzaioli che frequentano il laboratorio “Finché c’è pizza.... c’è speranza”; e ha anche avuto modo di assaggiare le “creazioni” preparate per dimostrare ai visitatori di aver imparato le basi del mestiere”. “Ai 39 minori ristretti ad Airola - ha spiegato Ciambriello a consuntivo della visita - se ne aggiungono i 60 di Nisida e i 220 presenti nelle comunità residenziali. Le loro storie sono molto diverse, ecco perché non bisogna commettere l’errore di fare di tutta l’erba un fascio: ci sono quelli che evadono l’obbligo scolastico, quelli che vivono un disagio, che vivono conflitti in famiglia, che vivono un sottosviluppo economico, un vuoto culturale, di diritti negati, di politiche deboli. Ci sono i bulli che si sentono importanti e vogliono farsi notare dalla loro “comunità”. Ci sono quelli che da questi contesti passano alla devianza, che vivono meccanismi di identificazione. Per un minore che cresce in una famiglia violenta, i modelli, i valori, le misure del bene e del giusto sono quelli che gli insegnano in casa e che spesso vede confermati fuori dal contesto delle mura domestiche. E poi ci sono quelli che fanno il passaggio: vedono la malavita come una sorta di “comunità sorella”, a cui sono orgogliosi di appartenere e mitizzano le figure dei boss come eroi positivi. Infine, da un po’ di tempo, nella città di Napoli più che in provincia, ecco arrivare i “baby boss”, che vogliono “volare”, sono stufi di prendere ordini, di “strisciare per terra”, come dicono loro. Questi ragazzi hanno la morte dentro. Sono adolescenti a metà. Non hanno mai conosciuto un mondo diverso, fatto di cultura, valori, sport, affetti giovanili. Si sentono superiori ai vecchi capi della camorra. Mi chiedo - conclude il Garante: può solo il carcere essere la risposta per questi adolescenti a metà?”. Napoli: ex detenuti impiegati nella raccolta, trasformazione e vendita dei vestiti usati agensir.it, 2 marzo 2018 La cooperativa sociale “Ambiente Solidale” è nata a Napoli nel periodo in cui l’emergenza rifiuti ha toccato l’apice. Un progetto con un fine sociale: aiutare ex detenuti ed ex tossicodipendenti, impegnandoli nella raccolta dei rifiuti tessili. “Volevamo coniugare due obiettivi: rispondere al bisogno di lavoro che c’è in città e aiutare soggetti svantaggiati”, ha spiegato il presidente della cooperativa Antonio Capece, durante il suo intervento, questa pomeriggio, a Salerno, al terzo seminario nazionale di Pastorale sociale, organizzato dall’Ufficio nazionale Cei per i problemi sociali e il lavoro. “Nei primi due anni è stato difficilissimo avere le autorizzazioni per il problema dello smaltimento - ha raccontato -. Siamo riusciti a sviluppare la nostra attività grazie a una cooperativa di Milano che ci ha messo a disposizione know how, strumenti e autorizzazioni”. Così è partita un’attività che oggi impiega 30 persone. “Raccogliamo rifiuti tessili, li trattiamo, sterilizziamo e lavoriamo. Abbiamo creato un negozio che vende gli indumenti recuperati”. Un’operazione che, grazie al numero di tonnellate di rifiuti recuperate, ogni anno permette alla cooperativa sociale di donare 60mila euro per finanziare il programma di contrasto alla povertà alimentare dell’arcidiocesi di Napoli. “Ne ha un beneficio anche l’ambiente - conclude Capece -. Grazie al nostro impegno i comuni mandano in discarica 1800 tonnellate all’anno in meno di rifiuti. Facciamo risparmiare loro complessivamente 250mila euro”. Alessandria: siglato l’accordo “Pausania” per lo studio accademico tra i detenuti alessandrianews.it, 2 marzo 2018 Nella mattinata di giovedì 1 è stato firmato l’accordo di cooperazione per il Polo universitario “Pausania”, attivo negli Istituti Penitenziari “G. Cantiello e S. Gaeta” sez. Reclusione di Alessandria. È stato firmato nella mattinata di ieri, giovedì 1, l’accordo di cooperazione fra il Comune di Alessandria, i dipartimenti di Scienze e Innovazione Tecnologica, di Giurisprudenza e Scienze Politiche, Economiche e Sociale, di studi umanistici dell’Università del Piemonte Orientale A. Avogadro, la società cooperativa sociale Il Gabbiano, l’associazione di volontariato Betel, il Cissaca e la direzione degli istituti penitenziari G. Cantiello e S. Gaeta (sez reclusione di Alessandria) per il proseguimento dell’attività del polo universitario Pausania. Dall’anno accademico 2001-2002, infatti, è attivo presso gli Istituti Penitenziari “G. Cantiello e S. Gaeta” sez. reclusione di Alessandria, un Polo Universitario istituito per promuovere e sostenere lo studio accademico tra i detenuti che hanno in tal modo l’opportunità di seguire un percorso di formazione importante per il loro reinserimento sociale, una volta scontata la pena. Ciascun soggetto firmatario, per la parte di propria competenza, si impegna a svolgere attività di sostegno e supporto al progetto sia dal punto di vista della didattica che per quel che concerne il tutoraggio, il contributo economico, la fornitura di materiale didattico, la promozione di azioni di sensibilizzazione presso altri enti pubblici o privati, per favorire il percorso risocializzante delle persone detenute che nello studio investono la propria progettualità di vita futura. Sono disponibili i seguenti corsi di laurea: Laurea in Informatica di primo livello (Triennale); Laurea in Informatica di secondo livello (Magistrale); Laurea a ciclo unico in Giurisprudenza di secondo livello (Magistrale); Laurea in Scienze Politiche, Economiche, Sociali e dell’Amministrazione di primo livello (Triennale) e relative Lauree di secondo livello (Magistrali). A partire da quest’anno accademico sarà disponibile anche il corso di laurea in Lettere di primo livello (Triennale). Tra le novità della nuova convenzione si segnala, inoltre, la possibilità per gli studenti di accedere attraverso la rete internet alla didattica in rete dell’Ateneo, gestendo in modo autonomo il libretto, il materiale didattico on-line ed i servizi di segreteria. Si stanno predisponendo le attrezzature necessarie per consentire agli studenti di seguire alcune lezioni in streaming. La convenzione avrà una durata triennale. Palermo: risocializzazione e ravvedimento, la parola al direttore dell’Ipm di Angela Ganci stateofmind.it, 2 marzo 2018 Riabilitazione, promozione del benessere, progettualità educativa sono i pilastri dell’IPM di Palermo, fortemente sostenuti dal Direttore M. Capitano. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”: così recita l’articolo 27 della Costituzione, sottolineando la finalità risocializzante di ogni trattamento penitenziario, la necessità della presa di consapevolezza delle proprie scelte di vita disfunzionali, di un ravvedimento che si concretizzi nell’adesione alle norme sociali di civiltà. Una funzione di reintegrazione sociale che, al di là di ogni intento puramente afflittivo, mira a dare fiducia, a promuovere crescita, sviluppo e senso di appartenenza, in particolar modo per i minori autori di reato. Ai giovani, tra i 14 e i 18 anni, deve essere assicurata una crescita adeguata, non bisogna quindi interrompere i percorsi evolutivi in atto, semmai correggere quelli che si discostano dalla previsione delle norme - spiega Capitano - Il Codice di Procedura penale minorile (D.P.R. 448/88, uno tra i più avanzati e studiati al mondo, anche dopo 30 anni dalla sua emanazione) prevede una serie di misure atte a far uscire il minore autore di reato dal circuito penale nel più breve tempo possibile, senza però abbandonarlo alla propria sorte. Ravvedimento e revisione critica delle scelte di vita: possibilità date da un carcere che educhi al legame sociale in quanto bene collettivo a cui tutti sono chiamati a contribuire, all’interno di un contesto di osservazione e trattamento mirati. Questa la ratio del carcere minorile, da considerarsi sempre come scelta estrema e solo per i reati gravi/gravissimi. Il carcere per i minori è sicuramente la misura estrema voluta dalla legge, non tanto per preservare la società, quanto per consentire al minore di avere un periodo di riflessione e di poter elaborare, molte volte lontano da condizionamenti familiari e sociali, una propria aspettativa di vita, aiutato in questo, dalle professionalità coinvolte (educatori, polizia penitenziaria, assistenti sociali, psicologi, ma anche insegnanti e volontari) - continua Capitano - L’apporto di tutti è indispensabile per far comprendere le regole della convivenza civile, il rispetto dell’altro e la valorizzazione delle proprie abilità, al fine di vivere una vita all’insegna della legalità e del progresso. Una vita nuova a cui molti ragazzi rispondono con sfiducia, richiamando un senso di impotenza nelle proprie capacità, nel farcela, nonché di sfiducia verso una società considerata spesso nemica, non tutelante. Per far comprendere il significato di ravvedimento cito un episodio di qualche anno fa - racconta il Direttore - Avevamo invitato all’interno di un’iniziativa, alcuni funzionari di banca per un corso sull’imprenditorialità. A margine dell’incontro, uno dei funzionari ha cominciato a narrare il proprio vissuto durante una rapina subita tanto tempo prima, quello che aveva provato, la paura, i pensieri. A un certo punto un ragazzo, sempre più a testa bassa, si è avvicinato ed abbracciandolo gli ha detto “Grazie mi ha fatto capire quello che pensava”: era lui l’autore della rapina e in quell’abbraccio aveva voluto, fisicamente, fargli sentire la sua vicinanza emotiva. Elaborare il reato anche sotto questo punto di vista, del dolore della vittima, può essere una remora a ricommetterlo. Quali sono nello specifico le attività rieducative dell’Ipm di Palermo e che valenza formativa detiene il lavoro? A oggi l’Ipm di Palermo propone varie attività tese al reinserimento sociale, come scuola, formazione, sport, lavoro. Nel caso del lavoro alcuni ragazzi sono sposati, convivono, qualcuno ha figli e il limitato sostentamento della famiglia diventa un modo di sentirsi utili, parte integrante di una società che non li abbandona, dà loro fiducia, rispetto e responsabilità produttive, e rispetto alla quale modificare un atteggiamento classico volto al danneggiamento e al reato. Situazione dolente per la formazione professionale, sospesa da due anni in Sicilia, con grave danno ai ragazzi, che perdono un’occasione per poter acquisire una professionalità. Abbiamo attivato dei corsi professionalizzanti (edile, falegname/ferro, giardiniere) affidando ad alcuni artigiani il compito di passare le competenze del mestiere ricomponendo quel clima di andare a bottega nel quale l’imparare il mestiere comprendeva il rispetto del maestro, del cliente e del lavoro. Tante iniziative, ma il nostro vanto è sicuramente il laboratorio dolciario “Cotti in fragranza”, un biscottificio all’interno della struttura, ma fuori dalla sezione detentiva, pensato per i giovani che escono dall’istituto, per accompagnarli al loro reinserimento. I biscotti sono adesso presenti anche nella grande distribuzione; il processo produttivo è seguito dai ragazzi. I nomi dei biscotti (Buonicuore al mandarino, Parrapicca al limone e zenzero, Coccitacca alla cioccolata di Modica e arancia) sono stati scelti da loro, così come il packaging e le strategie industriali. Esistono poi tante altre collaborazioni con Istituzioni e con professionisti: voglio citare a titolo esemplificativo, il Museo Salinas con il quale abbiamo appena concluso un Corso di restauro di vasellame del II secolo a. C., e l’Istituto Zooprofilattico Siciliano (con un corso di caseificazione di prossima attivazione). Decine e decine di persone che hanno deciso di donare un po’ del loro tempo ai ragazzi dell’Istituto: e, come dico spesso proprio ai ragazzi, si può comprare quasi tutto, ma il tempo che ci viene dedicato - in qualunque momento - non si può comprare. Il lavoro, anzi l’idea del lavoro, come deterrente di ulteriori reati in quanto garanzia di regole funzionali di vita, formazione alle abilità e alla loro spendibilità sociale, al rispetto di sé e dell’impegno preso, e non ultimo garanzia di sostentamento economico. Ciò che vogliamo trasmettere ai nostri ragazzi è l’idea del lavoro. L’idea del lavoro significa capire che è dal lavoro che deve derivare il proprio reddito, il proprio tenore di vita; significa essere puntuale, mettere la massima attenzione in ciò che si fa per il rispetto e la valorizzazione di un’opportunità che viene offerta e non può essere data per scontata. Lavorare, con una remunerazione giusta, significa, per moltissimi ragazzi non dover delinquere. In tanti anni di lavoro non ho mai visto un ragazzo felice per aver commesso un reato, piuttosto ne ho visti tanti dispiaciuti per non esser riusciti a evitarlo. Il carcere quindi come misura rieducativa efficace, ma sempre nell’ottica di un’ultima ratio a cui deve essere sempre preferita un’azione massiccia di prevenzione dei reati. La permanenza in un istituto penale per i minorenni è una misura residuale nella legislazione italiana. Si devono creare occasioni per far diventare questa misura ancora più residuale. Si deve agire prima, con una prevenzione nei quartieri, nelle scuole. Spesso si dice che la prevenzione costa, ma quanto costa, non esclusivamente in termini economici, la commissione di un reato? Qual è il prezzo del dolore della vittima, del dolore dei familiari, del dolore dello stesso reo, del suo senso di inadeguatezza nei confronti della società? Qual è il prezzo che paghiamo tutti, per un ragazzo che deve stare in carcere tanti anni, qual è il prezzo per un reato che non consente un’azione riparatoria, un tornare indietro? È necessaria un’attenzione politica al mondo dei giovani in un’ottica di lotta alla povertà educativa e sociale perché questa aumenta le diseguaglianze economiche, non permettendo la piena inclusione sociale con alti costi per la società: da questo punto di vista la vicinanza del Sindaco Orlando, dell’Assessore Mattina, ma anche del Consiglio Comunale di Palermo mi fanno ben sperare per il futuro di questa Città. L’auspicio, per il nostro lavoro, è di riuscire a restituire alla società dei buoni cittadini preparati ad affrontare la vita con la dignità di uomini liberi - conclude Capitano. Trento: “Le nostre prigioni”. Donne in carcere, mostra per riflettere di Gabriella Brugnara Corriere del Trentino, 2 marzo 2018 Condizione femminile, simboli e confini. Gabbie fisiche e psicologiche alla Boccanera Gallery. La capacità di visione del progetto è annunciata sin dal titolo 7+1=8 Le nostre prigioni, in cui il risultato certo dell’addizione viene messo in discussione dalla forza evocativa delle tre parole che lo seguono. L’istinto di rovesciare il numero 8, a questo punto, sorge quasi spontaneo, ed eccolo trasformarsi nel segno di infinito, o nella stilizzazione di un paio di manette. Un simbolo che nella sua polisemia intende portare al cuore di quattro grandi temi di attualità - emergenza carceri italiane; dignità e risocializzazione; emergenza donne detenute; ricorrenza dell’8 marzo - ma apre anche l’orizzonte a una dimensione metaforica. La gabbia evoca certo la prigione, ma esistono altre gabbie sottili e spesso invisibili che limitano la libertà personale, soprattutto quella femminile. Per questo il progetto, attraverso 7+1 artisti - sette donne e un uomo - offre anche uno sguardo sul tema attraverso l’arte e la sua attitudine a “guardare dentro” le cose. Attraverso una rassegna di eventi che si prefigge di promuovere una comune cultura della pena e del superamento delle discriminazioni di genere, l’iniziativa - organizzata dall’Ordine degli avvocati di Trento e dal Comitato pari opportunità dello stesso Ordine, in collaborazione con Boccanera Gallery - intende mettere in luce quanto sia urgente e non più procrastinabile una profonda riforma del sistema penitenziario italiano. “7+1=8. Le nostre prigioni si fonda sulla consapevolezza che esista un principio non negoziabile: vivere in una società migliore esordisce Andrea de Bertolini, presidente dell’Ordine degli avvocati di Trento. La realtà della dimensione penitenziaria italiana è di drammatica emergenza non solo per il numero dei detenuti ma per le condizioni nelle quali essi si trovano nelle carceri italiane. Un elemento, quest’ultimo, che aggrava la situazione perché da un lato annulla la dignità della persona, dall’altra impedisce che l’esecuzione della pena sia una concreta opportunità risocializzante”. Se già questi aspetti sono pesanti, ne esiste un altro “particolarmente mortificante” che riguarda la condizione delle donne in carcere, che sono molte meno rispetto alla parte maschile e in numero inferiore sono anche i luoghi di detenzione a loro riservati. “Il minor numero e la distribuzione più rarefatta degli istituti penitenziari per donne determina in concreto che in questa situazione di collasso generale, legata anche alla scarsità di risorse, gli sforzi indirizzati sulla popolazione detenuta femminile siano molto più ridotti - riprende de Bertolini. Sulla base di una banale scelta di numeri si preferisce infatti privilegiare interventi trattamentali sulla parte maschile”. Il fatto che in alcuni istituti le donne siano poche ha delle gravi ripercussioni. La scelta spesso per loro è infatti tra il rimanere in una dimensione di quasi isolamento, privilegiando magari la vicinanza alla famiglia, oppure di spostarsi in luoghi più affollati e quindi dotati di una maggiore offerta di attività, allontanandosi però dalle loro radici sociali. In questo contesto si inserisce una riflessione a tutto tondo riguardante la vicina ricorrenza dell’8 marzo, giorno in cui “quasi mai si ricorda come esista una popolazione di donne detenute, che nella realtà penitenziaria è come se subissero un ulteriore elemento di squilibrio nel rapporto tra i generi”. A tutto ciò si aggiunge la dimensione metaforica affidata all’indagine artistica, che mercoledì 7 marzo alle 17 presso il cinema Vittoria di Trento aprirà 7+1=8 Le nostre prigioni con il film Ombre della sera di Valentina Esposito, candidato al Nastro d’argento 2017 e realizzato grazie anche all’impegno di ex detenuti di Rebibbia. Un lavoro che “ha a che fare con il rapporto detenuti-affettività, che non riguarda gli aspetti del trattamento rieducativo ma la dignità dell’uomo”, aggiunge de Bertolini. Seguirà una tavola rotonda cui saranno presenti, tra gli altri, la regista del film e Pasquale Bronzo. Diversi sono i momenti che presso lo Spazio archeologico sotterraneo del Sas di piazza Battisti, a Trento, arricchiranno poi l’8 marzo. Alle 15.30 prenderà avvio il convegno Donne e carcere con Rita Bernardini, Marta Costantino e Ugo Morelli, mentre alle 18.30 sarà inaugurato il progetto espositivo 7+1=8 Le nostre prigioni. Il percorso - realizzato in collaborazione con Boccanera Gallery - si compone di opere di Gelsomina Bassetti, Linda Carrara, Alda Failoni, Elena Fia Fozzer, Annamaria Gelmi, Justyna Kisielewska, Drifters (Valentina Miorandi+Sandrine Nicoletta), Paolo Facchinelli, “che hanno messo a disposizione gratuitamente queste opere, di fatto assegnabili sulla base di offerte”, spiega ancora il presidente degli avvocati. “Al termine della mostra, il ricavato verrà integralmente devoluto ad associazioni volontaristiche che si occupano di detenuti e, in particolare, di detenute”. L’intera rassegna è ispirata comunque a una logica di cooperazione volontaristica. La chiusura, il 29 marzo, è prevista sempre al Sas alle 16, con il soprintendente per i beni culturali della Provincia di Trento, Franco Marzatico, che interverrà sul tema Antichi pregiudizi. “Per il nostro Consiglio si tratta di un’iniziativa importante - conclude de Bertolini -, che dimostra come l’avvocatura trentina insieme alle pari opportunità sia quotidianamente presente sul territorio al fine di promuovere occasioni di riflessione per lo sviluppo delle coscienze, una delle parti più qualificanti dell’essere avvocati”. Messina: il 10 marzo convegno “Altre carceri, storie di umanità e di libertà” chiesedisicilia.org, 2 marzo 2018 “Altre carceri. Storie di umanità e libertà” è il titolo del 38° Convegno Cartitas organizzato a Messina per sabato 10 marzo 2018. Alle ore 9, presso l’Auditorium Mons. Fasola, dopo i saluti e l’introduzione di padre Nino Basile, direttore della Caritas diocesana e dell’arcivescovo mons. Giovanni Accolla, sarà possibile seguire gli interventi degli esperti e ascoltare delle testimonianze. Gli interventi saranno quelli di: padre Francesco Vinci, cappuccino e cappellano della Casa circondariale di Siracusa, Santi Consolo, capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria; Nicola Mazzamuto, presidente del Tribunale di sorveglianza di Messina, Vito Minoia, docente presso università Urbino e presidente del Coordinamento nazionale Teatro in carcere. E proprio nell’ambito di quanto realizzato su campo nazionale da chi fa teatro all’interno degli istituti di detenzione, arrivano le testimonianze previste: quella di Armando Punzo, attore e regista, fondatore della Compagnia della Fortezza del carcere di Volterra, e quella di Pippo Venuto, attore della stessa compagnia. Sarà anche messo a disposizione dei presenti un contributo video realizzato da Flavio Albanese, attore e regista della Compagnia del sole, coordinatore del laboratorio teatrale del progetto “Il teatro per sognare”. Napoli: gli studenti “sfidano” i detenuti, gara tra Federico II e Poggioreale La Repubblica, 2 marzo 2018 “Guerra di parole” è un confronto dialettico sulla capacità di parlare in pubblico affermandosi senza violenza. Sono aperte le iscrizioni per #GuerradiParole, la sfida dialettica tra gli studenti dell’Università Federico II di Napoli e i detenuti del carcere di Poggioreale. Il progetto prevede la preparazione dei partecipanti con un corso gratuito di public speaking. Gli studenti dell’ateneo napoletano che vogliono prendere parte al progetto devono mandare un’email a info@perlaretorica.it, entro il 9 marzo 2018. Sono ammessi gli iscritti a tutti gli indirizzi di studio. Saranno accettati fino a 20 studenti, in base all’ordine dell’invio dell’e-mail. La “Guerra di Parole” non è un talent show. Gli organizzatori cercano “ragazzi e ragazze che abbiano voglia di migliorare le proprie capacità di parlare in pubblico, di mettersi in gioco e di condividere le proprie esperienze e le proprie ambizioni per il futuro”. Gli studenti e i detenuti saranno preparati separatamente da PerLaRe-Associazione Per La Retorica e si incontreranno solo il giorno del dibattito, che si terrà a Napoli il 4 maggio 2018. Le lezioni di public speaking dedicate agli studenti si terranno nella sede dell’Università per un totale di quattro incontri, incentrati sulle tecniche dell’argomentazione e del teatro, con i docenti Flavia Trupia e Enrico Roccaforte. Dopo la fase di preparazione, gli studenti e i detenuti si incontreranno per il dibattito finale e una giuria di esperti decreterà la squadra vincitrice. Obiettivo del progetto #GuerradiParole, giunto alla terza edizione, è “preparare i partecipanti ad affermare le proprie ragioni solo con lo strumento pacifico della parola. La squadra vincitrice sarà quella maggiormente in grado di difendere la propria tesi con argomentazioni credibili, senza perdere la calma, alzare la voce o insultare. In generale, le gare di retorica hanno la finalità di preparare i partecipanti ad affrontare la vita e il lavoro, contesti in cui è inevitabile confrontarsi con opinioni diverse”. Aversa (Sa): il gruppo “Amici per caso” tiene un concerto di musica classica in carcere di Livia Fattore Il Mattino, 2 marzo 2018 U n concerto per i detenuti del carcere di Aversa. Ad esibirsi per i detenuti all’interno della sala teatro dell’istituto, il 10 marzo prossimo, il gruppo Amici per caso. L’iniziativa è patrocinata dal Rotary Club di Aversa con il presidente Alfredo Sagliocco, che ha voluto manifestare ancora una volta attenzione per il mondo del carcere ed in particolare per la casa di reclusione aversana diretta da Carlotta Giaquinto. Gli Amici per caso sono un gruppo musicale formato dall’avvocato Carlo Maria Palmiero, chitarrista, dal professore Paolo Fagnoni, mandolinista di fama nazionale, dall’avvocato Pierpaolo Damiano, percussionista, dal chitarrista Giacomo Napolano, e dalle voci Tonino Crispino e Luisa Grimaldi. La passione per la musica classica napoletana, il senso di solidarietà e l’impegno sociale sono gli ingredienti fondamentali che hanno spinto i professionisti a regalare una giornata di gioia alle persone recluse. Non è la prima volta che il gruppo si esibisce per beneficenza, avendo già dato prova delle proprie doti in occasione dello spettacolo “Toghe e Note”, organizzato dalla presidenza del Tribunale e dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli Nord e dalla Camera Civile di Aversa presso il Castello Aragonese, che ha visto la partecipazione degli Amici per caso ma anche il contributo di altre significative esperienze, come la commedia portata in scena dai detenuti della Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere. Il gruppo si è esibito, poi, a favore degli ospiti del Cottolengo di Ducenta, dell’ospizio Sagliano di Aversa, della Caritas Diocesana, del carcere sammaritano, solo per citarne alcune. si di vita. È il confronto con la parte sana della società che può trasformare gli animi, offrendo loro nuova linfa vitale. All’iniziativa prenderanno parte il sindaco di Aversa, il Vescovo Angelo Spinillo, la presidente, il procuratore capo e i procuratori del Tribunale di Napoli Nord, il presidente del Consiglio dell’ordine degli Avvocati Napoli Nord, il presidente della Camera Penale Napoli Nord, il responsabile della Caritas di Aversa, il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, il magistrato di Sorveglianza, il garante regionale dei diritti delle persone detenute, il Provveditore regionale, il direttore dell’Uepe, il responsabile della Comunità di Sant’Egidio. Gabriele Cagliari, lettere dal 1993 di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 2 marzo 2018 Il figlio Stefano racconta in “Storia di mio padre”, curato da Costanza Rizzacasa d’Orsogna (Longanesi), il presidente dell’Eni suicida in carcere durante Mani Pulite. “Il carcere e i suoi problemi, la sua gestione paradossale, sono argomenti che devono interessare la gente: il mondo non è fatto di buoni e cattivi; tutti possiamo essere a volte cattivi anche se siamo normalmente buoni”. Le 28 lettere inedite (come questa del 18 luglio 1993, 2 giorni prima del suicidio a San Vittore) scritte in carcere dal 67enne presidente dell’Eni Gabriele Cagliari nei 134 giorni di custodia cautelare, e recuperate nel 2016 dal figlio Stefano in soffitta, adesso insieme a quelle già note vengono proposte dalla riflessione del figlio in Storia di mio padre (a cura di Costanza Rizzacasa d’Orsogna per Longanesi) in una chiave per certi versi sorprendente. Al punto da risultare arnesi inservibili tanto a chi non si trattiene dal praticare con spregiudicatezza l’uso contundente dei suicidi a fini di revisionismo storico-giudiziario di Mani Pulite, quanto a chi cinicamente sorvola sui destini personali delle persone coinvoltevi e non ammette altro che esaltazione integrale di quella stagione. Non somiglia infatti a una polemica italiota, ma a una sorta di tragedia greca quella evocata da Stefano Cagliari, all’epoca architetto 35enne: a cominciare dal crudele tempismo di un destino che, lo stesso 8 marzo dell’arresto di suo padre per tangenti, vede abbattersi una diagnosi infausta su suo fratello Silvano (che morirà tre anni dopo), e sulla propria moglie Mari l’incurabilità di una malattia che la ucciderà due mesi dopo, lasciandolo solo con un bimbo di 3 anni. Un arresto quasi annunciato dalle cronache sulle indagini, e tuttavia inatteso perché “era un po’ come stare sotto le bombe: si sperava solo che la prossima non colpisse te ma qualcun altro”, ma “nessuno in casa osava parlarne”. Nessuno, salvo l’agghiacciante inconsapevolezza del nipotino che, preso in braccio dal nonno pochi giorni prima dell’arresto, ripete parole ascoltate all’asilo: “In galera! in galera!”, gridò. Rimanemmo tutti di sasso”. Solo l’arroganza di psicologismi d’accatto può pensare di spiegare i motivi per i quali una persona si toglie la vita. E se il libro vi rifugge è anche grazie alla franchezza con cui il figlio racconta il proprio “dolore in quegli anni” nel “pensare non solo che il sistema, che dava soldi ai partiti secondo uso consolidato e illegale, fosse sbagliato, ma che mio padre vi si fosse adeguato e lo considerasse necessario. Mi sentivo tirato da due parti opposte. Ci aveva insegnato a scegliere l’interesse generale (...), ma in questo caso qual era l’interesse generale? Nelle sue lettere la polemica coi magistrati continuava a crescere. Ormai per lui erano il pericolo per il Paese”. È in fondo la stessa lacerazione restituita dalle lettere alla moglie Bruna (morta nel 1998). Quelle nelle quali Cagliari scrive “sono la vergogna della famiglia”; constata che “certamente era molto meglio non commettere alcun reato reale o presunto (…) ma spero che questo lavoro vada avanti con mani più “pulite” delle nostre che non abbiamo saputo (o potuto?) evitare”; e radiografa quanti “non si sono resi conto di cadere in compromissioni irrimediabili e sono stati colti di sorpresa, io tra questi ed è giusto che paghi”. Ma anche quelle in cui addita “l’ideologia del rancore” sotto “l’obiettivo dichiarato” di “questi giudici certamente meritevoli e coraggiosi ma anche ambiziosi di potere e di gloria”, dai quali si sente trattenuto “in violazioni di leggi al solo scopo di farmi rivelare chissà quali segreti”, per “scalzare ciascuno di noi dal nostro ambiente rendendoci inaffidabili in qualche modo pubblico”. È la medesima lacerazione che prova ora a comprendere anche Gherardo Colombo, uno dei pm di Cagliari in quei mesi, quando nella prefazione ragiona di cosa “accada usualmente” a una persona arrestata: “Cagliari si sente perseguitato, io credo, anche perché non può sapere come procedono le indagini, non sa cosa si nasconde dietro le domande, si ritiene vessato e non può vedere che le indagini seguono tempi e modi dipendenti da una serie di variabili a lui sconosciute. Due mondi che non comunicano. La difficoltà sta qui: nell’unire in maniera razionale e umana queste due diverse esigenze, queste due facce del processo penale”. Voleva pagare, dice il figlio, “ma senza coinvolgere altri”: intento incompatibile con il compito dei magistrati di disvelare le ulteriori illegalità intuite in Eni. Cresce così, nota il figlio, una “guerra di nervi” nella quale il padre, “per 31 lunghissimi giorni non più interrogato, quando altri imputati rilasciavano nuove dichiarazioni, le confermava ma non era mai proattivo”. Fino a maturare la percezione soggettiva di non “sentirmela più di sopportare ancora a lungo (...) minacce infamanti, promesse denegate, vita da canile”. E fino all’episodio, rievocato senza enfasi nel libro, degli arresti domiciliari nel filone Eni-Sai prima promessi e poi (secondo il racconto degli avvocati) negati nel parere del pm De Pasquale al gip Grigo, di cui Cagliari non attenderà la decisione (“Anche questa volta ci è andata male e non capisco di preciso perché (…). Non vorrei diventare uno dei pochi capri espiatori”), accennandone alla moglie in una lettera da non aprire però subito: “È ormai molto tempo che penso a questa come l’unica risposta possibile” a “questa tortura della prigione per costringermi a confessare l’impossibile”. Presagio che nel libro, per la prima volta, il cappellano don Luigi Melesi ricollega a un’uscita improvvisa di Cagliari in giugno: “Ci vuole un gesto forte. Se si suicida un detenuto a San Vittore fa un clamore passeggero, ma se si suicidano in dieci cambia il sistema carcerario”. I primi tre anni del diritto all’oblio. Rimossi 4 link ogni 10 richieste di Massimo Sideri Corriere della Sera, 2 marzo 2018 Realizzati in tutto 1 milione di interventi. Le domande dall’Italia sono state 190 mila: quinta rispetto ad altri Paesi europei dove l’esigenza di essere dimenticati è più forte. Alla ricerca dell’oblio perduto: nell’era di Google e della tirannia del presente le persone non vogliono più ricordare, ma essere cancellate dalla Rete. Non siamo in una puntata di “Black Mirror” ma in una vita sempre più quotidiana. Immaginate la “madeleine” di Proust: l’avete fatta cadere per terra e poi l’avete furtivamente raccolta e messa nuovamente sul piatto. Pensavate di averla fatta franca? L’algoritmo di Google lo può ricordare ossessivamente. Deve essere stata questa la sensazione per i 2,4 milioni di cittadini-utenti che hanno chiesto l’esercizio di questo diritto da quando, nel maggio del 2014, è stato introdotto con la sentenza della Corte di giustizia europea a favore dell’imprenditore spagnolo Mario Costeja González (sembra un contrappasso dantesco del Purgatorio: “Voleva esser obliato ma il giudice che gli diede ragione lo condannò al ricordo eterno”. Da allora tutti lo citano. La memoria come un disco rotto trasforma il passato in un perenne presente). L’escamotage - Per un milione e 40 mila europei la richiesta è stata accettata. È come se dalla mappa geografica fosse stata oscurata la Milano degli anni Cinquanta. A voler essere dimenticati sono soprattutto francesi, inglesi e tedeschi con metà delle richieste. L’Italia è quinta dopo la Spagna con 190.643 richieste e 58.825 link “delistati” da Google (il 34,9% sul totale contro una media europea del 43%). Fin dalla sua introduzione il diritto all’oblio ha fatto discutere. Innanzitutto va ricordato che riguarda le informazioni vere, tipicamente articoli di giornali, stralci di libri, informazioni storiche o sentenze. Non stiamo parlando di fake news ma di true news. Inoltre deve riguardare il passato. Non è un caso che quasi 9 richieste su dieci vengano da individui. Per questo è stato trovato l’escamotage della deindicizzazione: la notizia è vera e rimane in Rete (per esempio una pagina di Wikipedia) ma non compare più tra i risultati di Google che, vale la pena ricordarlo, in Europa viene usato in oltre nove ricerche su dieci. Le alternative a pagamento - Le inevitabili storture sono diverse: 1) vale solo per l’Europa; 2) la deindicizzazione avviene solo nel Paese della richiesta. In poche parole basta cercare google.fr per ritrovare ciò che google.it dovrebbe destinare all’oblio; 3) chi ha del denaro può pagarsi la “pulizia” grazie a società specializzate. Oscar Wilde diceva: nessuno è tanto ricco da potersi riacquistare il passato. Oggi è stato ampiamente smentito dalla tecnologia. Se per i casi personali di individui senza rilevanza pubblica la richiesta di oblio può avere senso (nel caso di González era un pignoramento di 15 anni prima), la faccenda si fa molto più delicata per frammenti di fatti storici dove deve prevalere il dovere della memoria: pensate a cosa accadrebbe - per riprendere un tentativo reale - se tutti i partecipanti a un fatto di terrorismo degli anni Ottanta chiedessero e ottenessero l’oblio. Quel fatto verrebbe cancellato e per i giovani potrebbe non essere mai accaduto. In un’epoca in cui la Rete e Google sono la principale fonte di informazioni e gli smartphone potrebbero entrare ufficialmente nelle scuole come strumenti di studio sarebbe come avere tanti libri di storia che cambiano a seconda della nazionalità dell’editore. Una volta li avremmo chiamati libri censurati. Droghe. Varese, la “Giamaica padana” dove si coltiva marijuana legale di Roberto Rotondo Corriere della Sera, 2 marzo 2018 Due aziende, la Legal Weed di Gavirate e la Semi Matti di Orino, e un giro d’affari milionario. Il business stupefacente della cannabis con il Thc sotto lo 0,06%. Forse, un giorno, fumeranno il calumet della pace, ma è singolare che in provincia di Varese i due imprenditori più avanti nel mercato della cannabis legale siano due ex amici che hanno visto finire la loro storia d’affari nel sangue. Dopo l’abisso, per entrambi c’è stata la rinascita e da qui si parte per raccontare la loro storia. I protagonisti sono Giovanni e Marco: il primo oggi è uno degli sviluppatori del marchio Legal Weed, uno dei progetti che stanno nascendo nel mercato miracoloso della canapa legale in Italia; il secondo è un agronomo, negoziante e consulente nello sviluppo della ricerca sui semi per la cannabis legale. Accade tutto nel piccolo paese di Orino, nell’ufficio di Marco Moscatelli, 41 anni, che è anche presidente della Pro Loco. Uno che aveva visto giusto e aveva avviato un progetto di coltivazione tra i prati del posto, con l’aiuto anche delle scuole, in cui mostrava com’era possibile che esistesse una canapa buona, adatta a usi artigianali e ornamentali. Qualche screzio sugli incassi di un’altra loro attività, poi un giorno il “chiarimento”: botte, calci, ferite reciproche, e un colpo di taglierino lungo il collo che Marco sferra a Giovanni Rossi, 35 anni, il socio. Marco lo porta in ospedale, a Cittiglio, va in carcere per tentato omicidio, patteggia a 4 anni, esce di prigione e la vita ricomincia. Cambio di scena, tre anni dopo. Giovanni Rossi, il ferito, oggi è guarito. Lavora a Gavirate, ha quattro soci e con la sua azienda coltiva, in particolare, la tisana fior di canapa: “Ha un principio attivo bassissimo, dello 0,01 - racconta. È praticamente nullo e vendiamo la tisana nei formati da 20, 10 e 5 grammi. Fa bene, rilassa e piace”. Il mercato sta esplodendo, dicono gli esperti, sfruttando la legge che consente la coltivazione di piante sotto lo 0,6 di Thc (il principio attivo della cannabis), ma che non spiega come debba essere poi utilizzata la canapa. In teoria tutti parlano di vendita per uso tecnico. Basta non mangiarla e non accenderla per combustione. “Ho aperto l’azienda con un investimento di 20 mila euro più altri 40 mila raccolti dai clienti che hanno effettuato dei preordini”, prosegue r Giovanni Rossi. “Con le tisane stiamo facendo il salto di qualità, il fatturato supera il milione di euro e vendiamo in tutta Italia. Inoltre creiamo lavoro: ho 15 dipendenti e 120 persone che ruotano nell’indotto. Il mercato sta crescendo e il nostro prossimo passo sarà aprire un marchio in franchising”. Non mancano i contrattempi. Giovanni Rossi, due mesi fa ha comprato della cannabis light in Svizzera. È giunto in dogana, ha mostrato la bolla e il prodotto, ma la Guardia di finanza si è insospettita. Lo ha seguito fino a casa, gli ha sequestrato 114 chili di piante. Ci sono state analisi e ricorsi: tutto era a norma, il Thc era nei limiti e il giudice non ha convalidato il sequestro. I sospetti in dogana nascono da un equivoco: i limiti di principio attivo consentiti in una pianta, in Svizzera, sono più alti rispetto all’Italia. Marco Moscatelli, invece, è noto come un mago dei semi. Una coltivazione l’ha installata sul lago di Varese. L’ex amico e rivale di Rossi ha un negozio a Orino dove vende le sementi per la coltivazione all’italiana e offre un vasto catalogo di attrezzi per coltivare. Ma non solo: “Io faccio ricerca - puntualizza - ho studiato agraria e mi batto da tempo per lo sviluppo di questa pianta in Italia per ottenere una filiera certificata. Lavoro con aziende, faccio formazione ai piccoli agricoltori. Coltivo, ho i campi e le serre, ma in negozio vendo le sementi, le piantine o anche le lampade per consentire la crescita indoor”. Di quello che è accaduto due anni fa parla poco. “È acqua passata, non mi disturba che anche Rossi si occupi di questo mercato, ma ormai siamo in due mondi diversi”. La cannabis light sta ridando a entrambi una prospettiva dopo una terribile avventura. “Tempo fa fondai un negozio che si chiamava Semi Matti - aggiunge Moscatelli -, sono un pioniere del settore che oggi, in Italia, ha superato i 400 punti vendita. La clientela ha tra i 30 e i 50 anni, tante donne e non c’entra nulla con la droga. Chi si vuole sballare la compra da altri parti”. Stati Uniti. Trump e le armi: un cambio di rotta di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 2 marzo 2018 Il presidente percepisce che su fucili e pistole libere in America è cambiato il clima e, con la consueta spregiudicatezza, si rimangia impegni e promesse lasciando senza fiato il partito delle armi. Un anno fa andò a prendersi l’ovazione della convention nazionale della lobby delle armi (Nra): “Con me finisce l’attacco al II emendamento della Costituzione che dura da otto anni: adesso la Nra ha un amico e un campione delle armi alla Casa Bianca”. Ora Donald Trump non solo cambia rotta proponendo misure che fanno infuriare i paladini della libertà di armarsi, ma accusa i parlamentari repubblicani che vede titubanti: “Avete paura della Nra”. Il presidente percepisce che su fucili e pistole libere in America è cambiato il clima e, con la consueta spregiudicatezza, si rimangia impegni e promesse lasciando senza fiato il partito delle armi. Ma non è solo faccia tosta: c’è un clima diverso e Trump cavalca il cambiamento. Che non riguarda tanto l’umore della maggioranza degli americani sulle armi (quello era già cambiato in era Obama) quanto il potere della National Rifle Association. L’America delle due coste e delle grandi metropoli, benché maggioritaria e riformista in materia di armi, era ostaggio dalla Nra, capace di controllare i parlamentari degli Stati dell’interno che sono maggioranza, anche se rappresentano la parte meno popolata del Paese. I giovani attivisti anti armi hanno sbloccato la situazione più che manifestando in piazza, mettendo alle strette le corporation che offrivano sconti ai 5 milioni di soci Nra. Non volendo rischiare il boicottaggio della loro clientela progressista, 24 dei 25 gruppi che avevano concesso agevolazioni alla Nra le hanno ritirate dopo il massacro di Parkland (tra loro la Hertz e le aviolinee Delta e United). Parlare di capitalismo lungimirante che afferra la bandiera dei diritti civili e si sostituisce a un Congresso diviso e titubante è fuori luogo: senza la spinta di #BoycottTheNRA queste imprese non si sarebbero mosse. Ora vengono accusate dai conservatori di averlo fatto solo perché succubi del clima di “correttezza politica” e per paura di perdere clienti. Ma quello delle armi non è un caso isolato: le grandi imprese si erano già impegnate in altre battaglie per i diritti civili denunciando la messa al bando degli immigrati musulmani decisa da Trump e le leggi anti gay di North Carolina e Indiana. Certo, a spingerle, più che l’idealismo, è stata la scoperta che il sostegno di una causa popolare garantisce pubblicità gratuita. Ma nell’America del Congresso paralizzato da anni dai veti incrociati la rivolta delle imprese contro la Nra è una ventata d’aria fresca. E Trump ne prende atto. Slovacchia. Arrestati sette italiani per l’omicidio del giornalista Kuciak di Giuliano Foschini La Repubblica, 2 marzo 2018 Alcuni appartengono alla famiglia Vadalà. Il reporter assassinato aveva scritto dei loro presunti legami con la ‘ndrangheta. Saviano: “Da anni le mafie italiane investono e si nascondono nel paese”. La polizia slovacca ha arrestato sette cittadini italiani per l’assassinio di Jan Kuciak, il giornalista slovacco ucciso nei giorni scorsi a Bratislava insieme alla compagna. Tre degli arrestati erano al centro dell’inchiesta cui il reporter stava lavorando: si tratta dell’imprenditore Antonio Vadalà, calabrese da anni trasferito in Slovacchia, del fratello Bruno e del cugino Pietro Catroppa. Kuciak li aveva accusati di avere rapporti con la ‘ndrangheta e di gestire milioni di euro di fondi comunitari. Stanotte la polizia ha fatto irruzione nella loro casa. A Michalovce e Trebisov sono stati arrestati anche Sebastiano Vadalà, Diego Roda, Antonio Roda e Pietro Catroppa. Vadalà, classe 1975, di Melito Porto Salvo, aveva una vecchia condanna a un anno e sei mesi in Italia per aver favorito la latitanza di Domenico Ventura, boss di ‘ndrangheta ricercato per omicidio. Trasferitosi in Slovacchia, si lancia nell’affare energia e agricoltura mettendo le mani sui fondi europei: presenta un progetto per la produzione di energia da biomasse per 70 milioni ed entra in affari direttamente con Maria Troskova, ex finalista di Miss Mondo 2007, poi funzionaria del ministero dell’Economia e infine consigliera capo del premier Robert Fico. Ieri, dopo lo scandalo, la Troskova si è dimessa dall’incarico. Sull’uccisione di Jan Kuciak è intervenuto su Facebook anche Roberto Saviano, (domani un suo editoriale apparirà domani su Repubblica in edicola e sulla app Rep): “La Slovacchia si accorge delle mafie solo dopo la morte del giovane giornalista Ján Kuciak e della sua compagna Martina Kusnirova”, ha scritto Saviano. “Da anni ‘ndrangheta, camorra e Cosa nostra investono e si nascondono in Slovacchia”. Polonia. Entra in vigore la legge sull’Olocausto di Andrea Tarquini La Repubblica, 2 marzo 2018 Il provvedimento punisce chi parla di coinvolgimento polacco nei crimini della Germania nazista e ha provocato una crisi con Israele. La Polonia della maggioranza nazional-conservatrice ed euroscettica ha definitivamente passato il Rubicone. È entrata oggi in vigore la controversa legge sull´Olocausto. Cioè la legge votata dal Sejm (camera bassa) e poi ratificata dal giovane presidente Andrzej Duda, legge la quale punisce con condanne fino a tre anni di reclusione non solo chiunque assurdamente definisce “campi polacchi” i Lager costruiti e gestiti dagli allora occupanti nazisti tedeschi per attuare l´Olocausto, cioè il genocidio del popolo ebraico, bensì sanziona con la stessa pena anche chi citando magari gli studi documentati di autorevoli storici come Jan Gross e altri ricorda che ci furono anche complicità di singoli polacchi nell´esecuzione della Shoah, e che alcuni pogrom (massacri di ebrei), segnatamente a Jedwabne durante la guerra e a Kielce dopo la fine del conflitto, condotti per antisemitismo da cittadini ebrei. Firmando la legge, il capo dello Stato l´aveva anche inviata alla Corte costituzionale per chiederle di pronunciarsi quanto prima sui dubbi di costituzionalità. Ma intanto la legge, che appunto entra oggi in vigore, ha causato una gravissima crisi politica tra la Polonia da un lato e dall´altro non solo lo Stato d´Israele bensí anche le comunità ebraiche di tutto il mondo, l´Unione Europea, e gli Stati Uniti. Nei giorni scorsi, il premier Mateusz Morawiecki aveva annunciato una apparente marcia indietro sulla legge, e inviato una delegazione in Israele per aprire trattative in merito a livello intergovernativo. Ciò non ha bloccato appunto l´entrata in vigore del testo. Invano, settimane fa, in una lettera aperta pubblicata in esclusiva per l´Italia dall´edizione cartacea di Repubblica, i massimi esponenti della comunità ebraica polacca e altri illustri intellettuali polacchi avevano chiesto al governo un ripensamento e l´apertura di un dialogo sul tema. Secondo quanto detto oggi dal governo, la legge è conforme al quadro istituzionale polacco e dunque non c’è motivo di un suo congelamento in attesa della presa di posizione della Corte costituzionale. Nelle stesse ore il Parlamento europeo affermava che i diritti fondamentali sono a rischio in Polonia, chiedendo alla Commissione di andare avanti con sanzioni severe. L´Ungheria ha promesso dall´inizio di bloccare con il veto ogni decisione Ue contro Varsavia. Iran. Dopo arresti e torture ora le attiviste contro il velo rischiano il carcere di Riccardo Noury Corriere della Sera, 2 marzo 2018 Fino a 10 anni di carcere per “incitamento alla corruzione e alla prostituzione”: a tanto rischiano di essere condannate decine di donne per aver preso parte, dallo scorso dicembre, alle proteste contro l’obbligo del velo. Nelle ultime settimane le autorità iraniane, tra cui i presidenti della procura e del tribunale rivoluzionario di Teheran hanno offeso le manifestanti chiamandole “deficienti”, “infantili”, “pervertite”, “ingannate” e “malvagie” oltre che al servizio di “potenze straniere nemiche”. Il portavoce del potere giudiziario, Gholam-Hossein Mohseni-Ejèi, ha addirittura dichiarato che le donne che manifestano contro l’obbligo del velo stanno “agendo sotto l’influenza di droghe sintetiche” o stanno ricevendo “istruzioni da gruppi del crimine organizzato”. Il 1° febbraio Shima Babaee, tra le promotrici dei “mercoledì bianchi” - in cui le donne si toglievano il velo in luoghi pubblici affollati e lo sventolavano rimanendo in silenzio in piedi su una struttura rialzata - è stata arrestata insieme al marito Dariush Zand nel Khuzestan meridionale. Si trova (o si troverebbe, dato che l’ultimo suo contatto telefonico con la famiglia risale al 6 febbraio) nella sezione 209 del famigerato carcere di Evin, a Teheran. Amnesty International ha lanciato un appello mondiale per il suo rilascio. Il 26 febbraio Narges Hosseini è stata la prima a comparire di fronte a un tribunale di Teheran per l’inizio del processo. Contro almeno un’altra donna, Shaparak Shajarizadeh, è stata formalizzata l’accusa di “incitamento alla corruzione e alla prostituzione”. Si trova in isolamento nella prigione Shahr-e-Rey di Varamin, nei pressi di Teheran. Il suo avvocato ha denunciato che è stata torturata nel centro di detenzione di Vozara, nella capitale, subito dopo l’arresto e che le sono state praticate, con violenza e contro la sua volontà, iniezioni di sostanze sconosciute. Tra le donne arrestate nelle scorse settimane ci sono Vida Movahed e Azam Jangravi, attualmente libere su cauzione, e Maryam Shariatmadari e Hamraz Sadeghi che invece sono detenute. L’annuncio della polizia coincide con una recente recrudescenza di brutalità contro le donne protagoniste dei “mercoledì bianchi”. Il 22 febbraio sui social media iraniani è diventato virale un video in cui un agente di polizia spinge violentemente Maryam Shariatmadari mentre si trova su un blocco di cemento a sventolare il velo. Le ferite dovute alla caduta hanno reso necessario un intervento chirurgico. La donna si trova nella prigione Shahr-e Rey e non riceve cure adeguate. Il 23 febbraio la madre di Maryam Shariatmadari, Mitra Jamshidzadeh, è stata a sua volta trattenuta per 30 ore nel centro di detenzione Vozara di Teheran, dove si era recata per chiedere notizie della figlia. Secondo il suo avvocato, è stata picchiata. Il 24 febbraio Hamraz Sadeghi è stata arrestata da agenti in borghese mentre stava sventolando il velo in piedi su un contenitore per spedizioni. Secondo un testimone oculare, è stata picchiata e la caduta le ha causato la frattura a un gomito. Va ricordato che, secondo il diritto internazionale, la legislazione che in Iran obbliga a indossare il velo costituisce una chiara violazione di una serie di diritti umani fondamentali: è profondamente discriminatoria nei confronti delle donne e delle ragazze, solo alle quali è rivolta, e viola i diritti delle donne e delle ragazze alla libertà d’espressione, di pensiero, di coscienza, di credo religioso nonché quello alla riservatezza oltre che alcuni diritti specifici delle bambine.