Verso la riforma. Il 4 aprile si insedia la Commissione speciale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 marzo 2018 Ulteriore passo importante per quanto riguarda l’iter di approvazione definitiva di una parte dei decreti attuativi della riforma dell’ordinamento penitenziario. Mercoledì prossimo, il 4 aprile, al Senato si insedierà la Commissione speciale per esaminare il Documento di Economia e Finanza (Def) e i decreti legislativi. Lo ha riferito la presidente del gruppo Misto, Loredana De Petris, al termine della conferenza dei capigruppo di Palazzo Madama che si è riunita ieri mattina. “La commissione speciale - ha aggiunto il presidente dei senatori M5s, Danilo Toninelli - nasce principalmente per esaminare il Def e il decreto legislativo sulle carceri”. Entro oggi, alle 12, i gruppi dovranno indicare i componenti della commissione. Inizierà quindi a lavorare dal 4 aprile e sarà composta da 27 parlamentari: 9 del M5s, 5 di Forza Italia, 5 della Lega, 4 del Pd, 2 di Fratelli d’Italia, e uno ciascuno del Misto e delle Autonomie. La nascita della commissione speciale è la decisione più importante della prima conferenza dei capigruppo del nuovo Senato. Si tratta di un organismo fondamentale in attesa che si delinei con chiarezza quali sono i rapporti tra maggioranza e opposizione, quindi la nascita del nuovo governo. Manca ancora la commissione speciale della camera dei deputati. Ma, a causa dell’assenza del governo durante la prima riunione dei presidenti di gruppo, la questione è stata rimandata alla prossima conferenza. Tra i provvedimenti che le commissioni speciali delle Camere saranno chiamate ad esaminare, ribadiamo, ci sono quelli riguardanti una parte consistente della riforma dell’ordinamento penitenziario e che, una volta recepiti, passati i dieci giorni di tempo, il consiglio dei ministri potrà apporre il via libera definitivo. “Queste sono ore decisive in cui le notizie positive si alternano a quelle che ci fanno stare ancora con il fiato sospeso”, spiega Rita Bernardini del Partito Radicale, colei che con lunghi scioperi della fame ha esercitato pressioni per portare a termine il tortuoso iter della riforma. “Infatti - prosegue Bernardini, se la conferenza dei capigruppo del Senato ha deciso di istituire la Commissione speciale affidando alla stessa il compito di rilasciare il parere (l’ultimo, obbligatorio ma non vincolante per il governo) per il varo della prima parte della riforma dell’ordinamento penitenziario, alla Camera i capigruppo hanno rinviato la decisione alla prossima riunione per l’assenza dei rappresentanti del governo. Del perché di questa assenza ci interroghiamo tutti, preoccupatissimi di questa “distrazione” del governo proprio quando il risultato finale è a portata di mano”. Conclude l’esponente del Partito Radicale: “Questa nostra vigile attenzione sta laicizzando passaggi procedurali - la democrazia è procedura! - che altrimenti sarebbero stati sconosciuti ai cittadini, molti dei quali - grazie a Radio Radicale, al Dubbio e ai social network - ora si appassionano persino al timing delle decisioni della conferenza dei capigruppo di camera e senato”. Nel 2017 hanno lavorato oltre diciottomila detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 marzo 2018 Sono aumentati rispetto ai 15.272 del 2016. Il Dap si sta impegnando per la formazione professionale. Mentre si attende che le commissioni speciali esaminino anche il decreto attuativo - ancora non sottoposto al vaglio delle commissioni giustizia - della riforma dell’ordinamento penitenziario riguardante la valorizzazione del lavoro penitenziario, grazie all’impegno del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria l’anno 2017 è stato caratterizzato dall’aumento del numero degli occupati, l’aumento degli stanziamenti e dall’adeguamento della “mercede” (retribuzione oraria) - ferma al 1994 - dei detenuti che lavorano. Il lavoro all’interno degli istituti è ritenuto dall’ordinamento penitenziario l’elemento fondamentale per dare concreta attuazione al dettato costituzionale, che assegna alla pena una funzione rieducativa. Non vi è dubbio che negli anni passati le inadeguate risorse finanziarie e, in particolare, l’emergenza del sovraffollamento che ha colpito il mondo penitenziario non avevano consentito l’affermazione di una cultura del lavoro all’interno degli istituti penitenziari. Ed è proprio in quel particolare momento di difficoltà economica, comune a tutto il territorio nazionale, che l’Amministrazione penitenziaria ha moltiplicato i suoi sforzi per contrastare la carenza di opportunità lavorative per la popolazione detenuta. Oltre a garantire il lavoro per la necessità di sostentamento del detenuto, proprie e della famiglia, lo sforzo maggiore che l’amministrazione penitenziaria sta compiendo è quello di far in modo che le persone recluse possano acquisire una adeguata professionalità. Infatti, solo la formazione di capacità e competenze specifiche può consentire, a coloro che hanno commesso un reato, di introdursi in un mercato del lavoro che necessita sempre più di caratteristiche di specializzazione e flessibilità. Dai dati risalenti a al 31 dicembre del 2017 risulta che il numero totale dei detenuti lavoranti era pari a 18.404 unità, una cifra in salita rispetto ai 15.272 del 2016. Nel corso del 2017 la competente direzione generale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria si è impegnata, con le risorse a disposizione, per razionalizzare le attività delle strutture riproduttive (falegnamerie, tessitorie, tipografie, etc. etc.) presenti all’interno degli istituti penitenziari. Sul capitolo “industria” (sul quale gravano i costi per l’allestimento delle officine penitenziarie, per la manutenzione dei macchinari e per l’acquisto delle materie prime) per l’esercizio finanziario 2017 è stata stanziata la somma di 13.964,005 euro, consentendo di soddisfare le esigenze di arredo e casermaggio richieste dai penitenziari. In particolare, i detenuti impegnati alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria risultano essere, sempre al 31 dicembre del 2017, 15.924 unità. Anche questo dato risulta in aumento rispetto agli anni precedenti. Grazie ai fondi messi a disposizione nel 2017, si è mantenuta l’attività produttiva di letti, sedie, armadi, tavoli e scaffalature, federe, coperte e lenzuola, tute, camici, perfino le scarpe antinfortunistiche per detenuti lavoranti e altro ancora, compreso del materiale per gli operatori penitenziari. Interessante evidenziare anche il lavoro dei detenuti alle dipendenze esterne dell’amministrazione penitenziaria: erano 644 nel 2003, sono stati 1.300 nel 2016 e, sempre a fine del 2017, erano 2.480. Altro aspetto da evidenziare, è la volontà del Dap di sviluppare attività nel settore turistico e alberghiero nelle colonie agricole sarde di Mamone, Is Arenas e Isili. Progetti in campo anche per quanto riguarda le isole di Gorgona e Pianosa, nell’ambito di accordi da sviluppare con l’ente parco Toscano, per attività legate alla tutela del territorio e ed all’esecuzione penale. Al 31 dicembre, comunque, risultano 216 detenuti che lavorano nelle colonie. Per finire, l’anno 2017 è stato caratterizzato da importanti accordi tra il Dap e imprenditori molto noti. Sono così nati diversi laboratori con aziende che prevedono formazione, lavoro e, cosa non da poco, guadagno. Un esempio è quello relativo al un protocollo di intesa - recentemente messo in pratica con Marinella srl e Maumari srl per la creazione di una sartoria presso la casa circondariale femminile di Pozzuoli. Un programma finalizzato alla creazione di un laboratorio di sartoria artigianale per il confezionamento di cravatte per la dotazione al corpo di polizia penitenziaria o da utilizzare come cadeaux istituzionali. L’obiettivo di queste collaborazioni con il mondo dell’imprenditorie è quello di realizzare sensibili economie di spesa e garantire percorsi professionalizzanti per le persone detenute, attraverso l’offerta di percorsi formativi nei settori, finalizzata a creare opportunità occupazionali spendibili anche dopo l’esecuzione della pena. Stasera andiamo a cena in galera? di Enrico Saravalle Oggi, 29 marzo 2018 Dai ristoranti gestiti dai detenuti ai laboratori della Banda Biscotti: così le Case di reclusione aprono le porte a tutti. Una volta al mese i migliori chef toscani guidano i detenuti nella preparazione di una cena gourmet proposta al pubblico. L’incasso è destinato a opere di beneficenza. La vita dietro le sbarre può avere i colori della moda pronta cucita dalle detenute di Milano, Bologna, Lecce. L’aroma del caffè torrefatto alle Vallette o a Rebibbia. Ma anche i buoni sapori dei dolcetti sfornati nel carcere di Verbania o dei menu gourmet preparati a Bollate, a Volterra, a Lecce. È questa la scommessa che si gioca in molte Case di Reclusione italiane: dati statistici alla mano si è visto, infatti, che il tasso di recidiva (la percentuale di detenuti che tornano a delinquere usciti di prigione) crolla dal 70% al 19% se i condannati hanno avuto la possibilità, in carcere, di imparare un mestiere in modo che, scontata la pena, possano inserirsi nel mondo di fuori. Ed ecco che si dà il via a laboratori di cucito, cucina, pasticceria e cartonaggio che possono essere seguiti e apprezzati anche da chi sta fuori e che per qualche ora può entrare tra le mura di una prigione. A Torino, per esempio, nel Carcere Le Vallette, si cena al ristorante Libera Mensa: tutti i venerdì e sabato, viene proposto un menu degustazione con pasta, pane, dolci prodotti all’interno del carcere stesso (liberamensa.org, prenotazione: 345-87.84.980). A Bollate (Mi) si pranza e si cena nelle salette del ristorante InGalera (ingalera.it prenotazione: 334-30.81.189), ma si seguono anche corsi di giardinaggio o si fa shopping di piante e fiori a Cascina Bollate (cascinabollate.org). A Verbania, si possono preparare frollini, baci di dama e lingue di gatto nel laboratorio della Banda Biscotti lavorando insieme ai reclusi (info@ bandabiscotti.it). A Bologna si assiste alle partite di rugby giocate dalla Giallo Dozza, la squadra del carcere della Dozza, coordinata dagli allenatori del Rugby Bologna 1928 (bolognarugby1928.it), mentre a Forlì è aperto il laboratorio Carta Mano Libera dove si realizzano prodotti di carta fatti a mano, dalle bomboniere ai quaderni (direzione@ mailtechne.org). Nella Fortezza di Volterra riparte l’appuntamento con Cene Galeotte: una volta al mese i migliori chef toscani guidano i detenuti ai fornelli, destinando l’incasso in beneficenza (cenegaleotte.it). Sempre a Volterra si può assistere alle rappresentazioni teatrali della Compagnia della Fortezza (compagniadellafortezza.org). Così come a Roma, dove recitano gli attori del Teatro Libero di Rebibbia (quelli che hanno lavorato con i Fratelli Taviani in Cesare deve morire, enricomariasalerno.it), mentre a Lecce si partecipa (detenute e ospiti insieme) alle “cene in bianco” (madeincarcere.it). Spesa in carcere Gli abiti della Sartoria San Vittore (sartoriasanvittore.com) e il pane e le borse di Borseggi (Opera) si comprano al Consorzio Viale dei Mille (consorziovialedeimille.it) di Milano. Allo store Freedhome di Torino (myfreedhome.it) si trovano i dolci della Banda Biscotti, i taralli di Campo dei Miracoli da Trani, i torroni di Sprigioniamo Sapori da Ragusa, il Caffè Lazzarelle dal carcere femminile di Pozzuoli. A Venezia, Process Collettivo vende i cosmetici bio di Rio Terà dei Pensieri e le borse in Pvc di Malefatte. A Roma, da Made in Jail (madeinjail.com) si trovano T-shirt e felpe fatte a Rebibbia. La vetrina di tutti i prodotti è su giustizia.it. Se le procure fanno (un po’) politica piacciono alla politica di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 29 marzo 2018 L’attitudine “governativa” è più marcata quando capita che indagini doverose si trovino incidentalmente ad avere il vento in poppa della volontà politica. Quiz n.1: chi rimarca, sui flussi migratori, le “misure di varia natura adottate” dal “governo italiano” per “assicurare condizioni di sicurezza interne compatibili con la tenuta democratica del Paese”? Il ministro degli Interni Minniti? No, una nota stampa della Procura di Catania. Quiz n.2: chi avverte che “non può non far riflettere che l’ong spagnola Proactiva non si sia occupata del soccorso di migranti sulla rotta Marocco-Spagna dove pure sussistono esigenze umanitarie”? Il ministro degli Esteri Alfano? No, sempre la nota del capo dei pm catanesi Carmelo Zuccaro dopo che il gip Nunzio Sarpietro - nel mantenere il sequestro della nave Open Arms della ong spagnola per l’ipotesi (di competenza però dei pm di Ragusa) di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina di 215 migranti salvati in mare il 15 marzo - aveva escluso l’associazione a delinquere perorata dalla territorialmente incompetente Procura catanese, criticato l’iscrizione di indagati sulla base di loro dichiarazioni come testi senza avvocato, e ribadito che per il diritto internazionale sinora non esiste alcuna zona di ricerca e soccorso di pertinenza della Libia. Reazioni? Curiosamente stavolta nessuno grida all’”invasione di campo” delle toghe. Forse perché va assimilandosi la crescente tendenza di parte delle Procure a intendere e autorappresentare il proprio ruolo come armonico prolungamento della progettualità politica, quasi un tassello della politica interna e a volte persino estera del Paese. Attitudine “governativa” più marcata quando capita che indagini doverose si trovino incidentalmente ad avere il vento in poppa della volontà politica, del presumibile consenso dell’opinione pubblica, del clima che pervade un determinato frangente sociale. Mafie. Con il volere di Dio e di... Bernardo Provenzano di Francesco Petruzzella La Repubblica, 29 marzo 2018 Per anni, inquirenti, studiosi e analisti sono andati alla ricerca del “codice Provenzano”: della formula - cioè - che avrebbe dovuto svelare i segreti di quel particolare fraseggio ricorrente negli scritti del capomafia corleonese, in cui veniva invocato ora Dio, ora la sua benedizione, ora la sua misericordia. “Io con il volere di Dio - scrive il capomafia a Luigi Ilardo - voglio essere un servitore, comandatemi e se possibile con calma e riservatezza vediamo di andare avanti” Poche parole, legate da una grammatica improbabile e alchemica, che hanno fatto versare fiumi di inchiostro, seminato dubbi e alimentato accesi dibattiti, che hanno spinto più d’un autorevole commentatore a interrogarsi su quella singolare forma di linguaggio ieratico che il capomafia ha per lungo tempo utilizzato nei suoi pizzini, per rappresentarsi ai suoi complici e sodali quale guida implacabile, ma devota e timorata di Dio. Questi piccoli pezzi di carta - gli investigatori ne contano 72 nel solo periodo compreso tra il 2001 e il 2004 - costituiscono la summa retorica del capomafia di Corleone; arrotolati con cura, sigillati con nastro adesivo e passati di mano in mano seguendo una precisa e rigorosa catena gerarchica, contengono ordini, suggerimenti e consigli ogni volta diversi. Tuttavia, ogni pizzino è simile ad un altro nella costruzione e nello sviluppo semantico: ogni scritto esordisce con un’invocazione, un’esortazione o un richiamo a Dio, a cui segue l’argomentazione d’interesse e, infine, la formula di chiusura, un saluto o un augurio, il più delle volte allargato alla famiglia del destinatario. “Poi mi dici che con il volere di Dio mi spiegherai di presenza gli accordi fatti con il Dottore - scrive ancora Provenzano a Ilardo - In quando a vederci, con il volere di Dio, aspettiamo il momento opportuno... Argomento, Per quello che si può, siamo tutti addisposizione luno con l’alreo, io spero che faremo sempre con il volere di Dio prima questo puntamento con G. e di tutto il resto, con il volere di Dio, ne parleremo di presenza. Grazie di tutto”. Non meno ispirato, Provenzano si rivolge ad Antonino Rotolo, uomo d’onore e capo della famiglia mafiosa di Pagliarelli, dolendosi dell’impossibilità di poterlo incontrare personalmente: “Carissimo, ci fosse bisogno, che ci dovessimo vedere di presenza per commentare alcune cose. Mà, non potendolo fare di presenza, ci dobbiamo limitare ed accontentare della Divina Provvidenza del mezzo che ci permette. Così con il volere di Dio ho risposto alla vostra cara”. Dopo la sua cattura, inquirenti e magistrati si sono perfino cimentati in un tentativo di esegesi della Bibbia personale che il capomafia teneva sul comodino, ritrovata zeppa di note e appunti nel covo di Montagna dei Cavalli, senza tuttavia che mai si riuscisse a dare di quelle annotazioni e di quei segni vergati sulle pagine sacre, una spiegazione diversa da quella, banale, secondo cui si trattava di semplici pro-memoria utili all’interpretazione dei passi più complessi delle Scritture. Così, invece di sciogliersi in poche battute, il problema si complica enormemente e sollecita nuovi dubbi, nuove domande: cosa sono, cosa rappresentano queste invocazioni, questi abbandoni alla volontà dell’Onnipotente? Davvero il Dio degli uomini può essere anche il Dio di un assassino? Davvero anche i carnefici vivono la medesima prospettiva esistenziale e religiosa delle loro vittime? Le invocazioni al Divino non sono certo un’esclusiva di Provenzano: se “u zu’ Binnu” invocava il Signore e leggeva la Bibbia, anche Michele Greco “il Papa” amava citare versi del Vangelo e tenere le Sacre Scritture sul comodino di casa; invece Leoluca Bagarella, cognato di Riina e killer del gruppo corleonese, Dio lo invocava poco prima di eseguire omicidi, esclamando: “Dio lo sa che sono loro che vogliono farsi uccidere e che io non ho colpa”. E come non ricordare lo stupore degli agenti di Polizia, all’atto dell’irruzione nel covo del capomafia Pietro Aglieri, dopo aver scoperto una cappella appositamente allestita per il latitante, ornata di paramenti sacri, presso cui il carmelitano Frittita celebrava messa e somministrava comunione; le cronache raccontano anche di un disinvolto Luciano Leggio, che da ergastolano spiegava ai cronisti dell’Ansa: “Prego ogni sera prima di addormentarmi… Mi raccomando sempre al padreterno (così chiamo Dio) perché mi aiuti a migliorarmi e mi mantenga disponibile verso tutto e tutti; dopo dico un requiem per i miei defunti e prego perché aiuti i miei cari”. Sono tanti, ancora, gli aneddoti e le storie, tutte simili le une alle altre, in cui mafiosi devotissimi invocano con fervore Dio o la Santa Vergine, al punto da sospingerci a chiederci come possa conciliarsi, come possa ritenersi compatibile questo forte sentire religioso manifestato dagli uomini di mafia, con l’esercizio della violenza e della sopraffazione, con la dottrina di morte di cui essi sono portatori. Il Dio che noi conosciamo è amore e gratuità: Ubi Caritas et amor, deus ibi est, secondo gli insegnamenti evangelici (1 Giovanni, 4, 8). È un Dio - per dirla con il teologo Alberto Maggi - che non domina ma che si mette al servizio degli uomini: e, dunque, nessuno tra gli uomini potrà pensare di dominare altri uomini e, tantomeno, farlo in suo nome. È un Dio al tempo stesso padre e madre - secondo gli insegnamenti di Papa Luciani - che perdona, comprende, accoglie, che è misericordioso e caritatevole. Basta questo, per comprendere che il Dio di Provenzano non è e non potrà mai essere il Dio del Vangelo e delle Sacre Scritture. Piuttosto, è un simulacro vuoto, costruito all’insegna della discrezionalità etica, attraverso schemi di comportamento tribali che mutuano concezioni e modelli della peggiore cultura meridionale, quella del feudo, della robba e dei padroni. È un Dio figlio della cultura del favore, di quella cultura che perpetua la dipendenza dalle catene del potere. È un Dio che impone cieca obbedienza, invece di contribuire a far crescere desiderio di emancipazione e consapevolezza dei diritti. È un Dio creato su misura per giustificare l’accumulazione parassitaria e negare dignità e libertà ad ogni uomo. È un Dio che Provenzano e altri mafiosi prima di lui, hanno pensato di poter utilizzare per costruire l’identità forte e carismatica del capo, secondo uno stile di leadership che richiede il riconoscimento e la legittimazione di un potere assoluto e privo di controllo, sacro e ispirato dal Divino, o quanto meno in linea con la sua volontà. Un Dio falso e bugiardo, che però è tornato e torna utile proprio in un mondo - quello delle mafie - in cui i rituali dell’interazione, i simboli, i segni e i gesti assumono un peso e un rilievo di altissimo valore. Lo aveva capito, primo tra tutti, Giovanni Falcone, secondo il quale “l’inter­pretazione dei segni, dei gesti, dei messaggi e dei silenzi costituisce una delle attività principali dell’uomo d’onore [...]. Tutto è messaggio, tutto è carico di significato nel mondo di Cosa Nostra, non esistono particolari trascurabili”. Alla Chiesa e ai suoi uomini più coraggiosi, resta oggi il difficile compito di contrastare - dopo averla avallata e giustificata per decenni, soprattutto nelle aree del Mezzogiorno d’Italia - questa blasfema rielaborazione teologica, che nel silenzio di una gerarchia ecclesiastica spesso indifferente, talvolta complice, ha consentito a Provenzano e a tanti come lui, di invocare impunemente “il volere di Dio” in favore del popolo delle mafie. Dichiarazioni spontanee senza legale utilizzabili nei riti “contratti” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 29 marzo 2018 Corte di cassazione - Sentenza 28 marzo 2018 n. 14320. Le dichiarazioni spontanee anche se rese in assenza del difensore e senza l’avviso di poter esercitare il diritto al silenzio sono utilizzabili nelle fase procedimentale, nella misura in cui emerge con chiarezza che l’indagato abbia scelto di renderle liberamente, senza alcuna coercizione o sollecitazione. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 14320 del 28 marzo 2018, bocciando il ricorso di un uomo, condannato a due anni di reclusione per ricettazione, che aveva invece sostenuto l’inutilizzabilità delle dichiarazione del coimputato nell’immediatezza del fatto perché rilasciate in assenza del difensore. La Corte chiarisce che tali dichiarazioni hanno un perimetro di utilizzabilità circoscritto alla fase procedimentale e dunque all’incidente cautelare, ma anche - come nel caso specifico - ai riti a prova contratta (senza avere alcuna efficacia probatoria in dibattimento). Una simile disciplina, prosegue la decisione, è compatibile con le indicazioni contenute nella direttiva 2012/13/Ue in materia di diritti di informazione dell’indagato. La normativa europea infatti, prosegue la decisione, si limita ad indicare la necessità di una “tempestiva informazione, lasciando agli Stati membri un margine di discrezionalità nell’apprezzamento della richiesta “tempestività”“. E il legislatore italiano ha ritenuto di individuare il momento in cui è necessario fornire le informazioni di garanzia “in quelli dell’applicazione delle misure cautelari e del compimento di atti ai quali il difensore ha diritto di assistere; ha ritenuto invece di lasciare all’indagato la possibilità di entrare in contatto con la polizia giudiziaria procedente in modo spontaneo e deformalizzato nel corso di tutta la attività processuale”. Si tratta di una scelta, continua la Corte, che trova la sua giustificazione nel fatto che “le dichiarazioni spontanee non sono funzionali a raccogliere elementi di prova, ma piuttosto a consentire all’indagato di interagire con la polizia giudiziaria in qualunque momento egli lo ritenga, esercitando un suo diritto personalissimo”. Passando poi al rito contratto, spiega la Cassazione, esso si risolve “in una espressa e personalissima rinuncia dell’imputato al diritto al contraddittorio, sicché diventano utilizzabili tutti gli atti formati nel corso delle indagini preliminari e, dunque anche le dichiarazioni spontanee, destinate altrimenti a perdere efficacia in caso di progressione processuale ordinaria”. Ma tale rinuncia al contraddittorio “non è in contrasto con il diritto tutelato dall’art. 6 della Convenzione Edu tenuto conto della ratio decidendi che orienta una serie di pronunce della Corte europea”. Ed in particolare la sentenza della Grande Camera Scoppola v. Italia del 17 settembre 2009, in cui la Corte europea ha affermato che “né il testo né lo spirito dell’art. 6 della convenzione Edu impediscono che una persona vi rinunci spontaneamente in maniera espressa o tacita”. Tuttavia tale rinuncia deve essere stabilita “in maniera non equivoca ed essere accompagnata da un minimo di garanzie corrispondenti alla sua importanza”. Per cui, nel caso di specie, conclude la sentenza, contrariamente a quanto dedotto, “la rinuncia al contraddittorio effettuata attraverso la libera e consapevole scelta di definire il processo con il rito abbreviato, sulla base di fonti di prova raccolte unilateralmente dalla pubblica accusa non contrasta con il diritto convenzionale, ma anzi si presenta coerente con i principi reiteratamente espressi dalla Corte di Strasburgo in materia”. Reggio Calabria: giovane muore in carcere, Garante dei detenuti si costituisce parte civile ildispaccio.it, 29 marzo 2018 Una missiva è stata trasmessa al Ministro della Giustizia, ai vertici dell’Amministrazione Penitenziaria, al Commissario Regionale alla Sanità ed alla Direzione generale dell’Asp di Reggio Calabria, da parte del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Reggio Calabria, l’avvocato Agostino Siviglia, avente ad oggetto il decesso di giovane detenuto, Antonino Saladino, avvenuto nella tarda serata del 18 marzo 2018, mentre si trovava ristretto presso il carcere di Reggio Calabria Arghillà. Il Garante, “dopo avere assunto le doverose informazioni del caso, nel rispetto delle indagini attualmente in corso, ed in attesa che le stesse possano fare luce su questa tragica vicenda” ha ritenuto indispensabile scrivere ai vertici dell’Amministrazione della Giustizia e della Sanità calabrese e provinciale competente in materia, “al fine di attenzionare, per l’ennesima volta, chi di dovere in ordine alle complesse problematiche che investono il carcere di Arghillà, chiedendo contestualmente il più tempestivo intervento affinché tragedie come quella in questione non abbiano più a verificarsi”. “Ho comunicato - dice - fin d’ora, che nella qualità di Garante Comunale dei diritti delle persone private della libertà personale intendo costituirmi Parte Civile nel processo che dovrà fare chiarezza su quanto avvenuto”. Il testo completo della lettera. “Il 18 marzo 2018 alle ore 23:55, il Servizio Urgenza Emergenza Medica-118 di Reggio Calabria constatava il decesso in carcere del detenuto Antonino Saladino (classe ‘87), ristretto presso l’istituto penitenziario di Reggio Calabria-Arghillà. La morte del giovane detenuto è oggetto di indagine da parte della Procura della Repubblica di Reggio Calabria, che ne ha già disposto l’esame autoptico. Nel rispetto ed in attesa dei doverosi riscontri delle indagini in corso, per intanto, mi preme segnalare con forza le drammatiche problematicità che investono l’istituto penitenziario di Reggio Calabria-Arghillà, rappresentando, fin d’ora, che nella qualità di Garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale intendo costituirmi Parte Civile nel relativo procedimento penale che dovrà fare chiarezza sulla morte del detenuto. Le vite in carcere non sono vite di serie B. I detenuti non smettono di essere cittadini, e non ci si può voltare da un’altra parte sol perché le mura di un carcere non consentono di vedere cosa avviene al di là di quelle mura. Il carcere non è una società a parte, ma una parte della società. Verità e responsabilità devono e dovranno essere accertate, tanto fuori quanto dentro le mura del carcere. È un dovere che si deve alla memoria del ragazzo deceduto, ai suoi familiari, alla collettività tutta. In coscienza, prima ancora che per dovere istituzionale, invoco pertanto la più solerte attenzione e il più tempestivo intervento da parte delle SS.LL, per quanto di specifica competenza, affinché tragedie come quella odierna non abbiano più a verificarsi. E certamente sarà necessario intervenire con cogenza e tempestività al fine di fronteggiare le complesse e complessive criticità che riguardano l’istituto penitenziario di Reggio Calabria-Arghillà. In particolare, per l’ennesima volta, si segnala che presso il detto istituto: 1) non è garantita la copertura infermieristica h24; 2) il personale medico-sanitario è del tutto insufficiente; 3) la specialistica necessita di implementazione; 4) manca un gabinetto radiologico; 5) manca, è sarebbe quanto mai opportuno, un referente sanitario esclusivo per il carcere di Arghillà; 6) il personale di polizia penitenziaria è del tutto sotto organico. A fronte di una popolazione detenuta di oltre 350 unità, per vero, è indispensabile garantire una copertura sanitaria adeguata, anche mediante mobilità ovvero attraverso la stipula di nuove convezioni per l’assunzione immediata di personale sanitario, prevedendo, come suddetto, un responsabile sanitario esclusivamente per il carcere di Arghillà. Per quanto riguarda, inoltre, il personale di Polizia Penitenziaria, si evidenzia che la recente pianta organica prevede un numero di 160 unità, mentre attualmente sono in servizio solo 109 unità, con un deficit di ben 51 unità. L’istituto di Arghillà è stato negli ultimi anni affollato di detenuti di provenienza da altre regioni; di detenuti extracomunitari; di detenuti tossicodipendenti; di detenuti cosiddetti sex-offender; di detenuti autori di reati comuni e di detenuti di alta sicurezza: in definitiva, si tratta di una frammistione di popolazione detentiva assai problematica da gestire, tanto sul versante securitario quanto su quello trattamentale che, considerate le carenze suddette, finisce per produrre inevitabili e drammatiche disfunzioni. Nelle ultime settimane si sono verificate, infatti, due differenti proteste da parte dei detenuti, che solo il buon senso delle parti in causa ha evitato che degenerassero ulteriormente. Fino a quando, però, una simile garanzia, a condizioni invariate, potrà essere assicurata? L’ultimo tragico episodio della morte del giovane Saladino Antonino deve interrogarci tutti e chiamarci tutti all’assunzione delle rispettive responsabilità. Non si dovrebbe morire così. E, tuttavia, ritengo responsabile, prima di giungere a qualsivoglia affrettata conclusione, attendere i risultati delle indagini da parte della locale Procura della Repubblica. Senza smettere di invocare, beninteso, l’immediato intervento di chi di dovere per risolvere le gravi problematiche sanitarie evidenziate; adeguare le carenze di personale di Polizia Penitenziaria; ripristinare una condizione dignitosa di vivibilità all’interno dell’istituto penitenziario di Reggio Calabria-Arghillà. Per parte mia, continuerò a vigilare con la massima attenzione, perché la situazione carceraria di Arghillà lo richiede, e la mia coscienza personale ed il mio dovere istituzionale me lo impongono. Resto in attesa di doveroso riscontro”. Busto Arsizio: sovraffollamento disumano, capienza di 240 unità, ci sono 450 detenuti di Angela Grassi La Prealpina, 29 marzo 2018 Il carcere scoppia. Ieri, mercoledì 28 marzo, il numero dei detenuti ha raggiunto quota 450, su una capienza accreditata per 240 unità. Prima della sentenza Torreggiani, che segnò la svolta sul fronte sovraffollamento, in cella c’erano ben 460 persone. “Manca poco al cosiddetto sold out - evidenzia il direttore della casa circondariale bustese, Orazio Sorrentini. Io segnalo la situazione ma al momento non abbiamo soluzioni certe”. A quanto pare, l’unica strada possibile al momento sarebbe l’inserimento di letti a castello nelle nuove celle delle sezioni 5 e 6, le prime dotate di servizi interni e con spazi adeguati alle normative. Contando su 21 metri quadrati e dovendo riservare almeno tre metri per ogni persona, si punta ad arrivare a sei detenuti per cella. “Non c’è nulla di ufficiale, ma è possibile che si arrivi a questo - dice Sorrentini -. Se il numero sale ancora, non possiamo fare diversamente. Gli spazi sono la nostra croce. La giurisprudenza purtroppo è oscillante, c’è chi dice che la superficie pro capite debba essere di 3 metri quadrati netti, lasciando fuori dal computo bagno e mobilio. L’amministrazione penitenziaria non tiene in conto questa posizione: per il Dipartimento a Roma siamo in regola. Se ho una cella di nove metri quadrati, posso collocarci tre detenuti, anche se uno quasi non può scendere dal letto. Insomma, l’Italia va oltre quanto indicato dalla grande camera della Corte europea di giustizia”. Si arriva, dunque, a contare i centimetri. Escludendo o includendo gli spazi riservati alla toilette e ai mobili (letti e armadi). “Ogni giudice esprime la sua valutazione - sottolinea Sorrentini - Nell’ottobre 2017, la Cassazione ha praticamente detto lasciamo stare i 3 metri, l’importante è che ci siano elementi compensativi”. Che significa? “Che se i detenuti frequentano la sala studio o fanno ginnastica o vanno in chiesa, va bene. Non stanno in cella. La porta è aperta, possono frequentare attività e corsi in modo che la permanenza, restando poco in cella, non sia così opprimente”. Chi è in cella oggi fatica a far sentire la sua voce, parla invece chi è stato ospite di via Per Cassano in passato. E racconta di condizioni invivibili, di spazi limitati e di “cessi inqualificabili”. Il direttore ricorda che sono quasi terminati i lavori per inserire servizi e docce in ogni cella. Quanto al numero di detenuti, ogni critica è più che corretta: l’allarme cresce. Torino: dalle Vallette alla panetteria, i detenuti con le mani in pasta di Giorgia Gariboldi futura.news, 29 marzo 2018 Dietro il bancone di Farina nel Sacco, Emilia Luisoli sorride e parla con ogni cliente. In panetteria è un continuo via vai: comprano le pagnotte e le focacce, i grissini, i biscotti e i muffin. Chiacchierano, ricambiano i sorrisi e vanno via. Prima Guido, poi Artemisia, alcuni vengono ogni giorno e Emilia li conosce per nome, altri invece entrano per la prima volta. Non sanno che Farina nel Sacco è un panificio particolare, che il forno e i panettieri non sono nel punto vendita di via San Secondo ma dentro la Casa Circondariale Lorusso e Cotugno. Ci pensa Emilia a spiegarlo: Farina nel Sacco sono quattro detenuti che ogni giorno impastano e cuociono pagnotte fresche da vendere lontano dai cancelli delle Vallette, a due passi da Porta Nuova. Poi c’è Emilia e, come lei, gli altri dipendenti della cooperativa Liberamensa, presente in carcere anche con un ristorante e un vivaio. Tutti progetti nati per favorire il reinserimento sociale dei detenuti, insegnando loro un mestiere spendibile una volta liberi e occupando il loro tempo durante la reclusione. L’efficacia di queste iniziative, sempre retribuite, è confermata dalla riduzione dei tassi di recidiva (dal 70 al 30 per cento) per le persone che lavorano durante la detenzione. In più il pane è buono. “Buonissimo”, secondo una cliente, “ancora morbido dopo una settimana”. Emilia conosce il segreto della ricetta: “l’unione tra impegno sociale e qualità del prodotto”. Alle Vallette si impasta solo con farine del Mulino della Riviera di Dronero, dal farro monococco alla classica semola di grano duro. E con un’attenzione particolare al lento processo di lievitazione, rigorosamente naturale e con lievito madre. Gli ingredienti, l’impasto, la cottura: i detenuti imparano il mestiere da zero. “Servirebbe un panettiere esperto che si dedicasse al progetto - dice Emilia - qualcuno disposto ad aiutare nella preparazione e che faciliti la comunicazione tra laboratorio e punto vendita”. Ora a dare una mano ai suoi compagni detenuti c’è un panettiere professionista che continua a panificare anche dentro alle Vallette. Come Manuel, che nel nuovo angolo pasticceria sforna ancora torte e dolciumi di ogni tipo per Farina nel Sacco. È per lui l’hashtag #bravomanu che Emilia scrive sotto le foto che pubblica sul profilo Instagram della panetteria. “Così la sua famiglia può vedere cosa prepara”, racconta. I prodotti delle Vallette li possono vedere ogni giorno anche tutti i clienti di Farina nel Sacco, nel frigorifero, sugli scaffali e sul ban- cone. Insieme al sorriso di Emilia. Milano: carcere di Bollate, la raccolta rifiuti differenziata è realtà felicitapubblica.it, 29 marzo 2018 È stato presentato a “Fà la cosa giusta!” il progetto “Differenzia la tua cella” promosso dal carcere di Bollate per far conoscere ai detenuti la raccolta differenziata. Del carcere abbiamo parlato diverse volte - per esempio qui - e sappiamo ormai come sia un centro all’avanguardia per la rieducazione di centinaia di persone. Infatti proprio da due detenuti che avevano osservato come la produzione di rifiuti fosse alta (parliamo di 19 tonnellate al mese), e come tutti i rifiuti venissero conferiti nell’indifferenziata senza alcuna distinzione, è arrivata alla direzione del carcere la proposta della raccolta differenziata nelle celle per evitare l’enorme spreco di possibili risorse. Racconta Matteo che ha presentato il progetto a Fà la cosa giusta!: “Man mano abbiamo convinto i nostri compagni di cella a dividere i rifiuti”. L’azione di convincimento è stata così efficace che oggi in quasi tutto il carcere si fa la raccolta differenziata e sono 20 i detenuti impiegati per garantire questo servizio. Non solo: come spiega il direttore del carcere Enzo Siciliano, alcuni di loro sono stati assunti dall’amministrazione penitenziaria e lo stesso direttore rileva come la raccolta differenziata abbia un forte valore educativo perché responsabilizza i detenuti nella gestione delle proprie celle. I carcerati hanno inoltre dato vita a un’associazione dal nome Keep the Planet Clean: con questa associazione hanno proposto di avviare la raccolta differenziata nei parchi della città metropolitana di Milano. Partiranno infatti dai giardini del quartiere Barona, dove i cestini della spazzatura verranno modificati dagli stessi detenuti, creando al loro interno i diversi scomparti necessari. Partner importanti e necessari del progetto sono Amsa e Novamont che hanno fornito sacchi in bioplastica mater-bi per poter gestire il fabbisogno di almeno un anno, considerando un consumo mensile di 15.000 sacchi. Dunque, una metropoli più pulita grazie alla rieducazione di detenuti: due passi avanti importanti. Verona: “Woyzeck”, i detenuti portano in scena il dramma di Buchner di Vittorio Zambaldo L’Arena, 29 marzo 2018 Undici detenuti della Casa circondariale di Montorio, hanno portano in scena “Woyzeck”, dramma incompiuto di Georg Buchner. L’evento, aperto solo su invito, si è svolto, nell’ambito del progetto nato nel 2014 per iniziativa della Direzione della Casa circondariale di Verona su proposta di Alessandro Anderloni, realizzato dall’associazione culturale Le Falìe e sostenuto fin dall’inizio dalla Fondazione San Zeno Onlus. Compagnia Teatro del Montorio è il nome che si è dato il gruppo di attori che ha già messo in scena gli spettacoli L’attesa della neve (2014), Senza il vento (2015), Speratura (2016), Invisibili (2017), Mercanti di storie (2017), lavorando a cadenza settimanale e coinvolgendo in quattro anni quasi cento tra detenuti e detenute appartenenti a tutte le sezioni. I testi della compagnia finora sono stati sempre originali e nati da un’attività di drammaturgia collettiva con gli stessi attori e attrici. Non così per il lavoro di Georg Buchner, sul quale gli undici attori-detenuti del Teatro del Montorio si sono cimentati per la prima volta in un classico con adattamento e regia di Alessandro Anderloni, Isabella Dilavello e Paolo Ottoboni. “Cos’è dunque in noi che mente, uccide, ruba?”. Si è mosso da questo interrogativo, dal mistero che inquieta ogni generazione, lo spettacolo che ha tratto spunto da documenti reali: gli atti e le perizie psichiatriche del processo a carico dell’omicida Johann Christian Woyzeck. “Il dramma resta in sospeso. Bisogna fare i conti con la sua incompiutezza, il suo essere frammentario, sfilacciato”, aveva anticipato il regista Anderloni. “L’autore, che morì prima di terminare il suo lavoro di scrittura, ci lascia a confrontarci con il dubbio e con l’assenza di una soluzione/assoluzione. Ci lascia con la vicenda di un uomo e del suo destino di follia in mezzo ad altri uomini che sembrano non fare più caso alla propria follia. Ci lascia senza un giudizio o una condanna, tantomeno una giustificazione”. Dieci minuti di applausi e pubblico in piedi hanno salutato la conclusione dello spettacolo che Anderloni e la direttrice dell’istituto di pena Maria Grazia Bregoli non disperano di poter portare al grande pubblico in un teatro cittadino. L’intreccio fra mala accoglienza e agromafie di Marco Omizzolo La Repubblica, 29 marzo 2018 Questa lunga inchiesta sul mondo delle agromafie e dello sfruttamento lavorativo si conclude indagandone una dimensione forse nuova, certamente ancora poco analizzata. È una dimensione espressione dei continui processi di smantellamento dei diritti del lavoro avvenuti nel corso degli ultimi trentanni, della sotto-determinazione del ruolo dello stato sociale, dello smantellamento delle strutture dedicate alla difesa dei lavoratori e delle lavoratrici migranti e italiani (sindacati, tribunali del lavoro, ispettorati, uffici di collocamento...) e dell’affermarsi di forme di criminalità, organizzata o meno, sempre più pervasive, determinate, evolute, capaci non solo di ritagliarsi nuovi spazi nell’economia formale ma anche di conquistare settori regolati dallo Stato facendoli diventare, troppo spesso e con troppa facilità, “cosa loro”. Non basta una legge repressiva, per quanto importante, come la nuova legge contro i caporali (legge 199/2016), se non si comprende la genesi del fenomeno e la sua natura liquida, trasversale e intimamente criminale. Nel corso dell’ultimo anno, si è assistito ad una saldatura inquietante tra la cattiva prima accoglienza, con riferimento in particolare ai Centri di Accoglienza Straordinaria (Cas) aperti dalle prefetture, e una parte del sistema agromafioso relativo a forme varie di caporalato e grave sfruttamento lavorativo. È evidente che alcune cooperative impegnate anche nella prima accoglienza, contro un diffuso pregiudizio, svolgono un lavoro egregio, manifestando una passione che è un patrimonio importante per questo Paese al quale è necessario associare una crescente professionalizzazione delle loro attività. Altre, invece, agiscono approfittando della persistente inefficienza delle istituzioni, di bandi pubblici a volte scritti male, di controlli poco attenti, di una comprensione parziale, se non inadeguata, del fenomeno migratorio, della dinamica dello sfruttamento lavorativo e del caporalato. In molte aree del Paese, diverse prefetture hanno autorizzato l’apertura di Cas in aree periferiche, spesso rurali, nascoste agli occhi di molti, segregandoli in territori in mano alle mafie, a caporali o, comunque, caratterizzate da un sistema organizzato di sfruttamento lavorativo noto e abbondantemente denunciato. Accade ancora una volta in provincia di Latina. Il Pontino è un territorio che esprime sul piano mafioso un’organizzazione sovra-clanica (una sorta di direttorio informale espressione di un network mafioso di primissimo livello ma leggero nella sua struttura e completamente relazionale) che è sintesi delle varie mafie presenti (mafie storiche come quella siciliana, la ‘Ndrangheta, i Casalesi e la camorra, mafie straniere o ibride come il clan Ciarelli-Di Silvio e quelle direttamente impiegate nella tratta degli esseri umani e nello sfruttamento lavorativo come le mafie rumene e quella italo-punjabi) con ambienti politici (si pensi al caso dell’onorevole Maietta di Fratelli d’Italia, tesoriere del partito della Meloni, invischiato in inchieste giudiziarie per i suoi rapporti con Cha Cha Di Silvio, esponente di vertice del relativo clan, e per i suoi affari neri quando era presidente del Latina Calcio) e imprenditoriali vari (il Latina calcio dell’onorevole Maietta vedeva la presenza al suo interno di imprenditori apicali, importanti aziende agricole pontine, il Mercato Ortofrutticolo di Fondi, la gestione dei porti e in particolare quello di Gaeta, la vivaistica e non solo). Questa organizzazione criminale, con tutte le sue varianti, riesce a cogliere le potenzialità di ogni nuovo settore economico governandone l’evoluzione. In questa provincia e, in particolare, a borgo Sabotino, a pochi chilometri dal capoluogo, circa 90 rifugiati ospitati in un Cas gestito dal consorzio Eriches 29, quello di Salvatore Buzzi, oggi guidato da amministratori giudiziari nominati dal Tribunale di Roma, risultano spesso sfruttati nelle campagne circostanti. Ognuno di loro percepisce circa 20 euro al giorno per raccogliere gli ortaggi coltivati nella zona. Se ne incontrano molti anche nel Sud Pontino, fermi ad aspettare un pulman o in bicicletta mentre tornano dai campi insieme ai braccianti indiani, diretti nei centri di prima accoglienza locali. Ibrahim è un ospite del centro Eriches 29 e lo incontriamo mentre torna dal lavoro in campagna. È stanco ma soddisfatto perché dice che rispetto all’oblio deprimente che vive ogni giorno almeno: “Riesco a guadagnare qualcosa e non dormo tutto il giorno”. Ha poco più di venti anni, un sorriso molto dolce, un corpo forte e occhi pieni di vita. Afferma, con un italiano stentato: “Ho fatto un lungo viaggio. A volte a piedi, altre volte ho pagato alcuni trafficanti che mi hanno portato fino in Libia. Lì ho lavorato, poi con un barcone sono venuto in Italia e mi hanno mandato a Latina. Lavoro in campagna per guadagnare qualcosa. Senza soldi non si vive e io devo mandare soldi a casa ed ho trovato questo lavoro”. Ha lavorato anche d’estate nella raccolta dei cocomeri a volte per quattordici ore al giorno per 20 euro scarsi. Ovviamente non ha alcun contratto e non sono rispettate le norme sulla sicurezza sul lavoro. Viene reclutato da “un amico”. Racconta: “Lui mi chiama e mi dice se devo lavorare per raccogliere o fare altro in campagna”. La storia di Ibrahim e di molti altri ragazzi ospiti del Cas di Latina assume i contorni tragici della truffa nei riguardi dei più deboli. Sostiene infatti che per diverse settimane non è arrivata l’acqua nel centro, i pocket money vengono dati in ritardo e, inoltre, fatto particolarmente grave, sono gli stessi ospiti a pagare 10 euro ognuno per partecipare ai corsi di italiano. Una truffa nella truffa. Un Cas pagato con soldi pubblici che diventa luogo di reclutamento per i caporali del Pontino di giovani ragazzi africani da impiegare come manodopera straordinaria nelle campagne locali. I ragazzi africani hanno presentato un dettagliato esposto in Questura. Hanno descritto i fatti a partire dall’assenza dei riscaldamenti e della lavatrice a cui si aggiungono le attività di reclutamenti di alcuni caporali e di anziani italiani che fanno loro avance sessuali nei bar della zona offrendogli in cambio di 10 o 20 euro. Il consorzio Eriches 29, già coinvolto nel sistema Mafia Capitale, tace, nonostante le inchieste pubblicate anche dall’Espresso e da Avvenire. Quest’ultimo ha ricordato che la Eriches 29, nel novembre 2016, ha ottenuto il “Rating di legalità” dall’Autorità generale della concorrenza e del mercato. Eppure gli ospiti finiscono vittime, ancora una volta, di sfruttatori, caporali e cattiva accoglienza. La ricerca dei richiedenti asilo pontini ha una sua spiegazione nel tentativo di alcuni padroni italiani di trovare nuova manodopera bracciantile da impiegare nelle campagne allo scopo di sostituire, almeno in parte, i braccianti indiani perché considerati, dopo lo sciopero del 18 aprile del 2016, dei ribelli. I primi sono meno consapevoli, oggi, dei braccianti indiani e quindi più ricattabili. La saldatura tra Mala-Accoglienza e caporalato può diventare la punta più avanzata delle agromafie di oggi e di domani. Una saldatura che porta a definire una nuova divisione internazionale del lavoro, con una netta distinzione tra chi è ricco e forte e chi, invece, povero e fragile. Ma non è un fenomeno solo Pontino. Il 5 maggio del 2017, i carabinieri di Cosenza intervengono con successo contro il caporalato e lo sfruttamento dei migranti a Camigliatello Silano, in Sila. Secondo la ricostruzione di quanto accaduto, i gestori di alcuni Cas incassavano i soldi stanziati dal Governo per l’accoglienza che si sommavano a quelli delle aziende agricole alle quali fornivano manodopera migrante da impiegare nelle diverse fasi della loro produzione. Complessivamente sono state individuate 14 persone accusate a vario titolo di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, abuso d’ufficio e tentata truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche. I rifugiati non solo venivano malamente gestiti ma anche prelevati da due Centri di Accoglienza Straordinaria e portati a lavorare nei campi di patate e fragole dell’altopiano della Sila cosentina o impiegati come pastori per badare agli animali da pascolo in cambio di una retribuzione a nero che variava dai 15 ai 20 euro per dieci ore di lavoro al giorno. Chi tra questi ultimi non riusciva a reggere i ritmi di lavoro imposti veniva brutalmente aggredito e umiliato davanti a tutti. Ad altri, invece, anche solo se tardavano nelle loro attività quotidiane, veniva dimezzata la paga concordata. I responsabili del Cas dovranno anche rispondere della manipolazione dei fogli presenza dei rifugiati, che venivano dati come presenti nel tentativo di ottenere i finanziamenti previsti dalla legge a sostegno della struttura di accoglienza. Secondo il procuratore aggiunto di Cosenza, Marisa Manzini, ora si deve “riflettere sul ruolo che devono avere i centri di accoglienza e su queste persone che sfruttano i lavoratori, al di là di chi sia la persona offesa”. Un altro caso accertato e denunciato, ad esempio da Filiera Sporca, è accaduto nel Cara (Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo) di Mineo, in Sicilia, espressione di poteri politici riconducibili all’ex ministro dell’Interno Angelino Alfano. Molti uomini ospiti del centro venivano infatti presi in carico da caporali che li portavano nei campi circostanti a lavorare come schiavi soprattutto nella raccolta dei pomodori. Un altro caso riguarda il Cara di Isola Capo Rizzuto, vicino Crotone. Uno dei centri più grandi d’Europa, già al vertice delle cronache giudiziarie per la sua pessima gestione. Molti ragazzi ospitati, infatti, quando uscivano dal perimetro del centro, peraltro presidiato militarmente, diventavano facile preda di caporali e sfruttatori che li impiegavano nell’industria dell’accattonaggio o in lavori particolarmente gravosi nelle campagne circostanti. Isola Capo Rizzuto è luogo in cui la ‘Ndrangheta, purtroppo, comanda. Nel mese di novembre del 2017 la sua amministrazione è stata sciolta per mafia. È anche uno dei territori più esposti al fenomeno dello sfruttamento lavorativo e al caporalato. Proprio il suo Cara è esempio della capacità della ‘Ndrangheta di penetrare e condizionare anche questo settore. Condizionamento emerso nel maggio del 2017 quando 68 persone sono state destinatarie di un provvedimento di fermo, emesso dalla Procura di Catanzaro, per l’accusa di associazione di tipo mafioso, estorsione, porto e detenzione illegale di armi, intestazione fittizia di beni, malversazione ai danni dello stato, truffa aggravata, frode in pubbliche forniture e altri reati di natura fiscale, tutti aggravati dalla modalità mafiose. I provvedimenti, disposti dalla Direzione Distrettuale Antimafia guidata dal procuratore capo Nicola Gratteri, hanno assestato un duro colpo alla cosca di ‘Ndrangheta della famiglia Arena. Dalle indagini, stando alla ricostruzione fornita dall’autorità giudiziaria, oltre alle tradizionali attività criminali legate alle estorsioni esercitate sul catanzarese e crotonese, la cosca riusciva a controllare la gestione del centro di accoglienza di Isola Capo Rizzuto, gestito dalla Misericordia. Il responsabile di quest’ultima, divenuta una holding dell’accoglienza, è Leonardo Sacco, fermato insieme al parroco dello stesso paese, don Edoardo Scordio. I due sono accusati di associazione mafiosa, oltre a vari reati finanziari e di malversazione, reati aggravati dalle finalità mafiose. Secondo gli inquirenti, la cosca Arena, tramite il responsabile della “Fraternita di Misericordia”, Leonardo Sacco, si aggiudicava gli appalti indetti dalla Prefettura di Crotone per le forniture dei servizi di ristorazione al centro di accoglienza di Isola Capo Rizzuto e di Lampedusa. Appalti che venivano affidati a imprese appositamente costituite dagli Arena e da altre famiglie di ‘Ndrangheta per spartirsi i fondi destinati all’accoglienza dei migranti. Un assalto alla diligenza. Molti di loro, infatti, hanno raccontato di “fare la giornata” salendo sul pulmino del caporale per lavorare sotto padrone in qualche azienda agricola locale. Impiegati nella raccolta delle olive, degli ortaggi e della frutta, piegano la schiena tutto il giorno in cambio di pochi spicci, sotto l’occhio attento della ‘ndrangheta e a quello distratto dello Stato. Ovviamente non mancano altri casi ed episodi inquientanti in altre aree del Paese. Termina così questo lungo viaggio nelle agromafie che ha voluto, sia pure in sintesi, coglierne alcuni aspetti prevalenti dentro una cornice fondamentale che è quella di uno Stato che ha derogato il lavoro alle regole informali del mercato, mortificando spesso diritti dei lavoratori, immaginando che lo sviluppo potesse avvenire lasciando alle forze del capitale, qualunque capitale, la libertà di agire, trasformando i lavoratori, i migranti, i disoccupati, in merce di scambio, braccia buone per i campi, schiene da piegare. Le agromafie ne hanno tratto forza e vigore. Abbiamo provato a mettere a fuoco le contraddizioni del sistema di accoglienza, del biologico e del Made in Italy, insieme alle lentezze del sistema giudiziario italiano, al dramma di migliaia di esseri umani condannati a lavorare come schiavi per il profitto di alcune aziende e, in alcuni casi, come per i lavoratori indiani pontini, addirittura a doparsi, il dramma delle donne vittime di tratta, caporalato e di ricatti sessuali continui, i processi e le mobilitazioni in corso, patrimonio straordinario che i lavoratori e lavoratrici soprattutto migranti mettono a disposizione di questo Paese sul quale poco si riflette. Lo abbiamo fatto seguendo le riflessioni di alcuni studi importanti come il dossier Agromafie dell’Eurispes e Agromafie e caporalato dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil, i dossier di In Migrazione, di Medici Senza Frontiere, Amnesty, Medu e le tesi di molti ricercatori e giornalisti impegnati da anni sul tema. Su tutti merita di essere ricordato, per competenza e stile, Alessandro Leogrande, che da pochissimo ci ha lasciati. Un giornalista e intellettuale che prima di tutti ha compreso l’involuzione delle nostre campagne e la forza economica e criminale delle nuove agromafie. Abbiamo indagato il ruolo della Grande Distribuzione Organizzata e dei Mercati ortofrutticoli di Fondi, Milano e Ragusa in particolare. Ne è venuto fuori un quadro che racconta un pezzo di questo Paese. Un Paese che merita un altro futuro realizzabile solo liberando il lavoro dal peso del ricatto dei padroni e dei padrini. Migranti. La rivolta delle Ong: “non ci fermeranno, altre navi in campo” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 29 marzo 2018 Dopo la convalida del sequestro della Open Arms, la Proactiva sta cercando un’altra imbarcazione. E i tedeschi della Sea-eye scendono in mare con un nuovo mezzo. “Non ci fermiamo e stiamo già cercando un’altra nave, così come non abbiamo mai pensato di riconsegnare le persone ai libici”. Riccardo Gatti, direttore operativo della Ong spagnola Proactiva Open Arms, conferma l’intenzione di non abbandonare i soccorsi in mare dopo la convalida del sequestro della nave ferma al porto di Pozzallo ormai da dieci giorni in attesa che sugli atti si pronunci ora il giudice di Ragusa al quale sono stati inviati gli atti dopo che il gip di Catania ha dichiarato l’incompetenza della Direzione distrettuale antimafia vista l’insussistenza del reato di associazione per delinquere ipotizzato dal procuratore Carmelo Zuccaro nei confronti del comandante e della capomissione della nave. “La nostra colpa - ha ribadito Gatti - è stata di non aver consegnato alla Guardia costiera libica che ci minacciava donne e bambini che sarebbero stati riportati nell’inferno in Libia”. In attesa che gli spagnoli trovino una nuova nave su cui proseguire la loro missione, a dare manforte all’unica nave umanitaria al momento presente nel Mediterraneo, la Aquarius di Sos Mediterranee, arrivano i tedeschi di Sea-eye, anche loro estremamente critici nei confronti dell’operato della magistratura italiana. La Seefuchs, con dieci uomini a bordo sotto la guida del capitano Johann Rieb, ha lasciato Malta e domani raggiungerà la zona di soccorso al largo delle coste libiche alla ricerca di imbarcazioni in pericolo e pronta a soccorrerle. Dice il fondatore Michael Buschheuer: “La minaccia in corso da parte della guardia costiera libica e i tentativi della magistratura italiana di fermare il salvataggio privato in mare non possono impedirci di adempiere al nostro dovere umanitario”. A fianco delle Ong anche l’Oim, l’Organizzazione internazionale migranti. “Nelle ultime settimane si sono verificati gravi episodi che hanno coinvolto migranti e operatori del soccorso che hanno avuto gravi conseguenze, proprio nei giorni in cui sono nuovamente divampate accese polemiche sulle imbarcazioni impegnate in attività di ricerca e soccorso in mare, polemiche che corrono il rischio di fare dimenticare come il salvataggio di vite umane debba sempre essere la priorità”. L’Oim ricorda che, nonostante il calo degli arrivi (-70 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno), “il numero di morti, anche se diminuito in numeri assoluti (727 nel 2017, 358 nel 2018), è in realtà proporzionalmente aumentato del 75 per cento”. L’emergenza umanitaria nel Mediterraneo “resta quindi sempre drammaticamente attuale e il rafforzamento delle operazioni di ricerca e soccorso dovrebbe avere la precedenza su qualsiasi altra valutazione politica”. Così l’Oim ribadisce che la salvaguardia della vita umana “è prioritaria rispetto a tutte le altre considerazioni afferenti la gestione del fenomeno migratorio e che il soccorso di persone in difficoltà è un principio fondamentale di umanità e solidarietà. Migranti. Dietro i libici c’è la Marina militare italiana? di Carlo Lania Il Manifesto, 29 marzo 2018 Ma chi coordina gli interventi della Guardia costiera libica? Tripoli non ha una propria area Sar (ricerca e salvataggio) né dispone di un proprio Mrcc, un centro di controllo per i salvataggi in mare dal quale dare indicazioni alle sue motovedette impegnate, anche in acque internazionali, nel fermare i barconi carichi di migranti. A leggere però il decreto con cui il Gip di Catania ha confermato due giorni fa il sequestro della nave della ong spagnola Open Arms (facendo però decadere l’accusa di associazione per delinquere), sembra che un ruolo importante nell’attività dei militari libici lo abbia la Marina militare italiana. Nel ricostruire l’attività della Open Arms del 15 marzo scorso, quando la nave spagnola riuscì a trarre in salvo 117 migranti strappandoli letteralmente dalle mani della guardia costiera libica, il gip spiega infatti come alle 5,37 del mattino il personale della nave militare “Capri” comunicava alla Centrale operativa della Guardia costiera di Roma che una motovedetta libica sarebbe partita per soccorrere il gommone di migranti segnalato in difficoltà. La “Capri” fa parte della missione italiana in Libia ed è presente nel porto di Tripoli da dicembre del 2017, quando ha avvicendato la nave “Tremiti”. Poco più di un’ora dopo, alle 6,44, sempre la “Capri” conferma a Roma la partenza della motovedetta libica “Gaminez” richiedendo, scrive il gip, “di far allontanare l’unità della Ong (Open Arms, ndr) per evitare criticità durante il soccorso. La nave della ong continua però l’attività di soccorso, provocando la reazione di un addetto italiano della Difesa a Tripoli che, alle 8,56, contatta Mrcc Roma “lamentando - scrive il gip - il comportamento della Open Arms, in quanto lo riteneva contrario al Codice di condotta sottoscritto con il ministero dell’Interno italiano”. A che titolo interviene la Marina, visto che ufficialmente il personale della “Capri” dovrebbe occuparsi di fornire assistenza tecnica alle navi libiche a di aiutare nella costruzione di un (futuro) Mrcc? Sempre il gip scrive inoltre che il coordinamento delle navi libiche “è sostanzialmente affidato alle forze della Marina Militare italiana”. Se il ruolo della Marina dovesse essere confermato, allora quanto avvenuto potrebbe essere considerato come un caso di respingimento collettivo, vietato dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ne è sicuro l’avvocato Alessandro Gamberini, legale della Opens Arms: “Alcune azioni si possono configurare come un respingimento”, commenta il legale. “Nel momento in cui i migranti si trovano in acque internazionali non puoi creare le condizioni, come sembra sia avvenuto con il ruolo assunto dalla nave militare Capri, per riportarli in Libia”. Preoccupazione è stata espressa anche dal segretario dei Radicali italiani Riccardo Magi e dagli esponenti di Possibile e Leu Pippo Civati e Andrea Maestri. Spagna. Il Parlamento catalano: “liberate i prigionieri politici”. di Francesco Olivo La Stampa, 29 marzo 2018 Seduta tesa, dopo l’arresto del leader. Eleggere l’ex presidente comporterebbe rischi penali. Ci sono molti seggi vuoti nel parlamento catalano, al posto dei deputati dei grandi fiocchi gialli. La camera di Barcellona si riunisce oggi per la prima volta dopo l’arresto di Carles Puigdemont e la tensione è evidente. Sulle tribune ci sono i parenti dei “prigionieri politici”, i dirigenti indipendentisti arrestati negli ultimi mesi, detenuti lontano da qui, alle porte di Madrid. Nei corridoi non si sente altro che frasi come “hai saputo niente di lui?”, “quante visite potete fare?”, “gli arrivano le lettere?”. In questa atmosfera, inizia una seduta simbolica, la terza in pochi giorni, carica di emozioni di tutti i tipi. Ci sono i deputati dei tre partiti indipendentisti con i fiocchi gialli sul bavero, compreso il presidente della Camera, Roger Torrent, i parlamentari cosiddetti costituzionalisti che rinfacciano l’avventura, senza cedimenti sentimentali: “Era un colpo di Stato e ora ne pagate le conseguenze” dice Ines Arrimadas leader di Ciudadanos. Gli unici che cercano il dialogo sono i socialisti e i seguaci di Ada Colau, la sindaca di Barcellona, alleata di Podemos. Ma il rumore delle manette impedisce qualsiasi sblocco della situazione. L’idea dell’ala dura dell’indipendentismo era votare presidente Carles Puigdemont, detenuto in Germania in attesa di estradizione. “Non è una provocazione, è il candidato scelto dai catalani alle elezioni di dicembre, spiega la fedelissima Elsa Artadi. Ma il socio Esquerra Republicana non la pensa così: inutile, è il ragionamento, eleggere un presidente che non può esercitare la carica. Ma c’è un tema giudiziario che pesa: votare Puigdemont vorrebbe dire contravvenire a un’indicazione del Tribunale costituzionale spagnolo, con sicure conseguenze per il presidente de parlamento e non solo. Per una scelta simbolica, insomma, altri potrebbero finire in prigione. Così, oggi la maggioranza approva una mozione che chiede la liberazione dei detenuti (“una cosa gravissima, la giustizia è indipendente”, protesta Ciudadanos) e un’altra che ricorda la legittimità delle candidature che i giudici di fatto impediscono. La Catalogna, insomma, resta senza un presidente. C’è tempo un mese e mezzo per trovarne uno. Nelle sale dell’imponente parlamento si fa una previsione che pare concreta: la settimana prossima si troverà un presidente, anche se al momento nessuno lo vuole fare, per i rischi penali ormai quasi sicuri. Il nome, insomma, ancora non c’è. Si sa solo chi non sarà presidente: Carles Puigdemont. Grecia. Crescono gli attacchi razzisti contro i rifugiati di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 29 marzo 2018 Crescono gli attacchi contro i migranti, i rifugiati e gli attivisti dei diritti umani in Grecia. Lo denuncia il Racist Violence Recording Network (Rvrn) nel suo rapporto annuale invitando il governo a una tolleranza zero verso la violenza. “Il numero delle aggressioni è cresciuto ed è compiuto da gruppi organizzati che usano la tattica del colpisci e fuggi” si legge nel testo. Sull’isola di Leros, i richiedenti asilo sono stati attaccati da motociclisti con oggetti taglienti. Una donna incinta è stata presa di mira perché portava il velo. Ad Atene un uomo è stato aggredito alla fermata dell’autobus. L’organizzazione, che è in Grecia dal 2011 per volere delle Nazioni Unite e della commissione nazionale per i diritti umani, ha potuto constatare, sulla base delle interviste, che si sono verificati 102 attacchi nel 2017 contro i 95 del 2016 ma sicuramente le cifre sono più alte dato che molti episodi non vengono denunciati. L’ostilità verso i migranti e i rifugiati è cresciuta in Grecia dalla crisi economica del 2010. Venezuela. Incendio durante rivolta in centro di detenzione, 68 morti La Repubblica, 29 marzo 2018 La tragedia nel quartier generale della polizia a Valencia, nello stato di Carabobo. Almeno 68 persone hanno perso la vita nell’incendio scoppiato durante un tentativo di rivolta in un centro di detenzione del quartier generale della polizia a Valencia, nello stato centrale venezuelano di Carabobo. Alcune delle vittime sono morte carbonizzate, altre soffocate. Carlos Nieto, responsabile di un’associazione di sostegno ai detenuti, ha reso noto che tra le vittime ci sono anche due donne che si trovavano al commissariato per visitare i loro parenti. Fonti ufficiali hanno assicurato che la situazione è tornata sotto controllo. Dopo la tragedia, decine di familiari dei detenuti si sono riuniti davanti al commissariato e sono scoppiati incidenti, sedati dalla polizia con lanci di lacrimogeni. Messico. Attivista e femminista torturata e uccisa di Valentina Santarpia Il Manifesto, 29 marzo 2018 Maria Guadalupe Hernandez Flores, 37 anni, era sparita l’11 marzo. Il 20 marzo il suo copro è stato ritrovato ma solo il 23 i familiari hanno potuto riconoscerlo. L’indignazione delle associazioni femministe: “Era una combattente sociale”. È stata trovata uccisa Maria Guadalupe Hernandez Flores, una femminista lesbica e attivista per i diritti delle donne delle persone LGBT, la cui scomparsa era stata segnalata lo scorso 11 marzo. A darne la notizia su Twitter è l’associazione NonUnaDiMeno, scrivendo: “Dopo Marielle Franco (l’attivista brasiliana uccisa la scorsa settimana, ndr) continua l’atatcco al movimento femminista in Sud America”. Il silenzio della polizia - Il suo corpo, che aveva segni di tortura, è stato ritrovato in una zona della comunità di Arroyo del Durazno, nel comune di Coroneo, Guanajuato. La 37enne era stata vista l’ultima volta l11 marzo, quando aveva preso un autobus per iniziare un viaggio. La scomparsa aveva mobilitato amici e parenti per la ricerca: sui social network si erano moltiplicati gli appelli per cercare di rintracciarla nelle ultime settimane. Quando la sua auto è stata rintracciata qualche giorno dopo, con colpi di arma da fuoco, la paura e la preoccupazione sono aumentate. La donna è stata ritrovata il 20 marzo scorso, come riferisce Desastre.mx, da una coppia che camminava con il suo cane, che scavando nel terreno ha fatto scoprire parti del suo corpo. La coppia ha avvisato la polizia, che non è stata in grado di identificare il cadavere: solo venerdì scorso, il 23 marzo, i parenti dell’attivista hanno riconosciuto il corpo nell’obitorio di Guanajuato. Finora le autorità non hanno rilasciato dichiarazioni su indagini che riguardino l’omicidio. Il caso resta irrisolto, come quello dell’omicidio di Marielle Franco, 38 anni: la consigliera comunale è stata assassinata il 14 marzo con 4 colpi di pistola alla testa. I sicari hanno anche ucciso l’autista e ferito un’assistente. L’indignazione dei movimenti - “Kleo dalla sua trincea ha combattuto per la visibilità delle lesbiche, per un mondo più giusto e dignitoso. Il patriarcato è ovunque, vuole annientarci, l’arma migliore che abbiamo per combatterlo è continuare ad allearci, creando una comunità”; ha detto Tortillerìa Queretana, un’organizzazione femminile di Queretaro. Ha preso posizione anche l’organizzazione Lunas Lesbofeministas, esprimendo “rabbia profonda, indignazione e preoccupazione per l’omicidio della compagna Kelo, lebisca e combattente sociale”.