“La riforma del carcere non è assolutamente un testo salva-ladri” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 marzo 2018 Parla Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone detenute e private della libertà personali. “Chi parla di salva-ladri dimostra di non aver letto il testo che non tocca il 41bis e non riguarda mafia e terrorismo. Temo, tra l’altro, che queste polemiche stiano in realtà creando vane aspettative nei confronti di chi è dentro per associazione mafiosa”. È uno dei giudizi che Mauro Palma, presidente dell’ufficio del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute e private della libertà personali, dà sui “critici” della riforma dell’ordinamento penitenziario che attende ancora il via libera definitivo. L’attesa del via libero definitivo del nucleo principale della riforma penitenziaria, alcune criticità poco conosciute che riguardano gli internati e il 41bis, gli incontri internazionali e i monitoraggi suddivisi su quattro grandi aree riguardante la privazione della libertà. Mauro Palma, presidente dell’ufficio del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute e private della libertà personali, segue tutti questi fronti con grande attenzione. Il 16 marzo scorso c’è stato un ulteriore passo del governo verso il completamento del percorso legislativo di approvazione della riforma penitenziaria. Siamo agli inizi della nuova legislatura, le Camere si sono insediate e manca un ultimo passaggio. Secondo lei ci sono ancora i presupposti per il via libera definitivo? Sono moderatamente ottimista. Rispetto agli altri tre decreti licenziati preliminarmente che devono ancora essere sottoposti al parere delle Commissioni giustizia, per quest’ultimo decreto principale della riforma manca un passaggio tecnico. Siccome il governo non ha accolto in pieno i rilievi delle commissioni, il regolamento prevede che il testo venga rimandato alle commissioni che hanno 10 giorni di tempo per esprimere un parere non vincolante, oppure è previsto un silenzio assenso. Dopodiché, formalmente, deve ritornare al Consiglio dei ministri che può dare il via libera definitivo. L’unico modo affinché l’iter si compia è quello di inviare immediatamente il decreto appena si istituiscono le commissioni, in questo caso probabilmente saranno quelle speciali che hanno lo scopo di dirimere i provvedimenti del governo rimasti in sospeso. In una nota lei ha detto che si tratta del nucleo più atteso perché tende verso un’esecuzione penale che non sia esclusivamente di natura carceraria. Sarà una svolta epocale? Guardi, sicuramente si tratta di un decreto importante, ma ho un po’ la sensazione che ci sia la percezione - sia chi lo dice in termini positivi che in termini negativi - che cambierà tutto. Ricordiamo che diversi decreti innovativi sono rimasti nel cassetto. Eppure ci sono state diverse polemiche. Alcuni giornali e movimenti politici parlano di “salvaladri”. Addirittura, recentemente, il sociologo Nando della Chiesa ha dichiarato che la riforma penitenziaria è un favore che lo Stato concede alle mafie... La mia sensazione è che non abbiano letto bene il testo della riforma. Eppure, dalla legge delega ci sono stati diversi passaggi e mi domando, tra l’altro, perché chi ha tutte queste paure non l’abbia detto prima. Ci sono due punti cardini da evidenziare: non si tocca il 41bis e non riguarda il reato di mafia e terrorismo. Probabilmente la questione è venuta fuori per un cavillo strettamente tecnico riguardante la questione dello scioglimento del cumulo. Facciamo un esempio chiarificatore. Il signor x deve scontare un reato di associazione mafiosa e poi ha altri reati non connessi a quello principale. Quando ha pienamente scontato gli anni relativi al reato di mafia, quelli rimanenti sono di altro tipo e possono essere considerati non ostativi. Quindi, ripeto, che non c’è nessuno sconto per chi commette reati di associazione mafiosa. Temo che queste polemiche infondate, forse dovute dal poco approfondimento, stiano in realtà creando vane aspettative nei confronti di chi è dentro per associazione mafiosa. Il decreto comunque modifica il 4bis, l’articolo dell’ordinamento che vieta ogni concessione dei benefici per alcuni delitti. Certo, lo riporta semplicemente alla sua funzione originaria. Con il passar del tempo, al 4bis erano andati a confluire diversi reati ritenuti gravi e di allarme sociale. Non era questa la finalità iniziale del 4bis e con gli anni, impropriamente, sono stati inseriti reati individuali che non riguardano l’associazione mafiosa e terrorismo. Ma questo decreto principale della riforma, quindi, è lassista nei confronti di chi commette un reato oppure no? Tutt’altro. Più volte ho sottolineato che non porta a concepire le pene alternative come semplici attenuazioni delle afflizioni, ma le vuole proporre come un percorso verso il ritorno sociale. Quindi chiede anche di fare delle cose. In questo punto, secondo me centrale, una persona responsabilizzata è anche più consapevole di ciò che ha commesso. C’è un altro punto del decreto che lo ritengo di vitale importanza. Quale? Quello che equipara la malattia fisica sopravvenuta con l’infermità psichica. Attualmente, sospendere la pena per malattia mentale con l’esistenza dell’art. 148 (che riguarda l’infermità psichica in carcere, ndr), non è più possibile, perché il giudice, secondo quell’articolo, inviava i detenuti negli Opg che per fortuna non esistono più. Quindi l’art. 148 va abolito e nel 147 laddove si parla di malattie somatiche si devono includere anche quelle psichiche. Un principio, quest’ultimo, che viene contemplato dal decreto principale della riforma. Inoltre è un provvedimento che è positivo rispetto a chi opera dentro il carcere, perché chiarisce che di alcune cose la responsabilità è medica e dà un ruolo al personale di controllo anche quando le persone eseguono le misure alternative. Complessivamente sono provvedimenti di buon senso e si tratta, in sostanza, di un ritorno allo spirito originale della riforma. Il testo approvato della riforma tocca indirettamente anche la questione degli internati, figure poco conosciute nell’ambito penitenziario... Partiamo dal fatto che il nostro sistema è stato concepito negli anni 30 come un sistema bifasico: da un lato c’è la pena per quello che hai commesso, dall’altro c’è la misura di sicurezza per l’ipotesi che tu sia pericoloso. Io ho dei dubbi concettuali su un sistema di questo genere, perché mentre nel primo caso interviene su ciò che tu hai fatto, il secondo caso interviene su ciò che potresti fare. Detto questo è chiaro che l’elemento prognostico si basa sempre su ciò che hai commesso nel passato. L’elemento innovativo della riforma incide sulla fase dello sconto della pena: se hai avuto un esito positivo durante la messa alla prova, vuol dire che decade la pericolosità sociale e quindi non ha più senso un eventuale ricorso alla misura di sicurezza. In diverse relazioni lei ha sollevato il problema degli internati in carcere... Sì, e la definisco una “detenzione illegale”. Le faccio un esempio concerto. Io mi sono trovato in situazioni su cui il Dap sta cercando di intervenire. Un soggetto aveva finito di scontare la pena e a quel punto - dato il reato commesso nel passato - gli hanno dato una misura di sicurezza detentiva che era la casa di lavoro. La persona era rimasto però nella stessa cella, non è cambiato nulla: stessa identica situazione da detenuto, nonostante formalmente non lo era più. Altra situazione, altrettanto problematica, riguarda la misura di sicurezza psichiatrica. Dopo il superamento degli Opg, sono state istituite le Rems dove permangono alcune criticità molto forti. La principale è il fatto che ci sono andati anche coloro in misura di sicurezza provvisoria, quando, secondo me, le Rems avrebbero dovuto ospitare solo quelli in misura di sicurezza definitiva. Il risultato è, da una parte, la crescita nelle residenze del numero di persone in misura di sicurezza provvisoria, per le quali è difficile quindi predisporre un progetto terapeutico continuativo, e dall’altra, l’affollamento, per cui si è creata una lista di attesa. Qui arriva la disparità: alcuni attendono il posto da liberi, altri invece rimangono in carcere. Ricordo il caso tragico di Valerio Guerrieri che si suicidò in carcere, nonostante dovesse stare in una Rems. Passiamo al 41bis. Nelle sue recenti relazioni, ha più volte denunciato l’esistenza delle “aree riservate”... Parto dalla mia considerazione che al momento il 41bis non deve essere superato. Ritengo che vada tenuto entro quei limiti previsti dalla Corte costituzione e dalla Corte europea: vanno conservate quelle misure che servono per interrompere le comunicazioni con l’esterno, ma non vanno giustificate le misure di tipo afflittivo. La questione dell’area riservata, secondo me, diminuisce di fatto la vivibilità delle persone. Ciò viene giustificato dall’applicazione dell’articolo 32 del regolamento penitenziario, il quale prevede una separazione del detenuto che abbia un comportamento che richiede particolari cautele dal resto della comunità carceraria o l’assegnazione a istituti e sezioni per motivi cautelari. Ma questa norma secondaria non può comportare, di fatto, la riduzione dei diritti prevista dalla norma primaria. Tra l’altro questa misura - visto che prevede una socialità a gruppi di due - sacrifica anche una seconda persona che non è raggiunta dall’articolo 32. In quest’ultimo periodo ha partecipato a dei convegni organizzati all’estero... Sì, come Garante nazione sono stato invitato a diversi convegni internazionali per fare un confronto con altri Paesi. Pensi che a fine mese sono stato invitato - su indicazione del consiglio d’Europa- dall’Università di Mosca perché alla Russia sono state comminate sentenze sul sovraffollamento carcerario simile alla nostra Torreggiani. Il 12 marzo un suo rappresentante ha partecipato al meeting internazionale sul monitoraggio delle strutture per anziani, tenutosi in Germania. Lei, come Garante, ha anche questo compito istituzionale in Italia? È importante ricordarlo. In base al protocollo Onu contro la tortura, il mio mandato si estende su quattro grandi aree: il penale, polizia e carabinieri, i migranti come i centri e rimpatri, infine c’è l’area che comprende da un lato il trattamento sanitario obbligatorio e dall’altro le residenze per anziani e disabili. Sebbene queste ultime non siano per definizione luoghi di privazione della libertà come gli istituti penitenziari, possono configurarsi, a determinate condizioni, come luoghi nei quali le persone, pur accedendo in modo volontario, sono sottoposte a forme o modi di limitazione o anche di privazione della libertà. Proprio in merito a queste quattro aree, sto facendo in modo che i miei collaboratori siano proiettati nelle discussioni internazionali. Il contesto internazionale sul tema così aspro e difficile della privazione della libertà - ricordiamo che è la massima espressione della forza dello Stato - è importante per capire come lo stesso problema è culturalmente visto diversamente. Le faccio un esempio. Nel 2000 ero appena arrivato nel Comitato europeo contro la tortura e si discuteva dell’abolizione dei cameroni in carcere, perché determinano una gerarchia di forza. Mi ricordo che avevano appena approvato un provvedimento europeo che imponeva l’istituzione delle celle singole o doppie. Accadde che in Turchia, questa imposizione, determinò lo sciopero della fame dei detenuti. Questo perché i cameroni, in quel caso, determinavano la capacità collettiva di respingere gli abusi che subivano. Ho cominciato a capire che prima di uniformare alcune direttive, bisogna prima studiare le culture locali. A maggio presenterà in Senato la relazione del secondo anno di attività. Rispetto a quella precedente, cosa è cambiato? Ci sono state due cose rilevanti. Uno, per quanto riguarda i centri per i migranti, riguarda il decreto Minniti che ha aperto diversi problemi strutturali. Sul piano del carcere, invece, c’è stato il “fiato sospeso”. Se pensiamo all’anno precedente, si erano conclusi gli Stati generali e si era avviata la discussione della legge delega sulla riforma. Questo, invece, è l’anno dell’attesa, il tirare il fiato in attesa del decreto. Dal punto di vista del sovraffollamento, secondo me, è stato meno drammatico come sembrava che fosse in alcuni mesi dello scorso anno. Adesso i numeri si sono stabilizzati intorno al numero alto di 58.000. Quello che temo è, appunto, il “fiato sospeso”. Se non dai delle effettive risposte e non passa il decreto, c’è il serio rischio di un ritorno ai problemi passati. Dacia Maraini: il carcere non una vendetta ma un mezzo per cambiare di Marina Tomarro vaticannews.va, 28 marzo 2018 La scrittrice Dacia Maraini, da sempre sensibile alle tematiche del carcere, è madrina del premio Goliarda Sapienza, a cui ha partecipato come tutor sin dalla prima edizione. Un luogo per riflettere sui propri errori, per poi una volta fuori, ripartire con una vita migliore. Deve essere questo il carcere per la scrittrice Dacia Maraini, madrina del premio Goliarda Sapienza, il primo concorso letterario dedicato ai detenuti, che ha portato coloro che sono in carcere a mettersi in gioco attraverso la scrittura. “Insegnare a queste persone l’uso della scrittura - spiega la scrittrice, che nel 1971 scrisse tra gli altri suoi numerosi lavori, l’opera in prosa “Manifesto dal carcere” - è molto importante perché vuol dire dare loro un nuovo modo di esprimersi che non è la violenza verbale o peggio ancora quella fisica, ma è un raccontarsi ed entrare così in empatia con l’altro che ci sta accanto”. Far circolare i pensieri oltre le sbarre - E nei racconti dei detenuti traspaiono le loro vite, gli errori commessi, ma anche una grande voglia di riscatto “Io credo - continua Dacia Maraini - capire la magia del linguaggio, imparare a costruire il proprio pensiero, li abbia aiutati a leggere meglio in loro stessi e a riflettere su quello che vogliono diventare una volta usciti dal carcere”. E la scrittura diventa quindi un modo per portare oltre quelle sbarre la vita vissuta li dentro e far circolare i propri pensieri. “La premiazione che si svolgerà a Torino il prossimo 10 maggio - sottolinea la madrina di questo evento - è particolarmente significativa, perché aiuta ad avere una maggiore consapevolezza di ciò che deve essere il carcere oggi: non una brutale vendetta, ma un mezzo per cambiare in meglio queste persone, e far capire loro che se capita di sbagliare strada è possibile anche tornare indietro e percorrere quella giusta”. “Nelle carceri agenti come torturatori”. Il Sappe contro i libri nelle scuole medie Il Tempo, 28 marzo 2018 La denuncia del Sindacato autonomo di Polizia penitenziaria contro il testo per le esercitazioni prove Invalsi. Dura protesta del Sindacato autonomo Polizia penitenziaria Sappe, che chiede ai Ministri della Giustizia e dell’Istruzione di sospendere l’adozione di un libro per le classi terze delle scuole medie edito dal Gruppo editoriale Raffaello di Monte San Vito, in provincia di Ancona. Nel capitolo “Le carceri non sono tutte uguali” del libro scolastico “Esercitazioni per le prove Invalsi di italiano-Terza media” di Giovanna Dolcini, edito dal Gruppo editoriale Raffaello, viene fornita una rappresentazione offensiva del carcere e del personale di Polizia Penitenziaria che disinforma, anziché informare, i docenti ed alunni di terza media - spiega in una nota Donato Capece, segretario generale del Sappe. Viene infatti scritto che “il più rilevante elemento di differenziazione tra un carcere e l’altro resta tuttavia un elemento illecito, non previsto da qualsivoglia regolamento. Si tratta dell’uso della violenza da parte dei poliziotti penitenziari, che purtroppo in alcuni istituti viene riscontrata”. È inaccettabile che si permetta che così vengano rappresentati l’istituzione ed il Corpo di Polizia penitenziaria su un libro di scuola di terza media. Per questo abbiamo chiesto di ritirare quel libro che disinforma sulla realtà penitenziaria”. “Queste valutazioni grossolane fanno male a coloro che il carcere lo vivono quotidianamente nella prima linea delle sezioni detentive - denuncia Capece - come le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria che svolgono quotidianamente il servizio con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità in un contesto assai complicato per l’esasperante sovraffollamento, donne e uomini che negli ultimi 20 anni hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 18mila tentati suicidi ed impedito che quasi 133mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze”. Per questo, il Sappe ha ufficialmente chiesto al Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, ai vertici del Gruppo editoriale Raffaello che ha pubblicato il libro ed ai ministri della Giustizia e dell’Istruzione “ogni utile intervento teso a ristabilire l’onorabilità del Corpo di Polizia penitenziaria e dei suoi appartenenti”. Taser, l’elettroshock supera il manganello di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 28 marzo 2018 La pistola elettrica. Da Milano a Catania, in sei città italiane è iniziata la sperimentazione per polizia e carabinieri. Usata negli Stati uniti soprattutto in strada e in carcere, non è un’alternativa alle armi da fuoco, ma può provocare la morte. Il 20 marzo il ministero degli Interni, Direzione anticrimine, ha diramato una circolare diretta a sei questure italiane di grandi città Brindisi, Caserta, Catania, Milano, Padova e Reggio Emilia autorizzandole a una sperimentazione all’uso della pistola Taser. Partiamo dal nome. Perché le pistole si chiamano Taser? Taser International Incorporation è un’azienda americana che ha sede a Scottosdale in Arizona e produce per l’appunto le pistole Taser (per la precisione Taser X26 Ecd) che non sparano proiettili ma usano l’elettroshock. Con la pistola Taser vengono sparate scariche elettriche. Negli Usa è almeno dal 2000 che la pistola Taser viene usata da polizie locali e statali. Come sempre gli Stati uniti fanno da apripista rispetto all’Europa e all’Italia sulle politiche di sicurezza, anche quelle più ardite. Prima di tutto va sgomberato il campo da un equivoco interpretativo. Come l’esperienza statunitense e canadese insegna, la pistola Taser non è utilizzata nella pratica di polizia come alternativa meno pericolosa rispetto all’arma da fuoco, bensì come alternativa più incisiva rispetto all’uso di altri mezzi coercitivi come manette o manganelli non elettrificati. Chiunque sia esperto in ordine pubblico o in operazioni di polizia investigativa potrebbe ben confermare come non si userà mica la pistola Taser di fronte a una persona armata che potrebbe sparare (o che ha una pistola in pugno) in occasione di una rapina, di un sequestro, di un’aggressione o per neutralizzare un terrorista che sta per far esplodere una bomba o che sta per uccidere persone a caso per strada. In questo caso la polizia userà armi da fuoco tradizionali. La pistola Taser sarà invece più probabilmente utilizzata per bloccare persone che fanno resistenza non armata, nelle manifestazioni di piazza, preventivamente contro chi si agita o chi protesta scompostamente. Dunque, come detto, è e sarà un’alternativa al manganello e non alla pistola. Soffermiamoci ora sulle analisi medico-scientifiche: dati ma anche documenti istituzionali sull’uso, l’abuso, i danni e i decessi derivati dall’utilizzo della pistola Taser. C’è un lungo dibattito internazionale con prese di posizione da parte di organismi istituzionali sia in sede di Nazioni Unite che di Consiglio d’Europa. E ci sono inchieste di organizzazioni non governative e di grandi agenzie di informazione straniera. Partiamo da due storie per capire in quale contesto vengono usate le pistole taser negli Usa. Natasha McKenna, come ci ha raccontato Vice, nel febbraio del 2015, era in carcere in Virginia. Era affetta da schizofrenia e molto magra. Si rifiutava di essere trasferita in altra prigione. I poliziotti incaricati del trasporto non si limitano ad ammanettarla, ma di fronte alla sua resistenza, le sparano quattro scosse elettriche. Muore in ospedale e l’autopsia certifica “un delirio associato alla restrizione fisica con l’utilizzo di dispositivi conduttori di elettricità e il contributo della schizofrenia e del disturbo bipolare”. Negli Stati uniti la pistola Taser si usa molto nelle prigioni e nell’ordine pubblico per strada. Nel giugno del 2015 un uomo afro-americano nello Stato di New York muore dopo essere stato colpito con la pistola Taser perché si sarebbe rifiutato, dopo essere andato fuori strada, di uscire dalla sua auto. Secondo un’indagine condotta da Amnesty International sarebbero stati tra il 2001 e il 2012 più di 500 le persone morte negli Usa a causa dell’uso della pistola Taser. Altri dati li fornisce l’inchiesta dei giornalisti investigativi della Reuters, che hanno letto centinaia di certificati autoptici: dal 2000 (quando la pistola Tasers ha iniziato a essere usata dalla polizia negli Stati uniti) fino al 2017 più di 1.000 persone negli Usa sarebbero morte dopo che la polizia le avrebbe stordite con la pistola Taser. In 153 di queste morti la pistola Taser ha causato direttamente il decesso o comunque ha contribuito. Nove su dieci persone stordite con la pistola Taser erano non armate e una su quattro soffriva di disturbi mentali o neurologici. Segno che viene usata principalmente con chi a causa dei disturbi psichici reagisce al fermo di polizia. 712 autopsie su oltre 1.000 visionate hanno documentato che c’è stato l’utilizzo della pistola Taser. L’inchiesta dell’agenzia di stampa britannica è straordinaria. Andrebbe letta e tradotta in italiano. È dell’agosto del 2017. Consigliamo a tutti, compresi coloro che hanno deciso di avviarne la sperimentazione in Italia, di leggerla sul sito della Reuters. La pistola elettrificata dunque può ammazzare se usata contro persone che hanno pregressi problemi cardiaci o disturbi neurologici. Può essere letale per un bambino che è nel grembo della mamma. E non tutte le gravidanze, soprattutto nei primi mesi, sono visibili. Nessuno o nessuna viaggia per strada con scritto in fronte che è malato di cuore o che è in stato gravidanza. La stessa azienda produttrice riconosce che esisterebbe un fattore di rischio pari allo 0,25%. E come se su un qualsiasi prodotto farmaceutico ci fosse scritto che ogni 400 persone che lo usano uno di loro rischia la morte. Quell’azienda farmaceutica, se lo scrivesse nel bugiardino, verrebbe messa fuori legge insieme al suo prodotto. Uno studio dell’American Heart Association, pubblicato sulla rivista medico-scientifica Circulation, ha certificato ben otto morti da uso della pistola Taser X26 Ecd. Il dottor Douglas Zipes, dell’Università dell’Indiana (Krannert Institute of Cardiology) afferma che lo shock da Taser può produrre arresto cardiaco. A questo punto qualcuno potrebbe obiettare: ma cosa rappresentano così pochi morti determinati dalle pistole Taser rispetto al loro massiccio utilizzo quotidiano? Le morti certificate però non sono mica le morti reali, molte restano oscure, le cause non accertate e comunque anche una vita sola merita di essere salvata. Veniamo in breve alle obiezioni e alle condanne degli organismi internazionali che si occupano di diritti umani e prevenzione della tortura. Nel 2014 nel sostenere che vi sia stata una violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea che proibisce la tortura determinata dall’uso di pistole con scariche elettriche, nel caso Anzhelo contro Bulgaria la Corte europea cita il Comitato di Strasburgo per la prevenzione della tortura che tra l’altro afferma che l’uso dell’elettroshock potrebbe aprire la porta a risposte sproporzionate. Anche il Comitato Onu contro la Tortura, a proposito del Portogallo che voleva introdurre l’uso delle pistole Taser nella propria legislazione, ha espresso la propria contrarietà per il rischio che l’utilizzo di questi strumenti degeneri in maltrattamenti. È vero che la circolare si muove nel rispetto della legge 146 del 2014 che introduce la seguente disposizione: “Con decreto del ministro dell’Interno, da adottare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, l’Amministrazione della pubblica sicurezza avvia, con le necessarie cautele per la salute e l’incolumità pubblica e secondo principi di precauzione e previa intesa con il ministro della Salute, la sperimentazione della pistola elettrica Taser per le esigenze dei propri compiti istituzionali, nei limiti di spesa previsti dal comma 1, lettera a)”. Come spesso avviene, lo sport diventa palestra di pratiche repressive che poi travalicano gli obiettivi di partenza. In conclusione, essendoci concreti rischi mortali, sarebbe bene conoscere se c’è stato un decreto governativo, oltre che una circolare, e se il ministero della Salute ha prodotto una sua indagine. Bene sarebbe conoscere i confini della sperimentazione e come evitare che scariche elettriche colpiscano malati di cuore, bambini, donne incinta. Utile sarebbe anche conoscere i costi di tale operazione. Non sarebbe stato meglio e più utile investire quei soldi in formazione, autovetture e logistica non potenzialmente mortale? Caso Zucca, il Csm apre una pratica sulle sue dichiarazioni di Marco Preve La Repubblica, 28 marzo 2018 “Chi coprì i torturatori del G8 è ai vertici della polizia”. Rischia il trasferimento. Frattura nell’Anm: la sezione ligure contro il presidente nazionale Albamonte. Caldarozzi resta numero 2 della Dia nonostante le sentenze europee. La Prima Commissione del Csm dovrà verificare se sussistano o meno elementi per un trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale o funzionale nei confronti del sostituto pg di Genova Enrico Zucca, dopo le sue dichiarazioni contro i vertici della Polizia rilasciate la scorsa settimana durante un dibattito sul caso Regeni. Le dichiarazioni del magistrato per altro hanno aperto un profondo contrasto in seno all’Associazione Nazionale Magistrati con la sezione ligure che ha preso una posizione di sostegno a Zucca, il magistrato che ottenne le condanne per la “macelleria messicana” della scuola Diaz nel 2001, mentre il presidente nazionale Eugenio Albamonte nei giorni scorsi era stato fortemente critico fino a spingersi al punto di ipotizzare parzialità nell’operato professionale del pm del caso Diaz. Ricordiamo la vicenda: Zucca in in convegno all’Ordine degli avvocati di Genova alla presenza dei genitori di Giulio Regeni, dopo un’introduzione tecnica nella quale aveva sottolineato le evidenti differenze fra i due casi aveva sottolineato come l’Italia nel chiedere la verità sul caso Regeni vedesse la propria autorevolezza smorzata dalla decisione di nomine ai vertici della polizia italiana uno dei massimi funzionari condannati per i falsi alla scuola Diaz, secondo i giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo, responsabile di aver coperto i responsabili delle torture al G8 del 2001. Il riferimento riguarda Gilberto Caldarozzi attualmente numero due della Dia, la Direzione Investigativa antimafia, uno dei più importanti centri di potere dell’intelligence italiana. Il Comitato di presidenza di Palazzo dei Marescialli ha disposto l’apertura della pratica in Prima Commissione, competente proprio sui trasferimenti d’ufficio per incompatibilità. A sollecitare la pratica era stato, mercoledì scorso, il presidente della stessa Commissione, il laico di centrodestra Antonio Leone, deputato di Forza Italia. Nel dibattito sorto attorno al caso Zucca fino ad oggi nessuno si è occupato del merito della vicenda, ovvero il caso Caldarozzi, o meglio l’opportunità di affidare ad uno dei poliziotti che, come scrissero i giudici dell’Appello e della Cassazione “hanno gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero”. La Prima Commissione del Csm dovrà verificare se sussistano o meno elementi per un trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale o funzionale nei confronti del sostituto pg di Genova Enrico Zucca, dopo le sue dichiarazioni contro i vertici della Polizia rilasciate la scorsa settimana durante un dibattito sul caso Regeni. Le dichiarazioni del magistrato per altro hanno aperto un profondo contrasto in seno all’Associazione Nazionale Magistrati con la sezione ligure che ha preso una posizione di sostengo a Zucca mentre il presidente nazionale Eugenio Albamonte nei giorni scorsi era stato fortemente critico fino a spingersi al punto di ipotizzare parzialità nell’operato professionale del pm del caso Diaz. Ci ha provato a farlo la sezione ligure dell’Anm con una nota: “Quanto ricordato dal collega altro non è che quanto riportato in varie sentenze della Cedu ed in particolare nelle sentenze del 7 aprile 2015 (Cestaro c. Italia relativa all’irruzione presso la scuola Diaz) e del 26 ottobre 2017 (Azzolina e altri c.Italia relativa ai fatti avvenuti presso la Caserma di Bolzaneto), reperibili sul sito www.giustizia.it del Ministero della Giustizia; ricordato che tali sentenze hanno acclarato in via definitiva che alcuni funzionari ai vertici della Polizia italiana hanno coperto persone che si sono rese responsabili di tortura e che espressamente la sentenza Cestaro ha sottolineato che in caso di condanna vanno rimossi gli imputati per reati che implicano dei maltrattamenti, circostanza su cui il governo stesso non ha fornito informazioni alla Cedu (cfr. sentenza Azzolina); esprimiamo solidarietà al collega Zucca cui si addebita, in realtà, di avere ricordato fatti e circostanze oggettive, che sono appurati in via definitiva dalla giurisdizione italiana e sono riportati in una sentenza della Cedu”. E conclude: “Le citate sentenze evocano vicende che ancora, a distanza di anni, costituiscono una ferita aperta nella coscienza nazionale, vicende che è legittimo voler affrontare e non rimuovere, applicando fino in fondo le leggi, senza che tale volontà possa essere contrastata con la censura di chi la esprime”. Un comunicato che suona come una vera e propria sconfessione delle dichiarazioni di Albamonte che aveva detto: “Un’eccessiva aggressività anche nel commentare i fatti del processo dopo anni potrebbe dare l’impressione di un atteggiamento animoso che ha influenzato le scelte processuali”. In serata da Roma è arrivata una nota dell’Anm nazionale di sostegno a Zucca:”Apprendiamo - spiega l’Associazione nazionale magistrati - che presso la Prima Commissione del Csm è stata aperta una pratica a seguito delle dichiarazioni rese in un pubblico dibattito dal collega Enrico Zucca. Pur nel rispetto delle prerogative dell’organo di autogoverno e al di là di ogni valutazione di merito nelle varie sedi, nel richiamare il perimetro di applicabilità dell’art. 2 della legge sulle guarentigie, chiediamo che tale ultimo strumento venga utilizzato nei limiti previsti dalla norma e che non si trasformi in un veicolo di censura del diritto di critica e della libera manifestazione del pensiero, con possibili conseguenze sull’esercizio della giurisdizione”. Da segnalare che fra le tante manifestazioni di solidarietà a Zucca provenienti anche da magistrati di tutta Italia, c’è su Facebook la proposta di Salvatore Sinagra, magistrato che lavorò a lungo a Milano e che prima di andare in pensione fu presidente della sezione di Corte d’Appello che condannò i poliziotti della Diaz. Sinagra si chiede provocatoriamente se all’interno di Magistratura Democratica esista ancora quello spirito che negli anni ‘60 spinse “nel 1969, cinquantotto magistrati di Md a inviare al Pg della Cassazione la dichiarazione di corresponsabilità con Gianfranco Amendola, pretore sottoposto a procedimento disciplinare per avere indagato per omissione in atti d’ufficio il cattedratico di medicina legale di Roma Cesare Gerin che non depositava la perizia che lo stesso Amendola gli aveva affidato. Che ne è di quella Md?” La melanzana rubata che ci costa 8.000 euro di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 28 marzo 2018 In Italia si moltiplicano le cause intentate per motivi assurdi e si accumulano pendenze che non si riesce a sbrigare. In Cassazione nell’ultimo anno sono circa 106 mila. Può una melanzana costare ai contribuenti 8.000 euro? Certo, ci sono questioni di principio che non hanno prezzo. Ed è ovvio che la magistratura deve esser libera di andare avanti con una causa giudiziaria anche se dovesse costare un milione. Ma solo se si tratta, appunto, di una questione di principio fondamentale. Non per una melanzana rubata nel campo di un contadino che, per non coprirsi di ridicolo, non aveva neppure sporto denuncia. Eppure così è andata: Simone Saba, rubato nel lontano 2009 l’ortaggio (1,20 euro al chilo, oggi) è stato protagonista di tre processi finché la Cassazione, finalmente, ha chiuso la faccenda per la “tenuità” del reato. Il tutto a spese, come spiegano le cronache, della collettività. Compreso il difensore dato che il ladruncolo era nullatenente. Se si trattasse di una curiosità bizzarra, amen. Il guaio è che il costosissimo tormentone è solo l’ultimo di una lunga serie. Che ha visto la Cassazione trascinata nel gorgo di processi demenziali. Come quello sul bucato steso ad asciugare: “Qualora i panni sciorinati invadano con la loro parte pendente o l’acqua gocciolante il terrazzo alieno ci si trova di fronte a una compressione del godimento del proprietario sottostante?”. O sull’asina andata a brucare sul campo del vicino: anni di udienze e scontri dal primo grado al secondo e su su in Cassazione finché i giudici avevano rinviato tutto al primo grado perché, per quel reato, l’asina solitaria andava “considerata mandria”. Per non dire di altre cause avviate con le motivazioni più assurde. Dalla permalosissima signora che querela la vicina perché le ha mandato un Sms con scritto “Perepe qua qua qua qua perepe” fino al suocero che fa causa per truffa alla nuora rea di aver messo in tavola agnolotti comprati e non fatti in casa e così via... Deliri. Tanto più in un Paese dove la Cassazione, dice l’ultimo dossier di Studio Ambrosetti, continua ad accumulare pendenze che non riesce a sbrigare: “Circa 106mila rispetto alle 103mila dell’anno precedente”. “Causa che pende / causa che rende”, recita un vecchio adagio degli avvocati più cinici. Certo è che ancora una volta torniamo a rimpiangere Eleonora, la giudicessa d’Arborea che alla fine del Trecento stabilì nella “Carta de Logu”: “Vogliamo e ordiniamo che al fine di limitare le spese ai sudditi ed ai litiganti circa vertenze o liti che non superano i 100 soldi sia vietato appellarsi a Noi o ad altri funzionari regi”. L’ex senatore Caridi scarcerato dopo venti mesi: “mancano i presupposti” di Francesco Grignetti La Stampa, 28 marzo 2018 I giornali dell’estate di due anni fa fecero i titoloni: scoperta una Cupola segreta della ‘ndrangheta. Fu scomodata anche la legge Anselmi sulle associazioni segrete, per sette capi occulti del gotha criminale, oltre alla normativa Antimafia. Uno di questi era Antonio Caridi, all’epoca senatore di Forza Italia. Il 6 agosto 2016 per Caridi fu chiesto e ottenuto l’arresto. Ma due giorni fa, dopo 20 mesi trascorsi in cella e due sentenze della Cassazione, il tribunale della libertà di Reggio Calabria ha preso atto che non ci sono le condizioni per una detenzione. “Il mio caso - si sfoga l’ex senatore - dimostra che il sistema è sbagliato. Ci sono voluti 20 mesi e ben due sentenze di Cassazione per riconoscere che un’accusa gravissima, di far parte del gotha della ‘ndrangheta non ha fondamento. Il Senato invece decise in pochi giorni senza avere neppure il tempo materiale di leggere e capire le carte”. L’ipotesi stessa della Cupola segreta a questo punto è indebolita. “In carcere - prosegue Caridi - ho compreso quanto può essere ingiusta la custodia cautelare che è sentenza senza condanna. Per me, oggi, è solo il primo passo, da libero, per dimostrare l’infondatezza dell’accusa”. Il processo “Gotha” ai presunti dirigenti della ‘ndrangheta, infatti, va avanti. Caridi resta indagato per associazione mafiosa. Secondo l’accusa, Caridi sarebbe stato un docile strumento della mafia reggina fin dai primi passi in politica nel 1997. “Soggetto strumentale rispetto alle finalità della Cupola”, lo definiscono. E un’accusa così pesante lo aveva portato in carcere. Nell’agosto 2016 una maggioranza anomala che andava da M5S alla Lega, passando per il Pd e Sel, ha autorizzato il carcere per il senatore. In definitiva esiste o no una Cupola segreta della ‘ndrangheta che a Reggio Calabria tutto muove, in politica e nell’amministrazione? La Cassazione scrive: “Il dato di presupposizione cui l’intero procedimento muove, e cioè l’esistenza di una struttura mafiosa e segreta, capace di condizionare la vita pubblica di una regione della quale avrebbe fatto parte Caridi, è stato considerato provato, seppur a livello indiziario, con una motivazione strutturalmente monca”. Campania: il Garante dei detenuti in visita nelle carceri regionali linkabile.it, 28 marzo 2018 Il Garante dei detenuti Samuele Ciambriello si è recato nella Casa circondariale di Vallo della Lucania Oggi a Santa Maria Capua Vetere, domani nel carcere di Secondigliano e venerdì a Poggioreale. Questa mattina, il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Campania, Samuele Ciambriello, si è recato presso la casa circondariale di Vallo della Lucania, istituto destinato ai sex offender, dove, attualmente, sono 49 le persone ristrette e prestano servizio 39 agenti di Polizia ed una educatrice. Nella visita, il Garante è stato accompagnato dalla Direttrice Mariarosaria Casaburo, dal Commissario Capo Piergallini Guido e dal Vice Comandante Perri Francesco. “I detenuti sono prevalentemente definitivi nonostante l’istituto sia “Casa circondariale” - ha spiegato Ciambriello; esso offre la possibilità di seguire corsi di alfabetizzazione primaria, per detenuti stranieri ed analfabeti, fino al completamento della scuola dell’obbligo. Vi è poi un corso di informatica, seguito da 20 partecipanti, ed un corso di “ricreo” che mira a stimolare la creatività e la ridefinizione del sé”. “Mi ha colpito positivamente vedere che, nelle celle, ci fosse un bagno con una doccia ed anche il bidet, una cucina a conduzione familiare, arredi che possono sembrare scontati ma non lo sono affatto in altre realtà - ha detto Ciambriello, nell’istituto c’è un clima familiare, che è positivo a livello relazionale ed educativo. A tal proposito, - ha aggiunto - è necessario un sostegno maggiore di tipo psicologico e, in alcuni casi, anche psichiatrico. È necessario, inoltre, creare un ‘pontè con l’esterno, con le istituzioni locali, le cooperative le associazioni del territorio, per permettere ai detenuti di avere esperienze lavorative anche all’esterno. In una realtà del genere - ha concluso il Garante dei Detenuti - sarebbe opportuna anche una maggiore presenza della magistratura di sorveglianza, eventualmente anche attraverso Skype, così come avviene in altri istituti”. Oggi pomeriggio, il Garante dei Detenuti si è recato nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere; domani pomeriggio, insieme con l’assessore regionale alle politiche sociali, Lucia Fortini, si recherà in visita nel carcere di Secondigliano; infine, venerdì alle ore 14,00 parteciperà alla Via Crucis nel carcere di Poggioreale. Modena: situazione del carcere Sant’Anna, diverse le criticità comune.modena.it, 28 marzo 2018 “Impegno a sollecitare il Ministero perché provveda a superarle”. L’assessora Urbelli ha risposto in Consiglio comunale all’interrogazione di Pacchioni e Baracchi, Pd. Il carcere di Sant’Anna, che conta 492 detenuti a fronte di una capienza di 369, soffre di un’ulteriore criticità nella carenza del numero sia del personale di sorveglianza rispetto agli organici definiti sia degli educatori. A questa si aggiunge che, dalla fine del 2017, manca un direttore assegnato e il ruolo è ricoperto pro tempore dal direttore della Casa di sorveglianza di Castelfranco e la lunga assenza del magistrato di sorveglianza su cui da tempo il Comune di Modena e il Clepa, il Comitato locale per l’area dell’esecuzione penale adulti, hanno sollecitato il ministero della Giustizia. Il dare il quadro della situazione al carcere di Sant’Anna è stata l’assessora al Welfare e Coesione sociale Giuliana Urbelli che, lunedì 26 marzo, ha risposto in Consiglio comunale all’interrogazione sul tema, proposta dalle consigliere del Pd Chiara Susanna Pacchioni e Grazia Baracchi, sottolineando che “resta fermo l’impegno a convocare il Clepa e a sollecitare nuovamente il Ministero perché provveda a superare le criticità”. L’interrogazione sulla situazione del carcere, illustrata in aula dalla consigliera Baracchi, metteva in evidenza, oltre al problema del sovraffollamento, “la cronica carenza di educatori penitenziari, ridotti da otto a cinque in pianta organica e, di quei cinque, operativi solo in tre, il più basso rapporto tra educatori e reclusi a livello regionale, con conseguenza ancora più dannose se si considerano le due sezioni speciali, una per reati sessuali e l’altra a custodia attenuata, che necessitano di percorsi di recupero e di trattamento specializzati e intensificati”. I numeri che riguardano i detenuti, dettagliati dall’assessora Urbelli, dicono che su 492 persone attualmente in carcere, 289 sono straniere. Le donne sono 32, di cui 15 straniere. Dei detenuti, 189 dichiarano abuso di droghe e 91 di alcool. Nel 2017 la Regione Emilia Romagna e il Comune di Modena, gli enti a cui spettano in particolare la promozione degli interventi volti al recupero e al reinserimento dei carcerati, hanno stanziato a questo scopo complessivamente 110 mila 397 euro (73.913 la Regione, 36.484 il Comune) per realizzare attività volte a migliorare le condizioni di vita interne al carcere e consolidare gli sportelli interni al carcere che, anche attraverso un servizio di mediazione linguistica, gestiscono le informazioni per i nuovi giunti, i detenuti in uscita e sui progetti di rimpatrio volontario assistito. Le attività per migliorare le condizioni di vita sono realizzate da sei associazioni di volontariato: Porta aperta in carcere; Gruppo carcere città; Csi Modena; Uisp Modena; Teatro dei venti; Rinnovamento dello spirito-Cooperativa giorni nuovi. I volontari sostengono i detenuti con l’erogazione di piccoli contributi per i più indigenti, in particolare per l’acquisto di generi alimentari e abbigliamento; attraverso momenti di ascolto e di relazione e i progetti di accoglienza dei familiari e dei bambini in visita a sostegno della genitorialità; seguendo le pratiche amministrative per i detenuti; organizzando attività sportive e teatrali e anche, ha sottolineato l’assessora, garantendo la distribuzione di prodotti per l’igiene per sopperire alla mancata fornitura da parte dell’amministrazione penitenziaria. Dopo aver chiesto la trasformazione in interpellanza, Marco Cugusi, Art1-Mdp-Per me Modena, ha affermato che “come denunciamo da anni, il carcere non è più un istituto di espiazione e di riabilitazione ma una discarica sociale che raccoglie non solo chi si macchia di reati gravissimi ma anche chi ha commesso piccoli reati contro il patrimonio”. Per il consigliere sono inoltre “vergognosi” il numero “ridicolo” degli educatori che vanifica l’aspetto riabilitativo e “gli orari lunghissimi e l’assenza di sicurezze e garanzie per gli agenti di custodia”. Per il Pd, Chiara Susanna Pacchioni ha osservato che “il carcere non deve essere una realtà avulsa dalla comunità in cui è collocato. È necessario facilitare, anche attraverso l’istruzione e l’apprendimento di una qualche competenza lavorativa, il reinserimento di queste persone che devono poter svolgere un ruolo nella società per non cadere nella recidiva”. Nella replica, Grazia Baracchi ha ribadito l’importanza dei percorsi di rieducazione sottolineando che la carenza del personale di sorveglianza “impedisce ai volontari che entrano in carcere di svolgere il loro compito. Bisogna quindi provare a lavorare tutti insieme per risolvere i problemi”. Firenze: abolizione dell’ergastolo, l’appello della Comunità cristiane gonews.it, 28 marzo 2018 Le Comunità cristiane rivolgono un appello a quanti sono contrari all’ergastolo, alla pena di morte viva. Ecco il testo dell’appello: “Vi scriviamo questa lettera aperta per invitarvi ad aderire e partecipare a una iniziativa che si svolgerà venerdì 30 marzo alle 20:30 davanti al ex carcere delle Murate a Firenze. Promossa dalla chiesa Valdese di Firenze, dalla Comunità delle Piagge e dall’Associazione Liberarsi, i quali hanno sempre sostenuto la campagna contro il carcere a vita (l’ergastolo) e per questo sostengono il giorno di digiuno nazionale venerdì 30 marzo 2018 contro la pena dell’ergastolo. Riteniamo necessario scuotere le coscienze, sensibilizzare l’opinione pubblica, e mettere in luce la situazione reale di tutti gli ergastolani detenuti presso tutte le carceri del mondo a cominciare dalle 1677 persone alla pena dell’ergastolo nelle carceri italiane. Ti invitiamo a questa passeggiata-veglia contro l’ergastolo partendo dalle Murate arriverà fino al centro sociale evangelico in Via Manzoni e lungo la strada faremo delle tappe con testimonianze di ergastolani e riflessioni sul tema di Letizia Tomassone, pastora della chiesa valdese, don Alessandro Santoro, prete della Comunità delle Piagge e Giuliano Capecchi dell’associazione e si spera altri/e dei convenuti. Pastora Letizia Tomassone - Chiesa Valdese di Firenze Don Alessandro Santoro - Comunità delle Piagge di Firenze Giuliano Capecchi - Associazione Liberarsi Vallo della Lucania (Sa): il Garante dei detenuti visita l’istituto destinato ai sex offender Il Roma, 28 marzo 2018 Il Garante dei detenuti della Regione Campania, Samuele Ciambriello, ha visitato ieri mattina il carcere di Vallo della Lucania (Salerno), istituto destinato ai sex offender dove attualmente sono ristrette 49 persone e prestano servizio 39 agenti di Polizia e una educatrice. Nella visita, il Garante è stato accompagnato dalla direttrice Mariarosaria Casaburo, dal commissario capo Guido Piergallini e dal vice comandante Francesco Perri. “I detenuti sono prevalentemente definitivi nonostante l’istituto sia Casa circondariale - ha spiegato Ciambriello - esso offre la possibilità di seguire corsi di alfabetizzazione primaria per detenuti stranieri e analfabeti fino al completamento della scuola dell’obbligo. Vi è poi un corso di informatica, seguito da 20 partecipanti, e un corso di “Ricreo” che mira a stimolare la creatività e la ridefinizione del sé”. Ciambriello si è detto “positivamente colpito” dall’aver visto che “nelle celle c’è un bagno con una doccia e anche il bidet, una cucina a conduzione familiare, arredi che possono sembrare scontati ma non lo sono affatto in altre realtà. Nell’istituto - ha aggiunto - c’è un clima familiare che è positivo a livello relazionale ed educativo. A tal proposito è necessario un sostegno maggiore di tipo psicologico e, in alcuni casi, anche psichiatrico. È necessario, inoltre, creare un ponte con l’esterno, con le istituzioni locali, le cooperative le associazioni del territorio per permettere ai detenuti di avere esperienze lavorative anche all’esterno”. Secondo Ciambriello “in una realtà del genere sarebbe opportuna anche una maggiore presenza della magistratura di sorveglianza, eventualmente anche attraverso Skype, così come avviene in altri istituti”. Nel pomeriggio Ciambriello si è recato al carcere militare di Santa Maria Capua Vetere (Caserta). Domani pomeriggio, con l’assessore regionale alle politiche sociali Lucia Fortini, si recherà in visita nel carcere di Secondigliano a Napoli; infine, venerdì alle ore 14, parteciperà alla Via Crucis nel carcere di Poggioreale. Milano: i detenuti diventano guide volontarie del Touring club Redattore Sociale, 28 marzo 2018 Progetto realizzato nel carcere di Bollate. Un piccolo gruppo ha fatto da apripista ad altri reclusi che verranno coinvolti nei prossimi mesi, dopo un corso di formazione. Rossetti (associazione Dentro Fuori Ars): “Molti di loro vogliono riscattarsi e dobbiamo dare loro questa opportunità”. “Ho potuto conoscere un mondo diverso da quello a cui ero abituato. A contatto con la bellezza, la cultura e le persone”. Julian Dosti è uno dei quattro detenuti diventati guide volontarie del Touring Club Italiano (Tci) a Milano. Due volte al mese si sono occupati dell’accoglienza dei visitatori nella chiesa di San Fedele e nella Casa Museo Boschi di Stefano. Un piccolo gruppo, che ha fatto da apripista ad altri detenuti che verranno coinvolti nei prossimi mesi, dopo un corso di formazione. Il progetto è promosso dall’associazione Dentro Fuori Ars e dal Tci. “Questo progetto rafforza molto quel valore di cittadinanza che deve riguardare tutti, anche chi è in carcere - afferma Filippo Del Corno, assessore alla Cultura del Comune, che ha presentato oggi l’iniziativa a Palazzo Marino -. Il diritto di cittadinanza si esprime anche nella tutela del patrimonio artistico e storico della città”. I detenuti sono stati affiancati dai volontari del Tci. “Siamo soddisfatti dell’esperienza -sottolinea Gianmario Maggi, coordinatore nazionale dei volontari del Touring- e intendiamo andare avanti”. Oltre ad altri detenuti del carcere di Bollate, nei prossimi mesi saranno impegnati nel progetto anche alcuni reclusi di quello di Opera. “Mi piacerebbe allargare il progetto nelle carceri di ogni regione - dice Patrizia Rossetti, presidente di “Dentro Fuori Ars. Ci sono molti detenuti che vogliono riscattarsi e dobbiamo dare loro questa opportunità”. Roma: dopo il birrificio dei detenuti arriva il pub che promuove l’economia carceraria gamberorosso.it, 28 marzo 2018 Il progetto è nato nel 2014, per iniziativa di Semi di Libertà, che ha coinvolto i detenuti del carcere di Rebibbia in un percorso di formazione e inclusione applicato alla produzione di birra artigianale. Tra alti e bassi, ora l’attività è pronta a crescere: ad aprile inaugura a Roma il Pub&Shop di Vale la Pena. Vale la Pena. Un progetto di inclusione - In via Eurialo 22, quartiere San Giovanni a Roma, si lavora per completare l’allestimento di un nuovo pub, un piccolo locale di una cinquantina di metri appena, che presto (entro la fine di aprile) spillerà birre artigianali. Dov’è la notizia? Se è vero che la piazza capitolina ha visto proliferare nell’ultimo lustro birrerie con cucina, beershop e brewpub che hanno recepito il fermento del movimento della craftbeer italiana (in un panorama favorevole sin dagli albori, quando di publican illuminati e mastri birrai, entro i confini nazionali, si parlava ben poco), Vale la Pena non sarà un locale come tanti, ma il coronamento di un progetto di integrazione sociale e professionale nato ormai 4 anni fa. Un progetto nato per iniziativa della onlus Semi di Libertà, e del suo presidente Paolo Strano, che della produzione di birra intuiva le potenzialità formative e aggregative. Così, a settembre 2014, con la benedizione dell’allora ministro dell’Università e della Ricerca Stefania Giannini, nasceva il Birrificio Vale la Pena, ospitato nei locali messi a disposizione dall’Istituto Sereni di Roma, così che anche gli studenti della scuola beneficiassero del progetto. Ma i principali destinatari delle attività di produzione, sin dall’inizio, sono stati i detenuti ammessi al lavoro esterno del carcere di Rebibbia, al fine di contrastare le recidive, pari al 70% tra chi non gode di misure alternative: un dato sensibilmente ridotto (2%) tra chi viene inserito in un percorso produttivo. Perché la birra? - Ma perché proprio la birra? “Nel 2012, quando abbiamo cominciato a ragionare sull’idea, abbiamo intuito le potenzialità di un segmento in crescita, nell’ambito di un settore come quello enogastronomico già particolarmente adatto alle attività di inclusione sociale. E data la difficoltà di ottenere sovvenzioni avevamo bisogno di un prodotto che potesse vendersi bene, così da autofinanziarci”. Ma la scelta, oculata, ha investito anche sull’importanza di comunicare il progetto a un pubblico quanto più trasversale possibile: “La birra è convivialità, mentre ne bevi una possiamo comunicarti i nostri temi. E in questo caso la divulgazione è fondamentale quanto la capacità di abbattere le barriere sociali e i preconcetti che molti si portano dietro”. Così il birrificio dei detenuti iniziava a produrre, sotto la guida di esperti birrai, da Agostino Arioli a Valter Loverier. Una piccola produzione, visti i problemi di spazio e la difficoltà di reperire attrezzature, che comunque ha portato nel tempo a sperimentare molti stili diversi, ad alta e bassa fermentazione. Con vezzi da birrificio artigianale evoluto che portano a spingersi oltre alla pils e alla ipa, proponendo pure un’ampia gamma di birre stagionali - come la Saison d’Hiver Sentite Libbero (i nomi delle etichette sono sempre molto ironici, da Fa er bravo a er fine pena, alla ReciDipa), amaricata con cicorie spontanee da agricoltura sociale - e speciali perfettamente calate nella filosofia del progetto. Progetti e difficoltà, dalla RecuperAle al pub - Le ultime cotte, per esempio, hanno portato a perfezionare la RecuperAle, una pale ale chiara che utilizza il pane raffermo recuperato: “Un progetto di utilizzo degli scarti in cui crediamo molto: alla prima cotta col pane in arrivo dall’Hilton, è seguita quella di inizio 2018, col pane di Eataly. E l’idea di contrastare lo spreco ci piace così tanto che stiamo pensando di mettere in produzione altre varianti di RecuperAle, magari con le verdure in eccedenza”. Tanta voglia di fare dunque - “una città difficile come Roma ti porta alla necessità di attivare tutte le sinapsi” - anche se i problemi in passato non sono mancati: “Finora ci siamo dovuti occupare di sopravvivere, in fieri abbiamo scoperto che alla scuola che ci ospita mancavano dei permessi, quindi la produzione del birrificio è stata bloccata per due anni, fino all’inizio del 2016. Ma per non interrompere l’attività abbiamo affittato a spese nostre impianti esterni, e questo ci ha portato a indebitarci. Solo due settimane fa sono arrivati due nuovi fermentatori, che ci consentiranno di triplicare la produzione, raggiungendo i 400 ettolitri all’anno: comunque numeri irrisori, ma questo ci consentirà di ripartire con una marcia in più”. Ecco dunque, il momento giusto per investire in un locale proprio (finora Vale la Pena è stata in vendita da Eataly, e presso alcuni beer-shop), chiaramente non intestato alla Onlus - nel frattempo diventata impresa sociale, ma comunque impossibilitata a distribuire utili, ma a una nuova srl che unisce tre soci. Uno, il promotore, è proprio Paolo Strano: “La gestione di un locale nostro ci permetterà di coinvolgere nel progetto un maggior numero di detenuti. Al birrificio ora abbiamo due persone fisse, più il mastro birraio e il responsabile commerciale, e in questi anni siamo riusciti a formare 12 detenuti, che frequentano corsi di 4 mesi e mezzo, oltre a ragazzi autistici e persone in difficoltà in arrivo da altre associazioni con borse lavoro”. Il pub&shop. Come sarà - Al pub di Vale la Pena, invece, potranno lavorare 5 o 6 persone, tra detenuti in permesso (obbligati a rientrare entro le 23.30) ed ex detenuti già passati nel programma, che consentiranno all’attività di stare aperta fino a tarda notte: “Ho cercato uno spazio che potesse favorire il rientro in carcere, lungo la linea della metropolitana”, conferma Paolo, che non ha trascurato alcun dettaglio. A presiedere ci sarà una figura chioccia, e anche il birraio darà una mano a gestire l’attività: “Il core business sarà legato alla vendita della birra, in bottiglia e alla spina, con 6 vie a disposizione più una pompa. Poco meno di una trentina i posti a sedere. Ma cercheremo pure di fare del locale un negozio di economia carceraria, con i formaggi del caseificio avviato nella sezione del carcere femminile di Rebibbia da Vincenzo Mancino, e il caffè Galeotto, sempre dal carcere romano”. Per la proposta gastronomica, invece, la scelta è vincolata dall’impossibilità di avere una canna fumaria: “Proporremo taglieri e gastronomia fredda o riscaldata”. Con apertura iniziale dalle 16 a tarda notte. Ma già si sogna in grande, a cominciare del festival dell’economia carceraria che Paolo vorrebbe organizzare, la prossima estate, a Roma, negli spazi della Città dell’Altra Economia: “Sarebbe il primo del genere, per ora è solo un’idea, ma sarebbe una bella opportunità per riunire tutte le realtà che lavorano con serietà all’interno delle carceri italiane”. E poi c’è il sogno nel cassetto, riunire la produzione e la vendita in un unico spazio in città, aperto al pubblico: “Un brew pub con ristorazione con un progetto solido alle spalle. Un sogno per ora, ma la nostra rinascita è appena iniziata”. Venezia: Luigi, il paladino dell’ordine picchiato dieci volte in due anni di Andrea Pasqualetto Corriere Veneto, 28 marzo 2018 Nel 2017 Il comitato di cittadini che presiede ha presentato 670 esposti: “Filmo e denuncio i reati. Voglio lottare da cittadino e da cristiano, per un mondo migliore”. Combatte contro spacciatori, abusivi e sfruttatori. Dove ci possiamo vedere, presidente? “All’ospedale, oggi sono qui”. Cos’è successo!? “Pestaggio”. Come dire, il solito. Per Luigi Corò la corsa all’ospedale è una specie di appuntamento che ricorre ogni venti, trenta giorni. Dipende dal livello di tensione sociale e dai muscoli di chi ha di fronte, normalmente uno o più spacciatori. Quattro pestaggi in due mesi, dieci in due anni. L’ultimo è di quelli che non si dimenticano: “Mi sono ritrovato addosso una bicicletta in piena corsa e quando ero a terra me le hanno date con una catena di ferro. Ho male alla spalla, al braccio, al collo... Per fortuna c’era Giacomo che riprendeva”. Risultato sanitario: 15 giorni di prognosi. Risultato operativo: ennesima denuncia del degrado in cui versa una certa zona di Mestre, quella vicino alla stazione. Gli iscritti: 1.200 in Veneto - Corò, 54 anni, ex assessore del Comune di Mirano, è un dirigente d’azienda ma, soprattutto, presiede un Comitato di cittadini, il Marco Polo (Cmp), che ha dichiarato guerra ai vari mali di Venezia, spaccio, abusivismo, prostituzione, sporcizia e ogni forma di illegalità percepita dalla gente. Ha stabilito un record: 670 fra esposti e querele presentati nel solo 2017. “Per sgominare organizzazioni criminali e mafiose - sogna Corò. Abbiamo fatto ritrovare importanti quantità di sostanze stupefacenti, smantellato covi di drogati, di attività illegali e di abusivismo”. Non sono quattro gatti. “Il Cmp conta 624 iscritti nel solo Comune di Venezia, dove abbiamo la sede, e oltre 1.200 in tutto il Veneto. Si tratta di privati cittadini, con età media superiore ai quaranta, ci sono professionisti, operai, medici, tecnici, disoccupati, molti padri e molte madri di famiglia e ci sono anche studenti”. “Persona buona” - Andiamo dunque all’ospedale civile di Venezia. Appuntamento al reparto riabilitazione. Nella saletta d’attesa c’è una donna. “No, non sono la fidanzata di Luigi ma l’ho accompagnato... lo stanno visitando”. Ha l’aria triste di chi pena. “Non posso vedere quel video, mi viene una cosa qui che non ha idea… Perché io lo conosco bene Luigi ed è la persona più buona del mondo, solo che si è messo in testa di far rispettare la legge, i diritti, come tutti noi, ma lui è sempre in prima linea…”. Lei è Patrizia e fa parte della stessa associazione. Nel frattempo arriva Corò. Faccia da ragioniere e fisico da rugbista, ci viene incontro a torso nudo con i vestiti in mano: “Per non farti aspettare”. Ha una grande cicatrice sulla spalla. “Tredici viti e tre placche, tra spalla e omero... Quella sera erano due italiani, un albanese e un magrebino. Con Giacomo stavamo rientrando da un controllo antidroga”. Parla di Giacomo Pelagatti, professione chimico, responsabile del settore scientifico dell’associazione. I quattro avevano preso di mira anche lui. Il quale, mentre lo picchiavano, filmava la scena con mano tremolante. Perché il mantra dell’associazione è quello: filmare, per documentare e denunciare. “Filma tutto, mi raccomando” - Incerottato e dolorante, Corò non demorde: “Voglio lottare da cittadino e da cristiano, per un mondo migliore. Me lo chiede il mio senso civico. Dobbiamo avere il coraggio di difendere i nostri valori. Diciamo che io, vedovo e senza figli, posso permettermi di rischiare più degli altri”. Saliamo con lui in vaporetto. Accende il telefonino, che inizia subito a suonare. “Ciao cara, cosa succede lì? - chiede all’altra - Non mollare eh! Inseguili e filma. Filma sempre tutto, mi raccomando...”. Mette giù e spiega: “È una dei nostri, un medico, ha visto un paio di spacciatori”. Arriviamo a Mestre, dove Corò ha un appuntamento in caserma. “Vado a chiarire”. Lì fuori lo attende Pelagatti che ha il suo stesso, rigido aspetto, per via del collare che gli tiene la testa. “Conseguenza del pestaggio”. La filosofia di Pelagatti è quella del capo: “C’è un calo valoriale impressionante, un becero materialismo, la città non è più vissuta dai residenti. Io non voglio vergognarmi della mia terra, dove la gente fugge e le attività chiudono”. Sono determinati, intransigenti, paladini di un ordine d’altri tempi. “Città moribonda” - Domanda: non esagerate un po’ con questi video? “Ah, pure. E cosa dovremmo fare, far finta di non vedere cosa succede in questa nostra moribonda città? Io, Luigi e gli altri forniamo un servizio gratuito e a rischio della nostra incolumità”. Loro vogliono mettere ordine in città. Controllano, inseguono, filmano. Gli altri si arrabbiano e li menano. Como: “Cucinare dal fresco”, il ricettario dei detenuti del Bassone giornaledicomo.it, 28 marzo 2018 L’intero ricavato sarà nuovamente investito per realizzare nuovi lavori. Il ricettario dei detenuti è l’ultimo progetto ideato e realizzato proprio dai carcerati del Bassone di Como. La presentazione del progetto sarà giovedì 5 aprile alle 18 presso la Ubik di Como. La pubblicazione non ha un costo di copertina, ma è a offerta e l’intero ricavato sarà nuovamente investito per realizzare nuovi lavori. Il ricettario dei detenuti - È in distribuzione in questi giorni il ricettario “Cucinare dal fresco”, una pubblicazione con 21 ricette studiate dai detenuti iscritti al laboratorio “Parole da condividere”. Si tratta di un mix di ricette e, nel contempo, di racconti di vita, storie e ricordi, ma soprattutto, di tanta speranza. Un gruppo di ragazzi come tanti che hanno deciso di mettersi in gioco in un laboratorio fatto non solo di parole, ma di idee e di genialità, perché cucinare in carcere non è come farlo in una cucina da chef stellati. Hanno parlato, spiegato e scritto “con gusto”, per il piacere di portare la loro cucina oltre le sbarre. I tanti cuochi che hanno aderito al progetto con la voglia di “evadere dalla monotonia”. Il progetto - Il progetto, nato poco dopo le festività natalizie, è la storia di come si trascorrono le festività lontani dalla famiglia. In queste pagine, infatti, i detenuti hanno voluto parlare di come ci si organizza per alleviare le sofferenze spadellando e condividendo pranzi e cene. È una carrellata di idee e di suggerimenti da riproporre nelle tavole di tutte le famiglie, ma con una qualità in più: la solidarietà e la voglia di riscattarsi da una vita fatta di difficoltà. “Cucinare al fresco” è un’idea nata nell’ambito del laboratorio “Parole da condividere”, coordinato dalle giornaliste Laura D’Incalci e Arianna Augustoni. Il commento dei partecipanti - “La cucina è sempre stata la nostra grande passione - commentano i detenuti - Sin dall’inizio abbiamo messo in pratica le diverse doti condividendo e insegnando qualcosa, dispensando qualche suggerimento”. Ora questa passione per alcuni è diventata anche un lavoro. Ogni giorno, infatti, preparano i pasti caldi per i detenuti. Qualcuno spiega anche che ai fornelli si sente libero, ma qualcun altro racconta che ci si arrangia con quello che si trova e che è permesso tenere. Poche cose, ma utili per non far mai mancare nulla di quello che c’è. Spoleto (Pg): studenti e detenuti per la messa in scena del “Simposio” di Platone spoletonline.com, 28 marzo 2018 In occasione della “Giornata Nazionale del Teatro in carcere” in concomitanza con la 58° Giornata Mondiale del Teatro, si è svolta stamani, all’interno della casa di reclusione di Maiano, la rappresentazione teatrale del Simposio di Platone, interpretata dalla compagnia “Sinenomine” e dagli studenti del Liceo Classico dell’IIS Sansi Leonardi Volta accompagnati dall’Arpa di Rachele Spingola. La rappresentazione è avvenuta alla presenza dei rappresentanti istituzionali degli Enti aderenti al Polo inter-istituzionale dell’Umbria. Nel pomeriggio si svolgerà la prima riunione del Polo Interistituzionale dell’Umbria - che ha la propria sede regionale all’interno della Casa di Reclusione di Maiano - e che opera per coordinare iniziative a favore dell’integrazione della popolazione detenuta, al diritto ad un percorso scolastico adeguato alle capacità effettive di ognuno, alla condivisione, scambio e circolazione delle esperienze in atto, della documentazione, dei materiali, delle ricerche di settore, all’istituzione di un canale diretto tra supporto scolastico, progetti per il ricongiungimento familiare e inserimento lavorativo dei detenuti. Questo progetto, che nasce a partire dalla celebrazione della V Giornata Nazionale del Teatro in Carcere e della 58’ Giornata Mondiale del Teatro va ben oltre l’evento celebrativo: nell’incontro tra ragazzi del Liceo Classico e studenti detenuti del Liceo Artistico, tra scuola “al-di-là” e scuola “al-di-qua” delle sbarre, tra luce e ombra, tra suoni e silenzi, tra possibilità e impossibilità, tra giovinezza e maturità, nasce il dialogo, nasce l’arte, nasce amore. Amore è figlio di Abbondanza e allo stesso tempo di Mancanza: nell’estrema opposizione degli elementi è nato qualcosa di unico, di prezioso e raro. L’incontro tra opposti, tra ragazzi e detenuti, ha fatto sì che si potesse ancor più mostrare ciò che Platone ha dipinto nel “Simposio”: se Eros è la filosofia che si alimenta nella perenne ricerca della verità, così quest’incontro può creare la possibilità di scoprire nuove prospettive, di incontrarsi con l’altro, di continuare a conoscere e a ricercare, perché questa è l’essenza del nostro essere umani sia liberi che ristretti. Augusta (Sr): Giornata mondiale del teatro in carcere con “L’uomo che cercava la verità” lagazzettaaugustana.it, 28 marzo 2018 In occasione della “Giornata mondiale del teatro”, presso l’auditorium “Enzo Maiorca” della casa di reclusione di Brucoli, è stata rappresentata la pièce de L’uomo che cercava la verità, messa in scena dai detenuti di media sicurezza dell’istituto, diretti dalla scrittrice siracusana Giusi Norcia con la collaborazione dell’attrice romana Giulia Valentini che ne hanno curato il progetto, e anche grazie all’Istituto nazionale del dramma antico di Siracusa che ha fornito i coloratissimi costumi. Dinanzi agli oltre trecento studenti, insieme a docenti e volontari, alle autorità intervenute, tra cui il viceprefetto Filippo Romano, e ai magistrati di sorveglianza, ha aperto l’evento il direttore dell’istituto penitenziario Antonio Gelardi, sottolineando la duplice valenza della data odierna che, dal 2014, celebra anche la “Giornata nazionale del teatro in carcere”. Ha ribadito ancora una volta l’importanza di voler creare tra le mura di un carcere le stesse opportunità e situazioni che si vivono fuori da quelle mura sollecitando, così, la riscoperta di capacità e sensibilità personali che spesso si rivelano, invece, lontane da quelle dinamiche proprie della vita detentiva. Un viaggio nel “cuore umano” quello portato in scena dai detenuti i quali, partendo dal Mito della caverna di Platone e passando per l’Iliade e l’Odissea di Omero, hanno lanciato un messaggio legato allo spirito di ricerca interiore, la ricerca della verità; la verità che è “ciò che dà un senso alla vita e ci rende umani”. Recitando la furbizia di Ulisse o l’avidità di Agamennone, è stato rappresentato come le virtù potrebbero diventare catene, finché non si impara ad essere padroni della propria mente piuttosto che lasciare che sia la mente a far da padrona. Liberandosi in scena dalle “catene” che condannano alla non verità, i detenuti-attori hanno chiuso la pièce pronunciando ad alta voce tutti insieme la parola “Rinascita”. Presente questa mattina anche l’Istituto comprensivo “Orso Mario Corbino”, con le sue classi medie ed una quarta elementare. “Una lezione didattica intensa”, ha affermato la dirigente scolastica Maria Giovanna Sergi durante il suo intervento, che ha l’obiettivo di sensibilizzare i ragazzi fin dalla giovanissima età alla presenza di altre realtà forse ancora troppo spesso lontane e distorte nell’immaginario comune. In quest’ottica di interazione con il sistema scolastico locale, fra l’altro, due detenuti prestano attività lavorativa gratuita presso il comprensivo, svolgendo lavori di pulizia e di piccola manutenzione. Una attività riparativa svolta anche presso l’Istituto superiore “Arangio Ruiz”, il Comune, la Polizia municipale e la mensa gestita da “Il buon samaritano” di Augusta. Alla fine tutti in piedi per applaudire la compagnia e i detenuti emozionatissimi a ricevere il plauso. Dopo la prima rappresentazione svoltasi questa mattina, seguiranno le repliche per i detenuti, nei giorni prima di Pasqua, ed una replica speciale a cui potranno assistere nell’auditorium i familiari dei detenuti. Se gli algoritmi non si coniugano con la libertà di Vincenzo Vita Il Manifesto, 28 marzo 2018 Della storia Facebook-Cambridge Analytica si parla da un po’. In verità, il caso covava da tempo ma pochi furono a occuparsene. Tra questi ultimi il giornalista e docente universitario Michele Mezza, che ora ci ha scritto su un notevole volume (“Algoritmi di libertà”, 2018, Roma, Donzelli editore). È utile leggere un testo così preciso e documentato, per capire che non siamo di fronte a un complotto noir o a una occasionale messa in scena, bensì all’ulteriore maturazione delle classificazioni fatte da Manuel Castells sui media digitali. Qualcosa di più e di diverso. Adesso: “sono gli algoritmi, in quanto tali, senza nessun’altra mediazione linguistica, che costituiscono lo spazio dove si costruisce il potere…”. In breve, dunque, lo scandalo dei profili ceduti dalla società di Zuckerberg alla compagine britannica rappresenta la normalità eversiva di una macchina ormai incontrollata, un Frankenstein costruito in laboratorio dagli stessi che si meravigliano o chiedono scusa. Siamo in quella zona di confine tra tecniche moderne di guerra, utilizzo delle ipertrofie dell’intelligenza artificiale, invasione dello sfruttamento -contro ogni tutela della privacy- nella nuova catena sociale del valore. Muta la grammatica del conflitto. Mezza ha un ottimo consigliere, citato spesso in modi espliciti o sottesi, vale a dire il Marx prefigurante dei Grundrisse, del terzo libro del Capitale, dei Manoscritti o delle opere giovanili come gli scritti sulla Gazzetta renana. E non è retorica erudita. Corre l’anniversario dei 200 anni dalla nascita del pensatore geniale, persino capace di fornirci chiavi di lettura rabdomantiche sul “capitalismo delle piattaforme”. Il bandolo della matassa sta nella negoziazione degli algoritmi. Il crescente potere oligarchico dei cosiddetti Over The Top va contrastato creando un contropotere, non sfuggendo ai territori veri (bando alle nostalgie, a meno che non si tratti della “retrotopia” - l’utopia sana del passato - di Bauman) del conflitto. “Ribellismi molecolari”, che sfidino la rete disvelandone sintassi e linguaggi, fino a creare un altro senso comune. Con un utilizzo libero della potenza di calcolo, che ha da essere conoscibile e trasparente. Fin dalla scuola, momento cruciale per costruire una coscienza critica di massa del e nel tempo digitale. E poi nei terreni concreti, a partire dalle città. Quanto contano gli algoritmi che conducono per mano le migliaia di profili digitali di cui dispongono nel voto? Moltissimo. È nota l’iniziativa degli “hacker” russi nel successo di Trump, e pure è esplicita - al contrario - la linea difesa di un “algoritmo-nazione” come la Cina, che ha pensato di risolvere il problema edificando la sua muraglia digitale. E in Italia? Il voto del 4 marzo scorso sicuramente è stato influenzato. Mezza, giustamente, non misura le proporzioni quantitative. Tuttavia, ricorda che nel documento redatto sulle aporie delle elezioni americane dal superprocuratore Robert Mueller ben 37 pagine sono dedicate all’Italia. Certamente non è un caso che tanto Di Maio quanto Salvini abbiano subito ringraziato la rete, dentro cui navigavano massicce dosi di esasperate micce anti-elitarie e crociate nazionaliste o persino xenofobe. L’ex uomo forte di Trump, Steve Bannon, ha svelato l’esistenza di clienti italiani. Chissà. Lega e Mov5Stelle hanno vinto le elezioni a prescindere, sia chiaro. E le sinistre non hanno neppure considerato l’argomento. Comunque, se gli algoritmi non si coniugano con la libertà, la democrazie decade. Un brivido. Migranti. Open Arms, per il gip cade l’associazione a delinquere di Leo Lancari Il Manifesto, 28 marzo 2018 Alla Ong contestata l’immigrazione clandestina. L’inchiesta passa alla procura di Ragusa. L’accusa più pesante, quella di associazione per delinquere contestata al capitano e alla capomissione della nave Open Arms, è caduta. Resta, invece, quella di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina insieme al sequestro della nave, che per ora resta ancorata nel porto di Pozzallo in attesa che sia la procura di Ragusa a decidere sul suo futuro. Sono durate otto giorni alcune delle contestazioni rivolte dalla procura distrettuale di Catania alla Ong spagnola Proactiva, finita nel mirino per essersi rifiutata, il 15 marzo scorso, di consegnare 117 migranti salvati in acque internazionali nelle mani della Guardia costiera libica che li avrebbe ricondotti nel paese nordafricano. La decisione del gip di Catania Nunzio Sarpietro sottrae quindi l’inchiesta al procuratore etneo Zuccaro per trasferirla alla procura di Ragusa, ed è stata accolta con soddisfazione dall’avvocato Alessandro Gamberini, che assiste la Proactiva. “Giudico molto importante e significativo che sia caduta l’accusa strumentale di associazione per delinquere - è stato il commento del legale. Questa decisione riporta in un alveo di legalità una vicenda che era stata sradicata dal suo giudice naturale”. L’ultima inchiesta su una Ong attiva nel Mediterraneo è cominciata due settimane fa con la comunicazione da parte di Mrcc di Roma, la sala operativa che coordina i salvataggi in mare, di tre gommoni in difficoltà. Una procedura uguale a tutte le volte precedenti, salvo che per un particolare subito notato dall’equipaggio della Open Arms: la comunicazione da parte della Guardia costiera italiana che il coordinamento dei soccorsi sarebbe stato preso dai militari di Tripoli. Cosa che si concretizza quando ai volontari della Ong spagnola si avvicina una motovedetta libica pretendendo, sotto la minaccia delle armi, la consegna delle donne e dei bambini già tratti in salvo. Tutto si sblocca solo quando, dopo due ore di alta tensione, i libici lasciano andare la Open Arms che dirige verso nord. È questo punto che, secondo il gip di Catania, si potrebbe ipotizzare il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il comandante della Open Arms, Marc Reig Creus, ha infatti dichiarato di non aver chiesto alle autorità di Malta di poter sbarcare i migranti conoscendo bene il rifiuto sempre manifestato dall’isola verso una simile possibilità. Circostanza che però, per il gip Sarpietro, in questo caso “è rimasta indimostrata a causa delle condotta del comandante della Open Arms che non ha risposto alle autorità maltesi e non ha aderito alle disposizioni impartite dalle autorità spagnole e italiane, le quali avevano indicato il porto sicuro di la Valletta”. Per il gip, quindi, sarebbe esistita da parte degli indagati “la precisa volontà di portare i migranti solo nel territorio dello Stato italiano e, in particolare, in Sicilia”. Contestata, infine, anche la decisione di non aver voluto consegnare donne e bambini ai libici. “Il fatto che i campi profughi Libia non siano un esempio di limpido rispetto dei diritti umani - è scritto nel provvedimento - non determina automaticamente che le Ong possano operare in autonomia e per conto loro, travalicando gli accordi e gli interessi degli Stati coinvolti dal fenomeno migratorio”. Le operazioni in mare di Proactiva Open Arms “continueranno” nonostante il sequestro della nave e l’accusa di favoreggiamento di immigrazione clandestina, ha dichiarato ieri il fondatore della Ong spagnola, Oscar Camps ricordando come, rifiutandosi di consegnare i migranti ai libici, l’equipaggio “abbia rispettato pienamente il diritto internazionale”. Anche perché, ha sottolineato Camps, i “migranti non volevano” tornare in Libia sapendo bene cosa li attendeva. “In nessuna parte del codice della Ong che abbiamo firmato c’è scritto che le operazioni a un certo punto sarebbero state affidate ai libici” ha proseguito Camps, per il quale “le regole non possono essere cambiate nel bel mezzo di un’operazione di soccorso”. Droghe. Il Parlamento parta dai 7 punti presentati dalle Associazioni di Hassan Bassi Il Manifesto, 28 marzo 2018 Con l’insediamento del nuovo Parlamento inizia il lavoro dei Deputati e dei Senatori della XVIII legislatura ed è a loro che le associazioni che il 16 febbraio avevano presentato una piattaforma di sette punti per un intervento di profonda innovazione sulla politica delle droghe, si rivolgono per promuovere un cambio di passo. Bene ha fatto il nuovo Presidente della Camera dei Deputati Roberto Fico a sottolineare come il Parlamento sia anche il luogo dell’ascolto delle proposte della società civile e di come gli strumenti attualmente previsti di democrazia diretta, come le leggi di iniziativa popolare, siano da valorizzare e da tenere nella dovuta considerazione. Proprio in quest’ottica di partecipazione democratica e di confronto libero, il movimento delle associazioni impegnate su questo terreno dal punto di vista dei consumatori, degli operatori, e con particolare attenzione ai diritti civili e sociali, alla giustizia e al carcere, in questi anni ha partecipato alla redazione di proposte legislative di iniziativa popolare e parlamentare depositate sia presso la Camera dei Deputati che presso il Senato della Repubblica. Sette sono i punti, reperibili su fuoriluogo.it, che riassumono le questioni più urgenti sulle quali il Parlamento è chiamato ad intervenire per offrire al paese politiche sulle droghe adeguate al tempo in cui viviamo, frutto di dialogo con la società civile e che garantiscano ai servizi le risorse necessarie per essere applicate. Il primo punto, fondamentale, è rappresentato dalla richiesta della completa revisione della legge sulle droghe che risale al 1990, il Dpr 309 che porta il nome Iervolino-Vassalli. Questa legge di impianto proibizionista e punitivo fu aggravata dalla legge Fini-Giovanardi che grazie alla decisione della Corte Costituzionale è stata in gran parte cancellata. Le persone che usano sostanze devono essere liberate tanto dal rischio di criminalizzazione penale quanto dalla soggezione ad un apparato sanzionatorio amministrativo stigmatizzante soprattutto verso i giovani e di scarsa efficacia preventiva. La prima modifica non può che essere la completa depenalizzazione del possesso e della cessione gratuita di piccoli quantitativi di sostanze per uso personale, anche di gruppo, compresa la coltivazione domestica di piante di cannabis destinate al consumo personale, anche nella forma cooperativa sul modello dei Cannabis Social Club. La nuova legge dovrà nascere nell’ottica di privilegiare la salute delle persone, attraverso il rilancio e la riorganizzazione dei servizi per le dipendenze, il riconoscimento delle azioni e dei servizi innovativi già realizzati e il loro non più rinviabile adeguamento ai nuovi stili di consumo. È necessaria l’adozione della riduzione del danno (RdD) sia come prospettiva trasversale delle politiche sulle droghe che come quarto pilastro nel sistema degli interventi, come sancito nella strategia Ue e con una piena e rapida definizione dei nuovi Livelli Essenziali di Assistenza. Inoltre è urgente e doveroso che il nuovo Parlamento e il Governo, quando sarà insediato, si attivino per convocare la Conferenza Nazionale sulle droghe che dovrebbe costituire un appuntamento triennale e che invece manca da nove anni, allo scopo di avviare un percorso partecipato dalla società civile (fra cui le persone che usano sostanze), dalla comunità scientifica, e basato sulle esperienze e sulle evidenze e sul rispetto dei diritti umani, che giunga alla redazione di un nuovo Piano d’azione nazionale sulle droghe, in netta discontinuità con il fallimentare approccio iper-punitivo. Per questo è fondamentale il ripristino di sedi di dialogo e l’adozione di processi partecipativi. Serbia. Giornalista italiano arrestato scatena gara di solidarietà sui social viagginews.com, 28 marzo 2018 Un giornalista italiano detenuto in Serbia sta creando un caso internazionale. Mauro Donato, 41enne fotoreporter piemontese, è stato arrestato circa 10 giorni fa a Sid, al confine con la Croazia, con l’accusa di rapina aggravata: è accusato di aver aggredito con un coltello tre giovani migranti afghani per derubarli. Ma è giallo anche sulla deposizione dei ragazzi, che avrebbero già ritrattato. Donato sta lavorando a un reportage sulla rotta balcanica dei profughi, anche per questo le motivazioni del suo fermo a molti sono sembrate pretestuose e il suo arresto ha scatenato una gara di solidarietà sui social. Il suo caso è anche sotto la lente di ingrandimento della Farnesina, che sta monitorando la situazione attraverso l’ambasciata italiana a Belgrado. Il giornalista si trova in una cella della prigione di Sremska Mitrovicam, città a ovest della capitale Belgrado. Forti preoccupazioni dall’Italia, in primis dall’Associazione Subalpina e Federazione nazionale della Stampa italiana: “Mauro è un professionista serio”. Ma anche l’assessore all’Immigrazione del Piemonte, Monica Cerutti, ha espresso l’impegno dell’ente per intervenire quanto prima sulla questione. Si sta quindi scatenando una gara di solidarietà per Mauro Donato, il giornalista italiano detenuto in Serbia che ormai da 10 giorni non riesce a venir fuori da una situazione parecchio intricata. L’Assemblea dei Cdr e dei Fiduciari della Rai e l’Usigrai si sono unite alla richiesta della Fnsi e della Associazione Stampa Subalpina affinché le autorità italiane intensifichino le pressioni sul governo serbo per ottenere la liberazione del fotoreporter. E intanto sui social si diffonde a macchia d’olio la foto di Mauro Donato con gli hastag per ottenerne la liberazione. La famiglia di Mauro ha ringraziato tutti gli attivisti, le autorità e i giornalisti italiani per la vicinanza e per l’impegno in questa delicata vicenda, ma ha invitato anche ad osservare prudenza: “Ringraziamo tutti coloro che si sono uniti a noi nel chiedere che venga fatta luce il prima possibile sulla vicenda che ha portato Mauro Donato a essere tuttora detenuto in Serbia. Vista la delicatezza del momento, chiediamo a tutti di mantenere sì alta l’attenzione, ma di usare la massima cautela nei modi e nei toni, al fine di non interferire con il lavoro dei nostri legali”. La Spagna e il nodo dei ribelli in carcere. “Non molleranno, serve un accordo” di Andrea Nicastro Corriere della Sera, 28 marzo 2018 Passavano le giornate nei palazzi del potere. Ora stanno branda a branda con spacciatori, rapinatori, violentatori. Erano gli intervistati dei tg, ora li guardano solo nei quattro canali della tv pubblica spagnola. I più fortunati hanno anche una radiolina: tre pulsanti appena per le frequenze statali. Sono i 19 indipendentisti catalani in attesa di giudizio, donne e uomini, ex ministri, ideologi, deputati ed ex deputati del Parlament di Barcellona. Piegati? Pentiti? Pronti all’abiura? Neanche per sogno, né loro né le loro famiglie. Qualche ora con mogli, figli, mariti rimasti in libertà aiuta a capire come mai. Diventa così più chiaro l’enorme problema politico aperto in Spagna, problema che qualunque tribunale farà fatica a risolvere. In Rambla Catalunya nel centro di Barcellona ha dato appuntamento la figlia di Jordi Turull, l’ultimo dei candidati alla presidenza catalana bloccati dalla magistratura. Dopo qualche minuto arriva anche la mamma, Blanca Bragulat. Il pianto del marito tra le sue braccia prima dell’arresto è stato sui giornali di tutta la Spagna. Nel locale qualcuno orecchia la conversazione e si avvicina per stringere la mano, salutare, fare gli auguri. La moglie di uno degli attivisti per l’indipendenza, Jordi Cuixart, presidente di Omnium Cultural, invece fissa l’incontro in un’organizzazione pacifista, quasi in periferia. “Eccoli - dice mostrando otto sacchi da venti chili l’uno. Sono alcune delle lettere arrivate a Jordi in carcere. Altri quattro sacchi così sono a casa. Gli consegnano solo 200 buste al giorno, gente che gli fa coraggio, lo sostiene”. La galassia nazionalista non si arrende, lo fa sentire ai detenuti e anche le vedove bianche dell’indipendentismo reggono l’urto. Alla guida resta l’ex presidente Carles Puigdemont nonostante l’arresto in Germania. “Non mi arrenderò mai” ha detto all’avvocato, anche perché una commissione Onu ha ammesso il ricorso per la violazione dei suoi diritti politici. “Per fortuna ho un bebè di 11 mesi che come scusa convince tutti - sorride Txell Bonet, moglie di Jordi Cuixart, altrimenti dovrei partecipare alle decine di cene e dibattiti che si organizzano a sostegno dei “prigionieri politici”. È così che si raccolgono i soldi che ci permettono di pagare gli avvocati, il biglietto del treno e il taxi fino alla prigione. “Con il papà in carcerazione preventiva da 5 mesi, il neonato ha già fatto 30 mila chilometri di treno: 650 ad andare e 650 a tornare per 23 settimane. Domenica sarà la 24esima. Sarà prosaico, ma è un problema anche che io non riesca a lavorare”. “Ho la pagina Facebook stracolma di messaggi di affetto che arrivano da tutta la Spagna”, racconta Laura Turull, 20 anni. “C’è anche chi mi scrive che non è d’accordo con l’indipendenza, ma così no, mi dicono, non si sta in galera per difendere delle idee”. “Quando Jordi è entrato in carcere-racconta la moglie Txell - gli altri detenuti l’hanno accolto bene: “beato tu, gli hanno detto, perché non hai fatto niente e non hai i nostri rimorsi”. “Papà è con un rapinatore di banca, ma per fortuna non ha problemi. È in un raggio “di buona condotta” dice Laura. L’ex vicepresidente Oriol Junqueras e l’ex ministro degli Esteri Raül Romeva, invece, sono con stupratori o persone in attesa di giudizio. Per questo dividono la cella con altri parlamentari. Cuixart invece ha un vicino di branda di Dublino, “almeno migliora l’inglese”. Come tutti i detenuti, anche i “politici prigionieri” hanno diritto a un’ora d’aria, 10 telefonate di 5 minuti alla settimana, un colloquio di 40 minuti nel weekend attraverso un vetro e un’ora e mezzo di incontro senza vetro al mese. “Gli avvocati, però, possono vederli più spesso-spiega Txell-così sono loro a fare da “Internet”: raccontano quel che succede e trasmettono all’esterno il loro pensiero. Gli account Twitter e gli altri social sono aggiornati così, col passa parola”. “Finirà con un compromesso politico, che è ciò che abbiamo sempre cercato. Non può essere altrimenti”. È l’ottimismo della gioventù di Laura a parlare. “Papà tornerà a casa, sono sicura”. Israele. I richiedenti asilo vengono espulsi: 3.500 dollari e un biglietto aereo a chi se ne va La Repubblica, 28 marzo 2018 Ma chi si rifiuta rischia la detenzione a tempo indeterminato. “E lo chiamano rimpatrio volontario è il commento di Amnesty International: “È l’abdicazione di ogni responsabilità”. La politica israeliana di espellere richiedenti asilo provenienti dall’Africa verso due non specificati Paesi africani è un’abdicazione alle responsabilità nei confronti delle persone migranti e un tipico esempio di quelle misure crudeli che stanno alimentando la “crisi globale dei rifugiati”. Lo ha dichiarato Amnesty International, mentre la Corte Suprema israeliana sta valutando la legittimità di quella politica. Israele ha recentemente raggiunto accordi, i cui dettagli sono segreti, con due Paesi africani che in molti ritengono siano il Ruanda e l’Uganda. Sulla base della nuova “Procedura per l’espulsione verso Paesi terzi”, entrata in vigore nel gennaio 2018, chi accetta di lasciare il paese riceve 3500 dollari e un biglietto aereo verso il Paese di origine o un non precisato Paese terzo. Chi rifiuta rischia la detenzione a tempo indeterminato. Il governo israeliano sostiene che la nuova procedura agevoli le “partenze volontarie” dei cosiddetti “infiltrati”. “Come si può parlare di volontarietà”. “Come può il governo israeliano definire ‘volontario’ questo modo di espellere i richiedenti asilo - ha dichiarato Philip Luther, direttore delle ricerche di Amnesty International sul Medio Oriente e l’Africa del Nord - quando l’alternativa loro offerta è il ritorno in luoghi di persecuzione o il carcere a tempo indeterminato? Questa è una scelta che nessuno dovrebbe dover fare. Considerato il livello raggiunto dalla crisi globale dei rifugiati, la forzata e dunque illegale espulsione di richiedenti asilo eritrei e sudanesi è un’irresponsabile abdicazione di responsabilità - ha aggiunto Luther - oltre che un esempio di quelle sconsiderate politiche che sono diventate il pilastro di un sistema d’immigrazione e d’asilo che non funziona”. L’ultimatum del 4 aprile prossimo. Secondo le autorità israeliane, gli “infiltrati” di sesso maschile provenienti da Eritrea e Sudan devono lasciare Israele entro il 4 aprile. La “Procedura per l’espulsione verso paesi terzi” si basa sulla premessa che l’espellendo non abbia mai chiesto asilo e abbia vissuto irregolarmente nel paese oppure l’abbia chiesto senza ottenerlo. Anche coloro che hanno presentato richiesta d’asilo dopo il 1° gennaio saranno espulsi. Il governo israeliano non ha fornito dettagli sugli accordi, compresi i nomi dei paesi terzi con cui lo ha sottoscritto, ritenendo che queste informazioni siano confidenziali e potenzialmente dannose per la reputazione internazionale di Israele. Ruanda e Uganda hanno negato l’esistenza degli accordi. Israele volta le spalle a richiedenti asilo e rifugiati. La percentuale di approvazione di domande d’asilo di eritrei e sudanesi è estremamente bassa: meno dello 0,5 per cento. Su 15.200 richieste presentate tra il 2013 e il 2017, ne sono state accolte solo 12. Nell’ultimo decennio Israele ha riconosciuto come rifugiati solo lo 0,1 per cento dei richiedenti asilo eritrei. In confronto, nel 2016 la percentuale di domande accolte dai paesi dell’Unione europea è stata del 92,5 per cento. La principale ragione di una percentuale così bassa è che Israele, al contrario di quanto prevedono le linee-guida dell’Unhcr, non considera la diserzione dal servizio militare come un requisito per ottenere lo status di rifugiato. Nel gennaio 2018 la Corte suprema israeliana ha stabilito che l’interpretazione del governo sulla diserzione degli eritrei è incompatibile con la Convenzione del 1951 sullo status di rifugiato. Il 22 marzo, la viceprocuratrice generale Dina Zilber ha dato istruzioni alle autorità per l’immigrazione di riesaminare i casi degli eritrei detenuti nella prigione di Saharonim dopo che la loro richiesta d’asilo era stata respinta. La cinica politica della delega. “Israele, come fanno molte altre nazioni che ne hanno i mezzi - ha commentato Luther - ha la responsabilità di rispondere alla crisi globale dei rifugiati accogliendo richiedenti asilo che cercano disperatamente un luogo dove vivere. È da non credere che le autorità israeliane ora stiano delegando tale responsabilità a Paesi che hanno assai minori mezzi e che accolgono già una larga porzione di rifugiati”. Il prodotto interno lordo di Israele è 50 volte superiore a quello del Ruanda e 55 a quello dell’Uganda. Il Ruanda ospita almeno il triplo dei rifugiati che ha Israele e il numero dei rifugiati ospitati in Uganda è di 20 volte superiore a quello israeliano. Accordi illegali, secondo la Suprema Corte israeliana. Per il diritto internazionale gli accordi tra Israele e i due paesi africani, quali che siano, sono illegali in quanto violano il principio di non-refoulement (“non respingimento”). È infatti vietato trasferire persone in luoghi in cui correrebbero concretamente il rischio di essere perseguitate o subire altre gravi violazioni dei diritti umani o nei quali non sarebbero protette da ulteriori successivi trasferimenti. La Corte suprema israeliana ha correttamente evidenziato che la natura segreta degli accordi impedisce ai richiedenti asilo di avere protezione legale e di ricorrere contro un provvedimento di espulsione. Inoltre, molte delle persone da espellere non avranno altra scelta che rimettersi in viaggio, questa volta attraverso la Libia, e cercare di entrare in Europa attraverso un pericoloso viaggio nel Mediterraneo. Ma Ruanda e Uganda negano gli accordi. “Questa politica pone i richiedenti asilo in una posizione estremamente vulnerabile - ha sottolineato Luther - rischiano di essere rimandati nel paese di origine e non possono ricorrere contro Israele o il paese terzo ricevente. Abbiamo documentato diversi casi di richiedenti asilo espulsi da Israele cui erano stati promessi i permessi di soggiorno e lavoro in Ruanda e Uganda salvo scoprire, all’arrivo, che niente era vero”. Nessuno degli eritrei e dei sudanesi espulsi verso Ruanda e Uganda - secondo quanto hanno raccontato a Ong, a ricercatori e all’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) - ha ottenuto all’arrivo uno status regolare. Ruanda e Uganda negano non solo la presenza di richiedenti asilo provenienti da Israele ma anche l’esistenza stessa di accordi, venendo meno in questo modo a qualsiasi obbligo nei confronti dei richiedenti asilo. Myanmar. In carcere per aver svelato la verità sul massacro dei Rohingya eastwest.eu, 28 marzo 2018 Da più di 100 giorni due giornalisti birmani dell’agenzia Reuters, Wa Lone (31 anni) e Kyaw Soe Oo (28 anni), sono detenuti dalle autorità birmane con l’accusa di possedere “documenti segreti molto importanti riguardo lo Stato Rakhine e le forze di sicurezza”. Secondo la legge vigente in Myanmar, ereditata dal periodo coloniale britannico, il due rischiano fino a 14 anni di carcere. Ma le circostanze del loro arresto e le indagini che i due giornalisti stavano conducendo da mesi indicano che la colpa di Wa Lone e Kyaw Soe Oo, agli occhi delle autorità birmane, è stata quella di svelare le responsabilità dell’esercito regolare in un massacro di civili Rohingya avvenuto lo scorso mese di settembre. La ricostruzione dell’esecuzione di massa, pubblicata da Reuters dopo l’arresto e con il consenso dei due autori, è basata sulle testimonianze di concittadini e parenti delle vittime, compresi funzionari degli apparati di sicurezza del Myanmar, raccolte da Wa Lone e Kyaw Soe Oo. Lo scorso due settembre, si legge su Al Jazeera, i militari birmani hanno raggiunto il villaggio di Inn Din, nello Stato Rakhine, dividendo gli abitanti tra comunità buddista e comunità musulmana. Tra i musulmani, vengono presi da parte dieci uomini Rohingya in un’età compresa tra i 17 e i 45 anni, “studenti, pescatori, allevatori e negozianti”. Abdu Shakur, padre di una delle vittime, ha dichiarato a Reuters: “Mentre li portavano via ci dicevano: non preoccupatevi. Presto vi ridaremo i vostri figli, li stiamo solo portando a un appuntamento”. Invece, riporta Bbc riprendendo l’indagine di Wa Lone e Kyaw Soe Oo, i militari ordinano ad alcuni abitanti di fede buddista di iniziare a scavare una fossa e i dieci Rohingya vengono ammazzati a sangue freddo uno dopo l’altro: due da compagni di villaggio buddisti, obbligati dalle forze di sicurezza, il resto dagli stessi militari. Le foto raccolte dai due reporter di Reuters e pubblicate in calce agli articoli indicati sopra, mostrano prima i dieci uomini inginocchiati, circondati da altri uomini armati; poi, nella fossa comune, i loro dieci corpi riversi in una pozza di sangue. Lo scorso 12 dicembre Wa Lone e Kyaw Soe Oo, quando ancora in libertà stavano proseguendo le indagini intorno al massacro di Inn Din, vengono invitati a un appuntamento in un ristorante da “due poliziotti che non avevano mai visto prima”. I due agenti consegnano loro un plico di documenti e, secondo le dichiarazioni dei due giornalisti, immediatamente vengono arrestati e condotti in carcere. Nel frattempo, raccontano i parenti di Wa Lone e Kyaw Soe Oo, la polizia raggiunge le abitazioni delle famiglie dei due e, senza mandato, perquisisce entrambe le case e requisisce laptop, memorie esterne e taccuini. I rappresentanti delle forze dell’ordine, contraddicendo le famiglie dei due imputati in sede processuale, dichiareranno di aver debitamente mostrato il mandato di perquisizione. Mercoledì 21 marzo Wa Lone e Kyaw Soe Oo si sono presentati in tribunale per l’undicesima udienza di un caso che li vede in carcere già da più di 100 giorni “solo per aver fatto il proprio lavoro di giornalisti”, parafrasando il presidente e direttore di Reuters Stephen J. Adler. In seguito all’arresto dei due, infatti, le autorità birmane hanno rilasciato una rarissima ammissione di colpa, aprendo un’indagine interna per appurare le responsabilità delle esecuzioni extragiudiziali del villaggio di Inn Din. Secondo l’esercito birmano, però, i quattro soldati colpevoli degli omicidi “hanno aiutato gli abitanti del villaggio a portare a termine un attacco per vendicarsi dei terroristi bengalesi”, parafrasi dispregiativa sistematicamente utilizzata dal governo del Myanmar per indicare gli appartenenti alla comunità Rohingya. Le testimonianze raccolte da Wa Lone e Kyaw Soe Oo contraddicono la versione dei militari, negando che le dieci vittime abbiano avuto alcun collegamento con organizzazioni terroristiche. Il lavoro dei due giornalisti di Reuters è ad oggi l’unico documento giornalistico in grado di provare inconfutabilmente le responsabilità degli apparati di sicurezza birmani nelle atrocità commesse contro la popolazione Rohingya. Le autorità birmane, sin dall’esplosione delle violenze dello scorso mese di agosto, hanno sistematicamente negato l’accesso allo Stato Rakhine alla stampa internazionale. L’arresto di Wa Lone e Kyaw Soe Oo ha sollevato l’indignazione dell’opinione pubblica internazionale, evidenziando il macroscopico problema di rispetto dei diritti umani che ancora affligge un Myanmar impegnato, formalmente, in una storica transizione democratica. Durante l’ultima udienza del caso numerosi membri delle ambasciate internazionali con sede nel Myanmar si sono presentati in aula per seguire gli sviluppi e continuare le pressioni diplomatiche per il rilascio dei due giornalisti. Tra loro spicca la dichiarazione dell’ambasciata danese, che ha mandato un proprio funzionario ad assistere a ognuna delle 11 udienze: “I due giornalisti sono dietro le sbarre da 100 giorni solo per aver garantito il diritto all’informazione dell’opinione pubblica”. La prossima udienza è fissata per il 28 marzo. Brasile. Confermata condanna a 12 anni, carcere vicino per l’ex presidente Lula di Giampiero Di Santo Italia Oggi, 28 marzo 2018 Respinti dal Tribunale regionale di porto Alegre i ricorsi presentati dai legali. Confermata la condanna a 12 anni e un mese per corruzione e riciclaggio. Il 4 aprile la decisione sulla richiesta di habeas corpus. Si avvicina il carcere per l’ex presidente brasiliano Luis Inacio Lula da Silva: il Tribunale Regionale Federale di Porto Alegre ha respinto i ricorsi presentati dai suoi avvocati, confermando la pena a 12 anni e un mese di detenzione inflittagli in primo grado per ‘corruzione passiva’ e ‘riciclaggio’. La decisione del Tribunale (Trf 4) non potrà però diventare esecutiva finché il Stf, Supremo Tribunale Federale non deciderà sulla richiesta di habeas corpus presentata dai legali di Lula. L’alta corte si riunirà il prossimo 4 aprile per prendere una decisione definitiva al riguardo. La sentenza del Trf 4 non è stata accolta con sorpresa: “Non ci aspettavamo niente di buono da quel tribunale”, ha commentato la presidente del Pt, Partito dei Lavoratori di Lula, Gleisi Hoffman, che ha sottolineato che l’ex capo di stato intende comunque andare avanti con la sua “carovana della libertà”, che sta attraversando il sud del Brasile e fa campagna elettorale per la sua candidatura alle presidenziali di ottobre. Certo è che la decisione del tribunale di Porto Alegre rende più difficile il percorso che secondo Lula dovrebbe portare alla riabilitazione. La sentenza dei tre giudici è stata infatti unanime e sembra non lasciare altri spazi di manovra alla difesa di Lula, condannato per aver accettato una appartamento di lusso come tangente da un’azienda edilizia in cerca di intese contrattuali con il gigante petrolifero pubblico Petrobras. Già il 23 marzo scorso, del resto, i segnali per Lula erano stati negativi. L’ex presidente brasiliano aveva evitato il carcere, perché il Stf, massima istanza del sistema giudiziario brasiliano, aveva sospeso dopo un lungo dibattito l’udienza nella quale si sarebbe dovuto esprimere su una richiesta di habeas corpus presentata dagli avvocati di Lula, per evitare che l’ex presidente sia arrestato prima che si siano esauriti tutti i possibili ricorsi contro la condanna a 12 anni di carcere che gli è stata inflitta per i reati di corruzione passiva e riciclaggio. Dopo cinque ore di dibattito, trasmesse in diretta televisiva dai principali network del Paese, i magistrati dell’Alta Corte avevano deciso di riprendere la sessione il prossimo 4 aprile e di concedere nel frattempo a Lula una misura cautelare in base alla quale non potrà essere arrestato fino a quando non sarà presa una decisione finale sulla sua richiesta. I magistrati del Stf non hanno quindi discusso di fatto il contenuto della richiesta degli avvocati di Lula, ma si sono limitati all’analisi di una questione giuridica preliminare, cioè se l’Alta Corte può e deve esprimersi su un habeas corpus relativo a una sentenza già confermata in secondo grado, come quella inflitta all’ex presidente. Il voto finale su questo punto è stato favorevole all’esame della richiesta di habeas corpus, per 7 voti contro 4, dopodiché i magistrati hanno deciso di sospendere l’udienza fino al 4 aprile. Ma adesso, con la sentenza del Trf4, le nubi tornano ad addensarsi sul capo di Lula. Afghanistan. Carabinieri italiani insegnano pronto soccorso a personale carcere di Herat difesaonline.it, 28 marzo 2018 Si è concluso nei giorni scorsi ad Herat il corso Basic Life Support Defibrillation (Blsd), condotto dalle Forze Armate italiane in missione in Afghanistan che consentirà alle poliziotte in servizio presso il carcere femminile, di stabilizzare, le detenute ed i loro figli, in pericolo di vita. I carabinieri del Police Advising Team (Pat) con l’ausilio di personale medico e infermieristico dell’ospedale da campo della base italiana (Role 2) appartenenti al Train Advise Assist Command West (Taac-W), su base brigata “Sassari” hanno abilitato sette poliziotte in servizio presso l’istituto di reclusione femminile di Herat al primo soccorso e al soccorso pediatrico. Il corso è durato sette giorni ed è stato richiesto dalla direttrice dell’istituto penitenziario per accrescere la formazione del personale di polizia a dare una maggiore assistenza alle donne detenute nel carcere e ai loro figli che ad oggi, in circa 60 tra neonati e bambini, vivono con loro nella struttura in età prescolare. Argomenti di primo soccorso - La rianimazione cardio-polmonare, le posizioni di sicurezza post traumatiche e da shock, il trattamento delle ferite lacero-contuse e l’impiego del defibrillatore, sono le principali abilità apprese dalle poliziotte che hanno anche sperimentato attraverso numerosi esercizi pratici eseguiti su manichino. Inoltre, una sessione a parte è stata dedicata al primo soccorso pediatrico, con particolare riferimento alla disostruzione delle vie respiratorie. Obiettivi dell’addestramento - Le attività a favore delle donne afgane, realizzate nell’ambito dei progetti gender, hanno il duplice obiettivo, da una parte, di rendere le Forze Armate e di Polizia autonome nella gestione dello sviluppo professionale del proprio personale e, dall’altra, di formare nuovi istruttori (“train the trainers”). È per questo che l’attività del Taac W si sviluppano sia sul piano dell’addestramento (Train) che su quello di consulenza (Advise e Assist).