Detenuti e lavoro, è boom di occupati di Antonio Maria Mira Avvenire, 27 marzo 2018 Raddoppiano i fondi per i progetti. Un futuro professionale oltre le sbarre. Aumenta, e non di poco, il lavoro per i detenuti, sia quello in carcere che quello esterno. È tutta col segno più la Relazione sullo svolgimento da parte dei detenuti di attività lavorative o di corsi di formazione professionale relativa al 2017 inviata al Parlamento dal ministero della Giustizia. Sale il numero degli occupati, salgono gli stanziamenti, e finalmente viene adeguata la “mercede” dei detenuti che lavorano, ferma al 1994. Grazie al quasi raddoppio dei fondi destinati, passati da 50-60 milioni di euro degli scorsi anni a 100 milioni del 2017, a fronte di un calo della presenza di detenuti. E salgono anche gli accordi con importanti imprese per progetti lavorativi e corsi di formazione. “Oltre a garantire il lavoro per le necessità di sostentamento, proprie e della famiglia - scrive Santi Consolo, direttore del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap), lo sforzo maggiore che l’Amministrazione penitenziaria oggi sta compiendo è quello di far in modo che le persone detenute possano acquisire una adeguata professionalità. Solo l’acquisizione di capacità e competenze specifiche - prosegue il magistrato - consentirà, a coloro che hanno commesso un reato, di introdursi in un mercato del lavoro che necessità sempre più di caratteristiche di specializzazione e flessibilità”. È la “concreta attuazione del dettato costituzionale” che parla di “attività di recupero nei confronti della persona in esecuzione penale”. Al 30 giugno 2017, ultimo aggiornamento, il numero totale dei detenuti lavoranti è pari a 17.602 unità (su 54.653 presenti), rispetto alle 15.272 dello stesso giorno del 2016. Ma il dato più interessante è che aumentano tutte le tipologie di lavoro. Il numero dei detenuti impegnati nella gestione quotidiana degli istituti alla stessa data era di 12.319 rispetto a 10.572 del 2016 e 10.175 del 2015. Si tratta dei detenuti impiegati nei servizi che “assicurano il mantenimento di condizioni di igiene e pulizia all’interno delle zone detentive, comprese le aree destinate alle attività in comune, le cucine detenuti, le infermerie e il servizio di preparazione e distribuzione dei pasti”. È sicuramente il lavoro meno qualificato ma finalmente salgono anche quelli a maggior contenuto professionale. Così i detenuti lavoranti presso le aziende agricole arrivano a 342 unità, quasi il doppio dei 181 del 2015, e questo grazie anche a uno stanziamento di quasi 8 milioni di euro. E crescono anche quelli impiegati in attività di tipo industriale, sempre finalizzate alla vita delle carceri: erano 578 e ora sono 598. Ancora più interessante, sia come numero che come livello qualitativo, è il dato relativo ai detenuti che grazie alla Legge Smuraglia del 2000 lavorano per cooperative sociali e imprese esterne. Erano 644 nel 2003, sono stati 1.300 nel 2016, ultimo dato completo disponibile. Mentre il totale dei detenuti alle dipendenze di datori di lavoro esterni, compresi quelli che non hanno fruito dei benefici della Legge Smuraglia, sempre a giugno 2017, erano 2.295. Nel corso del 2017 il Dap ha firmato alcuni importanti accordi con imprenditori molto noti. Un primo, siglato il 15 marzo con le famose aziende di abbigliamento Marinella e Maumari, prevede la creazione di una sartoria presso la Casa circondariale femminile di Pozzuoli per confezionamento di cravatte per la dotazione del Corpo di Polizia penitenziaria. Il 27 luglio è stato siglato l’accordo con la “Brunello Cucinelli” per la creazione nella Casa circondariale di Perugia Capanne di un laboratorio per il confezionamento di maglioni anche questi per gli agenti. Il prestigioso marchio mette a disposizione gratuitamente personale specializzato per la realizzazione e supervisione del prodotto. Infine l’1 dicembre è stato firmato il protocollo con la Mutti per realizzazione di un laboratorio per la trasformazione in conserve dei pomodori prodotti nei terreni del carcere di Carinola. Tutti i laboratori prevedono corsi di formazione professionale. La condizione transgender nelle carceri di Giulia Moro e Jacopo Orlo parmateneo.it, 27 marzo 2018 A Reggio Emilia in arrivo una sezione ad hoc e corsi di formazione sul tema. Immagina di avere un corpo da donna ma con i documenti che dicono che sei un maschio. Immagina, quindi, di essere trasferito in una sezione maschile di un carcere. Immagina poi di doverti spogliare in mezzo ad altri uomini; essere un uomo bloccato in un corpo femminile quando si tratta di farsi una doccia, di cambiarsi i vestiti, o di dormire accanto ad altri uomini. Questo è quanto accade quotidianamente alla popolazione omosessuale e transessuale detenuta nelle carceri italiane. Una problematica complessa che riguarda non soltanto i diritti alla sessualità, ma anche relativamente alla funzione stessa della detenzione carceraria. Carta canta. E conta - Quando si parla di detenuti e detenute e di diritti Lgbtq la questione in Italia è risolta con troppa semplicità, inserendo il detenuto nella sezione di sesso corrispondente a ciò che è scritto nei documenti d’identità. “Ufficialmente, all’interno del carcere non esiste omosessuale o trans; non esiste la sessualità - spiega Alberto Nicolini, presidente di Arcigay Gioconda di Reggio Emilia. L’istituzione carceraria porta a vedere i detenuti solo per cognome; così facendo però vengono ridotti numerosi bisogni delle persone”. Un problema evidente per una persona transgender, al momento dell’identificazione all’ingresso del carcere, poiché il personale penitenziario non sa come comportarsi nei suoi confronti. “Io sono una guardia e arriva un trans, documenti maschili e corpo femminile: come mi comporto? Chi la perquisisce, un maschio o una femmina? Qual è il modo per non offendere questa persona e usare il linguaggio consono? Sono situazioni pratiche e concrete che mostrano la forte mancanza di formazione e preparazione per assistenti sociali e operatori carcerari sul tema”, analizza Nicolini. “Non sanno come gestire le persone - spiega Rosario, transessuale di 50 anni oggi uomo, membro dell’Associazione Ottavo Colore di Parma -. Prendiamo il caso di una donna, che fisicamente non diresti mai che è un trans, in un reparto con altri uomini. Non sono preparati allo scegliere dove collocare queste persone, che magari si trovano ancora in una fase di limbo. C’è bisogno di salvaguardare la salute fisica e mentale delle persone”. Qualcosa, lentamente, si muove - I penitenziari italiani si stanno muovendo per risolvere al meglio questa situazione. A Sollicciano, in provincia di Firenze, sono state organizzate attività specifiche dedicate alla minoranza trans, di svago e recupero. Anche a Reggio Emilia qualcosa si sta muovendo verso una direzione più attenta alle esigenze delle persone trans. “Il carcere reggiano è entrato a far parte di un tavolo interregionale per l’abbattimento dell’omotransfobia, e la decisione molto forte che hanno preso è quella di creare una sezione dedicata alle persone trans”, descrive Nicolini. In Emilia Romagna al momento esiste uno spazio a loro dedicato a Rimini ricavato da un’area temporanea, ma l’intenzione è quella di crearne una apposita nel reggiano che vada incontro alle esigenze della popolazione trans. Per questo, nella città romagnola è organizzato dall’Arcigay Gioconda, in collaborazione con il Mit (Movimento italiano transessuale), il Comune e l’istituto penitenziario locale, un corso di formazione per preparare le guardie e i servizi medico-sociali alla gestione di una persona trans in modo rispettoso. “C’è tantissimo interesse a conoscere da parte loro - spiega Rosario - soprattutto le guardie carcerarie si sono rese conto che non sono preparate sull’argomento”. Inoltre “un altro obiettivo sul quale stiamo ragionando come associazione è offrire un punto di accoglienza esterno al carcere dove la persona trans possa sentirsi se stessa”, racconta Nicolini. Offrire ai detenuti transgender un luogo fuori dalle mura dove recuperare spazi di libertà personali. “Una persona omosessuale o trans che in carcere non può vivere se stessa, nella sua mezza giornata libera anziché continuare a nascondersi per poter fare le sue cose, può venire in una sede aperta e trovarsi a suo agio per fare due chiacchiere con una persona amica prima di rientrare”, descrive il presidente. Il programma penitenziario infatti è volto al recupero, ma questo, già difficile, non può avvenire se il carcerato passa la sua detenzione in totale isolamento solo contando le ore che passano. “Non sapremo mai probabilmente - spiega Rosario - se il progetto è stato fatto a seguito di violenze ma sicuro perché dietro c’è una richiesta su qualcosa di impellente. Il rischio è lampante. Penso a me che sono ancora fisicamente una donna, però sono già anche un uomo e ho già fatto il cambio di documenti come uomo. Mi metterebbero in una sezione maschile. Non solo non dormirei neanche più un attimo, ma sono sicuro che se uno mi toccasse, io morirei. La mia vita sarebbe un inferno dal momento in cui mi mettono in una stanza con un altro uomo. Non riesco neanche a immaginare poi una possibile violenza. Ricordo il caso di una donna trans che aveva ancora i documenti al maschile ed è stata messa insieme agli altri uomini. Fu necessario un intervento legale che alzò un gran polverone.” Rosario si riferisce al caso di Tara Hudson, transgender 26enne inglese, che ha scontato tre mesi di reclusione in un carcere maschile di Bristol. Dopo la denuncia dei soprusi subiti dai detenuti uomini della sua sezione che la costringevano a spogliarelli con il terrore di essere violentata, la raccolta di 140.000 firme ha permesso il suo trasferimento ad una sezione femminile. Un dovere umano - Non solo la condizione transgender ma anche l’omosessualità può essere motivo di soprusi. “Se hai già una fragilità, finché puoi la nascondi, ma i bulli erano già a scuola quando eri piccolo e i bulli grandi ci sono in carcere. Posso immaginare qualche mio amico gay, magari effeminato, che si trova in quel posto: tanto tempo libero e tanti spazi pericolosi. Non vorrei pensare male, ma sicuramente non ha vita facile. Non saprei come salvaguardare questa situazione, ma un inizio sarebbe creare più spazi divisi”, conclude Rosario. La problematica è attuale anche se ancora forse non se ne parla abbastanza: “Mi chiedi se penso sia necessario? Secondo me è d’obbligo. Nel senso che non voglio neanche pensare che non ci sia già questa cosa. Non voglio immaginare che una persona come me possa subire una violenza perché la legge non adegua la situazione. Se tu mi vedi e anche un bambino direbbe che sono una donna anche se ho i documenti al maschile, tu mi metti con le donne, perché io non voglio rischiare la vita. Non è solo necessario, è un dovere, è un obbligo adeguare le istituzioni in modo più umano possibile”. Sinodo: dalle carceri minorili una richiesta di dialogo agensir.it, 27 marzo 2018 “Il carcere minorile può e deve essere una risorsa della Chiesa. Un’occasione per ascoltare tutti i giovani, anche quelli che si trovano lontano, anche quelli rinchiusi all’interno di una cella. La realtà del carcere minorile può e deve essere una risorsa della Chiesa, uno spazio giovane anche se pur ristretto”: è quanto scrivono i cappellani degli Istituti penali per minori in una lettera indirizzata ai responsabili del Servizio nazionale per la Pastorale giovanile (Snpg), in cui chiedono che il prossimo Sinodo di ottobre, “Giovani: fede e discernimento vocazionale”, sia un momento per fare “i nostri ragazzi partecipi del cammino della Chiesa universale. Crediamo che i nostri ragazzi siano testimoni di umanità e di fede, proprio grazie al cammino di recupero intrapreso a seguito del reato”. La lettera, firmata da don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani, è stata scritta dopo un incontro avvenuto con il responsabile del Snpg, don Michele Falabretti, nelle scorse settimane e successivamente diffusa a tutti i referenti diocesani di Pastorale giovanile. “La Chiesa in uscita di cui parla Papa Francesco, quell’andare incontro alle periferie esistenziali - scrivono i cappellani -, può trovare risvolto anche nelle carceri, espressione non soltanto di compassione e consolazione, ma luogo di rilancio e fortificazione della fede. Anche in una cella di carcere, su un letto, all’aria, in cappella, Dio ascolta la voce di questi giovani, di questi figli. Non è questo il senso del Sinodo? La Chiesa deve ascoltare le aspirazioni e i sogni anche di questi suoi figli in questi luoghi di restrizione. Anche qui si annuncia che il regno di Dio è in mezzo a noi e si sperimenta la forza della gioia del Vangelo”. Da qui la proposta concreta di considerare gli Istituti penali per minori “punti di sosta dei cammini che i giovani delle diocesi italiane compiranno ad agosto per giungere a Roma”, all’incontro con Papa Francesco. “Le riflessioni di giovani detenuti possono essere anch’esse spinta per superare prove e difficoltà. Anche questo può, anzi deve essere, il Sinodo dei giovani: un tentativo di camminare davvero insieme verso un obiettivo comune. Il Sinodo può essere l’inizio di un progetto di collaborazione tra il Servizio di Pastorale giovanile diocesano e la realtà del l’Istituto penale per minori”. “Sarebbe molto apprezzabile - si legge nella lettera - che i diversi direttori della Pastorale giovanile delle diocesi, in modo particolare quelli dove è presente un carcere minorile, prendessero contatto con noi cappellani per costruire insieme cammini di rinascita, di riconciliazione e inserimento. Il che implica sinergia tra il cappellano e direttore del Servizio, uno studio di attività e laboratori di fede da poter portare avanti insieme. Non abbiate paura di investire energie e tempo collaborando con noi che spendiamo con gioia il nostro in ascolto dei molti bisogni dei giovani ospiti nelle strutture di pena. Noi abbiamo urgenza che il grido di aiuto arrivi a tutti voi. Non lasciateci soli nell’aiutare questi nostri ragazzi. I giovani che escono dal carcere hanno bisogno di aiuto concreto, sono essi stessi “opere segno” di cui tanto si parla nella Chiesa. Hanno bisogno di casa, lavoro ma soprattutto di accoglienza nelle nostre comunità. Come cappellani, comprendiamo le difficoltà nel realizzare tutto questo, ma crediamo anche che tutti noi insieme dobbiamo avere il coraggio di osare per realizzare concretamente il Vangelo, attraverso opere che promuovono il rispetto e la dignità di coloro che si sentono emarginati dalla società”. “Certezza della pena, certezza del recupero”. Intervista all’attore Paolo Cevoli di Paolo Guiducci ilponte.com, 27 marzo 2018 L’assessore di Zelig il cui motto era “i fatti mi cosano”, invece di preoccuparsi per il turismo del suo immaginifico comune, scende in campo per chiedere l’approvazione della riforma delle carceri. E lo fa con la consueta, travolgente simpatia, accompagnata da parole profonde e da uno sguardo umano. Intervenuto a Bologna ad un seminario sulla riforma organizzato dagli studenti della Facoltà di Giurisprudenza, dal titolo “Dall’amore nessuno fugge”, dedicato alla esperienza delle carceri Apac in Brasile, il comico riccionese Paolo Cevoli ha catturato la platea dei ragazzi. “Anch’io, come voi, qualche anno fa mi sono laureato, ma questo tema del carcere mi ha sempre colpito”. Non a caso Cevoli ha rilanciato apparendo in un video realizzato dalla Comunità Papa Giovanni XXIII che in Italia gestisce sei Comunità Educanti con i Carcerati (Cec), strutture per l’accoglienza di carcerati che scontano la pena. Cevoli, da Roncofritto alle carceri. Non è che stavolta ha fatto il passo più lungo della gamba? “La situazione carceraria in Italia non è delle migliori. Approvare la riforma del nuovo ordinamento penitenziario significa fare un passo in avanti. Significa che le nuove realtà, come le Case del Perdono di Montescudo, diventino strutture accreditate nelle quali i carcerati possano scontare la pena detentiva. La possibilità di redimersi dev’essere garantita a tutti. L’uomo, infatti, non è il suo peccato, o più precisamente come diceva don Oreste Benzi, l’uomo non è il suo errore. Insomma, l’uomo non è la cazzata che ha fatto: nella vita c’è sempre la possibilità di cambiare, di redimersi, di migliorare. Vorrei che tutti quelli che possono fare qualcosa per questa situazione, la facessero”. Da dove nasce questa tua prospettiva? “Incontrando Giorgio Pieri, il responsabile delle Case del Perdono riminesi, ho incontrato da vicino queste realtà, e mi si è aperto un mondo. Dato che la mia caratteristica è la confusione mentale, ho subito desiderato diventare vostro amico. Scherzi a parte, mi ha colpito una frase di Papa Francesco, pronunciata incontrando dei carcerati: “Io potrei essere uno di voi, essere qui in galera come voi”. Invece sei approdato alle Case del Perdono… “Qui incontri persone. Storie. Volti. Ricordo la discussione tra Pieri e un recuperando che raccontava la sua storia. Nel corso della sua esperienza aveva interpretato tutto il Codice penale. Nella Casa Madre del Perdono vige la regola delle 10 sigarette al giorno e il meccanismo dell’infame, che si sviluppa però al contrario di quanto avviene in carcere. Se tu non mi aiuti a ritrovare me stesso sei un infame. Questo ragazzo aveva venduto il suo turno di pulizia gabinetti per tre sigarette. E non si capacitava del rammarico di Pieri. “Ne ha combinate di tutti i colori, e tu ti focalizzi su una sciocchezza come tre sigarette”. La risposta di Pieri è da segnare con il circolino rosso. “Non è per le sigarette: se infrangi la regola vai contro te stesso”. Ancora una volta, è da sbandierare lo slogan di don Oreste: una persona può sbagliare tutto nella vita ma non può essere definito dall’errore che ha commesso. Un ragazzo di 24 anni, il cui curriculum da delinquente si è infoltito da quand’era ragazzino per poi laurearsi, frequentare master e specialistica in malavita, mi ha detto: “Nella Casa Madre del Perdono ho trovato una possibilità per me stesso”. Il carcere quando non è inutile, è dannoso. Le esperienze alternative di Comunità Educante rappresentano una compagnia e un’amicizia e la possibilità di un percorso verso la rinascita”. Non tutti sono concordi. C’è da valutare anche l’entità del reato e il timore che si tratti di una scorciatoia… “Durante la sua visita a Bologna, Papa Francesco ha raccontato agli universitari il parallelo tra Ulisse e Orfeo di fronte alle sirene così belle e così brave che con il loro canto ammaliante suscitavano negli uomini un’attrattiva tale da condurli alla morte. Di fronte alle seducenti Sirene, Ulisse e Orfeo si comportano in maniera differente. Per superare indenne le seducenti figure mitiche, Ulisse adotta un metodo coercitivo: si fa legare all’albero maestro della nave e tappi di cera alle orecchie dei marinai. Il capo degli Argonauti Orfeo, invece, per passare incolumi e proseguire il viaggio verso Scilla e Cariddi inizia a cantare un canto più bello di quello delle Sirene. La melodia di Orfeo era così deliziosa che i marinai la preferirono a quella delle ammalianti, pericolose Sirene. Giorgio Pieri e le sue Case del Perdono sono una sorta di Orfeo: il problema della pena non si risolve con il carcere ma abbracciando qualcosa di positivo. Questa esperienza di recupero è un canto orfico”. Il tema è così serio, Cevoli, che Le ha fatto accantonare per una volta la leggerezza che solitamente la contraddistingue? “Prima o poi lancerò la campagna “Adotta un galeotto”. Mantenere queste persone nelle Case del Perdono costa 30 euro al giorno. E allora fai anche tu come Giuda, dona i tuoi 30 denari”. Teatro in carcere. Oggi la quinta Giornata nazionale: ecco le novità Redattore Sociale, 27 marzo 2018 Arricchisce l’attività del Coordinamento nazionale l’adesione del Dipartimento per i minori. Oltre 40 esperienze teatrali in più di 100 palcoscenici rinchiusi, lo scorso anno si erano registrati 99 eventi. Vito Minoia: “Esperienza unica al mondo”. Anche gli istituti di pena per minori entrano in modo organico nella rete nazionale dei palcoscenici rinchiusi, mentre dalle Marche un progetto biennale “Teatro e Rugby in Carcere” coinvolgerà gli allievi di una scuola pesarese e un gruppo di studenti universitari del corso di laurea in Scienze Motorie dell’Università di Urbino. Si arricchisce, ogni anno di più, l’intensa attività dei teatri nelle carceri capitanata dal Coordinamento nazionale che domani celebra la quinta Giornata Nazionale del Teatro in Carcere: un evento organizzato in concomitanza con il World Theatre Day 2018 (Giornata Mondiale del Teatro), promosso dall’Iti Worldwide-Unesco (International Theatre Institute) e dal Centro italiano dell’Iti. Tra le novità più in rilievo, la significativa adesione del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità nel protocollo di intesa sottoscritto nel 2013 e rinnovato due anni fa tra Dap, Coordinamento nazionale del teatro in carcere e Università Roma Tre. Il Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere è un organismo presieduto dal Teatro Aenigma e costituito da oltre 40 esperienze teatrali diffuse su tutto il territorio nazionale. Mentre il 27 novembre scorso è stata sottoscritta l’Appendice operativa al Protocollo d’Intesa che ha registrato l’adesione anche del Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità. “Con la sottoscrizione del Protocollo - spiega Vito Minoia, presidente del Coordinamento nazionale - condividiamo e promuoviamo l’idea che i tempi sono maturi per cercare in modo organico una pratica più consapevole nei metodi, nelle funzioni, negli obiettivi delle arti sceniche negli istituti penitenziari. Il Teatro è presente in oltre 100 carceri italiane e non c’è altra nazione al mondo con un’esperienza così diffusa e qualificata sia dal punto di vista artistico che educativo”. “Questione meridionale” anche nella giustizia penale di Viviana Lanza Il Mattino, 27 marzo 2018 Il procuratore Melillo critico: “Nei processi penali elevato il numero delle prescrizioni”. “La riforma dell’ordinamento penitenziario è un passo fondamentale per umanizzare l’idea della pena. Quella costituzionale è una riforma di cui si parla da anni con il rischio di screditare il suo valore di legge fondamentale”, ha dichiarato il procuratore Giovanni Melillo. Quanto, più in generale, alla riforma della giustizia, ha affermato: “Una moratoria è necessaria”. Il capo della Procura di Napoli è intervenuto alla tavola rotonda sul tema della riforma della giustizia che si è svolta ieri a Palazzo Serra di Cassano. Tra gli argomenti al centro del dibattito, i ruoli della politica. “C’è una concentrazione dell’intervento politico sui diritti di libertà a scapito dei diritti sociali”, ha aggiunto Melillo, che ha parlato di “Questione meridionale” a proposito dei tempi della giustizia. Se nel centro e nel nord Italia, soprattutto nel settore della giustizia civile, i tempi dei processi sono in linea con gli standard, al sud la giustizia svela tutte le criticità del sistema. Nel settore penale la differenza è sulle prescrizioni. E non c?entra la carenza di risorse e personale. “Nel tribunale di Milano, anche prima delle recenti assunzioni di personale amministrativo, si prescrive solo l’1,7% dei processi, in altri tribunali la percentuale arriva al 50”. Il procuratore Melillo ha citato quattro tribunali particolarmente critici sotto questo aspetto: Napoli, Roma, Venezia, Torino. “Il 50% del debito della giustizia penale è in queste quattro Corti di Appello”. Occorrono cambiamenti, stando attenti a evitare il rischio di populismo penale. “Si chiede sempre più carcere e sempre più pene, e non sempre più equità”, ha concluso Mellilo, evidenziando l’esigenza di “ricostruire lo Stato, è l’unico modo per superare il primato del pubblico ministero. Occorre allargare e rafforzare i siti amministrativi, riscoprire il senso della pubblica amministrazione”. Partendo da Napoli, “dove più che altrove c’è un effetto dissolvenza dello Stato e della pubblica amministrazione”. “La giustizia è estinta” ha affermato l’avvocato penalista Massimo Krogh, sottolineando come il tema della riforma della giustizia incroci quello dell’analisi dei problemi culturali e sociali da affrontare, della questione della separazione delle carriere dei magistrati a cui trovare soluzione, della necessità di interventi legislativi finalizzati a migliorare concretamente i tempi della giustizia e, nella sostanza, la giustizia in sé. Critiche sono state avanzate agli interventi legislativi degli ultimi anni. “Meglio non fare niente” ha affermato provocatoriamente l’avvocato penalista Vincenzo Maiello puntando l’attenzione sulla qualità ‘scadente del fondante legislativo”. “Oggi per affrontare i vari problemi del sistema giustizia occorre una moratoria, occorrono gli stati generali della giustizia” ha concluso, augurando per il futuro interventi “liberi dai condizionamenti dei populismi vari”. Antonella Marandola, ordinario di diritto processuale penale dell’università del Sannio, si è soffermata su alcuni interventi come la nuova legge che da luglio entrerà in vigore in tema di intercettazioni telefoniche: “Ci sarà un ruolo ampio della polizia giudiziaria, la discrezionalità della polizia giudiziaria su cosa sia rilevante e cosa no”. “La giurisdizione è diventata scarsa, al limite dell’arbitrio processuale” ha dichiarato Angelo Scala, docente della Federico II. Il convegno è stato aperto dal presidente emerito della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick. Intercettazioni, giallo sulla norma che dovrebbe aiutare i difensori di Errico Novi Il Dubbio, 27 marzo 2018 La polizia dovrà “indicizzare” tutti i colloqui non trascritti? I pm: diremo di fare così. All’audizione dello scorso 22 novembre il consigliere Cnf Antonio De Michele lo spiegò con chiarezza, ai deputati della commissione Giustizia: “In certi punti il decreto intercettazioni presuppone un sistema giustizia più attrezzato di com’è nella realtà: noi difensori non avremo più a che fare con trascrizioni complete, non potremo fare copie né acquisire i file audio, ma dovremo accontentarci di andare in Procura ad ascoltare le telefonate. Avete idea di cosa significhi, soprattutto nei maxiprocessi, quando si ha a che fare con migliaia di ore di comunicazioni?”. È il rebus attorno al quale si è consumato anche il dibattito organizzato venerdì scorso dalle Camere penali, a cui sono intervenuti i capi delle maggiori Procure. Ed è non caso l’aspetto più controverso nella riforma degli “ascolti”. Un’incognita che si fa ogni giorno più pesante, se si considera che le norme varate lo scorso 29 dicembre entreranno in vigore il 12 luglio. “Si è creata una situazione mortificante per la funzione difensiva”, secondo il presidente dell’Ucpi Beniamino Migliucci. Visto che per tutelare la privacy la polizia giudiziaria trascriverà solo le intercettazioni rilevanti ai fini dell’indagine, gli avvocati dovranno brancolare nel mare delle bobine alla ricerca di una traccia utile alla linea difensiva. Anche perché resta ancora ambigua la valenza di una norma di dettaglio inserita nella seconda “redazione” del decreto, ma in parte ridimensionata nella relazione illustrativa con cui il governo ha presentato la riforma. Si tratta di una frase aggiunta nel codice di rito al quarto comma dell’articolo 267, che già definiva le regole generali per l’uso dello strumento investigativo: “L’ufficiale di polizia giudiziaria provvede a norma dell’articolo 268, comma 2- bis (quello che appunto vieta di trascrivere le comunicazioni irrilevanti o “invasive”, ndr) informando preventivamente il pm con annotazione sui contenuti delle comunicazioni”. Non è chiaro appunto l’orizzonte applicativo di tale precisazione. Alla lettera, sembrerebbe riferirsi a tutto il materiale non trascritto. Solo che poi nella relazione illustrativa si segnala testualmente: “In particolare, gli ufficiali di polizia giudiziaria hanno l’obbligo di informare il pm, con apposita annotazione, nei casi in cui sia dubbio se procedere a trascrizione”. Quindi l’annotazione non “indicizzerà” tutti i colloqui messi da parte, ma solo quelli sui quali l’agente è incerto. Come è stato giustamente ricordato al convegno dell’Ucpi dal presidente della Camera penale di Torino Roberto Trinchero, “la polizia finirà per operare un filtro a discapito della difesa, per una fisiologica, seppur non dolosa, propensione a ritenere rilevante solo ciò che è funzionale a sostenere l’accusa”. Una traccia utile a scagionare chi è indagato potrebbe essere proprio in passaggi scartati dalla polizia. E per trovarli, l’avvocato dovrebbe ascoltare migliaia di ore di “nastri”. Un assurdo. Sempre al dibattito del 23 marzo, a microfoni spenti, è stato fatto notare da alcuni magistrati che, per come decreto e relazione sono scritti, tutte e due le interpretazioni sono possibili: sia quella per cui va annotato solo il contenuto dei colloqui di rilevanza incerta, sia l’ipotesi che debba essere annotato tutto. E tra i capi delle Procure l’idea è che sarebbe opportuno dare alla polizia l’indicazione di “indicizzare” ogni singola comunicazione. In tal modo, appunto, i difensori stessi avrebbero una traccia minima per orientarsi. Altro aspetto spiazzante: in quella a stessa relazione che sembra suggerire una lettura “restrittiva” sulle annotazioni fatte, si legge pure: “L’esame di tali annotazioni costituisce un utile strumento orientativo per le difese, che possono più agevolmente esaminare, data la nuova struttura dei verbali, il materiale registrato”. Non che siano risolti tutti i problemi, visto il divieto di estrarre copia: ma certo quelle note darebbero un minimo d’aiuto. Quell’indice esisterà o no? Dipenderà dai pm. Ed è proprio per quest’incertezza che, come reclamano insieme avvocati e magistrati, sarebbe saggio congelare l’entrata in vigore del decreto. Il “sistema giustizia” va in tilt e il Csm riapre il concorso per 400 magistrati onorari di Antonello Cherchi Il Sole 24 Ore, 27 marzo 2018 Ci sarà tempo fino al 29 marzo per i ritardatari che intendono diventare magistrati onorari. I termini del concorso per 400 posti - 300 giudici di pace e 100 vice procuratori onorari - sono stati, infatti, riaperti dal Csm dopo che il sistema informatico che deve gestire le domande è andato in tilt. In particolare, il 15 marzo - ultimo giorno per presentare le candidature - la piattaforma online non ha retto e agli aspiranti in fila è stato negato l’accesso alle procedure telematiche per la consegna della domanda. Un esercito di candidati - D’altra parte, il sistema ha dovuto reggere il peso di un numero rilevante di richieste: al concorso - una selezione per titoli riservata ai laureati in giurisprudenza con un’età compresa tra 27 e 60 anni - hanno risposto in circa 43mila. Una buona parte dei candidati ha provato a inviare la domanda - che doveva essere trasmessa esclusivamente online attraverso il portale internet del Csm - soprattutto l’ultimo giorno, ma l’elevato e contestuale numero di accessi ha mandato in tilt il server. La riapertura dei termini - Per questo il Consiglio superiore, che ha predisposto il bando, ha valutato la riapertura dei termini, soluzione poi affidata a una delibera con la quale si sposta la presentazione delle domande alle ore 12 del 29 marzo. Il Csm, considerati i problemi informatici dell’ultima ora, si lascia, però, aperta un’altra strada. Se, infatti, nei prossimi giorni dovesse verificarsi un’ulteriore indisponibilità del server, questa verrebbe segnalata sul sito del Csm e a quel punto gli aspiranti magistrati onorari dovrebbero ritornare a carta e penna. Le soluzioni alternative - Si tratterebbe, infatti, di scaricare dal sito del Consiglio il fac-simile della domanda, compilarla, sottoscriverla e inviarla allegando la fotocopia di un documento di identità valido e la documentazione indicata nel bando. L’invio potrà avvenire in due modi: attraverso una casella di posta elettronica certificata o con raccomandata con ricevuta di ritorno. In quest’ultimo caso il termine di spedizione si sposterà alle 12 del 30 marzo. Whistleblowing. L’Inps pubblica le regole per chi denuncia i colleghi Il Manifesto, 27 marzo 2018 Applicata la legge del novembre scorso: attraverso un modulo sulla pagina Intranet dell’istituto qualsiasi dipendente potrà denunciare un collega o un dirigente che compie un illecito. L’Inps ha pubblicato le linee guida sul whistleblowing, dopo le novità introdotte dalle legge del novembre scorso, a tutela del lavoratore che segnala un’infrazione compiuta da colleghi o dirigenti. L’istituto ha aperto una casella di posta elettronica ad hoc, mettendo a disposizione un modulo standard. “Il dipendente che intenda segnalare condotte illecite, di cui sia venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di servizio con l’Istituto, può rappresentare l’illecito al Responsabile della prevenzione, della corruzione e della trasparenza”, spiega l’Inps in una circolare a firma della direttrice generale Gabriella Di Michele. L’alert, conclude, deve viaggiare sullo specifico “modulo per la segnalazione di condotte illecite” rinvenibile nella pagina Intranet. Evasione fiscale, i “consigli” del commercialista sono intercettabili di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 27 marzo 2018 Corte di cassazione - Sentenza 26 marzo 2018 n. 14007. Se il commercialista è intercettato perché sotto indagine, i “consigli” forniti ai clienti per evadere il Fisco non sono coperti dal segreto professionale e dunque sono pienamente utilizzabili anche ai fini cautelari. La Cassazione, sentenza n. 14007 del 26 marzo, ha infatti chiarito che il divieto si applica soltanto ai fatti di cui il professionista sia venuto a conoscenza con riguardo alla propria attività professionale, non potendovi rientrare le informazioni, sia pure a contenuto ‘tecnico’, per portare i soldi all’estero. Né ha rilievo il fatto che il commercialista non sia indagato in concorso. I giudici dunque hanno confermato la misura del sequestro preventivo di 1,3mln di euro per una presunta sottrazione al pagamento delle imposte di 2 milioni di euro trasferiti a Dubai. Per la Suprema corte, infatti, “sebbene l’art. 271, comma 2, c.p.p. preveda espressamente, fra i divieti di utilizzazione, quello concernente le intercettazioni relative alle conversazioni o comunicazioni delle persone di cui all’art. 200, comma 1, c.p.p., quando esse hanno ad oggetto fatti da loro conosciuti in ragione della loro professione”, tale disposizione deve essere intesa nel senso che “il divieto è posto a tutela dei professionisti e dell’esercizio della loro funzione professionale, ancorché non formalizzato in un mandato fiduciario, purché detto esercizio sia causa della conoscenza del fatto, ben potendo un libero professionista venire a conoscenza, in ragione della sua professione, di fatti relativi ad un soggetto dal quale non sia stato formalmente incaricato”. Ne consegue, continua la decisione, che il divieto sussiste ed è operativo quando le conversazioni intercettate siano pertinenti all’attività professionale e riguardino fatti riconosciuti in ragione della professione (n. 17979/2013). Mentre il divieto di utilizzazione non sussiste quando le conversazioni non siano pertinenti all’attività professionale e non riguardino di conseguenza fatti conosciuti per ragione della professione (18638/2015). E, continua la Corte, “nel caso di specie le intercettazioni eseguite, lungi dal riguardare l’attività professionale svolta dal commercialista dell’indagato e riferita alla cura degli interessi patrimoniali di quest’ultimo, avevano ad oggetto un’attività in sé illecita, tale evidentemente da esulare rispetto ai limiti dello svolgimento di una incarico professionale, il quale presuppone, ove non si voglia cadere nell’insanabile contraddizione logica di ritenere tutelato dall’ordinamento lo svolgimento di un’attività criminosa, la piena liceità della condotta tenuta”. Le conversazioni captate infatti “contenevano le indicazioni fornite dal commercialista all’indagato sulle modalità di perpetrazione del delitto”, per cui “è di tutta evidenza come esse, essendo indubbiamente esuberanti rispetto al corretto esercizio di un incarico professionale non possano essere protette dalle guarentigie dell’art. 271, 2, c.p.p”. A quanto si evince dalla decisione, ad essere finito per primo sotto indagine era stato proprio il professionista per i presunti “servizi di ottimizzazione fiscale” da lui forniti. Dunque, conclude la Corte, benché non indagato in concorso sussisteva tra le due condotte una “spiccata connessione investigativa”. Amministratore di condominio, appropriazione oltre il ragionevole dubbio di Giulio Benedetti Il Sole 24 Ore, 27 marzo 2018 Corte di cassazione, Seconda sezione penale, sentenza n. 7438 del 2018. La dottrina tradizionale afferma che il reato di appropriazione indebita si realizza quando il titolo illecito implica il trasferimento del solo possesso e il possessore non adempie all’obbligo di restituire la cosa mobile altrui, opponendo un rifiuto immotivato o tenendola semplicemente come propria. L’elemento soggettivo doloso del reato consiste nella volizione e previsione della condotta assolutamente incompatibile con le ragioni della proprietà. La Corte di Cassazione, con la sentenza penale n. 7438/2018, ha respinto il ricorso di un amministratore condominiale contro una sentenza di condanna che lo aveva riconosciuto responsabile del reato di appropriazione indebita nei confronti di un condominio. In particolare, l’amministratore lamentava la sussistenza di un “ragionevole dubbio” in ordine alla condotta appropriativa posto che, per una parte della somma contestata, aveva dato spiegazione adeguata e che per la restante l’accusa non aveva dimostrato la realizzazione della condotta illecita. La Corte di Cassazione afferma che la Corte d’appello non aveva riformato la sentenza del tribunale circa la responsabilità del condannato ma, a fronte delle giustificazioni del condannato, ha ridotto l’importo della somma contestata e ha ritenuto comunque dimostrata la sua condotta illecita. La regola del “ragionevole dubbio”, di cui all’articolo 533 del Codice di procedura penale, non esclude che si debba pronunciare la condanna quando il dato probatorio acquisito lascia soltanto eventualità remote la cui realizzazione, non trovando riscontro nel processo, si pone al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana. Del resto la Corte di Cassazione richiama la sentenza 41462/2012 che, con riferimento a una fattispecie analoga, afferma che integra il reato di appropriazione indebita la condotta dell’amministratore del condominio che, avendo ricevuto dai condomini gli importi relativi al pagamento dei contributi previdenziali relativi al portiere dello stabile, ometta di versarle all’istituto previdenziale. Dirigente licenziabile per vicende penali se sono oggetto di contestazione di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 27 marzo 2018 Corte di cassazione - Sezione lavoro - Sentenza 26 marzo 2018 n. 7426. Il dirigente non può essere licenziato sempre e comunque in funzione del grado ricoperto. La Cassazione, con la sentenza n. 7426/18, ha precisato, infatti, come debba considerarsi illegittimo il licenziamento sorretto da giustificato motivo oggettivo per una vicenda penale che però non è stata richiamata nella fase di merito. I fatti - In particolare nella vicenda il prestatore aveva partecipato alla gestione rivelatasi fallimentare dell’insolvenza di un gruppo cliente della Carlsberg Italia. Il dirigente, inoltre, operava quale amministratore delegato di altre due società del medesimo gruppo e in particolare era stato evidenziato il coinvolgimento della capogruppo in una vicenda penale di evasione fiscale “a carosello” volta a raggirare il meccanismo di funzionamento dell’Iva di cui il prestatore era imputato. La Cassazione ha rilevato - quanto al ruolo ricoperto dal prestatore nella frode carosello - che si trattava di circostanze effettive ed emerse sì dall’istruttoria ritualmente svolta (e rispetto alle quali il giudice civile aveva il potere di ricostruire autonomamente, con pienezza di cognizione, i fatti materiali e di pervenire a valutazioni e qualificazioni degli stessi in modo del tutto autonomo e svincolato dallo stato e dall’esito del procedimento penale), ma non oggetto di contestazione. Rapporto di lavoro dirigenziale - E a tal proposito è stato richiamato il principio secondo cui, in materia di rapporto di lavoro dirigenziale, ferma l’insussistenza di una piena coincidenza tra le ragioni di licenziamento di un dirigente e di un licenziamento disciplinare, per la peculiare posizione del soggetto e il relativo vincolo fiduciario, le garanzie procedimentali dettate dall’articolo 7 commi 2 e 3 della legge 3000/1970, in quanto espressione di un principio di generale garanzia fondamentale, trovano applicazione anche nell’ipotesi del licenziamento di un dirigente, a prescindere dalla sua specifica collocazione nell’impresa, qualora il datore di lavoro gli addebiti un comportamento negligente, o colpevole in senso lato, ovvero se, a base del recesso, siano poste condotte comunque suscettibili di pregiudicare il rapporto di fiducia tra le parti, cosicché la loro violazione preclude la possibilità di valutare le condotte causative del recesso. Niente foglio di via al facchino abusivo “insistente”: non c’è reato di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore , 27 marzo 2018 Il facchino abusivo che gira per la stazione in cerca di clienti ai quali pretende di portare le valigie con modalità “insistenti” non commette un reato. E non può dunque essere considerato socialmente pericoloso, al punto da imporgli, una misura di prevenzione prevista dal Codice antimafia, come il foglio di via e il divieto di fare ritorno per tre anni. La Corte di cassazione (sentenza 11606) chiarisce, semmai ce ne fosse bisogno, il netto confine tra un’attività illecita e magari fastidiosa e un reato. Una differenza che va a beneficio del ricorrente pugliese, che si vede annullare la sentenza, pronunciata con giudizio abbreviato, con la quale, il Tribunale prima e la Corte d’Appello di Busto Arsizio poi, lo avevano condannato per la violazione dell’ordine di rimpatrio con il quale il questore di Varese lo aveva “rispedito” a casa, intimandogli di non tornare per tre anni. La difesa si era giocata la carta dello stato di necessità: l’imputato era disoccupato e aveva appena avuto una figlia dalla sua compagna. La Cassazione però mette a fuoco un altro aspetto: il provvedimento era eccesivo rispetto alle “colpe” dell’uomo. I giudici di merito avevano giustificato la misura ritenendo socialmente pericoloso il “carrellista” abusivo, in virtù di vecchi precedenti penali per reati contro il patrimonio, i cui effetti si erano estinti per l’esito positivo dell’affidamento in prova ai servizi sociali. Nel mirino dei giudici era finita l’attività abusiva di facchinaggio svolta a Malpensa che, sommata all’assenza di un lavoro regolare, rendeva verosimile l’esistenza di un pericolo per la sicurezza pubblica. Per la corte d’Appello, infatti, “l’aggirarsi per l’aeroporto alla ricerca di viaggiatori da circuire per portargli il carrello e farsi dare una mancia non dovuta” è un’attività quantomeno non corretta se non illecita che “pone in essere una specie di truffa”. Diversa la conclusione della Cassazione che invita ad evitare pericolosi “soggettivismi” nell’interpretazione dei fatti. Per giustificare i provvedimenti applicati non basta essere “fastidiosi”, bisogna essere dediti alla commissione di reati. E neppure ad un crimine qualunque ma ad uno che “offenda o metta in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica”. Il tutto provato in sede processuale. L’insistenza non mette a rischio questi “beni protetti”, né si può concludere che, chi si trova in una condizione di marginalità sociale e lavorativa sia “destinato” comunque in futuro a delinquere. Liguria: Garante dei detenuti, ok dalla prima commissione regionale genova24.it, 27 marzo 2018 La Prima Commissione regionale ha approvato, a maggioranza e con l’astensione della Lega, il Testo unificato delle proposte di legge firmate dall’opposizione (compreso il Partito Democratico, primo firmatario Valter Ferrando) e dal capogruppo di Forza Italia Vaccarezza per l’istituzione del Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. “Adesso tocca alla Giunta regionale, anche in considerazione dell’ampio schieramento di forze politiche che ha dato il via libera al testo - commenta il gruppo Pd in Regione Liguria - mettere a disposizione risorse e personale per dotare anche Regione Liguria di questo fondamentale strumento, che già esiste in molti altri territori. Il Garante è fondamentale per la sicurezza di tutti coloro che sono sottoposti a misure restrittive della libertà personale, favorisce la collaborazione di tutti gli enti, del mondo associativo e degli istituti penali (compresi quelli per minori) e oltre a denunciare abusi e disfunzioni, propone anche interventi per migliorare il livello di istruzione, di formazione e garanzia delle persone”. La Commissione ha votato tutti a 14 gli articoli della legge, secondo i quali il Garante opera in autonomia e in indipendenza di giudizio: “A questa figura spetta verificare che le misure restrittive siano coerenti con la Costituzione e che sia rispettate le garanzie per chi è sottoposto a misure restrittive”. Sul tema interviene anche Gianni Pastorino, consigliere di Rete a Sinistra: “Questa mattina, durante la seduta della Commissione consiliare, si sono votati tutti gli articoli di legge, eccetto la disposizione economica in quanto manca ancora la scheda tecnica di copertura finanziaria della Giunta regionale - dice - la votazione ha avuto esito positivo dato che tutti i gruppi consiliari, tranne quello della Lega, si sono espressi a favore del testo concordato”. “Tale esito favorevole - continua Pastorino - dà forza al presidente della Commissione consiliare di interloquire con la Giunta regionale affinché si possa dirimere la problematica economico finanziaria che prevede lo stanziamento di emolumenti necessari al funzionamento dell’istituto del garante. Come gruppo consiliare di Rete a Sinistra riteniamo che l’iter legislativo per dotare la Regione Liguria della figura del garante dei detenuti sia politicamente molto pregnante e impiegheremo tutte le nostre forze affinché tale legge sia portata in discussione in Consiglio Regionale entro tempi stringenti, entro la fine di aprile”. “Oggi, é sempre più avvertita l’esigenza di costituire un organismo che sul modello delle amministrazioni indipendenti, vigili e promuova il rispetto dei diritti fondamentali delle persone recluse o comunque in condizione di limitazione della libertà personale - dice Angelo Vaccarezza, capogruppo di Forza Italia in Regione e presidente della commissione di questa mattina - Le proposte originariamente erano due - racconta - una presentata dal Collega Gianni Pastorino, sottoscritta da me e dalla collega Alice Salvatore. La seconda portava la firma del Gruppo del Partito Democratico. Ad oggi dopo, diversi incontri e grazie all’impegno di tutti, la proposta di legge é una sola, e durante la seduta é stato approvato tutto l’articolato del disegno di legge. Attendiamo ora il confronto con la Giunta per l’approvazione definitiva, e successivamente il passaggio in Assemblea del Consiglio Regionale”. Milano: è internato da un anno a San Vittore, aspettando la Rems di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 marzo 2018 Massimiliano Spinelli a luglio 2017 è stato assolto per incapacità di intendere e volere. “Fatemi uscire, che cosa ci sto facendo qui dentro?”, dice davanti ai militanti di Opera Radicale, l’associazione milanese del Partito Radicale. Non è un detenuto, non ha alcuna pena da scontare, ma si trova ristretto dentro una cella del Centro Clinico del carcere di San Vittore e ha meno diritti dei detenuti stessi. Parliamo di Massimiliano Spinelli, classe 1972 e fu coinvolto in una vicenda processuale che poi l’ha visto uscire assolto per incapacità di intendere e volere. Come accade spesso, l’hanno ritenuto socialmente pericoloso e il giudice ha dato l’ordine di essere sottoposto in misura di sicurezza presso una Rems. Parliamo di un internato frutto di un sistema - quello del “doppio binario” - nato durante il fascismo e protratto finora. L’iter giudiziario del processo di Massimiliano si è concluso a luglio 2017, ma da allora egli è rimasto dove si trovava, cioè in carcere come quando vi era detenuto in custodia cautelare: è stato assolto, nessuna pena ha da scontare, bensì una misura di sicurezza. Massimiliano, in sintesi, si trova trattenuto illegalmente presso il carcere di San Vittore. Il motivo? Quello che riguarda tanti altri internati psichiatrici come lui: è in attesa di entrare in una Rems. Quest’ultima è stata istituita con la legge 81/ 2014 che ha sancito il superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). Fu un grande passo di civiltà. Dentro gli Opg, in effetti, i “folli rei” non erano seguiti dai servizi sanitari territoriali e potevano rimanere all’infinito tra quelle antiche mura, per la continua proroga delle misure di sicurezza: i cosiddetti “ergastoli bianchi”. Condizioni disumane, come dimostrò nel 2011 la Commissione d’inchiesta parlamentare guidata dal senatore Ignazio Marino. Adesso, la legge 81 stabilisce un limite per la permanenza nelle Rems e i Dipartimenti di salute mentale devono elaborare piani terapeutici ad hoc per ogni recluso. Però sono affollate - questo è anche dovuto dal fatto che i giudici, con grande facilità, emettono troppi ordinanze di misure di sicurezza - e si creano le liste d’attesa. Alcuni attendono in libertà e altri, invece, sono reclusi anche se non sono ufficialmente dei detenuti. Massimiliano Spinelli è uno di questi. L’ha incontrato la delegazione del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale Transpartito, guidata dall’associazione Opera Radicale: il suo incontro è avvenuto alla presenza del dottor D’Amato, psichiatra responsabile del reparto psichiatria del Centro Clinico, il quale lo ha in cura e che ha accompagnato la delegazione a incontrarlo in quanto unico internato della Casa circondariale. Della posizione giuridica di Massimiliano ne aveva parlato anche lo stesso direttore del carcere dottor Siciliano e la vice direttora dottoressa Mazzotta durante il colloquio con la delegazione radicale per riferire sulla situazione dell’Istituto: la direzione ha confermato di essere in attesa da mesi di ricevere una risposta dalle Rems sulla disponibilità ad accogliere Massimiliano. Anche il dottor D’Amato ha riferito di aver inviato parecchie richieste di intervento alle Rems, nell’interesse di Massimiliano perché potesse uscire dalla sua situazione di detenuto non detenuto. L’internato è di Roma, per questo si attendono le risposte - finora rimaste inevase - delle tre Rems della regione Lazio: ovvero quelle di Palombara Sabina, Subiaco o Ceccano. Massimiliano, appena ha incontrato i membri dell’associazione Opera Radicale, si è dimostrato felice. A lui gli è rimasto solo la madre che abita a Roma e non può andare a fargli visita. “Fatemi uscire”, continua a dire Massimiliano rivolgendosi ai militanti del Partito Radicale. È evidente la speranza di quest’uomo che qualcuno lo possa aiutare ad uscire da quella cella, dove vive pur non essendo detenuto. Si trova dietro alle sbarre e per certi versi in condizioni più gravose di chi si trovi detenuto, perché la sua cella è chiusa mentre per tanti detenuti dei raggi di San Vittore la cella è aperta almeno per qualche ora al giorno. Massimiliano non è un condannato, ma vive in una condizione di condannato. Il motivo di tale condizione è l’assenza di attuazione dell’ordine di esecuzione emesso dalla Procura della Repubblica di Milano, che in data 6 marzo ha disposto l’esecuzione della misura di sicurezza dell’Opg per 2 anni da svolgersi in una delle tre Rems situate nella Regione Lazio. Però è in carcere. La misura di sicurezza non deve essere eseguita dentro un penitenziario. Lo scrive nero su bianco l’articolo 213 del codice penale, la ratio è chiara: evitare che gli internati vivano le limitazioni alla libertà imposte al detenuto in quanto stia eseguendo una condanna, e d’altra parte, nel caso di chi deve essere sottoposto a cure psichiatriche, consentire a quest’ultimo di ricevere le cure in un luogo adeguato che non si trasformi in una punizione laddove la stessa Autorità Giudiziaria abbia stabilito che nessuna punizione può essere inferta per assenza di imputabilità. L’associazione Opera Radicale non starà a guardare e intraprenderà le necessarie azioni per assicurare che per l’internato Massimiliano si interrompa al più presto la detenzione non dovuta in violazione del suo diritto di libertà e di quello alla salute, chiedendo aiuto anche al Garante Nazionale, quello locale e regionale. Napoli: la lunga strage degli innocenti di Isaia Sales Il Mattino, 27 marzo 2018 Sono stati arrestati dopo due anni gli assassini di Ciro Colonna, ucciso in un circolo di Ponticelli durante un agguato camorristico che aveva come obiettivo un membro del clan del quartiere. Il 19enne non c’entrava niente con la camorra, la malavita, con le attività illegali e con quegli assassini. Ma ci sono voluti due anni per accertarlo e restituirgli almeno l’onore di essere un normale abitante di un quartiere, che normalmente frequentava un circolo del rione, come i suoi coetanei frequentano i pub delle altre città italiane ed europee, per bere una birra e incontrarsi con gli amici. Nelle strade di Napoli, nei suoi quartieri e nei suoi vicoli affollati, nei bar, nei negozi, nei circoli ricreativi, o in altri luoghi molto frequentati, si viene uccisi “per caso” più che in qualsiasi altra città italiana ed europea. E prima che finalmente la vittima innocente venga riconosciuta come tale (perché capitata in mezzo a uno scontro tra clan o scambiata per un’ altra persona) ci vuole più tempo che in qualsiasi altra parte d’Italia e d’Europa. Immaginate il dolore di una famiglia che vede un suo caro ammazzato senza che c’entri niente di niente con il mondo criminale e al tempo stesso deve difenderne la memoria di persona perbene che non può normalmente passeggiare per strada, prendersi un caffè al bar, giocare a biliardino in un circolo, aspettare sotto casa l’amica che la viene a prendere, godersi il fresco della notte in una piazza della sua città. Perché a Napoli l’innocenza la devi sempre dimostrare, non tanto in tribunale ma nella vita (o nella morte) di tutti i giorni. È capitato così a Antonio Landieri, ucciso a 25 anni nel 2004 in un circolo a Scampia. I killer inviati dal boss Cesare Pagano fecero fuoco contro quelli che credevano essere i gestori di una piazza di spaccio, e invece erano sei amici che si trovavano lì per due chiacchiere e una partita di biliardino. Furono feriti in cinque mentre Antonio non riuscì a scappare perché ostacolato dalla carrozzina in cui era costretto a muoversi fin clan’ infanzia. Il cugino Rosario Esposito La Rossa gli ha dedicato il suo primo potente libro di racconti “Al di là della neve” e in pubblico, ogni volta che ne riparla, confessa l’amarezza e la rabbia di aver dovuto combattere per anni, assieme a tutta la sua famiglia e agli amici, perché almeno il suo ricordo non venisse associato alle bestie assassine. È capitato a due ragazzi ammazzati a Pianura fermi a discutere delle prossime vacanze estive in un una notte di agosto del 2000 davanti all’abitazione di un boss del clan Lago. È capitato a Lino Romano nel 2012, ammazzato a 30 anni in un agguato perché scambiato per Domenico Gargiulo, vero obiettivo del raid, che quella sera si trovava nello stesso palazzo dove viveva la fidanzata di Lino. È capitato nel 2005 ad Attilio Romano, commesso in un negozio di telefonini scambiato per un nipote di un boss dei cosiddetti scissionisti. È capitato nel 2004 a Dario Scherillo un giovane di 26 anni che lavorava presso un’agenzia di pratiche automobilistiche in un paese confinante con Secondigliano. È capitato a Petru Birlandenau, un rumeno che si guadagnava da vivere suonando la fisarmonica nelle carrozze della metropolitana, ucciso mentre cercava riparo nella stazione della Pignasecca durante un raid tra due bande. È capitato al giovanissimo venditore ambulante di calzini Maikol Giuseppe Russo la sera del 31 dicembre del 2015, davanti al teatro Trianon. È capitato a Gerry Cesarano ammazzato in una notte di fine agosto nella piazza della Sanità in una “stesa” di giovanissimi camorristi. Sono i primi che mi vengono in mente, e chiedo scusa per i tanti che non riesco qui a citare. Perché è questo il senso comune che si trasmette in chi non comprende la fatica che si fa ad abitare in luoghi dominati dai camorristi: se stavano lì, nello stesso circolo frequentato dagli spacciatori, qualcosa c’entravano con la camorra; se stavano lì, a quell’ora di notte, non potevano essere che sentinelle della camorra; se si lavora in un negozio la cui proprietà è ambigua, non si può che essere parte della stessa consorteria; se si sta in piazza a prendere il fresco non si può che essere coinvolti nel clan che quella piazza domina. Stando in quei rioni, in quei vicoli, in quei quartieri che si capisce quanto l’affermazione “ucciso per sbaglio” sia insufficiente ad esprimere la tragedia quotidiana che lì si vive. E ancora una volta ricordo le bellissime parole di Erri De Luca a commento della morte di Annalisa Durante: “Uccisa per sbaglio? Questa definizione è falsa. Annalisa era un ragazza di questa città e stava al posto giusto al momento giusto. Uccisa per il diritto di stare lì e a quell’ora. Uccisa per il diritto di tutti i napoletani di stare lì e a quell’ora”. Perché per una parte della popolazione di Napoli è ancora precluso il diritto a vivere la città a tutte le ore del giorno e della notte, in tutti i suoi luoghi e in tutti i suoi punti di ritrovo. E ciò a causa di una minoranza criminale, socialmente, culturalmente e militarmente compatta che avvolge, e al tempo stesso travolge e opprime il reato maggioritario dei quartieri in cui si insediano le bande di camorra. Nella realtà napoletana bisogna fare, dunque, una distinzione tra le vittime innocenti, ammazzate a seguito di una azione di contrasto ai criminali (in genere si tratta appartenenti alle forze dell’ordine), o uccise perché hanno reagito negativamente alle pressioni estorsive, o perché denunciavano e osteggiavano le attività camorristiche (giornalisti, amministratori locali) e le vittime “per caso” che si sono trovate inavvertitamente al centro di una azione a fuoco. Per queste la presunzione di innocenza è una lunga fatica, una lunga battaglia contro il pregiudizio della appartenenza territoriale. Che serva almeno a questo la loro morte: a dimostrare che si è di Forcella, di Scampia, della Sanità, di Ponticelli e non si è automaticamente camorristi. Non sarebbe per nulla vero dire che in quei quartieri ci sono pochissimi delinquenti, criminali e camorristi, ma non sono la maggioranza. E i tanti che non lo sono vengono quotidianamente sottoposti a una dittatura criminale territoriale contro la loro volontà. È una maledizione di questa città morire per caso e dover subire l’onere della prova che non si è parte di quel mondo di assassini. Roma: tappare buche e pulire parchi, la città si affida ai detenuti di Lorenzo D’Albergo La Repubblica, 27 marzo 2018 I primi già al lavoro a Colle Oppio, guardati dagli agenti. In futuro passeranno alle strade e alla raccolta dei rifiuti. Andrea ha 28 anni e un rastrello nuovo di zecca. Lo stringe in un paio di guanti con le iniziali segnate con un tratto di pennarello. Sono bianchi, come l’ampia tuta che finisce in un paio di stivali di gomma nera targati Ama. Vestiti così, Andrea e i suoi compagni di squadra Musa, Mahmed e Umberto smettono per cinque ore al dì i panni dei carcerati per diventare giardinieri. Con tanto di patentino, grazie all’accordo raggiunto dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e dal Campidoglio, da ieri sono ufficialmente professionisti al servizio del Comune. Strappano erbacce senza un attimo di sosta e, sotto gli occhi della polizia, ripuliscono le aiuole accanto ai giochi per i bambini e i percorsi battuti dai turisti. Sì, perché il progetto costruito con palazzo Senatorio da Santi Consolo, magistrato e capo del Dap, è partito da Colle Oppio. Il parco con vista sul Colosseo e sul degrado ieri mattina è diventato la palestra dei primi 16 volontari selezionati nel carcere di Rebibbia. E ora hanno tutta l’aria di non volersi fermare solo alla cura del verde: nel futuro dell’accordo, come si ragiona in queste ore in Campidoglio, ci sono la manutenzione stradale, le ormai mitiche buche capitoline, e la raccolta differenziata porta a porta. Lavori di pubblica utilità da replicare anche nel circuito delle biblioteche e nelle strutture sportive di proprietà del Comune. “I detenuti - spiega Santi Consolo - sono partiti dai parchi, ma possono specializzarsi anche in altri tipi di interventi. Consentire loro di riparare e poi mantenere le strade di Roma sarebbe un successo per tutti, cittadini in testa. Presto saranno 100. Abbiamo già vagliato più di 250 domande”. E un modo per lasciarsi definitivamente alle spalle le scorribande dei protagonisti di Mafia Capitale e il modello Buzzi, che con il lavoro degli ex carcerati aveva lanciato il suo business corruttivo: “Qui si parla di tutt’altro - continua il presidente del Dap - perché questo è un discorso che coinvolge soltanto pubbliche amministrazioni. Non c’è nessuna finalità economica, ma solo un corretto utilizzo da parte delle istituzioni delle potenzialità lavorative della popolazione carceraria. Diamo fiducia a queste persone, offrendo loro delle modalità di esecuzione delle pene meno restrittive. Al contempo ne sperimentiamo l’affidabilità all’esterno dopo aver ottenuto il via libera del tribunale di sorveglianza”. Il progetto coordinato dall’ispettore capo del dipartimento Vincenzo Lo Cascio non è solo romano. Verrà esportato anche a Milano, Napoli e Palermo. La capitale, dunque, è il grande test. Dopo Colle Oppio, i giardinieri di Rebibbia si sposteranno a Villa Sciarra e nel parco di piazza Vittorio, altro monumento all’abbandono a pochi passi dal centro storico e dalla stazione Termini. “Poi ci sposteremo in periferia - spiega Daniele Frongia, assessore allo Sport della giunta Raggi che cura il progetto per il Campidoglio - sulla base delle richieste che ci arriveranno dai municipi. Andremo avanti così, cinque giorni alla settimana, per i prossimi sei mesi. È un grande progetto di reinserimento sociale”. E per giunta con un ritorno economico per lo Stato. Ogni detenuto, infatti, costa 170 euro al giorno al ministero della Giustizia. Con il lavoro nei parchi, invece, i carcerati contribuiranno alle spese per la loro detenzione. Non è finita qui: una volta scontata la pena, si va incontro al debito contratto durante il tempo passato in cella. Quella somma, da scontare sullo stipendio da uomo libero, porta spesso gli ex detenuti a non cercarsi un lavoro. Così il credito diventa inesigibile per l’erario. Con il progetto del Dap, al contrario, il debito viene estinto giorno dopo giorno. Indossando una tuta bianca come quella di Andrea, che già non vede l’ora di tornare all’opera: “Ma a Pasquetta ci riportate qui?”. Lucca: l’attacco della Garante dei detenuti “abbandonata dal Comune” di Eliseo Biancalana Gazzetta di Lucca, 27 marzo 2018 È polemica nel Consiglio comunale del capoluogo sulla relazione della Garante dei detenuti, Angela Mia Pisano. Il testo contiene infatti una serie di critiche nei confronti del Comune, che sono state respinte dal presidente della Commissione politiche sociali, Pilade Ciardetti. Sul tema delle carceri, il consiglio ha comunque approvato all’unanimità un ordine del giorno che impegna le istituzioni locali per il reinserimento dei detenuti. La figura del “Garante dei diritti delle persone private della libertà personale” (cioè dei detenuti) è stata istituita nel 2015. Nella sua relazione, Pisano ha fatto il punto sulla situazione della casa circondariale del San Giorgio, che al momento ospita 110 detenuti (di cui 46 condannati con sentenza definitiva), per lo più stranieri (gli italiani sono 50). Diverse sono state le attività organizzate all’interno della struttura: laboratori di teatro comico, teatro e lettura interattiva; corsi di alfabetizzazione, di italiano, di cucina, di inglese e di yoga; cineforum e palestra. La garante ha però individuato tre punti critici: il sovraffollamento, le “pochissime” opportunità di lavoro offerte ai detenuti, l’accesso alle cure mediche. Ma a far discutere è stato il passaggio in cui Pisano si è lamentata di essere stata lasciata solo dal Comune. “Nel corso dell’anno 2017 mi sono trovata ad affrontare questo viaggio sola, naufraga di coloro che mi hanno condotta a ricoprire il mio ruolo. Duole osservare da rammaricata spettatrice, che l’amministrazione comunale ha di fatto abbandonato uno dei suoi figli” è infatti scritto nella relazione. E ancora: “Ad oggi non abbiamo compreso le reali intenzioni del Comune nei confronti della casa circondariale di Lucca”. Rilievi che non sono piaciuti a Ciardetti (Pd) che ha parlato di un “tono eccessivo nella relazione del garante”. Il consigliere ha richiamato il garante a esercitare un ruolo di stimolo verso le istituzioni. “Non deve aspettare di essere convocata dal Sindaco o dal Consiglio comunale”. Polemico anche Giovanni Giannini (Pd), che ha ricordato i trascorsi politici della garante, che alle ultime elezioni comunali era candidata per Alleanza per Lucca e sosteneva Fabio Barsanti sindaco. Al di là della polemica sulla relazione, c’è stata in consiglio comunale una convergenza sul fatto di dedicare più attenzione al mondo carcerario. È stato infatti approvato un ordine del giorno presentato da Daniele Bianucci (Sinistra con Tambellini), Donatella Buonriposi (Lei Lucca), Remo Santini (SìAmo Lucca) e Fabio Barsanti (CasaPound) che impegna sindaco e giunta per l’inclusione attiva dei detenuti e degli ex detenuti, prevede una visita dei consiglieri comunali alla casa circondariale, e invita la commissione a proseguire la discussione sul futuro della struttura, anche pensando a ipotesi di collocazione alternativa. Trento: carcere di Spini, giovani giuristi aiuteranno i detenuti di Erica Ferro Corriere del Trentino, 27 marzo 2018 Nasce lo sportello di aiuto sostenuto da Fondazione Caritro e Ordine degli avvocati. Obiettivo Sostenere i detenuti nella comprensione del linguaggio giuridico. Uno sportello d’ascolto interno alla casa circondariale per offrire ai detenuti un servizio informativo e di mediazione giuridica. Questo è il progetto "Giuristi dentro" che prenderà il via dopo Pasqua e, in fase iniziale, coinvolgerà ogni venerdì mattina otto studenti di Giurisprudenza dell’università di Trento. L’iniziativa prende le mosse da "Avvocati per la solidarietà" che, dal 2006, fornisce tutela legale gratuita alle persone senza dimora nelle città di Trento e Rovereto. L’idea parte da due volontarie di lungo corso, Marta Tomasi e Lucia Busatta, per strutturare un servizio di dialogo e semplificazione del linguaggio giuridico su aspetti quali iter processuale, detenzione, esecuzione penale. Volontari sono pure gli studenti che si incaricheranno di offrirlo. "La nostra utenza è costituita da persone qualitativamente, economicamente e socialmente depauperate - spiega Tommaso Amadei, responsabile dell’area educativa del carcere di Spini - avvicinarle ai loro legali attraverso un servizio qualificato, rispettoso dei diritti dei richiedenti e dei professionisti, è importante". Lo sportello non offre alcuna garanzia legale alle persone ristrette, che già possono contare sulle opportune tutele, non ha lo scopo di metterle in contatto con un nuovo legale né prevede la redazione di atti giuridici o mira a suggerire o adottare strategie difensive. Il compito degli studenti (selezionati in base a esami sostenuti ed esperienze precedenti di volontariato) sarà fare da tramite tra i detenuti e i loro legali, cercando di rendere più comprensibile un linguaggio ostico come quello giuridico."Il carcere in Italia è un luogo tendenzialmente di oblio - osserva il presidente dell’Ordine degli avvocati di Trento, Andrea De Bertolini - chi è dentro viene dimenticato e il nostro territorio non è diverso dal resto del Paese". Con la struttura ordinistica di Trento coopera quella di Rovereto. "I diritti civili li riconosciamo a tutti, ma non a chi per un momento di debolezza ne ha più bisogno degli altri" aggiunge il presidente roveretano Mauro Bondi. Partner, oltre a carcere e facoltà di Giurisprudenza, sono anche Fondazione Caritro e diverse associazioni. Tra queste, Fondazione trentina per il volontariato sociale, che entro qualche mese farà partire un percorso di formazione per volontari che presteranno aiuto ai detenuti sex offender. Sassari: progetto legalità, penalisti in cattedra alle scuole superiori La Nuova Sardegna, 27 marzo 2018 Rispetto e conoscenza della Costituzione italiana, la certezza della pena, il ruolo delle carceri. Sono alcuni dei principali obiettivi del progetto legalità, realizzato in virtù del Protocollo d’intesa stipulato il 18 settembre 2014 tra l’Unione delle Camere penali e il ministero dell’Istruzione. A essere coinvolti sono gli studenti di alcuni istituti superiori del Sassarese. “Con i colleghi Umberto Carboni, Maria Grazia Sanna, Silvia Ferraris, Antonietta Confalonieri, Anna Laura Vargiu e Martina Pinna, come referente locale dell’Osservatorio - spiega il presidente della Camera penale sassarese Marco Palmieri - abbiamo intrapreso una serie di incontri in particolare negli istituti superiori di Thiesi, Oschiri, Sassari. Il messaggio che la Camera penale di Sassari intende veicolare è quello del rispetto dei principi e delle regole scritte, prime fra tutte quelle inserite nella Costituzione”. Ma non solo, perché si vuol portare nelle aule delle scuole anche la conoscenza dei meccanismi attraverso i quali nasce e si sviluppa un processo penale. “Un passaggio fondamentale - dice a proposito Palmieri - è la distinzione dei ruoli all’interno del processo nonché la cultura della pena che deve avere l’auspicata funzione rieducativa e risocializzante”. “Questo - aggiunge il penalista - per individuare solo alcuni tra i temi più importanti, con ampio spazio dedicato in sede espositiva alle difficoltà create nel circuito penale da una eccessiva esposizione mediatica di casi eclatanti, oggetto peraltro di un contiguo approfondimento da parte dell’Osservatorio stampa, che ha un nostro valido referente in ambito nazionale nel collega avvocato Sergio Porcu”. Palermo: “Semina libertà”, un corso di vivaismo per i giovani detenuti Adnkronos, 27 marzo 2018 Insegnare ai giovani detenuti dell’Istituto Malaspina di Palermo le tecniche del vivaismo. È l’obiettivo di “Semina libertà” il progetto della Coldiretti Palermo siglato questa mattino con il direttore dell’Istituto minorile Michelangelo Capitano. A gestire il progetto sarà Damiano Cracolici, vivaista palermitano. Il corso, che avrà inizio nella seconda settimana di luglio, si articola in 60 ore in cui saranno insegnate le principali tecniche colturali, le tecniche vivaistiche e del giardinaggio professionale, oltre alle conoscenze base della fisiologia vegetale. “Un’iniziativa - spiegano i firmatari - che mira all’inclusione dei giovani i quali, dopo il periodo detentivo, potranno cercare un lavoro con una base”. Lecce: tentò di rubare una melanzana, la Cassazione lo assolve “aveva fame” di Alessandro Cellini Quotidiano di Puglia, 27 marzo 2018 Assolto dopo 9 anni (e 3 gradi di giudizio) per il tentato furto di un ortaggio: “Ho pensato a mio figlio”. Voleva solo sfamare il suo bimbo piccolo. Stava passando un periodo particolarmente difficile della sua vita, e tra l’altro non era andato lì, dove poi era stato colto sul fatto, appositamente per rubare una melanzana. Tutt’altro: era in cerca di legna per scaldare la casa. Solo che poi ha pensato al piccolo. E si è ritrovato in mano quella melanzana che gli è costata tanti anni di sofferenza. Questo ha detto il 48enne che dopo nove anni si è visto assolvere dalla Corte di Cassazione per il furto dell’ortaggio. Nient’altro che uno stato di necessità, dunque, reso ancor più urgente dalla presenza di un figlio. Tutti elementi che l’uomo, difeso dall’avvocato Silvana D’Agostino, aveva già raccontato ai giudici di primo grado. Un appello inascoltato, evidentemente. Ora è amareggiato, S.S., non capisce come mai si debbano affrontare tre gradi di giudizio per giungere a quella che considera una conclusione ovvia: quel tentativo di rubare una melanzana altro non era che un gesto, oltre che di scarso rilievo dal punto di vista economico, anche dettato dall’assoluta necessità di sfamare il proprio figlio. “All’epoca non lavoravo, avevo una moglie e un bambino piccolo, e mi ero recato in campagna per raccogliere un po’ di legna per riscaldare casa”. Questo, in sostanza, dice oggi S.S., dopo aver sopportato nove anni di processi. “Poi ho visto una melanzana, ho pensato a mio figlio e alla necessità di preparare un pasto. Così ho deciso di portarla via”. Fino a quando non è stato visto dal fratello della proprietaria del fondo agricolo. È stato bloccato e gli sono state sottratte le chiavi dell’auto, parcheggiata poco lontano e con il cofano lasciato aperto. Questo ha raccontato l’uomo. “Tra l’altro la parte offesa, che non si è nemmeno costituita parte civile nel processo - spiega l’avvocato D’Agostino - non ha voluto rimettere la querela. Concretamente sarebbe cambiato poco, nel senso che per questo reato si è proceduto d’ufficio. Ma sicuramente sarebbe stato un segnale importante anche per la valutazione dei giudici, in vista della sentenza”. Dopo quell’episodio, in attesa dell’esito del processo, S.S. è tornato nella sua terra natale, la Sardegna. Continuando ad avvertire dentro di sé quel tarlo difficile da ignorare: se la condanna (ridotta in appello a cinque mesi) fosse diventata definitiva, lo avrebbe aspettato una cella del carcere. Perché difficilmente l’uomo avrebbe beneficiato della sospensione condizionale della pena, visti i suoi precedenti guai con la giustizia. Ma un percorso di riabilitazione lo aveva tenuto lontano dai guai per lungo tempo. Fino a quell’episodio paradossale della melanzana. E lui, peraltro, nonostante fosse stato ammesso al gratuito patrocinio, non è riuscito a dimostrare nel corso dei primi due gradi di giudizio lo stato di necessità in cui versava e che lo avrebbe spinto a fare quello che ha fatto. Né i giudici leccesi hanno mai tenuto conto della particolare tenuità del fatto. Un errore, secondo la Corte di Cassazione: “È innegabile - scrivono i giudici romani - che il delitto tentato presenti una modestissima offensività, sì da rendere certamente operante l’istituto di cui all’articolo 131-bis del codice penale”, ovvero la non punibilità per la particolare tenuità del fatto. Ora S.S. si trova ancora in Sardegna. Ironia della sorte, fa l’agricoltore. Ma ancora oggi le cose non vanno benissimo. Per questo ha pensato di tornare nel Salento, dove ha allacciato legami che nel tempo non si sono sciolti. Con la speranza che, almeno in questo caso, non sia ancora costretto dalle circostanze a rubare una melanzana. Avellino: il Garante regionale Ciambriello in visita all’Icam di Lauro Il Mattino, 27 marzo 2018 Presenti il direttore Pastena e l’assessore regionale alle Pari opportunità Marciani. Il garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello, e l’assessore regionale alle Pari opportunità, Chiara Marciani, ieri mattina hanno fatto tappa a Lauro per augurare buona Pasqua alle detenute dell’Icam. A dargli il benvenuto il direttore dell’Istituto, Paolo Pastena, responsabile anche della Casa Circondariale di Avellino. Ciambriello e Marciani hanno salutato il personale in servizio tra educatori, assistenti sociali e volontari, incontrando poi le otto detenute dell’Istituto coi rispettivi figli minori. Nel refettorio è seguito un brindisi in vista della santa Pasqua con tanto di degustazione dolciaria. I due rappresentanti regionali hanno poi visitato i vari ambienti dell’Istituto: dall’ampia cucina al parco giochi passando per l’infermeria, la biblioteca, la sala cinema per i bambini e l’aula polivalente, dove le madri svolgono nel corso della settimana corsi di formazione come quelli di sartoria e taglio, parrucchiera e scrittura musicale. A breve, partirà anche il corso per alimentaristi (sostitutivo del libretto sanitario). Nell’Istituto sono previste durante la settimana anche lezioni di primo soccorso e di lingua italiana. “Queste attività sono molto utili - dice la Marciani ‘ per la loro crescita personale e professionale”. Della stessa idea è Ciambriello, che aggiunge: “Possiamo togliere il diritto alla libertà, ma non il diritto alla dignità”. L’Istituto a custodia attenuata per detenute madri di Lauro è stato attivato l’anno scorso e risulta essere il primo nel Sud e il quinto in Italia. Oggi ospita otto madri con dieci minori infra seienni al seguito, di cui cinque frequentano regolarmente la scuola materna di Lauro. “Nel nostro Istituto non esistono celle, ‘ afferma il direttore Pastena - ma mini appartamenti comprendenti ciascuno un angolo cottura, una stanza da letto e un servizio igienico con tutti i comfort. I suoi corridoi sono stati pensati come luoghi collettivi e sono anch’essi arredati, in modo da creare ulteriori spazi vivibili durante il giorno”. I sistemi di sicurezza non sono percepibili dai bambini, poiché nascosti alla loro vista con opportuni accorgimenti, e gli agenti di polizia penitenziaria non indossano le divise di ordinanza. Gli ambienti per le attività comuni sono distribuiti nei due blocchi che precedono le sezioni: lo spazio colloqui è pensato come un unico grande ambiente dove i bambini incontrano i familiari in visita ed è utilizzabile anche per le attività comuni durante il periodo invernale. L’area colloqui diventa quindi un luogo condiviso per svolgere attività comuni e festeggiare ricorrenze religiose e personali. Spoleto (Pg): una nuova palestra all’interno del carcere di Maiano umbriajournal.com, 27 marzo 2018 L’obiettivo è quello di migliorare le condizioni di vita dei detenuti. Inaugurata stamani la nuova palestra interna della Casa di Reclusione di Maiano. Un vero e proprio restyling della struttura frutto di un investimento di circa 28mila euro. Il progetto della Fondazione Decathlon, in collaborazione con il Carcere di Maiano, non si limita però alla sistemazione e al rifacimento della palestra interna, realizzata dai detenuti del circuito di alta sicurezza, ma prevede anche la prossima riqualificazione del campo di calcio esterno e un progetto triennale, in collaborazione con l’associazione di volontariato “I Miei Tempi”, di inserimento lavorativo per i detenuti attraverso borse lavoro presso il punto vendita Decathlon di Foligno. L’obiettivo è quello di migliorare le condizioni di vita dei detenuti, attraverso la partecipazione ad attività sportive che possano favorire il loro reinserimento sociale. Il potenziamento della palestra interna, grazie alle nuove attrezzature, consentirà poi di estendere e arricchire le attività che si tengono all’interno della casa di Reclusione nell’ambito dell’iniziativa “Sport in Carcere”, un progetto sviluppato in collaborazione con Ministero della Giustizia-Dap - e il Coni e diretto al miglioramento delle condizioni di vita della popolazione carceraria attraverso la pratica e la formazione sportiva. Il progetto è stato avviato grazie ad un protocollo firmato tre anni fa che ha coinvolto tutti gli istituti penitenziari dell’Umbria. All’interno del carcere di Maiano le attività sportive hanno riguardato finora gli scacchi (per i detenuti di massima sicurezza) e il calcio. La cerimonia di inaugurazione della palestra si è tenuta alla presenza del vicesindaco di Spoleto Maria Elena Bececco, di Luca Sardella, direttore della Casa di Reclusione, del Comandante Marco Piersigilli, del Direttore di Decathlon Italia Matteo Salmaso, tutti gli educatori dell’area trattamentale dell’istituto penitenziario - con Sabrina Galanti che ha seguito direttamente il progetto - di Patrizia Costantini dell’associazione “I miei tempi” e di rappresentanti del Coni umbro. La Bececco oltre a ringraziare e a complimentarsi con tutti i soggetti per il lavoro svolto ha sottolineato come “si ottengano risultati significativi quando le migliore risorse del territorio riescono a fare sistema per iniziative così importanti. Questo progetto poi è perfettamente in linea con i vari processi di integrazione tra la comunità e la casa di reclusione che hanno consentito di creare un forte legame collaborativo tra le due “città”. Prato: un teatro diverso; ecco la via Crucis di una madre, storie dal carcere di Giorgio Bernardini Corriere Fiorentino, 27 marzo 2018 Dalla ricerca sulle persone ai margini al teatro di livello: le contraddizioni drammatiche del carcere salgono sul palco del Fabbrichino di Prato, dove da stasera al 30 marzo, prodotta dal Metastasio in collaborazione con Teatro Metropopolare, va in scena la prima assoluta di “Gioia, via crucis per simulacri”. Il monologo è scritto, diretto e interpretato da Livia Gionfrida, che dai banchi del Dams di Bologna ha attuato un percorso di ricerca teatrale nel carcere pratese della Dogaia. Lo spettacolo mette al centro una madre alle prese col dramma del figlio che intraprende la cattiva strada e rimane vittima di un destino ingiusto. Gionfrida, 39 anni, ha lavorato come attrice in molti palchi, portando il teatro Metropopolare - da lei fondato 10 anni fa - a condurre delle tournée con attori detenuti in giro per l’Italia. “Sentivamo l’esigenza - spiega - di condividere all’esterno l’esperienza”. Pasolini e Pinocchio si mischiano così con gli episodi di cronaca come quelli di Stefano Cucchi e Federico Adrovandi: “Non voglio che il pubblico pensi che ci sono i buoni e i cattivi: come tutti sanno i contorni sono più sfumati. La via crucis di queste famiglie che cercano giustizia per anni ha dato corpo allo spettacolo”. Radio carcere: registrazione dell’ultima puntata della trasmissione di Riccardo Arena Ristretti Orizzonti, 27 marzo 2018 “L’affidamento allargato”, Giovanni Pavarin, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia, spiega gli effetti della sentenza della Corte Costituzionale che ha innalzato da 3 a 4 anni il residuo di pena per chiedere le misure alternative. Link: http://www.radioradicale.it/scheda/536611/radio-carcere-laffidamento-allargato-ovvero-la-sentenza-della-corte-costituzionale-che Esclusi dalla ripresa, dubbiosi sul futuro. Ecco gli italiani dieci anni dopo la crisi di Daniele Marini La Stampa, 27 marzo 2018 Migliora il reddito mensile delle famiglie. Ma non c’è ottimismo sulle prospettive economiche. Per una persona su due le difficoltà non finiranno prima del 2020. Al Sud c’è più pessimismo. La ripresa c’è, ma non sembra toccare me. È questa la percezione più diffusa fra le famiglie italiane che, negli ultimi anni, paiono in parte aver assorbito le difficoltà patite con l’avvio della crisi di 10 anni fa. Non sono uscite ancora (tutte) dal tunnel nel quale sono entrate dal 2008: alcune (poche) hanno visto migliorare le proprie disponibilità economiche, altre (la maggioranza) ritengono di avere un reddito rimasto stabile, talune (diverse) invece sono salite su un ascensore economico discendente. Le loro previsioni per quest’anno si polarizzano fra chi avverte che la stagione più critica sia alle spalle e, per contro, chi intravede un’incertezza sulle prospettive. Come se la società italiana, lasciando dietro di sé il periodo economico più buio, si trovasse più divisa al suo interno. Una polarizzazione che s’è riverberata anche nel voto del 4 marzo scorso. Che il leggero miglioramento non si fondi solo su percezioni, è testimoniato anche dai dati della Banca d’Italia. Nel 2016 il reddito medio annuo delle famiglie italiane si è attestato a 31.469 euro, in leggera crescita rispetto a due anni prima (+3%), ma ancora ben distante dal raggiungere la soglia dei 36.142 degli anni precedenti la crisi (2006). A sostegno ulteriore di un miglioramento complessivo dell’economia nazionale vengono i dati del Pil e le sue proiezioni non solo del governo, ma anche di diversi istituti nazionali e internazionali che registrano una progressione del nostro sistema produttivo. Progressione lenta rispetto agli altri Paesi europei, ma comunque con un segno positivo crescente nel tempo. Tuttavia, il nuovo slancio dell’economia richiede tempo prima che si manifesti concretamente nelle risorse disponibili alle famiglie (salari). Le famiglie colpite - La crisi, com’è noto, ha eroso una parte consistente delle disponibilità economiche delle famiglie, la cui più immediata conseguenza si è registrata nel crollo dei consumi. E, più in generale, ha alimentato un sentimento di impoverimento che per una parte è diventata effettivamente una condizione oggettiva di povertà. Per altri ha preso la forma di una deprivazione relativa: la difficoltà a mantenere il livello di vita sperimentato in precedenza, che ha colpito soprattutto una parte del ceto medio. Di qui, un sentimento di cautela e incertezza sul futuro che pervade gli italiani: resilienti alle difficoltà economiche, cui hanno fatto fronte coi risparmi e intaccando i propri patrimoni, ma più attendisti sul domani nonostante i segnali positivi degli indicatori istituzionali. Sono questi gli esiti principali dell’ultima rilevazione di Community Media Research, in collaborazione con Intesa Sanpaolo per La Stampa, sulle condizioni economiche degli italiani e sulle prospettive future. Indubbiamente, rispetto a quattro anni fa (2014) si può certamente affermare che il reddito degli italiani non sia ulteriormente peggiorato: più della metà (56,6%) dichiara come sia rimasto stabile nell’ultimo triennio, ben più di quanto affermato nel 2014 quando la soglia s’era fermata al 44,7%. La situazione è migliorata per un quinto degli interpellati (19,1%) e in misura superiore a qualche anno fa (8,7% nel 2014). Per converso, diminuisce chi ha visto calare le proprie risorse dal 46,6% del 2014 al 24,3% odierno. Una diminuzione significativa, ma che coinvolge ancora un quarto degli italiani. Come sempre, il dato medio oscura le diversità che sono rilevanti sul piano territoriale. Se a Nord-Est ben il 25,8% ha conosciuto un miglioramento del reddito familiare nell’ultimo triennio, analogamente accade solo nel 13,7% del Mezzogiorno. Rimarcando una volta di più le divisioni territoriali dell’Italia. Più dubbiosi che ottimisti - Questi primi indizi di leggero miglioramento nelle condizioni economiche delle famiglie italiane, trovano un primo riverbero nelle proiezioni sul futuro. Se nel 2015 si era potuto osservare un tenue segno di inversione di tendenza, rispetto all’anno precedente, a distanza di un triennio le percezioni si fanno più consistenti. Quasi un quarto degli italiani (23,0%) pensa che la crisi sia ormai conclusa e i segnali di ripresa evidenti, ma un’analoga visione vedeva coinvolti solo l’8,0% degli intervistati nel 2015. Quindi, migliora in modo sensibile l’opinione sulle prospettive future, per quanto ciò sia confinato a una parte ancora contenuta della popolazione. Tuttavia, più che aumentare quanti prolungano temporalmente il termine delle difficoltà economiche, crescono molto quelli che esprimono incertezza: dal 13,6% del 2015 al 28,5% del 2018. Con un novero di dubbiosi superiore a chi immagina il Paese già fuori dal tunnel della crisi. Anche in questo caso, le divisioni territoriali sono evidenti. A un Nord (25,1%) che avverte già l’uscita dalla crisi, fa da controcanto un Centro-Sud (30%) in balia di una forte preoccupazione. È significativo, a tal riguardo, considerare quali siano gli ambiti ritenuti crescere economicamente nel prossimo futuro. Per gli italiani il miglioramento economico riguarderà in misura decisamente maggiore il territorio in cui vivono (37,2%), l’Italia in generale (42,0%) e ancor di più l’Europa (59,5%), ben più che per se stessi e la propria famiglia (27,3%). Dunque, le attese positive sul futuro s’intravedono più per il contesto esterno e lambire solo marginalmente gli interpellati. Come se la ripresa fosse al di fuori delle mura di casa. Un simile esito trova nell’indice di fiducia sul futuro un sintetico orientamento. Gli “ottimisti”, ovvero quanti esprimono valutazioni sostanzialmente positive per tutti gli ambiti considerati, sono il 15%, in deciso calo rispetto alle precedenti rilevazioni. Crescono gli “attendisti” (51,3%) le cui prospettive paiono improntate a una maggiore cautela. Rimangono stabili quanti sono “preoccupati” (23,1%, prevalgono valutazioni negative su quelle positive sul futuro) e “pessimisti” (10,6%, i cui giudizi sono totalmente negativi). L’agenda politica - Migliorano leggermente le condizioni economiche degli italiani rispetto ad alcuni anni fa, ma le ferite di una lunga crisi non sono ancora del tutto suturate. Per una minoranza cospicua delle famiglie il peggioramento delle risorse disponibili non sembra terminare. Il periodo di difficoltà dal quale lentamente l’Italia sta uscendo lascia dietro di sé almeno due divisioni che si acuiscono: sociale e territoriale. Temi sui quali l’agenda politica del nuovo parlamento dovrebbe interrogarsi fattivamente. Antisemitismo, lo spettro della Francia di Umberto Gemiloni La Repubblica, 27 marzo 2018 Come un mostro informe che appare d’improvviso e poi s’inabissa, l’antisemitismo continua ad attraversare i nostri tempi nelle forme antiche della discriminazione o nelle nuove possibilità offerte dal web. Una lunga storia che non finisce e si nutre delle paure diffuse, del bisogno di cercare un nemico, un obiettivo per scaricare frustrazioni, violenza e intolleranza. Possibile? Dopo le tragedie del secolo scorso, quando la distruzione degli ebrei d’Europa è diventato un proposito, un progetto concreto, una politica di annientamento e distruzione? Troppo semplice rispondere che la memoria non si trasmette, che i canali di comunicazione tra le generazioni si sono interrotti o peggio pensare che in nome delle incertezze sul futuro, delle condizioni di vita nelle periferie delle grandi città possano ripresentarsi fantasmi che pensavamo scomparsi e sconfitti dalla storia. Quel mostro non è morto, si rianima facilmente trovando argomenti e terreni per rimettersi in moto. Ogni qualvolta si abbassa la guardia, ci si gira dall’altra parte, si fa finta che non sia necessario difendere e valorizzare differenze, culture, identità. Il cuore del progetto europeo dopo la fine della seconda guerra mondiale era proprio orientato alla costruzione di uno spazio per tutti, una convivenza vantaggiosa e propositiva in grado di cancellare gli orrori del passato tracciando una rotta possibile, una direzione di marcia contro l’odio e la sopraffazione. Ecco perché colpisce che la Francia sia ancora al centro delle violenze antisemite. Segnali che si ripetono nel lungo dopoguerra che abbiamo alle spalle: le profanazioni dei cimiteri ebraici, le scritte sulle sinagoghe, cori e striscioni negli stadi, gli attacchi a Simone Veil o a esponenti di punta della comunità ebraica parigina. Un clima di paura che ha spinto una nuova emigrazione di massa verso la ricerca di sicurezze e protezioni per non dover riaprire ferite e responsabilità del passato. Nel luglio 1942 Mireille Knoll era sfuggita a un rastrellamento, la più grande retata di ebrei catturati nella capitale francese. Oltre 27 mila trascinati a forza nel Velodrome, uno stadio che potesse contenerli prima di condurli verso un viaggio senza ritorno. Un’operazione complessa guidata dai nazisti con l’appoggio di chi collaborava alle politiche di deportazione e sterminio. La Francia divisa, attraversata dalle dinamiche di una contrapposizione frontale tra chi si arrende o collabora con la Germania nazista, chi si schiera per comodità, convinzione o furbizia con l’invasore e chi invece tenta di resistere pensando al dopo, a una possibile rinascita. Mireille era una bambina, meno di dieci anni ne11942, riesce a sfuggire grazie al passaporto brasiliano della madre, si salva dall’abisso che colpisce gli ebrei francesi. Poi la vita del dopo, un marito deportato e sopravvissuto, il ritorno a Parigi a una vita come tante in un appartamento dell’undicesimo arrondissement. Venerdì scorso l’irruzione in casa, le violenze con un’arma da taglio e l’incendio che distrugge una vita cancellando tracce, memorie e ricordi di un’infanzia lontana. Sono indagati due giovani della zona che avevano minacciato la donna prendendola in giro in varie occasioni. La polizia sembra aver confermato la matrice antisemita dell’attentato. Ancora una volta - come nel caso di Sarah Halimi uccisa da un vicino di casa nell’aprile 2017 - il confine tra le parole e i fatti viene attraversato senza resistenze. Dalle minacce alle azioni, dallo scherno alle intimidazioni come se il contesto fosse popolato da spettatori ignavi o da quella indifferenza contagiosa che ha reso possibile l’impensabile. Caso Puigdemont, la Germania divisa tra etica e diritto di Paolo Valentino Corriere della Sera, 27 marzo 2018 È giusto considerare Puigdemont alla stregua di un terrorista o di un ladro, perché di questo si tratta, consegnandolo nelle braccia di un sistema che potrebbe condannarlo a 30 anni di carcere? È una classica contraddizione weberiana, tra etica dei valori e etica della responsabilità, quella che si trova a fronteggiare la Germania, con l’arresto del leader catalano Puigdemont, in esecuzione di un mandato di cattura europeo emesso dalle autorità spagnole. La Repubblica federale, come tutti i Paesi della Ue, ha sottoscritto un meccanismo basato sulla reciproca fiducia, in grado di rendere più semplici le procedure di estradizione all’interno dello spazio comunitario. Come spiega oggi nell’intervista al Corriere il professor Martin Heger, il mandato di cattura europeo implica che ogni Paese si fidi dello Stato di diritto di un altro e viceversa. Per questo, quando viene emesso per una delle 32 categorie di reati gravi previste, comporta una procedura squisitamente giuridica, priva cioè di influenze politiche. Responsabilità dei giudici dello Schleswig-Hollstein, il Land dove il leader secessionista è stato intercettato su segnalazione dei servizi spagnoli e fermato, è dunque di verificare che i reati contestati dai colleghi madrileni a Puigdemont siano compatibili con quelli previsti dal codice penale tedesco e se del caso concedere l’estradizione. È poco probabile però, secondo gli esperti, che questa venga decisa sulla base dell’accusa di ribellione, visto che il reato analogo in Germania, quello di “alto tradimento”, è legato indissolubilmente alla violenza o all’incitazione alla violenza. Puigdemont non ha mai lanciato alcun appello alle armi, a meno di non considerare tale l’appello al voto. È invece più verosimile, ancorché ugualmente controverso, che l’accusa buona per estradarlo si riveli alla fine quella di appropriazione indebita di denaro pubblico, usato dall’ex presidente catalano per organizzare una consultazione considerata illegale e in violazione dell’ordine costituzionale spagnolo. Fin qui l’etica della responsabilità, appunto, cui difficilmente la Germania potrà sottrarsi nel rispetto delle regole europee liberamente sottoscritte e della fiducia dovuta ai partner. “La Spagna è uno Stato di diritto”, ha ribadito ieri il portavoce del governo tedesco, Steffen Seibert. I valori sono un’altra cosa, specialmente per un Paese ad altissima sensibilità democratica e garantista come in ragione della sua storia è la Repubblica Federale. Forse con una punta di esagerazione, la Sueddeutsche Zeitung ha toccato il nervo scoperto di questa vicenda, definendo Puigdemont il “primo prigioniero politico” della Germania. Sarà possibile per il governo tedesco ignorare questa semplice verità e trincerarsi dietro la procedura tecnica? È giusto considerare Puigdemont alla stregua di un terrorista o di un ladro, perché di questo si tratta, consegnandolo nelle braccia di un sistema che potrebbe condannarlo a 30 anni di carcere? “Il mandato di cattura europeo non è uno strumento per regolare questioni di politica interna con l’aiuto di pubblici ministeri stranieri”, commenta Wolfgang Janisch sul giornale bavarese. Né la fiducia reciproca su cui si fonda l’intero costrutto può essere cieca, ignorando il sospetto di persecuzione politica che accompagna l’azione delle autorità centrali spagnole contro i leader del movimento catalano. Perché se è vero che la secessione catalana non è legale, né costituzionale, è difficile per la Germania come per ogni altro Paese accettare che Madrid tenti di sconfiggere un movimento di massa democratico solo con la forza o il codice penale esteso all’intero territorio comunitario grazie al mandato di cattura europeo. Quanto sia sanabile la contraddizione weberiana tra responsabilità e principi è impossibile dire. Forse non lo è. E questo pone il nuovo governo tedesco in una posizione molto complicata, tanto più alla luce degli ottimi rapporti da sempre intercorsi tra Angela Merkel e Mariano Rajoy. Il caso è già politico. I Verdi suggeriscono che Berlino promuova un negoziato tra il governo di Madrid e i leader catalani, affidando la mediazione alla Commissione europea. Una cosa certa. Nella sua improbabilità, Puigdemont ha internazionalizzato la vicenda catalana, confermando che nella Ue non esistono più crisi locali, che ogni battito d’ali provoca ripercussioni profonde e che farebbe bene l’Europa a prenderne atto. Francia. “Détenues”, le prigioni delle donne Internazionale, 27 marzo 2018 Tra settembre e novembre 2014, la fotografa Bettina Rheims ha realizzato una serie di ritratti a 120 donne detenute in quattro carceri francesi. Dopo un anno passato a fare richieste per poter entrare nei penitenziari a fare le foto, ha ottenuto il permesso ed è riuscita a raccontare queste donne (circa 2.400 in tutto il paese) che fanno parte del 4 per cento della popolazione carceraria francese. “Détenues” è un progetto che fa dialogare il mondo delle carceri con quello della creazione, in cui la fotografa francese si è interrogata sulla rappresentazione della femminilità in luoghi in cui le donne non hanno libertà e vivono in condizioni di costrizione. Dagli incontri tra la fotografa e le detenute sono nati dei ritratti, realizzati in una sala di posa improvvisata dentro una cella: “Queste donne mi hanno raccontato molte cose della loro vita, degli amori, dei figli, della solitudine e dei loro reati. Io ho cercato di offrire loro un momento fuori dalla routine del carcere”. Quasi sessanta ritratti di Rheims sono esposti alla cappella dello Chateau de Vincennes di Parigi fino al 30 aprile. Accanto alle foto, Rheims ha inserito dei brevi testi in cui ha scritto delle storie partendo dagli appunti presi durante i suoi incontri. Il luogo dell’esposizione è stato scelto anche per la sua storia: la fortezza nel settecento è stata una prigione e dopo la rivoluzione francese ha ospitato soprattutto donne condannate perché accusate di uno stile di vita ritenuto immorale. Mauritania. Pugno di ferro contro attivisti e difensori dei diritti umani di Riccardo Noury Corriere della Sera, 27 marzo 2018 In un nuovo rapporto sulla Mauritania Amnesty International ha rivelato che i difensori dei diritti umani che denunciano la persistente pratica della schiavitù - abolita per legge 40 anni fa - e la discriminazione nel paese vanno incontro ad arresti arbitrari, torture, detenzione in centri isolati e al sistematico divieto delle loro manifestazioni. Il rapporto accusa inoltre il governo mauritano di negare sistematicamente l’esistenza della schiavitù. Le tattiche impiegate dal governo per zittire i difensori dei diritti umani e gli attivisti sono molteplici: dal divieto di svolgimento di manifestazioni pacifiche all’uso della forza eccessiva contro i dimostranti, dalla messa fuorilegge di gruppi di attivisti all’interferenza nelle loro attività fino al carcere. Nel 2016 i gruppi internazionali contro la schiavitù avevano stimato in 43.000 il numero delle persone ridotte in schiavitù in Mauritania, l’uno per cento della popolazione. La polizia, la magistratura e i giudici non intervengono in modo efficace sulle denunce di sfruttamento, non identificano le vittime né puniscono i presunti responsabili. Nel 2016 i tribunali che si occupano di schiavitù hanno ricevuto 47 denunce riguardanti 53 persone ma hanno condannato solo due imputati. Le pratiche discriminatorie colpiscono soprattutto la comunità haratin, i cui membri raramente accedono a posizioni di vertice e subiscono ostacoli nella registrazione all’anagrafe, ciò che limita tra l’altro l’accesso a servizi essenziali. Il diritto di manifestazione in Mauritania è praticamente negato. Negli ultimi anni, 20 gruppi locali per i diritti umani hanno fatto sapere ad Amnesty International che le loro manifestazioni pacifiche erano state vietate o disperse, in alcuni casi con l’uso eccessivo della forza che aveva causato feriti tra i dimostranti. Ma non sono solo le proteste a essere vietate: interi gruppi che combattono contro la schiavitù e la discriminazione sono messi fuorilegge. Sono 43 i gruppi che, nonostante ripetute richieste di registrazione, non hanno mai ottenuto l’autorizzazione. Tra questi vi sono il movimento per la democrazia Kavana (“È abbastanza”) e l’associazione antischiavista Iniziativa per il risveglio del movimento abolizionista (Ira). Dal 2014, Amnesty International ha documentato 168 arresti arbitrari di difensori dei diritti umani, almeno 17 dei quali sono stato sottoposti a maltrattamenti e torture. Negli ultimi quattro anni sono stati arrestati 63 esponenti dell’Ira e 23 del Movimento del 25 febbraio, un gruppo di giovani per la democrazia. Almeno 15 esponenti dell’Ira sono stati condannati a pena detentiva dopo processi irregolari e alcuni di loro sono stati costretti a “confessare” mediante maltrattamenti e torture. Infine, campagne diffamatorie, aggressioni e minacce di morte si susseguono con totale impunità contro i difensori dei diritti umani, definiti spesso traditori, criminali, agenti stranieri, razzisti, apostati o politicanti. Queste intimidazioni provengono dai livelli più alti dello stato e da gruppi religiosi, spesso in concomitanza con riunioni internazionali in Europa. Per esempio la difensora dei diritti umani Mekfoula Brahim è stata vittima di una campagna coordinata di diffamazioni sui social media e ha ricevuto minacce di morte solo per aver chiesto l’assoluzione del blogger Mohamed Mkhaïtir, assolto in secondo grado dopo essere stato condannato a morte per blasfemia.