Incontro con le scuole in carcere. Le domande che possono rieducare Il Mattino di Padova, 26 marzo 2018 Domande che rieducano. La società spesso al carcere chiede solo di punire, di essere cattivo, di far pagare duramente per il male provocato con i reati: in realtà, fanno più effetto, spingono di più al cambiamento, rendono più responsabili le domande che studenti e insegnanti pongono negli incontri con le persone detenute, e anche il racconto di loro personali esperienze, in cui a volte sono stati loro stessi vittime, che non anni di galera punitiva. Domanda di Matteo: “Come si fa a puntare la pistola sulla pancia?” Mi chiamo Matteo, vorrei partire da una esperienza che mi è stata raccontata: mia mamma molto tempo fa ha assistito a una rapina in prima persona. Questa cosa la segna tuttora. Quella volta mia mamma era insieme a una sua amica che era incinta e durante la rapina le hanno puntato una pistola sulla pancia. Volevo capire come si fa ad arrivare a compiere un gesto del genere. Risponde Bruno, detenuto Matteo, qualche anno fa durante un incontro come questo una professoressa ci ha raccontato di avere vissuto in prima persona un’esperienza del genere, mentre si trovava in fila allo sportello di una banca. Raccontò di una vicenda che la faceva star male ancora, dopo che erano trascorsi tanti anni, anche lei viveva con la paura di quel ricordo, non riusciva a liberarsene come se il tempo si fosse fermato a quel momento, non riusciva a dimenticare gli occhi della persona che l’aveva presa in ostaggio. Esattamente come ci hai raccontato tu di tua madre e della sua amica. Quella testimonianza fu molto importante per la redazione, poiché era la prima volta che una persona che aveva vissuto un’esperienza così pesante la raccontava in prima persona a Ristretti Orizzonti, dove c’è sempre stata una presenza di redattori condannati per rapine in banca. Ascoltando la testimonianza della professoressa tutti si sono sentiti colpevoli come mai avrebbero creduto. Ascoltare le parole di una vittima ha reso tutti più consapevoli, ha fatto crollare gli alibi. Ho ascoltato le tue parole, la tua voce rotta dall’emozione nel raccontare quello che ha segnato tua madre. Mi sento davvero molto coinvolto dalle tue parole, quello che hanno fatto all’amica di tua madre è terribile, bestiale. Io sto scontando un cumulo di pene per una serie di reati commessi nell’arco di trent’anni. Durante i processi ho sempre negato le accuse, ma davanti a voi studenti mi sono sempre assunto le mie responsabilità. Con te sarò franco come, d’altronde, qui a Ristretti lo siamo sempre stati con tutti gli studenti che incontriamo, non riuscirei a non essere sincero con voi. Perciò ti dico che di rapine ne ho commesse molte e di fronte a te mi sento in un certo senso colpevole per quello che è accaduto a tua madre e, anche se non sono stato io a commettere quella rapina, ti chiedo scusa per quello che lei ha subito. Io ho sempre seguito un codice d’onore che mi imponeva di non fare del male alle persone che non c’entravano nulla con le mie attività criminali, soprattutto con le persone che stavano in fila dentro le banche, questo mi faceva sentire meno colpevole. Il fatto di non infastidire i clienti mi lasciava credere che io non avevo vittime, invece, qui nella redazione di Ristretti Orizzonti dove ho incontrato decine di vittime o di familiari di vittime, ascoltando i loro racconti ho capito che le persone in attesa davanti a uno sportello bancario, quando si trovano a essere testimoni di una rapina, quando vedono entrare dei rapinatori armati, non possono sapere cosa passa per la testa dei rapinatori e quei pochi minuti si trasformano nel peggiore dei loro incubi. Perciò vivono terrorizzati dal pensiero che qualcuno possa fargli del male prima di andarsene. Quel terrore li inchioda fermando il tempo a quel momento. Perciò capisco cosa ha provato tua madre e ne sono molto addolorato. Ti chiedo ancora scusa e rivolgo le mie scuse anche a tua madre. Domanda di una dirigente: “Ergastolo, un percorso per la dignità umana?” Sono la dirigente scolastica della scuola frequentata da questi ragazzi. A scuola avevo incontrato altri tre di voi che sono intervenuti all’incontro esterno con gli studenti. Ho ascoltato con rispetto le vostre testimonianze che mi colpiscono molto, così come mi ha colpito molto il racconto di Chaolin e i suoi problemi iniziali con la scuola, perché mi tocca proprio come scuola, e subito ho pensato a quando riceviamo studenti stranieri e quanto sia importante che riusciamo ad attivare dei progetti di accoglienza e di integrazione. Il racconto della sua esperienza di isolamento ed esclusione a scuola da questo punto di vista è stato molto significativo e davvero c’è il mio grazie personale per questi momenti di condivisione, penso siano difficili per ciascuno di voi, ma di grande ricchezza per noi che ascoltiamo queste storie. Sicuramente sono più efficaci queste testimonianze delle cose che si leggono sui libri. Un ragazzo prima ha chiesto a uno di voi: “ma come vedi la tua vita dopo il carcere?”. Io invece vorrei fare una domanda alle persone che stanno scontando l’ergastolo. Io sono molto colpita e anche con un senso di angoscia, invece, da questa prospettiva di pena che non dà speranza, come diceva Antonio che qui, dentro il carcere, ci deve morire. Ma allora, quali progetti di vita sono possibili? Loro, quelli con un fine pena, hanno una possibilità, usciranno a 30, 35-40 anni, si butteranno dentro un lavoro, lo studio. Chi, invece, ha una prospettiva di carcere molto più lunga come l’ergastolo, nella struttura carceraria che tipo di progetto può fare? Qui avete l’esperienza di Ristretti Orizzonti, ma che cos’altro è possibile per le persone come voi che avete una condanna che non finirà mai? Che tipo di percorso è possibile per salvaguardare la dignità umana delle persone condannate all’ergastolo? Risponde Antonio Papalia, ergastolano Noi non abbiamo un futuro, però facciamo questo progetto per noi stessi e per le nostre famiglie. Perché facendo parte di questo progetto viviamo più sereni. Fino a qualche tempo fa vivevo nell’odio, odiavo tutti, per 17 anni sono rimasto in branda per 22 ore al giorno a guardare il soffitto e a non fare niente. Perché in altre carceri nessuno si è mai avvicinato a me, per farmi fare un percorso o per esempio spingermi ad andare a scuola, è logico quindi che odiavo il mondo. Poi quando sono arrivato qui nel 2009, ho avuto la possibilità di vedere la vita diversamente, mi sono iscritto a scuola mi sono diplomato, ora sono iscritto all’università, mi piace scrivere, partecipo ai concorsi di scrittura fuori, qualcuno l’ho anche vinto. Però tutte queste cose le posso portare avanti da quando sono a Padova, perché qui mi hanno dato la possibilità e quello che faccio lo faccio per la mia famiglia, anche perché da quando ho intrapreso questo percorso la vedo rasserenata. Non odiano più lo stato e le istituzioni come li odiavo io, o come li odiavano loro prima, perché lo accusavano del loro star male: “tengono mio marito, mio padre in galera”. Oggi non lo dicono più, perché oggi i nostri famigliari partecipano ai convegni che noi facciamo qui, e si mettono in gioco come ci mettiamo noi in gioco. Prima non eravamo capaci di dire che le colpe erano nostre, noi ci sentavamo innocenti, per noi il colpevole era lo stato, oggi invece con questo progetto abbiamo un altro punto di vista. Oggi incontrando la società esterna abbiamo il coraggio di dire che le colpe sono nostre, assumendoci le nostre responsabilità. Ma fino a che il detenuto rimane solo con se stesso, non fa altro che accumulare rabbia e odio verso tutti e verso se stesso, invece questi progetti aiutano a vedere le cose diversamente, perché se io per anni ho vissuto nell’ignoranza ed ero analfabeta, in carcere mi hanno lasciato tale fino a 55 anni, oggi ne ho 64 lascio immaginare come ho vissuto in quegli anni. Ecco, io faccio questo progetto per essere più in pace con me stesso io e perché lo siano i miei familiari. Liberare ed aiutare a liberarsi dal carcere di Samuele Ciambriello linkabile.it, 26 marzo 2018 Come liberare? Come aiutare a liberarsi? Come superare la necessità del carcere, in che modo possiamo, insieme, costruire un percorso comune, non solo nella nostra comunità, ma nella società intera che sempre più invoca il carcere per ogni forma di problema sociale? Provo qui di seguito a fornire alcuni elementi che spero possano essere utili ad abbozzare una traccia di risposta a partire dalla mia trentennale esperienza nel settore e nel ruolo istituzionale di garante campano dei detenuti. Chiunque di noi abbia avuto esperienza diretta a contatto con le persone detenute sa quanto sia fondamentale le costruzione di una relazione autentica e di ascolto che non può essere delegata alle figure istituzionali, perché nulla può sostituire il legame che si crea nel dialogo tra persone diversamente libere e nell’esercizio della funzione pastorale, educativa, di volontariato o di controllo della magistratura. Perché torna il carcere? Perché i dati indicano che dopo cinque anni in cui avevamo assistito a una lieve, ma progressiva, riduzione dei numeri della popolazione detenuta si registra una inversione di rotta. Siamo tornati a registrare 58.000 presenze, se ne contavano 55.00 nell’ottobre del 2016. In Campania su una capienza di 6157 posti, ospitiamo 7195 persone, di cui 329 donne. I detenuti stranieri sono 948, pari al 12% della popolazione detenuta. Per quanto riguarda la posizione giuridica, i detenuti condannati in via definitiva sono solo 3654, in attesa di giudizio sono 1415, i condannati in via non definitiva sono 1678. Complessivamente in Campania vi è circa il 20% della popolazione nazionale detenuta. E poi ci sono i 69 ristretti nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere (polizia di stato, finanzieri, carabinieri, polizia penitenziaria). Ai 60 ristretti nel carcere minorile di Nisida se ne aggiungono i 39 di quello di Airola, per lo più giovani adulti dai 18 ai 25 anni, e i 220 presenti nelle comunità residenziali. Il recente provvedimento del Governo sulla riforma penitenziaria è un passo in avanti per umanizzare il carcere, renderlo costituzionale, perché alla persona che sbaglia deve essere tolto il diritto alla libertà e non alla dignità. Ci sono più misure alternative al carcere, superando automatismi e preclusioni, tranne che per i condannati per mafia e terrorismo. Attenzione particolare viene data alla socialità del detenuto. In linea, inoltre, con le regole europee, si pone in risalto il diritto del detenuto a essere assegnato ad un Istituto prossimo alla residenza della famiglia. Importanti anche le novità sulla sanità in carcere, con l’equiparazione tra infermità fisica e psichica. Cambia il sistema disciplinare interno, c’è la riapertura dei canali per i permessi premio e i benefici bloccati dalla legge Cirielli. Un ruolo importante viene assegnato al volontariato in carcere. Una previsione importante riguarda il regime di semilibertà. Ci sono misure alternative al carcere con lavori socialmente utili, di pubblica utilità, più possibilità di arresti domiciliari per chi deve scontare solo qualche anno. Purtroppo alcune norme essenziali sono rimaste al palo, come il lavoro, la giustizia minorile, quella riparativa e il tema dell’affettività in carcere. Anche se sembra una riforma morta in culla, approvata in zona Cesarini, quasi di nascosto, rappresenta un grande passo in avanti di civiltà rispetto ad una giustizia che spesso è uno strumento di vendetta. Uno Stato che si vendica su un detenuto è uno Stato che educa alla cattiveria, alla vendetta, alla recidiva. Il nostro si fonda sul carattere rieducativo della pena. Il carcere duro e puro conduce, una volta fuori, alla reiterazione del reato. Adesso l’80 dei detenuti ha la recidiva. Quindi il carcere è fallito! Anche in Campania, come testimoniano centinaia di esperienze, il carcere rieducativo inibisce il crimine assai meglio del carcere punitivo. Liberare ed aiutare a liberarsi dice la riforma. Qui da noi un mondo del volontariato silenzioso e discreto, interviene già da anni, nei nostri istituti di pena con spirito costruttivo e animato dalla volontà di dare sostanza al principio costituzionale che stabilisce che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Io, come Garante, mi batterò con loro e con i diversamente liberi per trovare un varco oltre le mura dell’indifferenza e la concezione vendicativa della giustizia. *Garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Carcere, il decreto sugli internati è rimasto nel cassetto di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 marzo 2018 Ultima puntata di una serie di articoli dedicata alla drammatica condizione degli internati. Senza diritti e vittime di un retaggio del ventennio che li porta ad essere - come definiti dal già magistrato Laura Longo intervistata dal Dubbio - gli “ultimi degli ultimi”. Parliamo degli internati, coloro che continuano a scontare una pena (e non dovrebbe essere tale per legge) in misura di sicurezza. Per concludere il nostro viaggio tra gli internati, ancora una volta emerge la necessità della riforma dell’ordinamento penitenziario. Ma, se mai venisse approvata, rimarrà nel cassetto proprio il decreto che si occupa di modificare le misure di sicurezza e portare a un ridimensionamento del sistema del famigerato “doppio binario”. Si tratta di misure che interessano l’autore di reato socialmente pericoloso e che, secondo un assetto che risale al codice Rocco, si aggiungono alla pena (per gli imputabili e i semi-imputabili), ovvero rappresentano l’unica misura applicabile (per i non imputabili): la casa di lavoro, la colonia agricola, le comunità per i minori (già riformatorio giudiziario) e il ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario o in una casa di cura e di custodia (tra quelle detentive); le ultime due già oggetto di un ampio intervento di riforma, negli anni scorsi, ha portato alla chiusura degli Opg e all’introduzione delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). Il decreto in questione non avrebbe eliminato le misure di sicurezza (anche se viene auspicato da più parti), ma ridimensionato considerevolmente il sistema del doppio binario a vantaggio di misure a carattere riabilitativo e terapeutico e del minor sacrificio possibile della libertà personale, fatto salvo il contemperamento con le esigenze di prevenzione e tutela della collettività. Il decreto, innanzitutto, fa tre distinzioni: soggetti imputabili, semi- imputabili e non imputabili. Per i soggetti imputabili il regime del doppio binario viene limitato a chi ha commesso dei gravi delitti. Per i oggetti semi-imputabili, invece, si prevede addirittura l’abolizione del sistema del doppio binario e l’introduzione di un trattamento sanzionatorio finalizzato al superamento delle condizioni che hanno diminuito la capacità dell’agente, anche mediante il ricorso a trattamenti terapeutici o riabilitativi e l’accesso a misure alternative sempre compatibilmente con le esigenze di tutela della sicurezza pubblica. Infine per i soggetti non imputabili il decreto prevede di destinarli alle Rems - appena realizzate e già ai limiti della capienza - non solo (in via definitiva, prioritariamente, ma anche provvisoria) gli autori non imputabili e socialmente pericolosi, ma anche coloro che, vivendo nelle articolazioni psichiatriche dei penitenziari, non gli viene garantita una giusta cura. Quest’ultimo punto è stato criticato da più parti, perché potrebbe trasformare le Rems in mini Opg. In sintesi, se il governo avesse approvato questo decreto, sarebbe scuramente migliorata la condizione degli internati. Ma purtroppo la politica ha scelto di lasciarli abbandonati a se stessi, tra gli ultimi. Terrorismo. Intervista a Luigi Manconi: “un senso al dolore la via dell’incontro” di Generoso Picone Il Mattino, 26 marzo 2018 Nel 2008, a 30 anni dalla tragedia di Aldo Moro e dei 5 uomini della sua scorta, Luigi Manconi pubblicò “Terroristi italiani. Le Brigate rosse e la guerra totale 1970-2008” e nel libro pubblicato da Rizzoli sosteneva con assoluta nettezza che, a rapire lo statista democristiano, “sono state le Brigate Rosse e le Brigate Rosse sono state inequivocabilmente rosse”. Per Manconi, sociologo, ex senatore del Pd, oggi è direttore dell’Ufficio Nazionale anti discriminazioni razziali. Manconi, nel quarantennale, il dato che lei sottolineava non pare però ancora acquisito… “Ma è un punto cruciale che determina gran parte delle interpretazioni su quanto avvenuto da via Fani a via Caetani: Aldo Moro fu rapito e ucciso dalle Br e per una scelta delle Br. Lo possiamo affermare sulla scorta di ciò che sappiamo documentalmente. Magari non è tutto: ci saranno state pure interferenze e deviazioni da parte di settori degli apparati statali, ma le sole informazioni certe ci dicono che militanti delle Brigate Rosse parteciparono a qualche corso di addestramento in Cecoslovacchia e forse in Palestina, ebbero un contatto con i servizi segreti israeliani e qualche rapporto con terroristi tedeschi. Nulla di più. Consiglierei ancora oggi la lettura di un libro di Vladimiro Satta, “Odissea nel caso Moro”, uscito nel 2003, dove, sulla base di un’inchiesta minuziosa viene data una spiegazione razionale di tutte le contraddizioni e le aporie che rendevano poco credibile, agli occhi di tanti, le ricostruzioni ufficiali. Non si può mettere in dubbio, dunque, che le Br rappresentino una creatura assolutamente italiana, ovvero un fenomeno autoctono che affondale sue radici nella società nazionale e nelle sue culture politiche, rappresentando una deviazione mostruosa e criminale di una lunga tradizione ideologica”. In quello che Rossana Rossanda definì l’album di famiglia della sinistra comunista? “Sì, Rossanda aveva ragione e le polemiche che suscitò riguardavano le conseguenze politiche di quell’analisi più che la sostanza di quella scandalosa verità che aveva evidenziato. La sua tesi era inoppugnabile: nella cultura politica delle Br c’erano elementi e tratti della tradizione comunista. Del resto, successivamente, in un libro scritto da Vittorio Dini e da me, “Il discorso delle armi”, esaminando il linguaggio di Br e Prima Linea, notammo come, processando Moro, i terroristi avessero portato alle estreme ed efferate conseguenze un’ idea di giustizia popolare e proletaria. Un’idea che aveva le sue fondamenta in quella ideologia e che mimava istituti e procedure della giustizia borghese, rovesciandone il senso e applicandola in chiave autoritaria e giustizialista, attraverso l’annientamento fisico del nemico”. Crede che la mancata o comunque insufficiente consapevolezza su questo dato contribuisca a non sciogliere il nodo dell’incontro se non della riappacificazione tra chi ingaggiò, come lei scrive la guerra totale, e chi ne fu vittima? “Guardi, la strada da seguire è indicata in un’esperienza raccontata in un testo straordinario, “Il libro dell’incontro” pubblicato nel 2015 da Il Saggiatore e curato dal gesuita Guido Bertagna, dal criminologo Adolfo Ceretti e dalla sociologa Claudia Mazzucato: è il resoconto di 7 anni di incontri tra le vittime e i famigliari delle vittime, da una parte, e i responsabili dei delitti del terrorismo, dall’altra. In quella relazione, faticosissima e dolorosissima, è stata affrontata la grande questione rimossa. Si è attuata, cioè, una qualche forma di riconciliazione, certo difficilissima ma che, pur con grande sofferenza, c’è stata”. Un modello, insomma. “Sì, ma a due condizioni”. Quali? “Che gli autori di reato abbiano scontato la loro pena e che sia evidenziata la disparità tra vittime ed ex terroristi, senza che sia azzerata l’incolmabile differenza tra essi. Soltanto in un clima del genere si può tendere alla pacificazione. Anche se non verrà mai placato il tormento che induce la vittima a domandare: perché lo hai fatto?”. Che risposta ha registrato? “Le racconto l’esperienza di Gino Giugni. Il 3 maggio 1983 era stato gambizzato dalle Br e l’attentato sarebbe stato il primo di quella serie di attacchi contro giuslavoristi come Ezio Tarantelli, Massimo D’Antona e Marco Biagi. Un giorno venne invitato a tenere un seminario con i detenuti all’interno del carcere di Rebibbia: mi disse di essere incerto ma poi - dopo una lunga esitazione - accettò. Successivamente mi raccontò che, mentre parlava di politiche del lavoro e incrociava lo sguardo dei suoi presunti attentatori, gli veniva da pensare: “Perché avete deciso di colpire me, uno degli autori dello Statuto dei lavoratori?”. E questa resta una domanda ineludibile per tante altre vittime. In quell’interrogativo e nella risposta, quando c’è, di chi quel male ha provocato, emerge una questione fondamentale: la volontà delle vittime di dare un senso, una spiegazione razionale, al proprio irreparabile dolore”. Mafie. Ingiustizia organizzata e giustizia troppo lenta di Marco Omizzolo La Repubblica, 26 marzo 2018 Contro mafiosi e criminali, caporali e trafficanti tutti riconoscono l’importanza della denuncia. Se ti sfruttano, affermano, devi denunciare. Se sei vittima di caporalato, devi denunciare. Gli appelli in tal senso sono continui. Non si sconfiggono le mafie e lo sfruttamento, affermano e con ragione, senza la denuncia. Non ci sarebbe antimafia senza il coraggio di alcuni, italiani e migranti, che da semplici cittadini o come lavoratori, decidono di denunciare il boss di turno, il caporale, il trafficante di esseri umani. Quando si presenta una denuncia, sia chiaro, ci si affida allo Stato, ai processi che dallo Stato sono organizzati, alle procedure formali, alle leggi dell’ordinamento. Si ripone fiducia nella giustizia immaginando di ottenerne presto, dando un contributo al Paese in cui si è nati o nel quale si risiede. Questa però è solo, purtroppo, a volte, retorica. Contro le mafie dei padrini e dei padroni si chiede infatti alle vittime più fragili, le lavoratrici e i lavoratori migranti sotto caporalato e gravemente sfruttati, di denunciare e di avere fiducia nello Stato italiano. Una fiducia a volte ricambiata. È accaduto con il processo Sabr a Lecce che ha riconosciuto le responsabilità di un sistema mafioso di sfruttamento che prevedeva la riduzione in schiavitù dei lavoratori migranti. Ma cosa succede invece generalmente in molti tribunali italiani? Succede che ci si rende conto di un’Italia che decide di non scendere in campo e di perdere, dunque, la partita della giustizia ancora prima di averla giocata. Sono decine i processi contro caporali, sfruttatori e trafficanti iniziati grazie alle coraggiose denunce di lavoratori migranti ridotti in schiavitù, vittime di caporalato e di tratta internazionale a scopo di sfruttamento lavorativo. Pochi di questi però arrivano addirittura alla prima udienza. C’è da vergognarsi. Se per questa strada si vuole contrastare e sconfiggere lo sfruttamento lavorativo e le agromafie è meglio tornare alla mobilitazione o nel peggiore dei casi riconoscere di aver fallito come Paese. Spesso i tribunali più inefficienti sono proprio quelli presenti in territori in cui il fenomeno mafioso e dello sfruttamento lavorativo è particolarmente organizzato, rodato, diffuso, sistemico. Presso il Tribunale del Lavoro di Latina, ad esempio, una della province dove il caporalato e le mafie sono più diffuse, peraltro in forme spesso originali, c’è solo un giudice deputato a dirimere migliaia di cause. Secondo le raccomandazioni giunte da Roma dovrebbero, forse, arrivare altri due magistrati. Per ora però nessuna garanzia reale e, comunque, resterebbe un Tribunale gravemente sotto organico. Proprio in provincia di Latina, il 18 aprile del 2016, è stato organizzato dalla Onlus “In Migrazione” e dalla Flai Cgil uno dei più importanti scioperi di braccianti migranti contro lo sfruttamento degli ultimi cinquant’anni. Una vera azione di antimafia sociale. Da allora “In Migrazione” continua a girare per le campagne per intervistare i braccianti indiani vittime di caporalato e tratta, gravemente sfruttati e truffati in vario modo, fornendo loro consulenza legale gratuita, facendo formazione e spesso incoraggiando la denuncia nei casi più gravi. Un’attività non senza pericoli, considerando il complesso degli interessi economici e politici, criminali e non solo, che si toccano, contrastano e denunciano. “Dopo il 18 aprile - dichiara Simone Andreotti, presidente di In Migrazione - grazie al capillare lavoro di mediazione e informazione che stiamo conducendo nel territorio e nonostante i pericoli, abbiamo aiutato oltre 70 braccianti indiani a denunciare caporali, padroni e sfruttatori vari. Un lavoro fatto con grande passione e competenza e senza alcun sostegno da parte delle istituzioni locali interessate”. Scorrendo i nomi delle aziende e dei caporali denunciati si riesce a disegnare una cartina precisa dell’agromafia di quella provincia mentre ascoltando le storie dei lavoratori punjabi sfruttati si comprende perfettamente l’organizzazione mafiosa del caporalato pontino. Eppure, con un solo giudice al lavoro o quasi, quelle domande di giustizia e legalità vengono puntualmente disattese. In questo modo l’ingiustizia rimane organizzata, diffusa e mafiosa. L’ordine degli avvocati di Latina si è già rivolto al Consiglio superiore della Magistratura e al ministro della Giustizia denunciando il rinvio sine die dei processi e l’inadeguatezza dei locali adibiti a sezione lavoro, incapienti e inadatti alla trattazione delle udienze. “È inaccettabile - afferma Roberto Iovino, responsabile legalità Flai Cgil - che in un paese civile e a distanza di anni, i lavoratori che hanno avuto il coraggio di denunciare la difformità della loro retribuzione rispetto a quanto previsto dai contratti non abbiano ancora ricevuto giustizia. Si dà cosi l’immagine di uno Stato assente, vanificando lo sforzo di chi è impegnato ad affermare legalità e giustizia nel mondo del lavoro. Non si può da un lato annunciare una lotta senza quartiere al lavoro nero e al caporalato per poi non fornire a chi deve fare le ispezioni e ai magistrati del lavoro le risorse necessarie per assicurare che sia fatta giustizia”. Intanto le denunce continunano a riempire gli armadi del tribunale, l’ansia di giustizia dei lavoratori viene umiliata e la certezza di impunità dei padroni e dei mafiosi confermata. Kamaljiit, bracciante indiano di circa cinquant’anni che per venti ha lavorato nelle relative campagne spezzandosi la schiena sotto diversi padroni e molti caporali, dice di essere “molto deluso dallo Stato italiano...Io volevo giustizia perché il padrone italiano mi ha sfruttato facendomi lavorare tutti i giorni e dandomi a fine mese circa 400 euro. Lavoravo anche 14 ore al giorno. Ma qui in Italia sembra che la giustizia sia dalla parte dei padroni”. Dopo aver ascoltato una riunione organizzata da “In Migrazione” e precisamente nel tempio Sikh nel comune di Sabaudia, in cui si informavano i braccianti dei loro diritti, del valore del contratto di lavoro, del ruolo del padrone e del caporale, Kamaljiit decide, con un atto di grande coraggio e responsabilità, di denuciare la sua condizione facendo nomi e cognomi. Un atto che meriterebbe il riconoscimento della cittadinanza italiana in un Paese civile. Kamaljiit abitava in un uno stanzone senza riscaldamento e con copertura in eternit insieme ad altri 7 lavoratori indiani. Aveva a disposizione solo un letto e un armadio dove teneva i suoi pochi vestiti e qualche foto della famiglia in India. Per mangiare si rivolgeva al tempio della sua comunità che gli garantiva sempre un pasto caldo. Lavorava per un’azienda agricola tra San Felice Circeo e Sabaudia, domenica compresa, per appena 3 euro l’ora. Coi pochi soldi guadagnati poteva permettersi solo una bicicletta con la quale ogni mattina faceva circa 20 chilometri per andare a lavorare ed altrettanti per tornare a casa. Per due anni Kamaljiit ha annotato tutto dietro le pagine di alcuni calendari. Ha registrato il complesso delle ore lavorate al giorno, quanti soldi ha percepito e quanti il padrone gliene aveva promessi, fino al momento in cui ha deciso di denunciare, consapevole che la difesa della propria dignità è la prima forma di antimafia da mettere in campo. La denuncia gli è costata molto, anche solo considerando la sua esposizione e i rischi impliciti. Stante la sua condizione, si trattava di un gesto rivoluzionario. Dal padrone, dopo qualche settimana, è stato allontanato e gravemente minacciato. Kamaljiit viene preso in carico da “In Migrazione” che riesce a trovargli fuori provincia un lavoro in un’azienda agricola che gli ha garantito un contratto e tutti i diritti relativi. Si è affidato allo Stato. Ebbene, sono trascorsi 4 anni da quella denuncia e il Tribunale di Latina non è riuscito a tenere neanche la prima udienza di quel processo. Quattro anni di silenzi, frustrazione, anonimato obbligatorio. Intanto i suoi testimoni hanno preso altre strade. Alcuni sono tornati in India, altri sono andati a lavorare nelle campagne di Reggio Emilia. La sua udienza, finalmente fissata per il 30 novembre del 2017, è stata ulteriormente rinviata a fine novembre del 2018. Kamaljiit sa che forse non avrà giustizia dal Paese nel quale vive da circa 20 anni. Il padrone italiano invece non sarà obbligato ad assumersi le sue responsabilità, anzi, ne uscirà, probabilmente, pulito e libero. Lo stesso sta accadendo con un’azienda ortofrutticola tra le più grandi del Pontino. Produce ravanelli in serra che i lavoratori raccolgono piegati sulle ginocchia tutto il giorno per poi esportarli in tutta Europa, Olanda compresa. I lavoratori venivano pagati 3 euro per raccogliere 120 mazzetti da 15 di ravanelli. È lavoro a cottimo. Gli 80 euro del governo non sono mai arrivati nelle tasche dei braccianti indiani che erano obbligati anche a comprarsi gli indumenti adatti per lavorare. Dopo una loro pacifica richiesta di aumento rivolta direttamente al datore di lavoro, quest’ultimo, per repressione, ha abbassato la retribuzione a 2,90 euro. Il caporale indiano reclutava prevalentemente i lavoratori più giovani la sera per la mattina mediante messaggio sui social. I lavoratori più anziani erano considerati meno subordinati perché più consapevoli dei loro diritti e, dunque, meno ricattabili. Per questa ragione sono stati chiamati sempre meno, mobbizzati, emarginati e mal pagati. I braccianti indiani, anche in questo caso, hanno denunciato tutto, compreso il caporale indiano che dopo due anni di appostamenti della Polizia di Stato, intercettazioni, interrogatori e filmati, viene arrestato, salvo tornare in libertà e al lavoro nella sua stessa ex azienda dopo appena pochi giorni. “Abbiamo denunciato e aspettiamo giustizia ma ci ha sorpreso rivedere il caporale lavorare. Quella persona ci ha insultato, trattenuto i soldi dallo stipendio e spesso non ci chiamava a lavorare perché noi conosciamo i nostri diritti. Se dopo le denunce non cambia nulla perché denunciare?” dice Hardeep, uno dei lavoratori che ha presentato denuncia e che peraltro è stato vittima di tratta internazionale a scopo di sfruttamento lavorativo. Sono trascorsi tre anni e ci sono state solo alcune udienze preliminari. I testimoni dei lavoratori indiani dovevano presentarsi dinnanzi al giudice a fine novembre 2017 ed invece l’udienza è stata rinviata, anche in questo caso, a fine novembre del 2018. I lavoratori continuano a chiedere giustizia ad uno Stato che sembra aver alzato bandiera bianca. Padroni, aziende e sempre più anche caporali lo sanno benissimo e si lasciano denunciare sapendo che tutto sarà rinviato, sine die. I braccianti intanto continuano ad essere reclutati dai caporali e alcune aziende agricole continuano a pagare 3 euro l’ora per 14 ore di lavoro al giorno. Poco è cambiato per i lavoratori se non la consapevolezza di vivere in un Paese ingiusto come i padroni italiani dinnanzi ai quali devono chinare la testa ogni giorno della loro vita lavorativa, alcuni dei quali si fanno anche chiamare boss. Incidenti stradali, il crac annunciato del fondo per le vittime di Marco Grasso La Stampa, 26 marzo 2018 Dal 1971 esiste il Fondo nazionale vittime della strada: tutela chi è vittima di un incidente provocato da un pirata della strada o da un mezzo non assicurato. Perdite per 150 milioni l’anno e azzeramento del patrimonio nel 2019, il calo dei prezzi delle? ?polizze ha svuotato la cassaforte. Assoutenti: “Non scaricate i costi sui cittadini” In Italia il 12% dei veicoli non è assicurato. Chi viene investito è costretto a fare causa e aspettare 15 anni per essere liquidato. La Campania manda in default il meccanismo. Da 47 anni tutela chi è vittima di pirati della strada o chi ha incidenti con veicoli non assicurati, ma la storia del Fondo nazionale vittime della strada è molto vicina al capolinea: un rosso strutturale di circa 150 milioni l’anno, l’azzeramento del patrimonio nel 2019 e un inabissamento progressivo, in assenza di profonde correzioni di rotta, che proietta lo squilibrio a -800 milioni nel 2026. Un default annunciato, messo nero su bianco da Consap, la concessionaria servizi assicurativi pubblici, spa controllata dal ministero delle Finanze cui fa capo il fondo di garanzia. Un allarme passato sotto silenzio e, fino a oggi, rimasto inascoltato. Le radici della crisi - Le ragioni della crisi, si legge nel rapporto, sono nella sostanza tre. La prima è la diminuzione complessiva delle entrate: il Fondo, che ogni anno eroga tra i 300 e i 400 milioni di euro in risarcimenti, è alimentato quasi del tutto con un prelievo dai premi pagati da chi stipula una Rc auto; da anni le assicurazioni sono più a buon mercato e uno degli effetti è che la quota prelevata tra il 2012 e il 2015 è crollata del 20%: trattenere il 2,5% non basta più. La seconda è l’aumento degli evasori. Si stima che circa il 12% dei veicoli in Italia circoli senza assicurazione, quota che raggiunge picchi spaventosi nel Mezzogiorno, dove, secondo le elaborazioni della Motorizzazione, in alcuni comuni si tocca il 50%. Questo causa un doppio danno: meno entrate per il Fondo e una raffica di incidenti in più da risarcire. A questo si somma un terzo fattore: l’aumento delle frodi. La questione viene affrontata in un capitolo a parte della relazione, dal titolo “Il caso Campania”, regione in cui finisce il 41% dei quasi 200 milioni di euro pagati dal Fondo (dato 2015), e in cui si concentrano il 65% dei casi considerati a rischio frode. Non solo: il 47,6% di tutte le denunce viene presentato in Campania, che al contrario pesa per il 7,7% sul mercato assicurativo “ordinario”. Una sproporzione che, pur in misura più contenuta, è presente anche in Calabria, Puglia e Sicilia. Ancora, il 57% delle spese legali a carico del Fondo è risucchiato dallo stesso territorio per cause perse. Sommando tutte le voci, la Campania pesa sull’indice dei costi del Fondo (combined ratio) per il 55%. Tutti fatti che concorrono al deficit e che vanno incrociati con almeno altre due circostanze: il numero di incidenti trattati è rimasto costante e sono quasi azzerate le sanzioni alle compagnie irrogate dall’Ivass, l’Istituto di vigilanza sulle assicurazioni, che contribuivano, pur in piccola parte, alle entrate del Fondo. Aumenti in vista - La cura principale, per i tecnici di Consap, è una medicina amara per gli utenti della strada: alzare il prelievo a carico degli assicurati e portarlo al 4%, il massimo consentito sulla carta. Secondo le proiezioni, i bilanci non tornerebbero in pari, ma la paralisi verrebbe quantomeno rimandata: “Possiamo far finta di non vedere il problema, ma non ci sono molte altre strade”, dice una fonte che ha lavorato al rapporto. La misura varrebbe circa 210 milioni l’anno di maggiore introiti ed è vista come imprescindibile. Accanto a questa, Consap ha messo a punto una strategia per incidere sui meccanismi di funzionamento interni. Tuttavia i tempi di questa operazione non sono immediati: fino ai tre anni per realizzarli e cinque per apprezzarne gli effetti. E, soprattutto, questi ritocchi hanno, secondo le stime, un impatto economico relativo rispetto alla montagna di rosso da scalare. “Tutte le iniziative rimesse alla nostra attività di impresa - sottolineano i vertici di Consap - sono state avviate o sono in corso di implementazione. Ma non basteranno senza modificare l’aliquota”. Per la Concessionaria il ritocco del prelievo peserebbe tra i 4 e 5 euro per la grande maggioranza degli assicurati italiani: in dettaglio, la media sarebbe di 4,34 euro al Nord, 5,11 al Centro e 5,03 al Sud. Questa ipotesi, però, ha incontrato un’opposizione durissima da parte delle associazioni dei consumatori. Il no dei consumatori - “Come al solito si cerca di scaricare le inefficienze sugli utenti, vacche da mungere che pagano per tutti”, attacca Furio Truzzi, presidente nazionale di Assoutenti, che punta il dito anche contro l’approccio delle compagnie. Sono, infatti, le imprese tradizionali, individuate con gara - l’Italia è suddivisa in sei macro-zone - che fanno da prima linea per il Fondo. Con tempistiche e livelli di efficienza che in genere sono molto diversi da quelli del mercato tradizionale. Assai simile il punto di vista di Alberto Pallotti, presidente di Aifvs, l’associazione nazionale vittime della strada, uno dei promotori della legge sull’omicidio stradale: “Il fondo non ha soldi, non funziona e costringe le famiglie a rivolgersi ai tribunali. A questo punto è meglio abolirlo”. E il governo? Dopo qualche mese di melina e un fitto scambio di carteggi tra Consap e ministero dello Sviluppo economico terminato a fine 2017, l’esecutivo ha deciso di non decidere. E, viste anche le imminenti elezioni, ha messo in naftalina la questione e confermato, anche per il 2018, l’aliquota del 2,5%. La storia - Il 13 giugno del 2003 Andrea C. ha 39 anni. È un grande amante dello sport, adora la montagna. È un tecnico, di mestiere monta e ripara impianti di aerazione e, quel giorno, è a bordo del suo motorino per le strade di Genova. È appena partito quando viene affiancato da un furgone, che lo urta e lo spinge contro la pensilina della fermata di un autobus. Lo schianto è molto violento. Le conseguenze dell’incidente cambieranno la vita del motociclista per sempre, rendendolo invalido al 77%. Il responsabile, invece, scappa. Al dramma che gli sconvolge l’esistenza e la salute se ne aggiunge presto un altro: le cure sono costosissime e lui non può più lavorare. L’unica buona notizia arriva dall’Inail: il suo viene classificato come un incidente di lavoro e l’ente gli riconosce una pensione. Tuttavia quando prova a rivolgersi al Fondo vittime della strada, che dovrebbe tutelare vittime come lui, riceve una seconda doccia fredda. L’offerta è sotto alle aspettative, si trova di fronte alla prospettiva di un lungo contenzioso e non rimane altro da fare che armarsi di pazienza. “La cosa che mi ha dato più fastidio - dice il giorno in cui varca la soglia dell’ufficio del suo legale - è stata essere trattato come un truffatore: dopo tutto quello che ho passato credevano mi fossi inventato tutto”. Di pazienza, Andrea C., ne ha avuta tanta. La sentenza di primo grado arriva all’inizio del 2018, quindici anni dopo, quando il tribunale gli riconosce un danno da quasi un milione di euro. In lista di attesa - La sua non è un’eccezione. Le vittime di pirateria stradale si trovano spesso ad affrontare un calvario che li porta direttamente da un letto d’ospedale a un’aula giudiziaria, tra tempi di attesa lunghissimi e vicoli ciechi della burocrazia. Le vittime, o i loro familiari, spesso sono costrette a fare causa al Fondo, col risultato che i contenziosi allungano tempi e costi, oltre ad accrescere il livello di solitudine delle famiglie che si trovano a fronteggiare simili drammi. Perché accade? Una delle spiegazioni è l’alto rischio frode, ma non è l’unica. “Il paradosso - spiega Lorenzo Betti, avvocato civilista che ha assistito Andrea C. - è che in questo dramma il mio cliente è stato più fortunato di tanti altri. Il fatto di essere rimasto vittima di un incidente mentre stava lavorando ha consentito di ottenere una prima fetta di risarcimento dall’Inail. Ma nella stragrande maggioranza dei casi non accade. Si può solo provare a immaginare cosa comporti, anche in termini di costi, un incidente simile per una persona che ha 40 anni ed è costretta a smettere di lavorare”. Nello specifico, il Fondo ha preferito affrontare una lunga causa legale invece di trovare un accordo con la famiglia. Anche se, come ha stabilito il giudice Vincenzo Basoli, non c’era ragione di dubitare delle prove portate. All’incidente aveva assistito un testimone e la denuncia venne presentata senza un ritardo significativo: “Ci provano sempre - scuote la testa Pallotti - hanno problemi di bilancio e allora preferiscono farsi fare causa per non pagare”. Una posizione condivisa anche da Truzzi: “Le spese legali pesano in modo sostanziale sul bilancio. Invece di rifarsi sui consumatori, bisognerebbe rivedere queste strategie. Transare in molti casi conviene di più rispetto ai costi di un processo perso. Dall’altro lato bisognerebbe adottare strumenti veri per dare la caccia agli evasori”. “Nazionalizzare il Fondo” - Ogni anno in Italia circa 250 mila persone vengono coinvolte in incidenti stradali, i morti sono stati 3.283 nel 2016. Una parte di questi incidenti è causata da pirati della strada: hanno provocato 1.428 feriti e 115 morti, metà dei quali erano pedoni. “Ci ostiniamo a fare finta di non vedere questa strage - continua Pallotti - è la maggiore causa di morte”. Il suo ruolo gli ha ritagliato una certa notorietà e vari partiti, spiega, lo hanno corteggiato: “Ho ricevuto offerte dal Partito democratico e dal Movimento 5 Stelle. A tutti ho risposto la stessa cosa: non mi interessa sedere in Parlamento a fare la marionetta. O c’è un interesse vero a combattere i poteri forti, oppure fate pure senza di me. Io una proposta ce l’ho: nazionalizziamo il comparto Rc Auto e anche il Fondo vittime della strada. Lo Stato incamererebbe 10-12 miliardi di utili e si farebbe garante della copertura del fondo”. È una via percorribile? Non entrerebbe in contrasto con le leggi sul settore e con l’Unione Europea? “Esiste Inail, che risarcisce gli incidenti sul lavoro, non vedo perché non si possa applicare la stessa logica anche ai sinistri stradali. Abbiamo chiesto alcuni pareri, secondo i nostri legali si può fare. Nessuno oggi ha però il coraggio di toccare quegli interessi”. Protezione, ricorsi col bollino. Uno schema tipo per il legale che difende l’immigrato di Gabriele Ventura Italia Oggi, 26 marzo 2018 Maglie strette contro i ricorsi in materia di protezione internazionale. L’avvocato che difende l’immigrato deve infatti attenersi a uno schema tipo di ricorso, non può intervenire in udienza, deve essere puntuale, presentare documenti in italiano, informare il giudice in caso di malattie infettive dell’assistito. Sono alcune delle regole contenute nel protocollo siglato nei giorni scorsi dall’Ordine degli avvocati e dal Tribunale di Venezia, che da alcuni operatori della giustizia viene definito “discriminatorio”. Tanto che lo stesso Coa di Venezia ha diramato una nota con ulteriori precisazioni sull’iniziativa. Affermando che la necessità di prevedere uno schema tipo di ricorso nasce dall’enorme contenzioso in materia di protezione internazionale, con ben 4.101 ricorsi iscritti nel 2017 a fronte di una previsione tabellare che attribuisce alla sezione immigrazione appena sei magistrati. In questo senso, obiettivo del protocollo è rendere evidenti da subito i dati di rilievo come nome, residenza, paese di origine, motivi di impugnazione, data di notifica del provvedimento. La fissazione di compensi standard per gli avvocati (800 euro se il ricorso è accettato e 600 se è respinto) nasce invece, specifica l’Ordine di Venezia, dalla necessità di limitare l’ulteriore contenzioso in materia di opposizione al decreto di liquidazione che sta gravando sul tribunale. Solo nel 2017, specifica il Coa, è stata liquidata ai difensori del settore civile la somma complessiva di oltre un milione di euro, per la maggior parte imputabili al contenzioso in materia di immigrazione. La previsione secondo cui l’audizione è condotta dal giudice, sottolinea ancora l’Ordine di Venezia, è conforme a quanto previsto dal codice di rito in ordine all’audizione delle parti e dei testimoni. Il protocollo prevede, in pratica, che l’audizione sia condotta esclusivamente dal giudice e tendenzialmente in modo ininterrotto, si legge nella nota, senza che il difensore possa intervenire con domande preventive o suggestive salva la possibilità di approfondimenti successivi. Infine, la creazione di apposite liste di avvocati, giustifica il Coa, è volta a garantire che la parte ammessa al patrocinio dello stato possa agevolmente individuare il maggior numero di professionisti che si occupano della materia. L’aggravante dell’odio razziale e il pregiudizio manifesto di inferiorità di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 26 marzo 2018 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 19 febbraio 2018 n. 7859. La circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, razziale o religioso è configurabile non solo quando l’azione, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto in cui si colloca, risulti intenzionalmente diretta a rendere percepibile all’esterno e a suscitare in altri analogo sentimento di odio e comunque a dar luogo, in futuro o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori, ma anche quando essa si rapporti, nell’accezione corrente, a un pregiudizio manifesto di inferiorità di una sola razza, non avendo rilievo la mozione soggettiva dell’agente. Lo dice la Cassazione penale con la sentenza 7859/2018. Tale circostanza, proseguono i giudici della quinta sezione, è configurabile per il solo fatto dell’impiego di modalità di commissione del fatto consapevolmente fondate sul disprezzo razziale (ciò che nella specie è stato ritenuto a carico dell’imputato di un reato di diffamazione commesso in danno di una politica di origine africana, che era stata assimilata a una “scimmia antropomorfa”). Come è noto, l’articolo 3 del decreto legge 26 aprile 1993 n. 122, convertito dalla legge 25 giugno 1993 n. 205, prevede una circostanza aggravante per i reati punibili con pena diversa da quella dell’ergastolo commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, naziona­le, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità. La Cassazione ha ritenuto di apprezzarne qui la sussistenza valorizzando il rilievo che l’espressione utilizzata costituiva manifestazione di “disprezzo razziale”, ponendosi in linea con il principio secondo cui l’aggravante in questione è integrata quando - anche in base alla Convenzione di New York del 7 marzo 1966, resa esecutiva in Italia con la legge n. 654 del 1975 - l’azione si manifesti come consapevole esteriorizzazione, immediatamente percepibile, nel contesto in cui è maturata, avuto anche riguardo al comune sentire, di un sentimento di avversione o di discriminazione fondato sulla razza, l’origine etnica o il colore e cioè di un sentimento immediatamente percepibile come connaturato alla esclusione di condizioni di parità, non essendo comunque necessario che la condotta incriminata sia destinata o, quanto meno, potenzialmente idonea a rendere percepibile all’esterno - e, quindi, a suscitare - il riprovevole sentimento o, comunque, il pericolo di comportamenti discriminatori o di atti emulatori, anche perché ciò comporterebbe l’irragionevole conseguenza di escludere l’aggravante in questione in tutti i casi in cui l’azione lesiva si sia svolta in assenza di terze persone (sezione V, 2 marzo 2015, M.). Sul tema va ricordato come di recente si sia precisato che la circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, razziale o religioso è configurabile non solo quando l’azione, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto in cui si colloca, risulti intenzionalmente diretta a rendere percepibile all’esterno e a suscitare in altri analogo sentimento di odio e comunque a dar luogo, in futuro o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori, ma anche quando essa si rapporti, nell’accezione corrente, a un pregiudizio manifesto di inferiorità di una sola razza, non avendo rilievo la mozione soggettiva dell’agente (sezione V, 28 novembre 2017, Mancini). Il sostituto processuale può costituirsi parte civile nel processo penale di Lorenzo Sozio* studiocataldi.it, 26 marzo 2018 Basta che tale facoltà sia stata espressamente conferita nella procura o che il danneggiato sia presente all'udienza di costituzione. La Suprema Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, si è finalmente espressa sulla questione della possibilità di delega al sostituto processuale di costituirsi parte civile ai sensi dell'art. 76 c.p.p. con la preziosa pronuncia del 16 Marzo 2018 n°12213, per mezzo della quale ha fatto chiarezza sui poteri che il sostituto processuale del difensore e procuratore speciale ha nell'esercitare l'azione civile all'interno del processo penale. Siffatta autorevole sentenza delle Sezioni Unite ha tracciato un vero e proprio trattato manualistico sull'istituto della costituzione di parte civile e soprattutto sui poteri che vengono conferiti al difensore mediante le richieste procure speciali che autorizzano quest'ultimo ad esercitare le facoltà connesse alla richiesta di risarcimento del danno o di restituzione in forma specifica nel solco dell'azione penalistica. Dapprima è stata ribadita e rispolverata la netta distinzione tra la legitimatio ad causam e la legitimatio ad processum: la legittimazione processuale indica il potere di esercitare la richiesta di risarcimento del danno e di restituzione ai sensi dell'art. 185 c.p., prerogativa della parte lesa e/o della persona offesa dal reato ai sensi dell'art. 74 c.p.p., la quale può costituirsi in giudizio personalmente o attraverso un proprio procuratore ai sensi dell'art. 122 c.p.p. che va ad assumere la prerogativa di costituirsi parte civile in nome e per conto del rappresentato con le medesime capacità di disposizione delle posizioni giuridico-soggettive di quest'ultimo; la legittimazione processuale invece indica la necessaria rappresentanza processuale attraverso il ministero di un difensore ai sensi dell'art. 100 c.p.p. per mezzo del quale il danneggiato deve essere patrocinato in giudizio ed al quale va appunto conferita la procura alle liti (procura ad litem), che è colui il quale fa valere "materialmente" e giudizialmente le pretese della parte civile sul "palcoscenico" processuale. Spesso queste due funzioni vengono assunte dal medesimo soggetto, l'avvocato difensore della persona offesa e/o danneggiata, al quale vengono conferite due procure speciali affinché si costituisca parte civile nel processo penale in nome e per conto dell'avente diritto e/o quale difensore tecnico dello stesso nel medesimo giudizio. Quindi la persona offesa e/o danneggiata può scegliere di "tenere per sé" il potere di esercitare il diritto alle restituzioni o al risarcimento (legitimatio ad causam) e poi necessariamente conferire procura speciale al difensore di fiducia per costituirsi in giudizio per mezzo del patrocinio di un soggetto abilitato per legge; oppure può scegliere di conferire al difensore di fiducia, oltre alla indispensabile procura alle liti, una ulteriore procura speciale affinché questo assuma anche la rappresentanza sostanziale, ossia la propria posizione giuridica specifica. Come già detto, quasi sempre l'avvocato che raccoglie la nomina di fiducia in vista di un processo penale all'interno del quale il danneggiato voglia esercitare l'azione civile, si lascia conferire entrambe le procure speciali, anche e soprattutto per una questione di economia processuale e per avere ampia padronanza della funzione rivestita. Quando ciò non avviene, di norma, si imposta la dichiarazione di costituzione in prima persona a nome e sottoscrizione della persona offesa e in calce si conferisce la nomina di difensore di fiducia attraverso la procura speciale alle liti. Orbene, il difensore al quale è stata rilasciata la procura ad litem può sempre delegare un proprio sostituto processuale, così come sancito dall'art. 102 c.p.p., sicché il problema non si pone affatto. Invece il difensore di fiducia al quale viene conferita anche procura speciale per la rappresentanza sostanziale della posizione soggettiva finalizzata al risarcimento del danno, in nome e per conto del danneggiato, non potrà nominare un proprio sostituto processuale nella fase processuale della costituzione di parte civile se tale facoltà non gli sia stata prevista espressamente nell'atto di conferimento della procura speciale da parte della persona offesa/danneggiato; pertanto si ritengono non sufficienti a tale scopo le procure speciali che non prevedano espressamente il potere per il procuratore speciale di nominare un proprio sostituto all'atto della costituzione di parte civile. In alternativa, qualora il procuratore speciale non abbia l'espressa facoltà di nomina di un sostituto, per ovviare alla sua "assenza" sarebbe necessaria la presenza fisica del danneggiato nell'udienza di costituzione a "ratifica" della posizione del sostituto processuale. Questa è stata la posizione della Suprema Corte la quale appare francamente ovvia e condivisibile, dopo un periodo di vera e propria fobia da parte degli avvocati che temevano che il divieto di sostituzione processuale del procuratore speciale finalizzato alla costituzione di parte civile potesse essere sancito in modo netto ed assoluto da parte della Corte di Cassazione: sconfinando in un interpretazione della normativa assolutamente non condivisibile ed illegittima. *Avvocato del Foro di Napoli Il concetto di destrezza come circostanza aggravante del reato di furto Il Sole 24 Ore, 26 marzo 2018 Reati contro il patrimonio - Mediante violenza alle cose o alle persone - Furto - Circostanza aggravante ex art. 625, c. 1, n. 4 del Cp- Ricorrenza. In tema di furto, la circostanza aggravante della destrezza sussiste qualora l’agente abbia posto in essere, prima o durante l’impossessamento del bene mobile altrui, una condotta caratterizzata da particolari abilità, astuzia o avvedutezza e idonea a sorprendere, attenuare o eludere la sorveglianza del detentore sulla “res”, non essendo invece sufficiente che egli si limiti ad approfittare di situazioni, non provocate, di disattenzione o di momentaneo allontanamento del detentore medesimo. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 6 marzo 2018 n. 10119. Reati contro il patrimonio - Furto - Circostanze aggravanti - Destrezza - Presupposti di operatività - Condotta - Particolare abilità - Necessità - Approfittamento della disattenzione o del momentaneo allontanamento del detentore della cosa - Sufficienza - Esclusione. La circostanza aggravante della destrezza di cui all’articolo 625, comma 1°, numero 4, del C.p., richiede un comportamento dell’agente, posto in essere prima o durante l’impossessamento del bene mobile altrui, caratterizzato da particolare abilità, astuzia o avvedutezza, idoneo a sorprendere, attenuare o eludere la sorveglianza sul bene stesso; sicché non sussiste detta aggravante nell’ipotesi di furto commesso da chi si limiti ad approfittare di situazioni, dallo stesso non provocate, di disattenzione o di momentaneo allontanamento del detentore della cosa (da queste premesse, la Corte ha escluso l’aggravante, per l’effetto annullando senza rinvio la sentenza di condanna per mancanza di querela, in una vicenda in cui l’imputato, all’interno di un esercizio commerciale, risultava avere asportato un computer portatile, prelevato dal bancone in un momento di distrazione del titolare e dei clienti presenti: in tale condotta, secondo le sezioni unite, difettavano i presupposti della destrezza come sopra ricostruita). • Corte di cassazione, sezioni Unite penali, sentenza 12 luglio 2017 n. 34090. Reati contro il patrimonio - Delitti - Furto - Circostanze aggravanti - Destrezza - Particolare abilità - Necessità - Esclusione - Approfittamento della disattenzione o del momentaneo allontanamento del detentore della cosa - Sufficienza. Poiché la disposizione di cui all’articolo 625 cod. pen., comma 1, n. 4, non pretende necessariamente l’impiego di doti eccezionali applicate nella sottrazione e tali da impedire al derubato di averne contezza, ricorre l’aggravante della destrezza e l’abilità operativa dell’autore del furto nella condotta di chi sottrae beni da un’autovettura lasciata in sosta sulla pubblica via priva di chiusura, oppure da uno studio medico, da una stanza di degenza ospedaliera, da un negozio o da un cantiere edile, estrinsecandosi tale fattispecie nell’approfittamento della condizione disattenta del soggetto passivo, distratto da altre occupazioni o comunque poco concentrato nella sorveglianza dei propri averi. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 27 giugno 2016 n. 26749. Reati contro il patrimonio - Delitti - Furto - Circostanze aggravanti - Destrezza - Nozione. È esclusa la destrezza nella condotta di chi si avvalga di un momento di distrazione o del temporaneo allontanamento dal bene del suo detentore, in entrambi i casi non provocato dall’attività dell’autore del furto, perché l’azione non presenta alcun tratto di abilità esecutiva o di scaltrezza nell’elusione del controllo dell’avente diritto, ma al più l’audacia e la temerarietà di sfidare il rischio di essere sorpresi. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 4 marzo 2015 n. 9374. Cuneo: incidente durante trasporto detenuto in Tribunale, muoiono due carabinieri doi Erica Di Blasi La Repubblica, 26 marzo 2018 L'incidente alla periferia di Bra: feriti altri due militari. Domani i funerali dell'appuntato scelto. Non ce l'ha fatta. Ricoverato in rianimazione all'ospedale Santa Croce di Cuneo, è morto anche Giorgio Privitera, 29 anni, il secondo carabiniere rimasto ferito nell'incidente avvenuto venerdì mattina vicino a Bra e nel quale aveva perso la vita l'appuntato scelto Alessandro Borlengo, 43 anni. I due carabinieri, insieme con altri due colleghi, erano impegnati nel trasporto di un detenuto in tribunale ad Asti per assistere a un'udienza di convalida del fermo. Secondo la ricostruzione dell'incidente, avvenuto in frazione San Martino, sulla statale per Alba, la gazzella dei carabinieri si è scontrata con una Ford che proveniva dalla direzione opposta e ha svoltato senza dare la precedenza. L'auto dei carabinieri ha poi finito la corsa contro un palo, capottandosi. Quando sono arrivati i soccorsi per l'appuntato scelto Borlengo, in forze alla stazione di Sommariva Bosco, non c'era più niente da fare. Privitera, originario di Catania, è apparso subito molto grave: è stato trasportato in elicottero a Cuneo, dove è stato sottoposto a un intervento chirurgico, ma stamattina il suo cuore si è fermato. Non preoccupano invece le condizioni degli altri feriti: due militari, il detenuto e la donna che guidava la Ford. Domani, a Canale d'Alba, si svolgeranno i funerali dell'appuntato scelto Borlengo che era sposato, aveva due figli e nel tempo libero faceva l'allenatore. La notizia della morte è stata resa nota dal ministro uscente della Difesa Roberta Pinotti che in un tweet ha espresso "a nome suo e delle forze armate cordoglio per il Carabiniere Giorgio Privitera, deceduto per le ferite riportate in servizio" e la "sua vicinanza alla famiglia e ai Carabinieri". Firenze: la Costituzione nel carcere di Sollicciano con Flick di Franco Corleone L’Espresso, 26 marzo 2018 Mercoledì 28 marzo i detenuti di Firenze dialogheranno con Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale e già ministro della giustizia del governo Prodi nel 1996, sul tema: Una Costituzione attuale ma da attuare. Questo incontro cade in un momento particolarissimo, all’inizio della XVIII legislatura e alla fine del processo di riforma dell’Ordinamento penitenziario. Settanta anni fa fu approvata la Carta costituzionale che all’articolo 27 sancisce l’abolizione della pena di morte e il carattere delle pene finalizzate al reinserimento sociale. È importante che si chiuda il lavoro degli Stati Generali sul carcere per dare speranza e offrire una spinta per il cambiamento delle condizioni della vita quotidiana per i reclusi. Il punto più qualificante è rappresentato dalla importanza data alla salute psichica in carcere e alla possibilità di misure alternative anche ai detenuti affetti da patologie psichiatriche e non solo da problemi fisici. La condizione della mente assumerà la stessa dignità di quella del corpo. Le nuove Camere riceveranno il nuovo testo del provvedimento con le modifiche apportate dopo i pareri delle Commissioni Giustizia della Camera e del Senato, della Conferenza unificata delle Regioni e il giudizio del Consiglio Superiore della Magistratura e avranno dieci giorni per una presa d’atto. È probabile che toccherà ancora al Governo Gentiloni decidere l’approvazione definitiva. Se accadesse il 25 Aprile sarebbe un segno di liberazione per gli ultimi. Migranti. La vergogna dell’hotspot di Lampedusa, concluso il trasferimento: la struttura chiude La Repubblica, 26 marzo 2018 L’hotspot di Lampedusa chiude i battenti. Gli ultimi 47 tunisini ospiti della struttura di contrada Imbriacola sono stati trasferiti per consentire lavori di ristrutturazione, così per come era stato deciso a metà mese durante un vertice al Viminale. Il ministero degli Interni aveva deciso la chiusura dopo le rivelazioni di Repubblica sulle condizioni del centro, con i migranti ospitati in padiglioni bruciati e pieni di sporcizia, costretti a dormire su pezze di gommapiuma lercia senza lenzuola. Il primo lotto degli interventi - che riguarderanno la recinzione, l’illuminazione e la sistemazione, nonché collocazione di nuove telecamere di videosorveglianza - è già in fase d’aggiudicazione. Il cantiere dovrebbe essere avviato in poco più di un mese. Si procederà però per step. È stato già previsto il secondo lotto di lavori con i quali dovranno essere rifatti i padiglioni e la cucina. Non è invece ancora chiaro - dipende naturalmente da tanti fattori e molteplici eventualità - per quanto tempo il centro di identificazione per migranti resterà off limits. “Finisce questa disavventura legata agli sbarchi dei tunisini. Siamo riusciti ad uscire da un incubo - ha commentato il sindaco di Lampedusa e Linosa, Totò Martello, in un’intervista al Giornale di Sicilia -. Perché la permanenza dei tunisini, all’hotspot di contrada Imbriacola, ha creato non pochi problemi. Mi aspetto che Lampedusa possa trascorrere una bella e serena stagione estiva. Vorremo, per il futuro, augurarci di avere un’isola dove vivere in santa pace. Ricevere per diversi anni l’oppressione costante degli sbarchi e non potere reagire è stato veramente un dramma”. Spagna. In carcere il sogno di Barcellona di Francesco Olivo La Stampa, 26 marzo 2018 L’avventura dell’esilio dell’uomo che ha sfidato la Spagna finisce, senza epica, in un autogrill tedesco. Carles Puigdemont, il presidente catalano destituito dal governo spagnolo, è stato arrestato dalla polizia della regione dello Schleswig-Holstein, nel corso di un viaggio avventuroso per il Nord Europa. Un percorso tortuoso di duemila chilometri, con traghetti, auto, attraverso molti confini. Una corsa diventata imprudente dopo il mandato di cattura europeo, emesso dai magistrati spagnoli venerdì scorso, con l’accusa di ribellione violenta, malversazioni di fondi pubblici e disobbedienza. Pene previste: oltre 30 anni di carcere. I servizi segreti di Madrid lo seguivano da mesi, in tutti i suoi spostamenti, anche per riparare a quello che era sembrato a molti uno smacco: la fuga da Girona il 30 ottobre, meno di due giorni dopo la dichiarazione unilaterale di indipendenza del parlamento catalano. La meta di allora era la stessa di ieri: il Belgio. L’ex presidente voleva raggiungere Bruxelles “per consegnarsi alle autorità”, spiega il suo entourage. Ma gli spagnoli, con una scelta che non pare casuale, hanno preferito fermarlo prima, avvertendo la polizia tedesca che un ricercato stava attraversando il loro territorio. Il viaggio - Quando arriva il mandato di cattura, Puigdemont è troppo lontano dal Belgio, il luogo scelto (con cura) per il suo “esilio”. Giovedì scorso Puigdemont si trova a Helsinki, invitato da un deputato per una conferenza in parlamento, una tappa in più della cosiddetta “internazionalizzazione” della causa indipendentista, che lo ha portato in vari Paesi europei. Il ritorno a Bruxelles è fissato per il sabato con un volo di linea. Ma il programma cambia, quando da Madrid arriva la notizia che il giudice del Tribunale supremo, Pablo Llarena, decide di riattivare il mandato di cattura europeo, sospeso dallo scorso dicembre. L’agenda di Puigdemont è pubblica e la giustizia spagnola invia gli atti ai colleghi finlandesi. A quel punto, e solo a quel punto, il leader diventa un latitante. Il “presidente in esilio” decide, così, di anticipare il ritorno in Belgio, facendo perdere le sue tracce. Volendo evitare l’aereo, il percorso diventa lungo e complicato. Secondo le ricostruzioni che si fanno a Madrid, Puigdemont avrebbe lasciato la capitale finlandese nella serata di venerdì a bordo di un traghetto diretto a Stoccolma. Un viaggio lungo, almeno 13 ore di navigazione. Sabato mattina quindi, intorno a mezzogiorno, l’ex presidente è in Svezia. Da lì si mette in macchina per la Danimarca, dove si ritiene abbia trascorso la notte tra sabato e domenica. Poco dopo le 11 del mattino, la Renault Espace con targa belga di Puigdemont e dei suoi 4 assistenti, attraversa il confine con la Germania. A quel punto il Cni, i servizi segreti spagnoli, mandano il segnale ai tedeschi. L’auto viene avvicinata da una pattuglia e condotta in una stazione di servizio della compagnia Aral. Puigdemont viene fermato e condotto in un commissariato della cittadina di Schuby, nella regione del Schleswig-Holstein, “la polizia è stata molto cordiale”, assicura un suo fedelissimo. Nel primo pomeriggio il trasferimento nel carcere di Neumuenster, in attesa dell’interrogatorio del giudice, previsto per oggi, al termine del quale si conosceranno le misure cautelari (il Belgio a novembre gli ritirò il passaporto per qualche giorno). Il nodo della violenza - A Madrid si esulta e non solo a livello privato: la Polizia nazionale celebra su Twitter “la collaborazione con le autorità tedesche”, pregustando un’estradizione comoda e soprattutto rapida. I media spagnoli già parlano dei dettagli di un trasferimento che ancora deve essere esaminato. “Non sarà questione di giorni, ma di mesi”, dice l’avvocato del leader Jaume Alonso-Cuevillas, che smentisce la voce della richiesta di asilo a Berlino, “non è all’ordine del giorno”. La soddisfazione dei giudici si spiega con il fatto che la Germania, a differenza del Belgio, ha nel suo codice un reato simile a quello contestato ai leader indipendentisti. Anche se non sarà facile per il Tribunale supremo convincere i tedeschi che quella catalana è stata una rivolta violenta, come teorizzato nel rinvio a giudizio. Proprio su questo punto si giocherà la partita, il legale degli altri “esuli”, Gonzalo Boye, smentisce le ricostruzioni spagnole: “La Germania ha una legislazione garantista, tanto era che tra i cinque Paesi presi in considerazione quando abbiamo deciso di andar via. Sono certo che non verrà mandato a Madrid”. Speranze notturne del detenuto Puigdemont. Spagna. L’arresto di Puigdemont e quel sogno sbagliato che l’Europa non incoraggerà di Sergio Romano Corriere della Sera, 26 marzo 2018 A colloquio on l’ex presidente catalano Pujol e i suoi. Gli indipendentisti speravano di lasciare la Spagna e di essere accolti nella Ue. Barcellona è una citta superba (nel senso genovese della parola), orgogliosa del proprio passato mediterraneo, patria della prima rivoluzione industriale spagnola, ultimo baluardo della Repubblica alla fine della guerra civile, il solo luogo europeo in cui il genius loci abbia saputo coniugare così brillantemente il gotico delle sue cattedrali con le follie moderniste di Antoni Gaudì, architetto, nei primi due decenni del Novecento, di parecchie case signorili e della Sagrada Familia. Nei pochi giorni che ho passato a Barcellona, recentemente, vi è stata una grande manifestazione organizzata da coloro che sono contrari al movimento indipendentista; ma in un clima straordinariamente civile senza scontri e tumulti. Il solo scontro di cui posso parlare, paradossalmente, è quello, altrettanto civile, di cui sono stato protagonista. Avevo informato del mio arrivo alcune vecchie conoscenze che appartenevano alla cerchia di Jordi Pujol, energico e amato presidente della Generalitat dal 1980 al 2003. Mi hanno invitato a una colazione, presieduta dallo stesso Pujol, e hanno lasciato al più giovane del gruppo il compito di pronunciare l’atto d’accusa. Ero colpevole, ai loro occhi di avere scritto per il Corriere, qualche mese fa, un articolo contro le secessioni in cui sostenevo che il secessionismo catalano, in particolare, era una delle molte forme di populismo che affliggono l’Europa in questi anni. Sbagliavo. Secondo il mio interlocutore, gli indipendentisti catalani si battono per conservare e difendere la loro identità e la loro lingua contro l’arroganza castigliana. Ha invocato, come prova delle sue parole, le misure poliziesche e giudiziarie adottate dal governo di Madrid per boicottare le decisioni popolari. Ha ripetuto più volte che l’identità catalana è in pericolo. Questi argomenti non mi hanno convinto. Ho ricordato che tutti in Europa sapevano quanto fosse fondamentale l’apporto della Catalogna alla economia nazionale spagnola e ho aggiunto che l’”identità” mi è sempre sembrata un concetto vago, spesso retorico. Quando ho osservato che molte industrie catalane, spaventate dalla prospettiva di una Catalogna indipendente, erano andate ad accasarsi in altre parti della Spagna, il mio “accusatore” mi ha assicurato che la maggioranza è “tornata casa”. E ha fatto del suo meglio per darmi l’impressione che gli indipendentisti sono decisi a continuare la loro battaglia contro la “tirannia” spagnola. Ho cercato di spiegare, infine, le ragioni per cui mi sembrava che il tentativo, almeno nella sua concezione originale, dovesse considerarsi fallito. Gli indipendentisti si erano messi in movimento nella convinzione che la Catalogna, dopo avere realizzato il suo sogno, sarebbe stata accolta a braccia aperte dall’Unione Europea. La scissione, in questa prospettiva sarebbe stata una sorta di pacifico trasloco. La Catalogna avrebbe lasciato una casa nazionale per entrare contemporaneamente nella più grande Casa europea cui la stessa Spagna appartiene. Il sogno non si è avverato perché la Commissione e il Parlamento di Strasburgo, soprattutto in questo momento, non hanno alcun interesse a incoraggiare con la loro ospitalità altri separatismi. L’Europa conta un numero considerevole di potenziali patrie irredente e non vuole lanciare segnali sbagliati. Se avessero seguito più attentamente i negoziati della Commissione con la Gran Bretagna per definire le condizioni del divorzio, gli indipendentisti catalani avrebbero constatato che l’Ue ha adottato atteggiamenti un po’ più concilianti soltanto dopo avere dimostrato al mondo che la fine del rapporto stretto con l’Europa di Bruxelles e Strasburgo ha un costo non indifferente. (Spero che da questa linea non abbia alcuna intenzione di allontanarsi). Non credo di essere riuscito a cambiare le idee del mio interlocutore. Ma alla fine della conversazione mi ha chiesto che cosa farei, in questa situazione, se fossi catalano. Gli ho risposto che andrei a Bruxelles per rassicurare la Commissione che “dopo qualche ripensamento abbiamo deciso di rinunciare alla soluzione separatista”. Ma porterei una lista di richieste per migliorare lo status della regione. “Se le richieste sono ragionevoli - ho aggiunto - la Commissione vi darà una mano”. Egitto. Ventisei mesi senza Giulio, ventisei mesi senza verità di Riccardo Noury Corriere della Sera, 26 marzo 2018 Con oggi, sono 26 mesi - quasi 800 giorni - che Giulio Regeni è stato inghiottito dal sistema delle violazioni dei diritti umani in Egitto: un sistema basato sull’ossessione per la sicurezza nazionale e che si regge sull’impunità per i responsabili delle sparizioni, delle torture, delle uccisioni. Per due anni e due mesi le autorità egiziane sono riuscite ad allungare i tempi (tra depistaggi, ritardi, impegni non mantenuti) nella speranza che in Italia il nome di Giulio scivolasse nell’oblio e che la ricerca della verità smettesse di essere una priorità. Il ritorno dell’ambasciatore italiano in Egitto, il 14 settembre, e gli sviluppi (meglio, la mancanza di sviluppi) successivi paiono aver dato loro ragione. Per le istituzioni italiane, la ricerca della verità per Giulio e più in generale la grave situazione dei diritti umani in un paese con cui vantano di avere rapporti stretti (“partner ineludibile”, lo ha definito nei mesi scorsi il ministro degli Esteri Alfano), sono temi di scarsa rilevanza su cui fare al massimo qualche dichiarazione pubblica di circostanza. Hanno ragione dunque i genitori di Giulio quando affermano di sentirsi abbandonati da quelle istituzioni. Intorno a loro c’è però un movimento sempre più ampio di cittadine e cittadini, di ssociazioni, di enti locali, di luoghi di studio e di ricerca (i “luoghi” di Giulio) che non demorde e che continua a organizzare iniziative. Il governo uscente ha deluso le aspettative di chi riteneva che pretendere dal Cairo la verità sulla barbara uccisione di un connazionale fosse una priorità urgente. Su quello entrante, quando entrerà in carica, non mancherà mai la pressione della società civile italiana. Fino a quando non conosceremo i nomi di chi ha ordinato il sequestro, la tortura e l’omicidio di Giulio, di coloro che ne sono stati gli autori materiali e di chi da allora cerca di coprire e insabbiare, la richiesta sarà sempre la stessa: verità per Giulio Regeni. La farsa egiziana e il silenzio europeo di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 26 marzo 2018 Arriva il turno delle, diciamo così, elezioni in Egitto dove certamente sarà consacrato Al Sisi, che noi ingoiamo perché è sempre meglio un orribile despota laico che un orribile despota integralista islamico. È inutile lamentare la crisi delle nostre democrazie quando consideriamo benedetta, per evitare guai, turbolenze e soluzioni ancora più apocalittiche ogni dittatura, ogni violazione dei diritti umani, ogni forma di oppressione, persino lo sterminio dei popoli assoggettati, o che devono scomparire, come i curdi. Facciamo finta di considerare democratico il verdetto delle elezioni che in Russia hanno consacrato l’autocrazia di Putin: ma sopprimere o imbavagliare tutti i rivali non è esattamente un modello di libera campagna elettorale. Contiamo le vittime dei civili massacrati da Assad perché presto si raggiungerà il ragguardevole record dei 400 mila assassinati da un regime orrendo, che però è meglio preservare perché gli altri, come è noto, sono ancora peggiori. Ci affrettiamo a mandare l’assegno concordato a Erdogan, quel simpatico democratico che ammassava nudi in palestra i dissidenti, che commina ergastoli ai giornalisti invisi alla sua tirannia e che nel silenzio internazionale fa strage di civili curdi, perché così tiene a bada i profughi che l’Europa, la grande assente, la silenziosa e pavida Europa per cui noi dovremmo gioire e in cui dovremmo identificarci, vuole tenere oltre confine. Adesso arriva il turno delle, diciamo così, elezioni in Egitto dove certamente verrà consacrato Al Sisi. Certamente perché sono elezioni farsa, che noi ingoiamo perché è sempre meglio un orribile despota laico che un orribile despota integralista islamico. Perché noi vogliamo la democrazia sì, ma soltanto se ci conviene. Faremo finta di crederci, quando il carnefice laico verrà confermato nel suo trono. Abbiamo fatto finta di credere che dal Cairo qualcuno avrebbe collaborato per la verità sull’assassinio del nostro Giulio Regeni, abbandonato da tutti tranne che dalla sua famiglia. Così come fingiamo di ignorare che la prigione egiziana dove si pratica con maggiore efficacia la tortura è stata ribattezzata “la tomba”. Silenzio, imbarazzo. Con il paradosso che l’unica indignazione viene riservata all’unica democrazia del Medio Oriente, Israele (a proposito, è nelle sale un film strepitoso come “Foxtrot” che ci fa, con l’arte e la narrazione, cogliere la temperatura morale di quella Nazione). Il solito silenzio e il solito imbarazzo di chi non ha più a cuore la democrazia. Tutto il resto ne è la conseguenza.