Chi non vuole carceri più umane di Roberto Saviano L’Espresso, 25 marzo 2018 La riforma del sistema penitenziario ha molti nemici. Eppure ridurre le recidive è nell’interesse di tutta la società. Il 16 marzo si è riunito il Consiglio dei Ministri e all’ordine del giorno c’era l’approvazione dei decreti attuativi della riforma dell’ordinamento penitenziario che deve consentire ai giudici di assegnare con più facilità misure alternative al carcere. Questo non vuol dire che i ladri usciranno di prigione e nemmeno che i mafiosi avranno sconti di pena, perché la riforma non li riguarda assolutamente. Si sta provando a ridurre la recidiva, ovvero la percentuale di detenuti che una volta scarcerati tornano a delinquere. Lo scopo è di rendere la detenzione “utile” non solo come punizione, ma anche come possibilità di recupero reale. Non solo: un carcere che funziona, rende la società libera più sicura. Se tornasse a delinquere non più il 70 per cento di chi ha finito di scontare la pena, ma il 30 per cento anche chi sta fuori, ovvero i cittadini liberi, ne avrebbero un evidente beneficio. E allora come vi spiegate gli attacchi politici a questa riforma? Attacchi che hanno tutti lo stesso tenore e che dicono in estrema sintesi questo: il Governo (e per giunta dimissionario) approva un provvedimento salva-ladri che mina la certezza della pena. Falsità che trovano terreno fertile nella estrema velocità del flusso delle informazioni e nella estrema sintesi dei social. Ma soprattutto trovano terreno fertile in una società che si è abituata a considerare il carcere una discarica sociale, un non-luogo dove vivono non-persone, non-esseri umani. La svolta che la riforma promuove, e che poi è alla base del lavoro dei preziosissimi educatori penitenziari, è individuare la pena giusta per ogni detenuto. Nessun automatismo, perché è negli automatismi che si smette di essere uomini e si diventa un numero fra tanti, fra troppi. E se vi dicessi che il 34,1 per cento dei detenuti (quasi 20 mila) è costituito da tossicodipendenti che non dovrebbero nemmeno stare in carcere ma in comunità di recupero? Qualcuno potrà obiettare che molti di loro spacciano, ed è vero, ma è anche vero che spacciano per procurarsi droga, quindi siamo sempre là: non puoi curare la tossicodipendenza in carcere. E se vi dicessi che tra questi il 39 per cento è costituito da stranieri? Sono certo che la prima cosa che mi rispondereste - vorrei sbagliarmi, ma i partiti più votati, ovvero M5S e Lega, provocano nei loro elettori verso immigrati e detenuti reazioni emotive per nulla ancorate a dati reali - è che gli stranieri sono endemicamente criminali, che vengono in Italia per delinquere. Sarebbe più corretto dire che arrivano in Italia da clandestini e sono schiavi del mercato del lavoro italiano e delle organizzazioni criminali italiane che, quando ci riescono, li “arruolano”. Ma facciamo un passo indietro: il 15 marzo, ovvero il giorno prima che si riunisse il Consiglio dei Ministri, vado in visita al carcere di Poggioreale insieme a Radio Radicale e a Rita Bernardini. Potevamo visitare anche il padiglione Genova, ovvero l’area da poco ristrutturata in cui non sembra di essere a Poggioreale e forse non sembra nemmeno di essere in carcere. Sulla carta era una visita “protetta”, una visita che mi avrebbe mostrato il meglio di Poggioreale. Avrebbe, appunto, ma solo in teoria, perché nella pratica quando si ha a che fare con persone in carne e ossa è impossibile impedir loro di raccontarti la detenzione e non solo la propria detenzione, con tutte le criticità che esistono. Le carceri italiane sono sovraffollate; a Poggioreale ci sono addirittura celle da otto persone, eppure non è facile trovare detenuti disposti a trasferirsi nel nuovo padiglione, più luminoso, con celle più spaziose a due letti. Non lo è perché nel sovraffollamento, nella vita di comunità, si ricreano dinamiche che spesso esistono fuori dal carcere. Perché quando scontare la pena significa perdere tempo, quando non c’è un reale percorso, in carcere si progetta ciò che si farà una volta usciti. Un’educatrice ha usato queste esatte parole: “Quando il carcere è attesa, in carcere ci si radicalizza”. E allora, prima di parlare di detenuti e pene, bisognerebbe andarci in carcere. Toccare con mano, parlare con i reclusi, i direttori, gli agenti penitenziari, gli educatori. E poi, solo dopo, parlarne, ma non tanto per fare una comunicazione da social, non per generare nelle persone una generica e immotivata indignazione, ma parlarne per dire che una prigione senza speranza è solo scuola di crimine. E questo è vero nonostante i post di Salvini e di Bonafede. La compassione e la riforma carceraria di Guido Trombetti La Repubblica, Ed. Napoli, 25 marzo 2018 “Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”, scriveva Dostoevskij. E proprio sul tema delle carceri è intervenuto su Repubblica Samuele Ciambriello. Richiamando l’esigenza di dare attuazione alla riforma carceraria. Questione di enorme importanza per un paese di grande civiltà giuridica. Nei singoli casi giudiziari ognuno ha il suo convincimento. Più o meno documentato. Più o meno fondato. D’altro canto l’interesse collettivo, come è ovvio, non può essere affidato ad una sommatoria di sensazioni individuali. Talvolta inquinate da passioni. Ideologie. Superficialità. L’unica cosa che conta è la verità giudiziaria. Che va ricercata nell’interesse collettivo. E sempre rispettata. Poi c’è la “Verità”. Con la “V” maiuscola. Ma questa risiede soltanto nel fondo dell’animo del reo. Fatta questa premessa mi pongo una domanda. Si persegue l’interesse collettivo tenendo in carcere i colpevoli quanto più a lungo possibile a prescindere da ogni altra considerazione? Questo è un quesito a cui occorre dare risposta in nome della civiltà dei diritti fondamentali che vanno riconosciuti a tutti in quanto persone. E su ciò voglio fare qualche ragionamento. In primis, a scanso di equivoci pretestuosi, una affermazione pleonastica. Lungi da me l’idea di invadere il territorio di delinquenti incalliti e naturalmente predisposti a reiterare i reati. È della funzione del carcere che voglio parlare. Intanto esso ha una doppia funzione. Punitiva e correttiva. E la prima delle due deve essere funzionale e subordinata alla seconda. Si può sostenere che la punizione ha un valore intrinseco, di pura retribuzione della colpa o di inesorabile vendetta, separato dalla finalità di recuperare il soggetto? Credo che nessuno lo pensi. Mi chiedo quindi se si possa ritenere salvaguardato l’interesse collettivo riducendo la funzione dello Stato unicamente a quella di colpire i rei con cieca determinazione. Non si rischia di trasformarla in un gelido ed ottuso meccanismo? Un sistema civile, per quanto possibile, deve privilegiare misure diverse dal carcere. Almeno nelle ipotesi di reati meno gravi e nel caso di periodi di pena residuale. Per favorire al massimo il recupero del soggetto ai valori della convivenza civile. Guardando così al futuro di speranza del reo e della società e non soltanto al passato del crimine e della colpa. La detenzione in carcere, così come è oggi, si riduce quasi sempre ad essere un periodo di robusta formazione per progredire nella carriera criminale. Lo stato della situazione carceraria in Italia ci ha già condotto a ricevere dure e mortificanti reprimende internazionali. Quindi occorrono investimenti sulle strutture carcerarie. Ma ancor di più occorre che il nuovo Parlamento favorisca l’iter di riforma del sistema carcerario. Ciò è opportuno ed utile al paese. Un uomo che ha dato prova di essere sulla strada del recupero. Capace di provvedere da solo al suo sostentamento. Capace di contribuire alla vita civile lavorando. Se tenuto in carcere, genera addirittura un inutile costo sociale. A mio avviso al di là del dettato costituzionale vi è un solido principio etico che dovrebbe ispirare i comportamenti della politica su questo tema. Ed è sintetizzato in un passo del romanzo di Singer, “Keila la rossa”: “Avevo letto in un libro che per Schopenhauer alla base dell’etica c’era la compassione, non la ragione come sosteneva Spinoza, ma la pietà nei confronti di tutto ciò che è vivo e sofferente” (che cito per la seconda volta in poco tempo). Perché almeno in parte, a spingere una riforma che privilegi la funzione correttiva della pena dovrebbe esserci la compassione. Non soltanto la compassione, beninteso. Potendosi produrre a sostegno del provvedimento anche molteplici fattori di natura socioeconomica. Ma certamente restando silenti si manifesterebbe in modo perentorio l’assenza di compassione. Vivaddio, non si può ridurre tutto a calcoli economici e politici, questo è il fatto. Vi sono valori che non sono negoziabili né calcolabili. È un argine che l’Occidente ha sempre posto. Insomma occorre ritrovare uno spazio all’etica della compassione. Presidenza Anm, eletto Minisci: “necessario ripensamento riforma intercettazioni” La Repubblica, 25 marzo 2018 Succede a Eugenio Albamonte alla guida dell’Associazione Nazionale Magistrati: “Non siamo moralizzatori della società”. “Non ci faremo trascinare in strumentalizzazioni”. “Dialogo con politica senza pregiudizi”. Alcide Maritati segretario. Elezioni Anm: Francesco Minisci, esponente di Unicost, succede a Eugenio Albamonte alla presidenza dell’Associazione Nazionale Magistrati. Ad eleggerlo il Comitato Direttivo Centrale dell’Anm, riunitosi oggi, che ha designato i componenti della Giunta del sindacato delle toghe. Segretario generale dell’associazione è stato eletto Alcide Maritati. Appena insediato, Minisci ha detto che le nuove norme sulle intercettazioni approvate dal cdm il 29 dicembre 2017, “presentano diversi profili di criticità e di difficile attuazione, tanto da meritare, prima che entrino in vigore, una seria riflessione”. L’impegno della nuova Giunta, ha spiegato, sarà rivolto a un “necessario e opportuno ripensamento” sia della riforma sulle intercettazioni, sia delle norme sull’avocazione delle indagini da parte delle Procure generali, “facendo nostro il grido di allarme che proviene dagli uffici giudiziari di tutto il territorio nazionale”. Si tratta, ha osservato, di “interventi che rallentano, anziché accelerare i processi”. Senza mai citare lo scontro che la magistratura ha avuto in passato con il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi, il neo presidente ha precisato che “l’Anm proseguirà nel dialogo con i soggetti istituzionali che, dalle prossime settimane, dovranno trattare le questioni riguardanti la giustizia, senza pregiudizi nei confronti di nessuno, senza collateralismi, ma nello stesso tempo senza corsie preferenziali da parte di nessuno e nei confronti di nessuno”. “L’Associazione nazionale magistrati - ha poi sottolineato - è l’interlocutore che rappresenta tutta la magistratura. Nella nostra azione rifuggiremo ogni sterile polemica che non fa bene a nessuno e non ci faremo trascinare in dannose strumentalizzazioni che nel passato non hanno per nulla giovato all’esercizio dell’unico compito che ci affida la Costituzione: la tutela dei diritti dei cittadini”. Riferendosi con ogni probabilità alle polemiche che in passato lo avevano contrapposto a Pier Camilo Davigo quando l’ex pm di Mani Pulite disse che “la classe dirigente che delinque è peggio dei ladri”, Minisci puntualizza il ruolo sociale che a suo dire riveste la magistratura. “L’azione della magistratura - ha dichiarato Minisci - ha come conseguenza una funzione di deterrenza, perché contribuisce ad evitare il ripetersi di fatti illeciti, ma di certo la magistratura non ha il compito di moralizzare la società o le categorie della società”. Il nuovo presidente dell’Anm ha sottolineato che “ogni categoria deve occuparsi della deontologia dei propri appartenenti e la magistratura interviene quando la violazione del codice deontologico di ciascuna categoria costituisce anche reato. Altri compiti di supplenza non sono a noi attribuiti, così come rigettiamo una visione radicale, secondo cui da una parte ci sono i buoni e dall’altra i cattivi”. Nato a Cosenza, 49 anni, Minisci è stato tra il 2016 e il 2017 segretario dell’Anm, nel periodo in cui la Giunta era presieduta da Piercamillo Davigo. Sia negli anni passati in Calabria che presso la procura di Roma si è occupato di importanti inchieste sulla criminalità organizzata, in particolare sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta. Da componente del pool antiterrorismo della procura di Roma è stato titolare di inchieste sull’anarco-insurrezionalismo e sull’antagonismo sociale. Alcide Maritati, gip a Lecce e rappresentante di Area, è stato eletto Segretario dell’Anm. Maritati, 51 anni, è coordinatore dell’ufficio gip/gup a Lecce: tra i procedimenti di cui si è occupato, quello sulla strage di Palagiano del 2014, in cui venne ucciso anche un bambino di 3 anni. Il nuovo vicepresidente è il pm di Pisa Giancarlo Dominjanni, di Magistratura Indipendente, e vicesegretario è Giovanni Tedesco (Area), presidente di sezione al tribunale civile di Napoli. Gli altri membri della Giunta sono Liana Esposito, Rossella Marro, Antonio Saraco, Luisa Savoia, Ugo Scavuzzo, Alessia Sinatra. Un’alluvione non può costare 5 anni di galera di Gianluca Veneziani Libero, 25 marzo 2018 I giudici condannano l’ex sindaco di Genova Marta Vincenzi per aver sottovalutato le previsioni di piogge eccezionali. Ma la natura è imprevedibile e un politico non può tutto. Cinque anni di carcere in Italia te li dovrebbero dare se commetti una rapina a mano armata, se stupri, se traffichi armi e stupefacenti. E invece ora te li danno pure se non avvisi per tempo, magari con palla di vetro in mano, che sta per verificarsi un disastro. Due giorni fa l’ex sindaco di Genova Marta Vincenzi è stata condannata in appello a 5 anni di reclusione per i reati di omicidio plurimo, disastro e falso. Se la pena venisse confermata in Cassazione, l’ex primo cittadino dovrebbe passare almeno un anno dietro le sbarre, visto che l’affido ai servizi sociali è previsto solo per condanne sotto i 4 anni. Alla Vincenzi viene contestata la responsabilità di non aver scongiurato la tragedia del4novembre 2011,quando il rio Fereggiano, uno dei torrenti di Genova, in seguito a fortissime precipitazioni, esondò, causando 6 vittime, tutte donne. L’ex sindaco, sostengono i pm e ora i giudici di Appello, commise l’errore di non chiudere le scuole, sottovalutando le previsioni di piogge eccezionali. Ora, ribadito tutto il dolore per le vittime, va rilevata una cosa: la sentenza non tiene conto dell’imponderabilità della natura che agisce non secondo schemi certi ma in base ad atteggiamenti spesso improvvisi. Per capirci, sebbene le precipitazioni intense fossero ampiamente previste, non era altrettanto scontato che sul torrente Fereggiano, nel primo pomeriggio di quel giorno, si abbattesse un picco di piena eccezionale tale da farlo esondare. In secondo luogo, è incredibile che su una sola persona, il sindaco, gravino responsabilità che riguardano per lo più aspetti tecnici. Sulla corretta previsione dell’emergenza e sulla gestione della stessa dovrebbero cimentarsi per lo più gli esperti della Protezione Civile, non un primo cittadino che finisce per pagare a livello politico e giudiziario eventuali negligenze altrui. Ragionevolmente si dovrà verificare quali siano le colpe della Vincenzi quanto al terzo capo di accusa, ossia l’aver modificato nei documenti l’orario di esondazione del Fereggiano. Lei si difende dicendo di non essere stata a conoscenza dei falsi: anche qui, fosse così, le responsabilità sarebbero personali, di chi ha scritto il falso; altrimenti, oltreché per mancato allarme, dovremmo mettere alla gogna la Vincenzi per omesso controllo. Più in generale, si sbaglia a focalizzare il problema. Che non è la mancanza di previsione, quanto l’assenza di prevenzione, cioè l’incapacità di intervenire da un punto di vista strutturale per fare in modo che queste tragedie non si verifichino. Bisognerebbe cioè agire sull’assetto idrogeologico e la messa in sicurezza dei canali (pulire i letti degli invasi, liberare i fiumi tombati, costruire argini e scolmatori), a maggior ragione in una terra fragile come la Liguria. E questo è un lavoro che non può fare solo un sindaco, perché coinvolge le Regioni, lo Stato, l’Europa. Né si è risolto il problema dopo che la Vincenzi ha lasciato l’incarico. Mentre la carriera politica dell’ex sindaco si concludeva nel 2012, col benestare del suo partito, il Pd (che ne ha fatto un capro espiatorio), sia l’amministrazione seguente, di centrosinistra, che i governi Pd da allora al potere non sono riusciti a cambiare la situazione: gli interventi di messa in sicurezza finanziati sono in fase “lavori in corso”. Al punto che nel 2014 a Genova si verificò un’altra alluvione, capace di provocare un altro morto. E al punto che ancora oggi, in caso di allerta rossa, le disposizioni del Comune, datate 2015, prevedono come consiglio più lungimirante quello di “non uscire di casa”. Ammazza, fin qua ci arrivava pure la Raggi. Roma: l’esperimento del Dap, detenuti impiegati per pulire i giardini Il Fatto Quotidiano, 25 marzo 2018 Il progetto, fortemente voluto dal capo del dipartimento amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, punta ad essere esteso a livello nazionale dopo il primo step romano che durerà dal 26 marzo al 30 agosto. I lavoratori individuati sulla base di particolari requisiti di condotta. Da Villa Borghese a Villa Ada, da Parco Schuster a Piazza Vittorio, partendo da Colle Oppio. È dal parco che ha recentemente fatto notizia per le sue condizioni di degrado che inizierà l’ultimo progetto del Dipartimento amministrazione penitenziaria: impiegare i detenuti più meritevoli nella pulizia dei giardini di Roma. Lunedì 26 marzo, scortato dalla polizia penitenziaria e dagli uomini del corpo di Polizia locale, arriverà a Colle Oppio un gruppo di 18 detenuti, individuati sulla base di particolari requisiti di condotta, che saranno impiegati nella sistemazione del parco. Puliranno, installeranno i cestini porta rifiuti e poteranno le piante, visto che sono stati addestrati dal servizio giardini di Roma Capitale. Un vero e proprio esperimento, fortemente voluto dal capo del Dap, Santi Consolo, che punta ad essere esteso a livello nazionale dopo il primo step romano che durerà fino al 30 agosto. “Il progetto lavoro di pubblica utilità recupero del patrimonio ambientale - fanno notare dal Dap - rappresenta, infatti, per i condannati una possibilità diretta ed immediata per operare nel tessuto sociale, dando concreta attuazione alla promozione delle iniziative concernenti essenzialmente il reinserimento socio-lavorativo dei soggetti in esecuzione di pena, con particolare riguardo alle attività di sviluppo e valorizzazione del territorio all’interno di aree di pregio ambientale e urbanistico”. Il lavoro dei soggetti impiegati avrà un forte impatto sociale ed economico. Intanto perché il progetto dà modo ai detenuti di lasciare i penitenziari e lavorare in luoghi aperti. Ma soprattutto perché ogni detenuto costa circa 170 euro al giorno allo Stato. Con il lavoro non retribuito nei parchi, invece, i carcerati - giardinieri faranno risparmiare denaro alle casse pubbliche, contribuendo alle spese della loro detenzione. Ma non solo. Perché quando i detenuti vengono scarcerati si trovano a dover onorare un debito con le casse dello Stato calcolato in percentuale alla durata della loro permanenza in cella. Denaro che spesso un ex detenuto non ha a disposizione, visto che è molto difficile ottenere un lavoro in tempi rapidi dopo aver riacquisito la libertà. Quel credito, quindi, è spesso non esigibile per le casse dello Stato. In questo modo, invece, viene azzerato in cambio del lavoro nei giardini pubblici. Roma: al quartiere Appio apre “Vale la pena”, i detenuti servono la birra anti spreco di Luisa Mosello La Stampa, 25 marzo 2018 Dalla prigione al pub. In un sorso. È la sfida di “Vale la pena” locale che aprirà ad aprile nel quartiere Appio, in via Eurialo 22, coinvolgendo un gruppo di detenuti del carcere di Rebibbia in esecuzione penale esterna. Sarà un Pub&Shop in cui si potranno degustare i prodotti del birrificio nato grazie al progetto di inclusione sociale ideato e gestito da “Semi di Libertà Onlus” e in cui persone in regime detentivo vengono formate e inserite nella filiera della birra artigianale. Ma non solo: lo spazio sarà anche un negozio di economia carceraria dove sarà possibile comprare altre specialità “made in Rebibbia”, come i formaggi realizzati nella sezione femminile o il Caffè galeotto della torrefazione del penale. Verranno inoltre esposte opere di detenuti che potranno essere acquistate con bonifico direttamente sul loro conto corrente. E non mancheranno incontri e iniziative ad hoc per sensibilizzare sui temi dell’inclusione. “L’obiettivo - spiega Paolo Strano presidente della Onlus che segue il progetto - è quello di contrastare soprattutto le recidive che registrano un’alta percentuale (pari al 70%) tra chi non gode di misure alternative e scende sensibilmente fino al 2% tra chi viene inserito in un percorso produttivo. Oltre a quello del birrificio realizzato nell’Istituto Agrario Emilio Sereni di Roma, fra gli ultimi avviati c’è anche quello di RecuperAle. Si tratta di una birra artigianale realizzata dai detenuti, in collaborazione con Equoevento Onlus, utilizzando il pane e le eccedenze alimentari che altrimenti finirebbero nella spazzatura”. Come dire un prodotto che recupera cibo e persone, che dà una seconda possibilità sia a materie prime destinate ad essere sprecate, che ad esseri umani in cerca di un loro posto (nuovamente) al sole Vigevano (Pv): delegazione Radicale in visita “pena di noia per 400 detenuti” vigevano24.it, 25 marzo 2018 Ieri una delegazione di iscritti al Partito Radicale accompagnata dal vicesindaco di Arluno ha visitato il carcere di Vigevano. “Nonostante la buona volontà del personale il carcere di Vigevano vede l’applicazione di una pena non prevista dalla costituzione, la “pena di noia” - dichiara Gianni Rubagotti - segretario della Associazione per l’Iniziativa Radicale “Myriam Cazzavillan”. “Le poche opportunità lavorative interne ed esterne e di formazione comportano che per molti detenuti la pena è cosa diversa dalla rieducazione prevista dai padri costituenti per evitare che le persone tornassero a delinquere appena usciti ma è un passivo aspettare che il tempo passi. Questo anche per la poca collaborazione di un territorio che vive ancora la crisi economica. Igor Bonazzoli, vicesindaco di Arluno (Mi): “Ci sono elementi di criticità e elementi più positivi. Mi interessa come vengono gestiti i detenuti anche perché una amministrazione locale quando i detenuti sono usciti a si trova sopperire alle mancanze come quella del lavoro. I comuni possono essere più attivi: manca forse una strategia di collante fra l’amministrazione giudiziaria e le amministrazioni locali”. “A livello di personale abbiamo visto una vicinanza rispetto ai detenuti e una collaborazione che forse chi sta fuori non si aspetta di vedere” ha dichiarato Filippo Cattaneo, membro di giunta della Associazione per l’Iniziativa Radicale “Myriam Cazzavillan”. “Abbiamo visto celle di 2 persone e una situazione di non affollamento. I corsi di formazione professionale sono 2”. “È un carcere che prova anche a comunicare con l’esterno però la struttura ha i suoi anni, gli spazi e le risorse sono quelli che sono e quindi ci sono poche attività. LA buona volontà c’è manca tutto il resto” ha concluso Francesco Monelli membro di giunta della Associazione per l’Iniziativa Radicale “Myriam Cazzavillan”. Trani (Bat): dieci detenuti “operatori per la realizzazione e manutenzione di giardini” Giornale di Trani, 25 marzo 2018 Verrà avviato a breve presso il carcere di Trani il percorso formativo, destinato a 10 detenuti, “Operatore per la realizzazione e manutenzione dei giardini”, organizzato dalla società cooperativa sociale Irsea di Bisceglie insieme alla comunità Oasi2 san Francesco Onlus di Trani. L’obiettivo del progetto, previsto dalla Regione Puglia in condivisione con il Ministero della giustizia, della durata di 900 ore, è far emergere tutte le potenzialità del territorio e donare una vera occasione di riscatto ad alcuni detenuti, per guardare con speranza concreta al proprio futuro. L’intervento progettuale prevede la realizzazione di azioni integrate di formazione teorica e pratico/laboratoriale, finalizzate a potenziare le competenze professionali dei detenuti, indispensabili per ridurre le condizioni discriminatorie nel mercato del lavoro; azioni di accompagnamento, volte ad incrementare la motivazione all’apprendimento e a promuovere relazioni di fiducia e di valorizzazione del grado di autostima, a supporto anche della gestione delle relazioni parentali. Napoli: Enci e Amministrazione Penitenziaria firmano un importante accordo enci.it, 25 marzo 2018 Ieri a Napoli, presso la sede del Provveditorato Regionale per l’Amministrazione Penitenziaria, è stato siglato l’accordo con Enci per la collaborazione, la formazione e l’impiego di unità cinofile specializzate in ambito penitenziario. Si consolida sempre di più la sinergia tra il Ministero della Giustizia ed Enci nello sviluppo di percorsi finalizzati ad offrire attraverso la presenza e l’interazione con i cani, con una serie di benefici tangibili. La vita che pulsa dietro le mura di un carcere è spesso poco nota ad occhi esterni, eppure grande è l’impegno dei Dipartimenti dell’ Amministrazione Penitenziaria nella pianificazione di attività che portino opportunità e benefici sia ai detenuti che al personale di polizia penitenziaria. In questo quadro di collaborazione sono scaturite, negli ultimi due anni, importanti iniziative che oggi si perfezionano ulteriormente grazie a questo accordo. Quanto la presenza dei cani possa permettere a chi vive in carcere di riannodare i fili di una affettività forzatamente interrotta, è ormai una verità consolidata. Senza contare che lo stato di detenzione ha spesso effetti diretti ed indiretti anche sui figli minori, ed in questo ambito gli operatori Enci con i loro cani stanno svolgendo un lavoro esemplare, del quale mi sento personalmente orgoglioso perché coinvolge tutta l’attività istituzionale, in quanto ha la sua genesi direttamente nel lavoro degli allevatori, investiti del responsabile ruolo di produzione di soggetti adatti a svolgere attività così delicate. L’incontro delle unità cinofile con i figli minori dei detenuti - durante il colloquio mensile- continua a testimoniare enormi benefici, mentre una nuova progettualità sarà rivolta, proprio in Campania, per impulso dato dal Provveditorato, anche alla definizione di specifici progetti rivolti ai figli minori che vivono all’interno delle strutture penitenziarie assieme al genitore detenuto, finalizzati a creare un ambiente sempre più adeguato alle esigenze di crescita dei bambini. Una realtà in cui Enci consolida la sinergia con i Provveditorati al fine di poter offrire tutto il supporto necessario affinché reale e tangibile sia il contributo dei nostri cani e dei nostri operatori in un ambiente così sensibile e difficile. Ancona: “Educare in carcere”, martedì un convegno a Chiaravalle cronacheancona.it, 25 marzo 2018 Nell’ambito della rassegna “Scrittori di scuola”, si terrà martedì 27 marzo, sempre alle ore 17 e sempre presso l’auditorium della Croce Gialla di Chiaravalle, l’appuntamento inizialmente previsto per il I marzo ma rinviato a causa delle avverse condizioni meteorologiche di inizio mese. Dopo il successo dei primi due incontri con gli scrittori Eraldo Affinati ed Edoardo Albinati (entrambi a dialogo con il critico letterario Massimo Raffaeli), il 27 marzo sarà la volta del prof. Alessandro Fo che, a colloquio con il prof. Alfio Albani, tratterà il tema “Educare in carcere”. Figlio dell’organizzazione teatrale e scrittore Fulvio Fo (fratello di Dario) e già ospite lo scorso 30 gennaio dell’anteprima di “Scrittori di scuola”, Alessandro Fo è studioso di letteratura latina, disciplina di cui è titolare di cattedra presso l’Università di Siena. Scrittore, poeta e curatore di edizioni critiche di classici latini per Einaudi, scrive anche di letteratura italiana contemporanea (Vittorio Sereni, Dino Campana e Antonio Pizzuto tra gli autori da lui approfonditi). Con la raccolta poetica “Mancanze” ha vinto il premio Viareggio 2014. “L’iniziativa, ad ingresso gratuito, è rivolta agli studenti, agli insegnanti, agli educatori e a tutte le persone consapevoli del valore dell’istruzione quale laboratorio del futuro e chiave di volta di una società giusta, matura e democratica. Una rassegna in qualche modo “necessaria” nella cittadina che ha dato i natali a Maria Montessori, che si avvia a festeggiare tra due anni il 150° anniversario della sua nascita e che - affermano il sindaco di Chiaravalle Damiano Costantini, l’Assessore alla Cultura Francesco Favi e il Presidente della Fondazione Chiaravalle Montessori Alfio Albani - “aspira a caratterizzarsi sempre più come una città della scuola e dell’educazione in senso lato”. L’unico rimedio alla paura dello straniero è la cultura di Raffaele Simone L’Espresso, 25 marzo 2018 La paura non è una scelta personale, ma una risposta poco governabile e naturale. Per questo tenerla a bada, soprattutto quando è collettiva e manovrata, risulta ancora più difficile. Ma un rimedio esiste. “Bisogna reagire a una cultura della paura che, seppur in taluni casi comprensibile, non può mai tramutarsi in xenofobia o addirittura evocare discorsi sulla razza che pensavamo fossero sepolti definitivamente”. Così parlò, il 22 gennaio scorso, il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza episcopale italiana, nella prolusione al Consiglio permanente Cei. Si riferiva ovviamente alla supposta “paura” degli italiani dinanzi al flusso di immigrazione che si riversa da anni sul paese. “Avere dubbi e timori non è un peccato”, ha precisato a mo’ di conforto riprendendo le parole del Papa, “il peccato è lasciare che queste paure determinino le nostre risposte”. Ma si può davvero cancellare la paura, e in particolare la paura collettiva, dalla lista delle grandi emozioni umane? È possibile raggiungere la “libertà dalla paura” di cui parlava Franklin D. Roosevelt nel suo famoso discorso del 1941? E poi: la paura può essere considerata un peccato? In questo caso, la storia pullulerebbe di peccatori, individuali e collettivi, dato che nel suo corso sono registrati non pochi momenti di Grandi Paure collettive, di solito originate da notizie false (le fake news non sono un’invenzione dell’era digitale). La più famosa fu forse quella che si scatenò nelle campagne francesi poco dopo la Rivoluzione del 1789: la falsa notizia di un’invasione di bande di briganti stranieri che venivano a distruggere i raccolti e uccidere i contadini per vendicare la nobiltà danneggiata dalle rivolte agrarie. Ci fu chi si rivolse al signore in cerca di aiuto. Altri usarono i forconi e le falci proprio contro di lui facendogli pagare con la vita i suoi privilegi. Felix culpa, però, si direbbe: per tagliare corto coi disordini l’Assemblea Nazionale decise di eliminare i privilegi feudali, le disparità fiscali e la vendita delle cariche, determinando così la fine dell’Ancien Régime. Non sempre però la conclusione è così benigna. In due occasioni (verso la fine degli anni Dieci e ai primi degli anni Cinquanta) nel mondo politico e tra il popolo degli Stati Uniti corse quella che qualcuno chiamò Paura Rossa, creata dal diffondersi della convinzione che un gruppo comunista clandestino volesse infiltrare il governo e impadronirsi del potere. In quel caso la conseguenza fu una spietata caccia alle streghe e l’epoca del maccartismo. Un volume introvabile, che raccoglie un impressionante catalogo di paure collettive dal medioevo alla modernità (a cura di Laura Guidi e altre, Storia e paure. Immaginario collettivo, riti e rappresentazione della paura in età moderna, 1992), mostra quanto è frequente il formarsi di Grandi Paure. Anche gli etologi e i neuro-scienziati, però, mostrano che la paura non è una scelta personale, ma una risposta naturale e poco governabile. In “L’errore di Cartesio”, Antonio R. Damasio la colloca tra le cinque “emozioni universali” (insieme a felicità, tristezza, ira e repulsione). L’etologia la definisce più precisamente come lo stato “psicologico, fisiologico e comportamentale indotto negli animali e negli umani da una minaccia, attuale o potenziale, al proprio benessere o alla propria sopravvivenza”. E vi intravvede una funzione positiva: predisporre a fronteggiare situazioni critiche. Ora, la situazione critica perché la paura si scateni è proprio l’incontro con chi non è come noi, con l’altro, con lo straniero. Alla paura dinanzi al diverso e allo sconosciuto l’animale risponde, secondo gli etologi, con una strategia attiva o una passiva. Alla prima, battezzata fight-or-flight “combatti o scappa”, si ricorre quando la minaccia è ancora evitabile. La strategia passiva invece consiste nel freezing (nel mondo umano, dovrebbe corrispondere alla timidezza), cioè il restare immobili e acquiescenti, e si attiva quando alla minaccia non ci si può più sottrarre. La scelta tra l’una e l’altra dipende dalla valutazione del momento: se ha a che fare con un predatore, l’animale attiva il freezing quando il pericolo è ancora lontano; se invece si supera una distanza considerata di sicurezza, attiva una risposta di fuga. La risposta degli umani alla paura non sembra troppo dissimile. Verso i sei mesi il bambino comincia a distinguere le persone familiari dagli estranei e reagisce in modo differenziato a chi appartenga al primo o al secondo gruppo: con simpatia verso i primi, con avversione e evitamento verso i secondi. Se ha a che fare con estranei, cerca una persona nota che si interponga e lo rassicuri. Come diffida degli estranei, il bambino, soprattutto quando è in gruppo, tende a stigmatizzare e isolare gli outsider e i diversi, usando varie procedure, principalmente il dileggio e il bullismo. A suscitare reazioni di questo tipo non è solo chi appartiene a un gruppo dotato di diversità vistose (per es., aver la pelle di un altro colore o seguire pratiche e rituali urtanti per i locali): basta esser troppo grasso o troppo magro, balbuziente, troppo alto o troppo basso, molto bravo a scuola o molto somaro. In altre parole, il gruppo fissa arbitrariamente dei criteri standard di normalità e qualunque differenza vistosa rispetto a quei criteri funziona come trigger per indurlo a rifiutare, anche in modo violento. In questa risposta il grande Irenäus Eibl-Eibesfeldt vede, bontà sua, un’”aggressione educativa”, perché serve a spingere il “diverso” ad adeguarsi alla norma del gruppo, in modo che tutto torni normale. Considerazioni come queste suggeriscono che non è tanto facile tenere a bada la paura, meno ancora quando è collettiva e magari manovrata da qualche meneur de foules (come li chiamava Gustave Le Bon nel suo Psicologia delle folle 1895), cioè da qualche mestatore che la sfrutta ai suoi fini. Ma contengono un suggerimento ulteriore, anche se fastidioso a prima vista: la paura dello straniero, dello xenos, è diversa dal razzismo. Il razzismo è una costruzione culturale derivante da ideologie e convinzioni deliranti. La paura dello straniero (esito a usare il termine xenofobia) è invece una risposta naturale dinanzi a qualcuno che non ci somiglia e di cui non capiamo le intenzioni. Se le teorie politiche incorporassero qualche elemento di etologia umana e tenessero conto delle emozioni di cui siamo portatori e spesso preda, riuscirebbero forse a spiegare come mai (vedi il Rapporto Eurispes 2018) solo il 28,9 per cento degli italiani sappia indicare la reale incidenza degli stranieri sulla popolazione (in realtà dell’8 per cento). Per il 35 per cento la quota sarebbe esattamente il doppio e per il 25 per cento addirittura un residente in Italia su quattro sarebbe non italiano. La paura agisce come un allucinogeno: ingigantisce e deforma i fenomeni. Che cosa può sciogliere il nodo? La fede, come suggeriscono Bergoglio e il presidente Cei? Oppure, più efficacemente, la cultura? Difficilmente una paura collettiva fa presa su chi si informa, interroga i fenomeni, li valuta nel loro giusto peso. Questa lista di pratiche virtuose (me ne rendo conto scrivendola) è però visibilmente patetica in un’epoca in cui i lettori di giornali diminuiscono a vista d’occhio e una politica urlata e mendace induce a tutt’altro. Migranti. “Salvare le persone in mare non è un reato”, solidarietà ad Open Arms Il Manifesto, 25 marzo 2018 “Quello che sta accadendo è assurdo, ridicolo e tragico al tempo stesso, ma questa manifestazione che è nata in maniera spontanea in tante città in Italia e Spagna ci fa sentire meno soli perché c’è molta gente che dice no a quanto sta succedendo”, dice Riccardo Gatti. Quello a cui il portavoce in Italia dei Proactiva Open Arms si riferisce è il sequestro della nave della ong spagnola e l’incriminazione da parte della procura di Catania del comandante e della capomissione per associazione per delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina. Tutto per essersi rifiutati di consegnare 218 migranti a una motovedetta libica che, in acque internazionali e armi alla mano, pretendeva di riprendersi e riportare indietro uomini, donne a bambini che proprio dalla Libia erano fuggiti. Ieri a Madrid, Barcellona, Palma de Maiorca, Roma e Pozzallo centinaia di persone hanno espresso solidarietà alla Ong spagnola e allo stesso tempo detto - come recita lo slogan delle manifestazioni - che “Salvare le persone non è un reato/Sea rescue is not a crime”. Nella capitale italiana l’appuntamento è in piazza Madonna di Loreto, di lato a piazza Venezia. “La criminalizzazione delle Ong è cominciata la scorsa estate - ricorda l’ex presidente della Camera Laura Boldrini, presente anche lei all’iniziativa - quando queste Ong sono state accusate di essere dei semplici taxi del mare. Il fatto che adesso non ce ne siano più significa che il nostro Mediterraneo è sempre più insicuro”. Alla manifestazione hanno aderito anche Arci, Leu e Radicali italiani. Proprio sulle recenti vicissitudini giudiziarie della Open Arms il segretario di Radicali italiani Riccardo Magi insieme a Emma Bonino - rispettivamente deputato e senatrice di + Europa - hanno presentato un’interpellanza parlamentare nella quale tra l’altro si chiede se è vero che i soccorritori della Ong siano stati “esplicitamente sollecitati da Roma a trasferire i profughi già salvati sulla motovedetta libica per il successivo approdo in Libia”. Solidale con Proactiva è anche la sindaca di Barcellona Ada Colau che ha annunciato l’intenzione della città catalana di supportare le spese legali della ong. Ma dalla Spagna all’Italia è chiara a tutti la necessità di non assistere in silenzio alla messa sotto accusa delle Ong. “L’Italia non è e non può diventare il paese dell’egoismo e della meschinità” afferma Nicola Fratoianni, di Leu. E anche il presidente del Pd Matteo Orfini su Facebook definisce “curioso” che alla ong venga contestato di non aver rispettato, neanche fosse un reato, il codice d condotta imposto dal suo collega di partito ed ex ministro degli Interni Marco Minniti. Vergogna umanitaria: l’Europa dei diritti paga la Turchia per fermare i profughi di Francesca Sironi L’Espresso, 25 marzo 2018 Mezzi blindati, apparecchi per la sorveglianza, tecnologia anti-cecchini, navi per il pattugliamento delle frontiere. I fondi dell’Unione europea al presidente turco Tayyp Erdogan sono stati usati non solo per aiutare i profughi siriani ma per l’acquisto di attrezzatura militare. Un’inchiesta esclusiva del consorzio EIC. Il volto dell’Unione Europea è un muro di ferro e cemento. Alto tre metri, lungo più di 800 chilometri, pattugliato notte e giorno da mezzi militari pagati anche con fondi di Bruxelles. È così che si presenta oggi il confine lungo l’intera Turchia a chi cerca di fuggire alle stragi in corso in Siria. Un’inchiesta condotta dai media danesi Politiken e Danwatch, in collaborazione con L’Espresso e il consorzio investigativo Eic, può rivelare come l’Unione abbia fornito oltre 80 milioni di euro ad Ankara per l’acquisto di mezzi militari blindati, apparecchi per la sorveglianza e navi per il pattugliamento delle frontiere. Fra le centinaia di contratti legati alla gestione dei profughi siriani e all’avvicinamento del paese agli standard Ue, infatti, non ci sono solo aiuti umanitari. Ma anche il supporto tecnico per quella che si presenta ora come una frontiera invalicabile. E che rischia di diventare un monumento imbarazzante per l’Europa dei diritti. Perché quei sistemi bellici regalati alla Turchia sono ora al centro di un fronte di guerra. Nelle mani dello stesso esercito impegnato ad attaccare i curdi, alleati dell’Occidente, in un’operazione estranea a ogni regola internazionale e che sta provocando centinaia di morti. Come ad Afrin, nella Siria settentrionale, dove le milizie appoggiate dai turchi stanno operando un massacro. Non solo. Se il governo turco ha affermato che è possibile per i rifugiati siriani attraversare la frontiera, report di Human Rights Watch, dell’Osservatorio siriano per i diritti umani, e le voci degli abitanti nella zona di confine, mostrano una realtà diversa: a chi tenta di avvicinarsi si spara. Fino ad uccidere. E quel muro è pattugliato con dei “Cobra II” pagati anche dalla Ue. “In base alla convenzione di Ginevra è vietato respingere rifugiati”, commenta Laura Ferrara, europarlamentare del Movimento 5 stelle esperta di questioni migratorie: “ma chiaramente l’Unione non lo può controllare, questo, in territorio turco”. Stati Uniti. La generazione “basta armi” inonda le strade “presto voteremo tutti” di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 25 marzo 2018 Almeno mezzo milione di persone hanno sfilato a Washington al corteo organizzato dagli studenti della Florida in risposta alla strage di San Valentino. I giovani leader: andremo lontano. Dietro il grande palco montato davanti a Capitol Hill, nell’area riservata a tv e reporter, si avanza un ragazzo esile, circondato da quattro-cinque uomini in maglietta nera con la scritta “Crew”. È un’immagine spiazzante: quel ragazzino è David Hoog, 17 anni, uno dei sopravvissuti di Parkland. È uno dei venti fondatori del “Never Again Marjory Stoneman Douglas”, il nome del suo liceo. Ma oggi, qui sulla Mall di Washington, è un leader. Guarda l’enorme parco che arriva fino al Lincoln Memorial: sotto il sole luccica di volti, di cartelli. Sono tanti, almeno mezzo milione. La “March for our lives”, la Marcia per le nostre vite organizzata dagli studenti della Florida, la risposta alla strage di San Valentino, 17 persone uccise con un fucile d’assalto dal ventunenne Nikolas Cruz, non solo è riuscita, ma sembra anche destinata a durare. In tutto il Paese: molte migliaia di manifestanti a New York, Chicago, Boston, Los Angeles, Denver. Ci sono state “marce” in almeno 800 città americane. Adesso è il momento del salto di qualità. Hogg è conteso dalle tv, ma c’è il tempo per una battuta con il Corriere: “Il prossimo passo? Continueremo a premere su Capitol Hill, ma ci stiamo attrezzando per pesare nelle prossime elezioni”. Sono arrivati nella notte, con i pullman soprattutto. Settimane di appelli, di coordinamento sui social. Gli slogan e i cartelli si dividono i bersagli. Anche se l’avversario numero uno è la Nra, la National Rifle Association, l’associazione dei produttori e dei possessori di armi: 5 milioni di iscritti nel Paese. Una studentessa della Florida distribuisce dei cartoncini arancioni con l’elastico: “1,05 milioni: politici come Marco Rubio ricevono milioni di dollari dalla Nra, ma a noi non metterete il cartellino del prezzo”. Le ragazze mostrano i polsi incrociati, come se fossero ammanettate. Sui dorsi delle mani la scritta in pennarello: “Don’t shoot”, non sparate. Sul palco si alternano gli alunni del liceo di Parkland, tutti leggono discorsi brevi, secchi. Zion Kelly commuove tutti gridando il nome del fratello ucciso. Sam Fuentes ricorda con rabbia quel 14 febbraio: ore intrappolata in una classe. Prende il microfono anche una bambina di nove anni: è Yolanda Renee King, una delle nipoti del pastore Martin Luther King. Poi salgono sul palco i tre giovani guida: Emma Gonzales, Ryan Deitsch e appunto Daniel Hogg. Sono stati fin dal primo momento i più esposti, perché indubbiamente brillanti, capaci di reggere il contraddittorio. Sono questi tre studenti, sbucati dalla profondità della Florida, che ora si rivolgono a milioni di persone, in diretta televisiva, annunciando che “andranno avanti”. In questo mese hanno sperimentato direttamente la pervasiva influenza delle lobby, hanno visto il presidente degli Stati Uniti ritirarsi, dopo aver solennemente promesso: “Basta, faremo qualcosa”. Si sono scontrati con l’inerzia del congresso controllato dai repubblicani. Rayon Deitsch è il più chiaro: “E allora ora ci dobbiamo mobilitare noi, registriamoci per il voto, impariamo quello che c’è da imparare e quando sarà il momento andiamo alle urne e facciamoci sentire”. Nelle strade un migliaio di volontari in maglietta gialla dell’associazione Head Count raccoglie i dati di chi vuole registrarsi. Vincent Ustach, 32 anni, è uno di loro: “È la prima volta che partecipiamo a una manifestazione così grande. È chiaro che questo movimento può andare lontano. Può diventare un soggetto che può contare nelle elezioni di midterm a novembre”. Si vedrà. Di certo non è solo commozione. Non è più solo rabbia. Mercoledì prossimo questi ragazzi avranno la copertina del Time. Per il momento arrivano le lettere di congratulazioni di George Clooney e il tweet di incoraggiamento dell’ex presidente Barack Obama. Donald Trump è nella sua villa di Mar-a-Lago, in Florida. Crimine perfetto in Libia di Lara Ricci Il Sole 24 Ore, 25 marzo 2018 Lo stupro è un crimine perfetto, rinchiude chi l’ha subito nel silenzio. Da anni filtravano voci che fosse stato e sia ancora usato sistematicamente come arma di tortura e annientamento nella Libia alla deriva, tra due governi senza potere e una miriade di milizie che controllano il territorio con la violenza. Ma non si riusciva a dimostrarlo. Nessuno testimoniava. Impossibile raccogliere le prove per arrivare un giorno a giudicare i crimini. Per la prima volta le voci delle vittime si sono fatte sentire una settimana fa, durante la proiezione del documentario Libye - Anatomie d’un crime, della giornalista franco italiana Cécile Allegra, in anteprima mondiale al Festival du film et forum international sur les droits humains che si tiene ogni anno a Ginevra nello stesso periodo in cui alle Nazioni Unite si svolge la più importante sessione del Consiglio per i diritti umani. “Se mi chiedessero se preferisco che mio fratello sia stuprato o ucciso sceglierei che venga ucciso” afferma uno degli uomini che alla fine è riuscito a parlare. “Solo dire la parola stupro in Libia sporca chi l’ha pronunciata. E del resto non è molto diverso in Sicilia, da dove viene mio padre” spiega Allegra. Chi è stato violentato, che sia uomo o donna, diventa un’onta per la sua famiglia. Per generazioni. La violenza sessuale distrugge all’interno, materialmente e metaforicamente, e contamina la vittima col carnefice, perché non riesce a prenderne le distanze. Per non diventare vittima due volte chi ha subìto questi abusi infatti preferisce tacere, macerandosi nella solitudine, finendo per mettere la distanza non tra sé e chi l’ha violata, che resta sempre al suo fianco cristallizzato nel ricordo immondo, ma tra sé e il resto del mondo. Arma a basso costo e dall’effetto devastante sulle persone e sulla società, lo stupro negli ultimi trent’anni è stato sempre più usato, in maniera sistematica e pianificata, in particolare in quei conflitti dove una delle parti mira a annientare l’altra, a farla implodere, ha spiegato Céline Bardet, giurista internazionale specializzata in crimini di guerra e fondatrice dell’organizzazione non governativa We are Not weapons of war, che si occupa appunto di stupri di massa. In Bosnia, in Rwanda, nella Repubblica Democratica del Congo, in Siria (proprio nei giorni scorsi all’Onu è stato presentato un rapporto che mostra l’uso sistematico della violenza sessuale in questo Paese) donne e bambini sono stati i bersagli principali. In Libia sembrerebbe interessare soprattutto gli uomini. E i maschi pare facciano ancor più fatica a parlarne. Per sei mesi l’inchiesta di Allegra ha girato a vuoto. Tanti erano pronti a raccontare le violenze più atroci, ma appena veniva pronunciata la parola stupro, e in particolare stupro di libici sui libici e non sui migranti, cosa tristemente già nota, calava il silenzio. Finché Allegra non ha incontrato Ramadan Alamami, ex pubblico ministero libico fuggito a Tunisi quando i miliziani che aveva fatto condannare per omicidio erano stati liberati senza motivo. Alamami coordina dei volontari che sfidano l’omertà e cercano prove sui crimini commessi il Libia per portare un giorno i colpevoli davanti alla giustizia e iniziare a mettere fine alla violenza. Qualcuna delle persone con cui questa rete entrava in contatto ha finalmente iniziato a parlare: una donna violentata davanti al figlio, stuprato anche lui, ex prigionieri di alcune delle innumerevoli carceri clandestine disseminate sul territorio che raccontavano dello stupro giornaliero e metodico di centinaia di detenuti, sempre con lo stesso metodo meccanico oppure costringendo migranti incarcerati a farlo sotto minaccia di morte. Allegra ha messo in contatto Alamami con Bardet e li ha filmati mentre insieme hanno iniziato a raccogliere le testimonianze e i certificati medici per dare corpo a un dossier inviato un paio di mesi fa alla Corte penale internazionale. “Perché in Libia ci sono leggi ma non c’è più uno Stato che le faccia rispettare” ha spiegato Alamami. “Sulla nostra nave che recupera i migranti al largo della Libia - ha raccontato Caroline Abu Sa’da, direttrice di Sos Méditerranée Suisse nella conferenza che ha seguìto la proiezione - registriamo sempre più donne, sempre più donne incinte e sempre più libici, e da anni ormai tutti parlano di tortura e stupri. Eppure la politica europea è di rimandare i migranti in Libia”. “Affidare i richiedenti asilo a Paesi terzi, compresi Paesi come la Libia o il Sudan dove i diritti umani non sono rispettati, è l’unico terreno su cui gli Stati europei paiono concordare” ha affermato amaramente Alexander Betts direttore del Centro studi sui rifugiati dell’università di Oxford, spiegando come ci sia “un’assoluta impasse in Europa nel riformare la gestione dei migranti, gestione fino a oggi disastrosa” e come l’Europa debba fare molta attenzione a una politica di “esternalizzazione” dei richiedenti asilo perché si sta esponendo a facili ricatti da parte dei Paesi partner, che chiedono sempre più soldi. Una tale gestione dei rifugiati “è uno spreco di umanità”, ha detto Betts che li ritiene un potenziale per lo sviluppo delle nazioni ospitanti e anche per quelle d’origine. Con un po’ di lungimiranza potrebbero infatti diventare attori fondamentali nel futuro processo di ricostruzione, per esempio in Siria, e invece la maggior parte dei Paesi ospite non li fa nemmeno lavorare né si preoccupa di formarli. Betts ha dunque citato il caso di Stati come l’Uganda e recentemente anche la Giordania dove sono stati sviluppati progetti pilota per impiegare i rifugiati che hanno dato eccellenti risultati creando occupazione non solo per i migranti, ma anche per i locali. E come quelle società che hanno messo a punto un programma per impiegare immigrati, per esempio Ikea, ne siano soddisfatte. Ha poi fatto l’esempio della Germania che ha istituito un ufficio per il riconoscimento e la trascrizione delle qualificazioni dei migranti, in modo che sia più facile l’inserimento nel mondo del lavoro. Gli Stati si guardano bene dal modificarlo, ma il termine stesso di rifugiato è ormai totalmente inadeguato, dal punto di vista giuridico: la Convenzione sullo statuto dei rifugiati risale al 1951 e non prende in considerazione i rifugiati climatici (che saranno 143 milioni nel 2050, secondo il rapporto della Banca mondiale pubblicato lunedì scorso), né le persone che fuggono il terrorismo, ha spiegato Laura Thompson, direttrice generale aggiunta dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni nel dibattito dal titolo eloquente: ““Rifugiati climatici” togliamo le virgolette”. Dibattito che ha seguito la proiezione del film The age of consequences di Jared P. Scott che mostra come sempre più conflitti scoppino in seguito al cambiamento climatico, alla scarsità di risorse o alle migrazioni e le potenziali ricadute di questo sulla sicurezza nazionale. L’interessante Unfair game, di Thomas Huchon, anche tramite interviste alla giornalista Carole Cadwalladr, ha spiegato, giorni prima dello scoppio dello scandalo di Cambridge Analytica a firma della stessa Cadwalladr, come si siano potute recapitare, negli Stati chiave per l’elezione del presidente statunitense, fake news appositamente confezionate per favorire la vittoria di Trump agli elettori più influenzabili individuati con l’analisi massiccia di informazioni personali recuperate su internet e altrove. Per esempio grazie a quei test di personalità condivisi su facebook che, con la promessa di mostrare agli utenti per esempio a quale star del cinema o scrittore assomigliano, o qual è il tratto dominante del loro carattere, richiedono dati preziosissimi a scopi di marketing che le persone inconsapevoli forniscono e che sono poi utilizzati per manipolare le loro opinioni politiche, oltre che i loro acquisti. Serbia. Appello all’Europa per la scarcerazione del fotoreporter Mauro Donato La Repubblica, 25 marzo 2018 L’eurodeputata Pd De Monte: “Chiediamo alla Commissione di fare ogni opportuna verifica con le autorità serbe, per capire se siamo davanti a una violazione dei diritti umani”. “Esigiamo chiarezza sulla vicenda del giornalista Mauro Donato e chiediamo alla Commissione europea di fare ogni opportuna verifica con le autorità serbe in tempi celeri, per capire se siamo davanti a una violazione dei diritti umani”. Lo afferma l’eurodeputata del Pd e vice capodelegazione italiana nel gruppo S&D Isabella De Monte, che oggi ha presentato un’interrogazione sul fermo in Serbia del fotoreporter piemontese, trattenuto in carcere da sei giorni con l’accusa di furto di 300 dinari (meno di 3 euro) e di aggressione ai danni di tre migranti afghani, che però avrebbero già ritrattato. Secondo De Monte “da notizie di stampa emerge che Donato potrebbe essere stato scambiato per il responsabile del furto, ma se dichiarato colpevole rischierebbe fino a 15 anni di carcere. La Farnesina è già al lavoro su questa vicenda dai contorni decisamente poco chiari, ma ho ritenuto doveroso anche un coinvolgimento delle Istituzioni europee, considerato il delicato percorso di avvicinamento all’Ue che interessa la Serbia. Belgrado ha compiuto recentemente passi significativi nel processo di adesione all’Ue. Il capitolo 23 per i negoziati verso l’integrazione nell’Unione indica come ineludibile l’istituzione di un sistema giudiziario indipendente ed efficiente. Devono inoltre essere in vigore garanzie legali per procedure di processi equi. Se tale situazione portasse a un processo - conclude - rappresenterebbe una grave violazione dei diritti umani”. “Chiarire al più presto” e “velocizzare la scarcerazione” di Donato. È anche l’invito della Onlus italiana, che da due anni segue la situazione dei migranti sulla rotta balcanica, è quello di scrivere alla pagina Facebook dell’associazione, per sottoscrivere l’appello, o all’indirizzo info@onebridgetoidomeni.com. “Ci rivolgiamo al Tribunale di Sremska Mitrovica, nonché all’intero sistema giuridico servo, per chiedere l’accelerazione delle procedure - scrive la Onlus - e alla procuratrice Draginja Lukic Ciric, con la richiesta di ascoltare il prima possibile i testimoni che scagionano totalmente Mauro, come Andrea Vignali, videoreporter e collega di Donato, e Gloria Gemma, nostra volontaria”. Donato è stato arrestato alla frontiera di Sid, mentre faceva ritorno in Italia, con “l’ingiusta accusa - conclude la Onlus - di avere rapinato e accoltellato tre migranti”. Spagna. Arresti, nuovi “esili” e scontri, si riattiva la crisi catalana di Luca Tancredi Barone Il Manifesto, 25 marzo 2018 In cella anche il candidato indipendentista alla presidenza della Catalogna, Jordi Turull. Fugge in Svizzera la segretaria di Esquerra repubblicana, Marta Rovira. Questa settimana la politica catalana si è improvvisamente riattivata, ma l’incertezza continua a regnare. Dopo che il giudice che sta investigando i fatti relativi al voto dell’1 ottobre aveva deciso martedì di convocare sei deputati (fra cui ex ministri catalani) a Madrid per venerdì, il presidente del Parlament Roger Torrent ha risposto riunendosi in fretta e furia con i capigruppo e convocando una sessione di investitura per giovedì scorso. Questa formalità era rimasta bloccata da gennaio, dopo che il Tribunale costituzionale aveva minacciato la presidenza del Parlament che una sessione plenaria per votare Carles Puigdemont (il candidato indicato dalla maggioranza parlamentare indipendentista come presidente) sarebbe stata illegale. Scartato Puigdemont, gli indipendentisti, provocatoriamente, avevano indicato come candidato uno dei deputati in carcere, Jordi Sánchez, a cui però - in un atto giudiziario sorprendente - il giudice aveva proibito di recarsi in parlamento a esercitare i propri diritti, stabilendo un precedente giuridico molto pericoloso, considerando che Sánchez è in prigione preventiva e non è ancora stato giudicato (e questo senza entrare nella tipologia di reato, quello di ribellione e sedizione, da molti considerato eccessivo). La situazione a questo punto era rimasta bloccata, fino a che Torrent mercoledì aveva nominato candidato Jordi Turull, uno dei sei imputati, dello stesso partito di Puigdemont e Sánchez, Junts per Catalunya. Nella consapevolezza che il giudice istruttore era deciso a incarcerare anche loro (oltre ai 4 già in prigione), l’obiettivo indipendentista era che venerdì il giudice si trovasse davanti un presidente eletto. La predilezione del mondo indipendentista per la gestualità prevale sempre sulla pragmaticità. Ma la giocata è stata rovinata dalla Cup, che si è astenuta: in assenza dei due deputati a Bruxelles (gli altri esuli si sono dimessi e sono stati sostituiti, i due deputati in carcere hanno potuto delegare il proprio voto), a Turull è mancata la maggioranza assoluta necessaria per la prima sessione di investitura: 65 No, 64 Sì e 4 astenuti. La seconda sessione, in cui sarebbe bastata la maggioranza semplice (ma ci volevano almeno o le dimissioni di Carles Puigdemont e Toni Comín, a Bruxelles, o almeno due voti favorevoli della Cup), si doveva tenere ieri mattina. Ma venerdì, come atteso, il giudice Llarena ha sbattuto in carcere tutti gli imputati, tranne la segretaria di Esquerra repubblicana, Marta Rovira, che si è aggiunta agli altri (“esuli” secondo loro; “latitanti” per il governo spagnolo), fuggendo in Svizzera. Lei e altre due deputate (ex ministre), subito dopo la sessione plenaria di giovedì, si erano dimesse per poter essere sostituite in parlamento. Contestualmente ai nuovi arresti, il giudice ha riattivato il mandato di cattura europeo, ritirato a dicembre per paura che i giudici belgi non credessero alla gravità delle accuse e lo bloccassero. Quindi sono quattro i paesi coinvolti nella faccenda: Comín è in Belgio; Puigdemont è in Finlandia (per una conferenza); Rovira, che non è più deputata, è in Svizzera e Clara Ponsatí (ex ministra, dimessasi come deputata) è in Scozia a insegnare in una università. L’obiettivo dichiarato degli indipendentisti è l’”internalizzazione”. Qualche risultato l’hanno ottenuto, con il rapporto di Amnesty che condannava qualche settimana fa gli eccessi polizieschi e giudiziari per l’1 ottobre, e con il comitato dei diritti umani dell’Onu che martedì ha invitato il governo a prendere “tutte le misure necessarie” per garantire che Sánchez “possa esercitare i suoi diritti politici”. La sessione plenaria di ieri (che Pp, Ciudadanos e socialisti volevano non fosse celebrata) si è tenuta lo stesso (i 4 deputati popolari hanno abbandonato l’aula), ed è servita perché i partiti si posizionassero sulla situazione politica. Catalunya en comú, Podemos e Izquierda unida hanno condannato i nuovi arresti. Nelle strade da venerdì notte sono tornate le proteste, con scontri e almeno una ventina di feriti. Ora almeno sono scattati i 60 giorni di tempo per la scelta di un presidente catalano: dopodiché, in assenza di un presidente, nuove elezioni il 15 luglio. Intanto, la Catalogna continua a essere governata dal governo di Madrid da 5 mesi. Spagna. Muore in carcere ex terrorista dell’Eta, per la direzione del carcere si è suicidato globalist.it, 25 marzo 2018 Adarne l’annuncio non sono state le autorità, ma il gruppo di parenti di detenuti indipendentisti baschi. Xabier Rey Urmeneta stava scontando una condanna a 26 anni di reclusione. Xabier Rey Urmeneta, originario di Pamplona, che stava scontando in carcere una pesante condanna per la sua militanza nell’Eta, è stato trovato morto, ieri sera, nella cella del reclusorio di Puerto III di Cadice, secondo quanto ha reso noto il gruppo di parenti dei prigionieri etarras, l’Etxerat. Fonti del carcere hanno confermato la morte di Rey Urmeneta, arrestato nell’ottobre 2008 e accusato di avere fatto parte del “commando Nafarroa”. Sul cadavere del membro dell’Eta, che era in attesa dell’appello dopo la sentenza di primo grado, sono stati trovati dei tagli alle braccia. Cosa che, dicono le fonti del carcere, suffraga l’ipotesi che Rey Urmeneta si sia tolto la vita. L’uomo era stato condannato, insieme ad un altro imputato, Aurken Sola Campillo, a 26 anni di carcere oltre che per l’appartenenza all’Eta, anche per il possesso di esplosivi. Erano stati invece assolti dall’accusa di cospirazione. “I prigionieri politici baschi continuano a morire£, di Gianni Sartori Ancora un caso, l’ennesimo, di morte ingiusta e prematura di un giovane prigioniero politico basco. Almeno ufficialmente, un suicidio. Quanto meno indotto dalla brutalità del sistema carcerario spagnolo. La notizia era apparsa su Gara del 7 marzo, suscitando non poca commozione tra gli abitanti di Euskal Herria. Scarso o nullo invece il rilievo su altri organi di informazione della penisola iberica. Xabier Rey era stato ritrovato cadavere nella sua cella del carcere Puerto III, situato a El Puerto de Santamaria (Cadice). Una prigione a oltre mille chilometri da Pamplona, la città del giovane abertzale. Da due anni il militante di Eta si trovava in regime di isolamento e in precedenza aveva denunciato di essere stato sottoposto a tortura. Dopo la dichiarazione definitiva di Eta sull’abbandono della lotta armata, (e mentre l’organizzazione indipendentista sta portando a compimento il dibattito interno sulla sua prossima, definitiva, autodissoluzione) la situazione del Paese Basco sembra essere precipitata in un limbo mediatico. Sicuramente Euskal Herria attualmente gode di minor visibilità rispetto alle tragicomiche (sia detto affettuosamente) vicende dell’indipendentismo catalano. La questione dei prigionieri politici, già fondamentale in altri processi di pacificazione (Irlanda, Sud Africa...) rimane il maggior ostacolo alla prosecuzione del Processo di Pace, un processo avviato dalla società basca, ma osteggiato apertamente dall’indifferenza spagnola. Al solito, di fronte alle istanze di autodeterminazione, Madrid sceglie la scorciatoia repressiva, sicuramente più congeniale per i degni eredi del franchismo. E quindi perché stupirsi se sulla morte di Xabier Rey è calato un impietoso silenzio? Non così per il popolo basco, naturalmente. In migliaia hanno dato l’estremo saluto al compagno scomparso. Con il suono della txalaparta e l’Eusko gudariak. Yemen. Lobby delle armi, finché c’è guerra c’è speranza di Farian Sabahi Il Manifesto, 25 marzo 2018 A tre anni esatti dal lancio dell’operazione militare saudita, lo Yemen è un paese a pezzi. A risuonare l’omertà della comunità internazionale: l’industria delle armi globale ha un ruolo di primo piano nella guerra ai civili. “La notte tra il 25 e il 26 marzo del 2015, quando i sauditi hanno iniziato a bombardare Sana’a, siamo stati colti di sorpresa: le Nazioni unite non erano state allertate, nella capitale yemenita c’erano centinaia di funzionari delle organizzazioni internazionali che sono stati subito evacuati perché di fronte alle bombe le società assicurative non rispondono”. Il capo missione dell’Onu in Yemen dal 2014 al 2016, Paolo Lembo, ricorda con sgomento quei momenti. Tre anni dopo, i bombardamenti della coalizione saudita hanno mietuto 15mila vittime civili a cui vanno aggiunti i tanti morti per fame e malattie, soprattutto per le epidemie in corso di colera e difterite. Impossibile portare cibo e medicinali, a causa del blocco aero-navale messo in atto dalla coalizione sunnita. Il paese è spaccato grossomodo in due: il nord controllato dai ribelli sciiti Houthi e il sud formalmente in capo al governo di Mansour Hadi ma in realtà in mano alle milizie separatiste. Sul territorio sono presenti anche al-Qaeda e lo Stato islamico. Al-Qaeda aveva riscosso un certo successo presso la popolazione, a cui aveva fornito un sistema di welfare soprattutto nella regione sud-orientale dell’Hadramaut, per poi essere colpito dalle intense operazioni militari delle forze armate statunitensi. Non c’è conflitto più complesso di quello dello Yemen, che non si può ridurre né a una lotta tra sunniti e sciiti né a una guerra per procura tra Arabia saudita e Iran. Lo Yemen ha la cultura più ricca della penisola araba, ma dal punto di vista politico è sempre stato frammentato, dominato dalle tribù. Uno Stato illusorio, che potrebbe essere oggetto di una partizione. Mentre la diplomazia tace. In questa situazione di stallo, Lembo reputa indispensabile “intervenire sui flussi di armi vendute alla coalizione guidata dai sauditi e utilizzate contro la popolazione yemenita”. Sono molti i paesi coinvolti, in cima alla lista gli Stati uniti: di passaggio a Riyadh, lo scorso maggio il presidente Donald Trump aveva firmato contratti di vendita di armi per ben 120 miliardi di dollari. In seconda battuta, suggerisce Lembo, bisogna fare in modo che “le parti coinvolte nel conflitto esercitino una flessibilità nella discussione degli accordi di pace, flessibilità che al momento non c’è. Ed è poi necessario far fronte alle necessità immediate della popolazione, che ha bisogno urgente di cibo e medicinali”. Facciamo un passo indietro, ricordando le cause del conflitto: i sauditi sono stati chiamati dal presidente Mansour Hadi quando gli Houthi del nord, i ribelli sciiti della corrente zaidita, si sono mossi dalla regione settentrionale di Saada per scendere sulla capitale Sana’a. Questo succedeva nel settembre del 2014. All’inizio del 2015 gli Houthi prendevano il potere nella capitale Sana’a e, messo alle strette, il presidente Mansour Hadi chiedeva aiuto ai sauditi che, da parte loro, non potevano tollerare un governo sciita nel vicino Yemen. Secondo gli osservatori internazionali, in questi tre anni un terzo degli obiettivi colpiti dai sauditi e dai loro alleati sono civili: scuole, ospedali, moschee, mercati e quartieri residenziali. Per Laura Silvia Battaglia, autrice della graphic novel La sposa yemenita per le edizioni Becco Giallo, “prendere di mira i civili fa parte di una strategia militare messa in atto anche in altri contesti di guerra. Come gli americani in Iraq e in Afghanistan, Israele su Gaza, anche i sauditi violano le leggi internazionali: i civili sono vittime designate”. I rischi sono altissimi: “Il paese è in macerie, tre generazioni di yemeniti non hanno futuro e potrebbero dare vita ad azioni settarie come in Iraq”. Battaglia è d’accordo con Lembo: “In questa drammatica situazione c’è la complicità dell’Occidente, il silenzio è in parte dovuto al fatto che sono in molti a vendere armi ai sauditi e ai loro alleati”. In questi tre anni i sauditi e i loro alleati hanno distrutto anche i siti archeologici e i palazzi architettonici dell’antica città di Sana’a, per l’Unesco patrimonio dell’umanità. Per il direttore generale dell’Unesco, Irina Bokova, si tratta di “pulizia culturale, atti volontari di distruzione di un passato storico culturale, islamico e preislamico, non in linea con l’ideologia saudita”. Consulente dell’Istituto Veneto per i Beni Culturali che ha dovuto interrompere le attività a causa della guerra, Cristina Muradore ricorda i siti più colpiti: la diga di Marib, vari siti scavati dalla missione archeologica italiana tra cui l’antica città di Baraqish del VI secolo avanti Cristo nella regione semidesertica di al-Jawf e altri templi preislamici, come quello di Awam. Purtroppo, anche luoghi patrimonio dell’umanità come le città di Sana’a e di Shibam Hadramaut sono stati bombardati ripetutamente e per questo declassati a patrimonio in pericolo come lo sono tutti i centri storici dello Yemen, inclusi la città vecchia di Saada e tanti villaggi minori.