Ancora una volta i giudici arrivano prima della riforma di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 marzo 2018 La Cassazione ha sollevato alla Consulta il caso della disparità di trattamento tra malati psichici e fisici. Disparità in carcere tra i malati psichici e quelli fisici. Ancora una volta la Corte costituzionale potrebbe arrivare prima della riforma dell’ordinamento penitenziario. Sì, perché se venisse approvato definitivamente il decreto della riforma dell’ordinamento penitenziario, nella parte che riguarda l’assistenza sanitaria, verrà finalmente equiparata l’infermità psichica con quella fisica. Perché è così importante? Abbiamo l’esempio concreto sottoposto dall’ordinanza del 22 marzo scorso emessa dalla Cassazione. Il Sole 24 Ore ha dato notizia della richiesta che i giudici della prima sezione penale hanno fatto alla Consulta per poter decidere sull’istanza di un detenuto, con numerosi precedenti penali, con una pena residua di sei anni e 4 mesi, per rapina. L’uomo, al quale era stato diagnosticato un disturbo border-line della personalità, si era tagliato la gola in due occasioni ed era seguito da uno psichiatra. Il tribunale di sorveglianza aveva respinto la richiesta di differimento facoltativo dell’esecuzione della pena, come previsto dall’articolo 147 del codice penale, però solo per chi ha una malattia fisica. Il tribunale aveva osservato che non c’erano margini neppure per il rinvio obbligatorio dell’esecuzione pena (articolo 146 del Codice penale) applicabile in altri casi: dalla donna incinta al malato di Aids. La Suprema corte esclude la possibilità di applicare la norma sull’infermità psichica sopravvenuta che prevede il ricovero negli ospedali psichiatrici giudiziari (articolo 148 del Codice penale) per la sua ‘ tacita’ abrogazione. Sempre i giudici della Corte suprema - si apprende dall’ordinanza pubblicata dal Sole 24ore - escludono la sostituzione degli Opg con le Rems, posto che le vigenti disposizioni indicano le Residenze come luoghi di esecuzione delle sole misure di sicurezza. Non è rilevante neppure la previsione della legge 103/ 2017, in particolare il punto della delega (lettera d) articolo 16, comma 1) che prevede l’assegnazione alle Rems anche dei soggetti portatori di una grave infermità psichica sopraggiunta nel corso della detenzione in caso di inadeguatezza dei trattamenti praticati all’interno del carcere. La possibilità non torna utile essendo, appunto, indicata nella legge delega della riforma dell’ordinamento penitenziario non ancora approvata definitivamente e quindi applicabile. La Cassazione prende atto del fatto che, al momento, il nostro ordinamento non prevede una via d’uscita per chi si trova nella situazione del ricorrente - ovvero con una sopraggiunta infermità psichica, con una pena residua superiore a 4 anni. I giudici però rilevano che questa disparità è in contrasto sia con la Costituzione che la Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. I giudici della prima sezione avvertono anche del rischio di scivolare nel divieto di trattamenti inumani e degradanti, e attirano l’attenzione sul diritto fondamentale alla saluta oltre che sulla funzione rieducativa della pena. Per questo motivo, ora sarà la Corte costituzionale a riempire il vuoto lasciato dalla politica. Ancora una volta emerge il fatto che l’attuale ordinamento penitenziario va aggiornato. Siamo entrati nella nuova legislatura e la riforma deve avere ancora un via libera definitivo da parte del governo. A spiegare bene il passaggio finale è Rita Bernardini del Partito Radicale, colei che con lunghi scioperi della fame ha esercitato pressioni per portare a termine il tortuoso iter della riforma. “A chi mi chiede insistentemente quando finirà (premesso che occorre vigilare che il tutto si concluda nel migliore dei modi) - spiega l’esponente Radicale, non posso che rispondere “dipende”: dipende dal giorno in cui verrà istituita la Commissione speciale; dipende da momento in cui il governo trasmetterà il testo alla Commissione; passati 10 giorni, dipende da quando si riunirà il Consiglio dei ministri per licenziare il testo definitivo; dopodiché il presidente della Repubblica entro un mese dovrà promulgarlo e, infine, entro 15 gg dalla promulgazione dovrà essere pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale”. Il decreto sugli internati è rimasto nel cassetto Senza diritti e vittime di un retaggio del ventennio che li porta ad essere - come definiti dal già magistrato Laura Longo intervistata dal Dubbio - gli “ultimi degli ultimi”. Parliamo degli internati, coloro che continuano a scontare una pena (e non dovrebbe essere tale per legge) in misura di sicurezza. Per concludere il nostro viaggio tra gli internati, ancora una volta emerge la necessità della riforma dell’ordinamento penitenziario. Ma, se mai venisse approvata, rimarrà nel cassetto proprio il decreto che si occupa di modificare le misure di sicurezza e portare a un ridimensionamento del sistema del famigerato “doppio binario”. Si tratta di misure che interessano l’autore di reato socialmente pericoloso e che, secondo un assetto che risale al codice Rocco, si aggiungono alla pena (per gli imputabili e i semi- imputabili), ovvero rappresentano l’unica misura applicabile (per i non imputabili): la casa di lavoro, la colonia agricola, le comunità per i minori (già riformatorio giudiziario) e il ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario o in una casa di cura e di custodia (tra quelle detentive); le ultime due già oggetto di un ampio intervento di riforma, negli anni scorsi, ha portato alla chiusura degli Opg e all’introduzione delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). Il decreto in questione non avrebbe eliminato le misure di sicurezza (anche se viene auspicato da più parti), ma ridimensionato considerevolmente il sistema del doppio binario a vantaggio di misure a carattere riabilitativo e terapeutico e del minor sacrificio possibile della libertà personale, fatto salvo il contemperamento con le esigenze di prevenzione e tutela della collettività. Il decreto, innanzitutto, fa tre distinzioni: soggetti imputabili, semi- imputabili e non imputabili. Per i soggetti imputabili il regime del doppio binario viene limitato a chi ha commesso dei gravi delitti. Per i oggetti semi- imputabili, invece, si prevede addirittura l’abolizione del sistema del doppio binario e l’introduzione di un trattamento sanzionatorio finalizzato al superamento delle condizioni che hanno diminuito la capacità dell’agente, anche mediante il ricorso a trattamenti terapeutici o riabilitativi e l’accesso a misure alternative sempre compatibilmente con le esigenze di tutela della sicurezza pubblica. Infine per i soggetti non imputabili il decreto prevede di destinarli alle Rems - appena realizzate e già ai limiti della capienza - non solo (in via definitiva, prioritariamente, ma anche provvisoria) gli autori non imputabili e socialmente pericolosi, ma anche coloro che, vivendo nelle articolazioni psichiatriche dei penitenziari, non gli viene garantita una giusta cura. Quest’ultimo punto è stato criticato da più parti, perché potrebbe trasformare le Rems in mini Opg. In sintesi, se il governo avesse approvato questo decreto, sarebbe scuramente migliorata la condizione degli internati. Ma purtroppo la politica ha scelto di lasciarli abbandonati a se stessi, tra gli ultimi. Mascherin (Cnf): “carcere, con questa riforma avremo più sicurezza” a cura di Valentina Stella Il Dubbio, 24 marzo 2018 Andrea Mascherin, presidente del Consiglio nazionale forense, è stato intervistato da Donatello Vaccarelli durante il Tg di Tv2000. Ecco i passaggi salienti dell’intervista. Prima di commentare la riforma dell’ordinamento penitenziario le chiedo un commento sul Datagate che ha coinvolto Facebook. Si tratta di un tema molto attinente agli interessi della categoria che lei rappresenta, quello dei diritti. Era un approdo inevitabile. I social sono diventati un fine, uno scopo e non uno strumento. Si tratta dell’affare del secolo, pochissimi soggetti, e ricordo che siamo di fronte al più grande oligopolio della storia, gestiscono un affare economico di gran lunga superiore a quello del petrolio. Era chiaro che i dati sarebbero stati utilizzati in maniera più o meno lecita. A mio avviso dobbiamo recuperare la capacità di costituire comunità e solidarietà reali rispetto a quelle virtuali. Il social è un mezzo e tale deve rimanere. Con gli strumenti normativi fino a che punto è possibile proteggere il cittadino da se stesso, considerato che in realtà siamo noi che ci consegniamo a questi strumento? Gli strumenti normativi possono arrivare fino a un certo punto, anche perché si tratta di realtà globali, internazionali anche difficili da individuare. Entrano in campo diverse problematiche legate alla competenza, alle giurisdizioni. Credo che, al di là delle norme, si tratti di una questione culturale: soprattutto i giovani, gli studenti, devono comprendere che non si tratta di praterie senza regole dove si può dire ciò che si vuole, dove si possono mandare in onda filmati in maniera indiscriminata. Si tratta di uno strumento che merita grande attenzione e su cui occorre fare cultura. Noi col progetto Alternanza scuola- lavoro, insieme al ministero dell’Istruzione, lo stiamo facendo. Passiamo alla riforma dell’ordinamento penitenziario, varata dal governo pochi giorni fa. Ci aiuta a capirla? Le dico qualcosa che forse la sorprenderà: questa riforma probabilmente renderà più rigorosa l’applicazione delle misure alternative al carcere. È vero che viene ampliato un po’ l’esercizio della discrezione del giudice ma vengono fissati anche tanti paletti e viene affermato il principio della personalizzazione della misura. Sarà in realtà più difficile ottenerla perché l’asticella è stata elevata, ma con un indirizzo corretto che è quello di riconoscere alla pena non solamente l’aspetto afflittivo e retributivo, che ovviamente è corretto che ci sia, ma an- che quello dell’attenzione al recupero del reo. Questi strumenti non fanno altro che applicare in parte le decisioni della Corte costituzionale, in parte le decisioni della Corte europea dei Diritti dell’uomo, ma soprattutto vanno anche verso una idea di pena riparatoria, ossia si valorizza sempre più la riparazione attraverso attività a favore della vittima o della comunità, come i lavori socialmente utili. Alcune categorie di detenuti restano esclusi, i condannati per mafia e terrorismo, per esempio? Certo, su questo non ci sono equivoci. Che significa semilibertà e affidamento in prova? Ottenere l’affidamento in prova significa poter scontare la pena, peraltro a condizione che sia contenuta nei 4 anni, fuori dal carcere attraverso dei lavori esterni, con una attività possibilmente risarcitoria del danno e con modalità tali da poter anche imparare un mestiere, quindi in modo da reintrodurre attivamente il soggetto nella società. La semilibertà, invece, prevede sostanzialmente il rientro nel carcere per le ore notturne, compiendo una attività lavorativa all’esterno. Inutile negare che in questo momento spira un vento contrario ai principi ispiratori di questa riforma, se pensiamo ad esempio alla posizione di Matteo Salvini. Come avvocatura che valutazioni esprimete? A parte il rispetto della Costituzione, esiste un aspetto molto più pragmatico: le statistiche del ministero ci dicono che il 70% di coloro che scontano la pena in carcere tornano a delinquere, sono recidivi. Tra quelli che sono ammessi a misure di recupero e alternative, il torna a delinquere il 19%, una quota molto inferiore. E addirittura, tra quelli che vengono pienamente reinseriti nel mondo produttivo solo l’ 1% torna a commettere reati. Quindi si tratta di strumenti che favoriscono la sicurezza. La giustizia ripartiva va a beneficio sia del reo che della collettività? Non solo aumenta il tasso di sicurezza, come evidenziato anche in altri Paesi, ma poi c’è un altro aspetto importante: lo Stato e noi cittadini risparmiamo, perché il soggetto passivo in carcere lo manteniamo tutti noi, il soggetto attivo permette un risparmio per quel che riguarda la detenzione in carcere, e il recupero di forze produttive anche nell’interesse dell’economia del nostro Paese. Nella riforma sono previste anche maggiori attività di svago, di lavoro, di studio, anche la detenzione vicino casa nei limiti del possibile. Ma anche l’uso del computer, della posta elettronica, di Skype. Hanno fatto scalpore le immagini della cella di Anders Behring Breivik, l’attentatore artefice della strage di Utoya, che in Norvegia è detenuto in una cella confortevole. La privazione della libertà è già una pena di per sé importantissima e pesantissima. Se noi stiamo qualche giorno in casa perché malati e non possiamo uscire soffriamo questa costrizione. Quindi la privazione della libertà è la pena massima. I principi umani e umanistici e comunque di tutte le Carte fondamentali, in cui è prevista la privazione della libertà per espiare la propria colpa, prevedono però che il reo debba essere messo nelle condizioni di vivere dignitosamente. Paesi che se lo possono permettere forniscono strutture di questo genere, da noi invece la situazione dell’edilizia carceraria è molto precaria. Riforma delle intercettazioni: “fermatela o sarà caos” di Errico Novi Il Dubbio, 24 marzo 2018 L’appello di magistrati e penalisti. Ci fosse un punto solo, vabbè: si fa un decreto e si corregge. Ma qui è l’impianto, anzi la stessa possibilità di attuare le norme, che vacilla. Il decreto intercettazioni, varato a fine dicembre e destinato a entrare in vigore dal prossimo 12 luglio, è una mina vagante. Lo si capisce grazie all’Unione Camere penali italiane, che organizza uno straordinario dibattito a Roma, in Corte d’appello, tra avvocatura e magistrati. O più precisamente tra i penalisti, venuti da ogni parte d’Italia, e il meglio della magistratura inquirente italiana. Ci sono tutti, sarebbe il caso di dire: i capi degli uffici che hanno promosso il famoso coordinamento dei “superpm”, dal quasi padrone di casa Giuseppe Pignatone al procuratore di Torino Armando Spataro, e c’è il vertice dell’Anm Eugenio Albamonte, al suo ultimo giorno di presidenza e non a caso a sua volta pubblico ministero. Tre nodi almeno: la gestione dei flussi di dati dai server delle società private al celebre archivio segreto delle intercettazioni; l’incredibile situazione in cui si troveranno i difensori, costretti ad ascoltare migliaia di ore di telefonate senza poter estrarre copia, se non alle soglie della richiesta di rinvio a giudizio; e, ad aggravare il vulnus precedente, la norma del decreto che imporrebbe alla polizia giudiziaria di annotare quanto meno in modo sommario il contenuto delle conversazioni ritenute irrilevanti, e dunque non trascritte, norma però dall’incerta interpretazione per via di quanto indicato nella relazione tecnica. Mette tutto insieme, shakerate bene e otterrete l’appello, misurato, rivolto da Albamonte a fine giornata: “Credo che il messaggio da inoltrare al legislatore, che purtroppo non sappiamo ancora che nome avrà, sia il seguente: meglio un rinvio. Una proroga. Il 12 luglio 2018 è praticamente domani. Non ce la faremo mai”. Il padrone di casa Beniamino Migliucci, presidente dell’Ucpi, va meno per il sottile: “Io dico che è una riforma barbara, che il legislatore dovrebbe vergognarsi di averla disegnata e che ne solleveremo l’incostituzionalità”. Ecco, parole dure. Ma non si scatena un putiferio. Non c’è l’insurrezione dei pm. Neppure di quelli che, nel dibattito, si sono chiamati un po’ fuori dal coro e non hanno stroncato le nuove norme: il capo della Procura di Napoli Giovanni Melillo e gli stessi Spataro e Pignatone. E infatti il dato della giornata sta sì nel messaggio di allarme, ma anche nella condivisione tra i due attori del processo: Camere penali e magistratura sono in sintonia, si trovano d’accordo, segnalano insieme lo stesso rischio, la “compressione del diritto di difesa”, appunto. Vari momenti topici rimandano a tale convergenza “politica”: “Non è che ci siamo svegliati improvvisamente tutti garantisti, noi cattivissimi pm: ma qui si tratta del rispetto dei diritti costituzionali”, dice Franco Lo Voi, procuratore di Palermo e protagonista di uno degli interventi più applauditi, innanzitutto dagli avvocati. Ecco, l’altro tratto è dunque nella sintonia. Albamonte, com’è giusto, se ne attribuisce il merito: “Non prendetela per una scivolata autocelebrativa, ma mi pare oggi si realizzi al meglio l’idea che ho seguito da quando, un anno fa, ho assunto la presidenza dell’Anm: uscire dai nostri fortini, noi magistrati e voi avvocati, per incontrarci e offrire proposte comuni alla politica nell’interesse dei cittadini”. Non a caso Albamonte è stato il primo leader del “sindacato dei giudici” a partecipare a un plenum del Consiglio nazionale forense. E in quell’occasione la sinergia fu messa per la prima volta a sistema. Nel merito, come detto, c’è un problema di “sicurezza”, toccato con scientifica precisione da Melillo: “Manca ancora il decreto indispensabile: dovrà rendere uniformi i protocolli per trasmettere il materiale dai server delle aziende che forniscono il supporto tecnologico per le Procure, agli archivi riservati custoditi nelle Procure stesse. I software oggi disponibili non impediscono che quelle aziende acquisiscano da remoto i dati a disposizione degli uffici”. Conclusione: “Al 12 luglio non è assolutamente possibile il determinarsi delle condizioni necessarie di cui parlo”. Altra cosa notevole ricordata da Melillo, che da capo di gabinetto di Via Arenula ha avuto una parte non marginale nella elaborazione inziale delle nuove norme, è il seguente pro memoria: “Le intercettazioni non sono fatte per finire sui giornali”. Lo ricorda anche Spataro: “La tutela della riservatezza a cui si ispira il decreto era alla base delle circolari che alcuni di noi procuratori diffusero già nel 2015: ebbene, qualche giornale ci accusò di incidere sul diritto a informare. Ma i magistrati non possono ordinare intercettazioni per farle conoscere alla stampa...”. Curioso come parte dei media si ostini a trascurare il dettaglio. Il cuore del problema resta però il diritto di difesa compresso da un micidiale combinato disposto: da una parte quella che la presidente della Camera penale di Milano Monica Gambirasio definisce “l’impossibilità di estrarre copia delle intercettazioni ritenute irrilevanti o non utilizzabili”, a cui, nota, “si aggiunge il nodo dei cosiddetti brogliacci muti”. Non sono cose da poco e soprattutto non sono nuove. In una lettera alle commissioni Giustizia la segnalarono, a dicembre, i procuratori presenti ieri, seguiti a stretto giro dalle Camere penali dei loro distretti. L’accordo sul tema viene da lì, come ricorda anche Pignatone. L’espressione “brogliacci muti”, ricorda il presidente dei penalisti di Torino Roberto Trinchero, “riguarda appunto i verbali in cui le comunicazioni non trascritte vengono annotate solo in relazione a dispositivi intercettati, data e ora: in questo modo è la polizia giudiziaria a operare un filtro decisivo. E può farlo a discapito della difesa per una fisiologica, non dolosa, propensione a ritenere rilevante solo ciò che è funzionale a sostenere l’accusa”. È uno dei temi che complicano tutto, anche perché su questo ci sono interpretazioni diverse, come detto: Spataro ritiene che l’annotazione della polizia sia utile perché rivolta a pm il cui approccio “non può essere considerato di ottusa passività”. Il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo è più incerto: “L’effettiva conoscibilità del materiale raccolto è la scommessa a cui siano sospesi”. Nella relazione tecnica che accompagna il decreto, le annotazioni sommarie sui brani non trascritti sono ritenute necessarie solo in caso di dubbi sull’irrilevanza. “E poi”, nota il presidente della Camera penale di Palermo Vincenzo Zummo, “siamo noi a dare per scontato che quei brogliacci sarebbero accessibili alla difesa, ma non è scritto esplicitamente”. E già. Ed è per l’insieme dei pregiudizi che Migliucci parla di “mortificazione: come se fossimo noi avvocati a costituire il pericolo, a dare alla stampa le intercettazioni”. Perciò “solleveremo la questione di costituzionalità delle norme, e da oggi so che voi pm non sarete contrari”. E no, visto il clima di ieri. Intercettazioni: prove di riconciliazione tra procure e avvocati di Cataldo Intrieri L’Opinione, 24 marzo 2018 “Io non ho mai visto un pm cercare prove per un indagato”. La frase di Armando Veneto, presidente del Consiglio delle Camere penali italiane e indomito combattente di cento battaglie suona secca nell’aula del convegno gremita per assistere a una sorta di cerimonia di riconciliazione tra procure e avvocati in nome dei comuni interessi contro una riforma delle intercettazioni con cui il ministro Andrea Orlando ha scontentato entrambi. L’insolita convergenza è nata dalla constatazione che le critiche mosse dai procuratori di Milano, Roma, Napoli, Palermo e Firenze avevano punti in comune con quelle indirizzate dai penalisti dell’Unione Camere Penali alle Commissioni Giustizia di Camera e Senato. Narrano le cronache che le prime “avance” le abbiano fatte Giuseppe Pignatone e i suoi colleghi ai propri omologhi delle rispettive Camere penali, ma c’è da dire che questi non si sono fatti pregare e hanno risposto, si spera non sventuratamente. Il fronte comune si è saldato su un punto in particolare: la delega “in bianco” che la legge dà alla polizia giudiziaria (tra cui i corpi speciali come Ros e i Noe da cui proviene il famoso maggiore Giampaolo Scafarto, l’ufficiale dei carabinieri accusato giustappunto di aver falsificato le trascrizioni nella vicenda Consip) sulla selezione delle intercettazioni da poter poi utilizzare come prova dell’accusa. “Non ho mai visto un pm cercare prove per un indagato”, forse al vecchio lupo (di tante battaglie beninteso) deve essere suonata strana questa fioritura inaspettata di garantismo fuori stagione, quando il futuro politico sembra improntato a furiose grandinate giustizialiste. Lui ha conosciuto e praticato il garantismo, ma ha visto da vicino pure Antonio Di Pietro per cui, diciamo, il fiuto non gli manca. E la risposta irritata di uno dei padroni di casa (“se Veneto non ha visto deve essere stato molto sfortunato”), il procuratore di Roma Pignatone, promotore dell’iniziativa insieme al presidente dei penalisti romani Cesare Placanica, ha evocato senza pronunciarne il nome “l’incidente Scafarto-Woodcock”, quello strano intreccio di brogliacci modificati e fiducia mal riposta, che la sua procura ha spezzato, ma che tanti interrogativi ha lasciato sospesi in aria. Eppure il rischio corso deve aver fatto suonare un campanello d’allarme: per un (presunto) inganno sventato quanti altri ne possono occorrere? E se succede e non ci se ne accorge? Si potrà sempre contare come Woodcock su colleghi scrupolosi e accurati che hanno sollecitamente fugato i dubbi? Che l’assillo sia quello lo si è intuito dall’intervento del Procuratore di Torino Armando Spataro, che a sorpresa ha dichiarato essere un falso problema quello del rischio legato agli errori della polizia giudiziaria, ostentando assoluta fiducia, tra lo stupore di chi gli ha ricordato di aver firmato con gli altri colleghi un documento che sosteneva il contrario. Come noto spesso le rassicurazioni celano timori nascosti e forse a qualcuno certe preoccupazioni possono essere sembrate un modo di mettere le mani avanti e tirarsi fuori da inconvenienti e disagi che sicuramente si manifesteranno. Da studiare certamente la proposta del procuratore di Napoli, Giovanni Melillo, su uno dei punti più dolenti, il divieto di estrarre copie delle intercettazioni dichiarate irrilevanti a scelta insindacabile degli agenti all’ascolto, di ricorrere a software che consentano ai difensori di poter accedere all’archivio riservato. Infine, le intercettazioni dei colloqui del difensore: a voler essere maliziosi dietro i sorrisi si poteva intuire un vago disagio, un non detto trattenuto, la constatazione di qualche assenza importante in platea. I penalisti si dicono soddisfatti per aver fatto cancellare dalla legge la norma che consentiva l’annotazione delle intercettazioni tra difensore e assistito. Una buona cosa, ma se a fronte di ciò si dovesse constatare un “allargamento” del rilievo penale delle condotte del difensore, la criminalizzazione di inadempienze e disinvolture tuttalpiù rilevanti in sede disciplinare, il saldo non sarebbe attivo per il diritto di difesa. L’occasione e il bon ton ostentato escludevano ogni focolaio di tensione. Ma per certe cose non dette si troveranno altre occasioni. Altro che Zucca, il problema è la tortura di Alessandro Mantovani Il Fatto Quotidiano, 24 marzo 2018 Il pm della Diaz sotto accusa. La ferita del G8 di Genova è ancora aperta e i diritti umani restano al di sotto degli standard europei. Il problema è Enrico Zucca, il pm del processo Diaz che spesso parla in modo urticante, o piuttosto non si riesce a sciogliere il nodo della tortura? Zucca è additato alla pubblica esecrazione e rischia un processo disciplinare al Csm per aver detto che l’Italia ha difficoltà a farsi consegnare dall’Egitto i torturatori di Giulio Regeni anche perché le nostre forze di polizia “non hanno consegnato nessuno dei torturatori” del G8 di Genova 2001, anzi “quelli che hanno coperto i torturatori erano e sono i vertici, o ai vertici, delle forze di polizia”. Uno dei primi ad attaccarlo è stato Franco Gabrielli, l’attuale capo della polizia, che con il G8 di Genova non c’entra e un anno fa aveva chiesto scusa per la Diaz, aveva reso onore allo stesso Zucca e aveva detto che Gianni De Gennaro, il capo della polizia dell’epoca, avrebbe fatto bene a dimettersi, suscitando forti malumori interni. Eppure Zucca ha le sue ragioni. Il riferimento immediato, ancorché implicito, era a Gilberto Caldarozzi, uno dei dirigenti condannati per falso nel processo Diaz e ritenuto non meritevole di affidamento in prova al servizio sociale, ora reintegrato e nominato vicedirettore della Direzione investigativa antimafia (Dia). Il punto è che la Corte europea dei diritti umani ha qualificato i fatti della Diaz come tortura e, nel processo, è emerso che le molotov e gli altri falsi dei verbali probabilmente servivano anche a coprire le violenze. Ma la questione va ben oltre Caldarozzi, che peraltro ha pagato più di altri mentre De Gennaro è tuttora capo di Leonardo/Finmeccanica. “Non ci hanno consegnato nessun torturatore” non è una battuta infelice ma la sintesi di quanto è accaduto per la Diaz e per tutti i fatti in cui le forze dell’ordine, il 20 e del 21 luglio 2001, agirono in spregio dei diritti costituzionali. I vertici, operativi e politici, coprirono tutto. Non hanno consegnato nemmeno il quattordicesimo firmatario dei falsi verbali della Diaz, un caso limite di ufficiale di polizia giudiziaria anonimo grazie a una firma illeggibile. Molti imputati sono stati promossi. Non c’è stato un solo procedimento disciplinare serio, un allontanamento, una destituzione (come invece può avvenire quando un poliziotto o un carabiniere vengono beccati con uno spinello). Vale per la polizia e anche per i carabinieri e la penitenziaria di Bolzaneto. Del resto perfino la Procura genovese fu in parte complice della mattanza: basti pensare al differimento preventivo dei colloqui con gli avvocati senza il quale non sarebbe stato possibile l’inferno di Bolzaneto o allo scarso sostegno dei capi all’azione di Zucca e di altri pm. Non si può dire che la magistratura italiana fece sentire il suo peso. E oggi il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini attacca Zucca ancora prima di Gabrielli e il leader dell’Anm Eugenio Albamonte ne censura la presunta “animosità”. Fu innanzitutto la politica - il governo Berlusconi ma anche i vertici Ds dell’epoca - a rendere possibile e a coprire, se non a ordinare, le violenze di Genova 2001, la repressione feroce di un movimento che contestava e ridicolizzava i vertici internazionali in cui si celebravano la globalizzazione e quello che allora si chiamava “pensiero unico”. Altre responsabilità le porta l’informazione che tesseva le lodi dei superpoliziotti piazzati da De Gennaro nei posti chiave e pizzicati col sacchetto delle molotov nel cortile della Diaz. Erano entrati nella scuola pochi minuti dopo l’inizio della mattanza, ma i torturatori sono rimasti senza nome. L’Italia non è l’Egitto, come ha ovviamente sottolineato Zucca, per quanto siano avvenuti negli anni 70 e 80 fatti gravissimi di tortura ai danni di terroristi e presunti tali. Dopo Genova tante cose sono cambiate in materia di ordine pubblico e con Gabrielli, l’abbiamo visto, chi sbaglia paga. Ma nelle forze di polizia ci sono ancora sacche di autoritarismo fascistoide, impreparazione e scarso rispetto delle procedure. La magistratura è spesso disattenta, come ha dimostrato anche il caso di Stefano Cucchi: otto anni per iniziare il processo ai carabinieri. E il Parlamento uscente ha approvato una legge sulla tortura che non risponde ai principi della Corte di Strasburgo: non sarebbe applicabile neanche alla Diaz, a Bolzaneto o al caso Cucchi perché richiede comportamenti reiterati; non prevede la destituzione dei condannati. L’Europa va bene quando chiede tagli alla spesa pubblica, ma sui diritti umani e civili si fa come se non esistesse. Femminicidi, il Piano antiviolenza è bloccato La Repubblica, 24 marzo 2018 Le associazioni delle donne e i sindacati chiedono al governo di rendere disponibili i fondi già stanziati con la legge di stabilità. “Grave inadempienza anche di fronte alla ratifica della Convenzione di Istanbul”. Il piano antiviolenza si è fermato, la barbarie sulle donne no. I sindacati, le associazioni delle donne, gli operatori che ogni giorno cercano di dare sostegno alle donne vittime della violenza oggi richiamano la politica alle sue responsabilità. Dall’inizio dell’anno a oggi sono stati già 24 i femminicidi, con una drammatica impennata nelle ultime settimane, quando si è dovuta contare una donna uccisa ogni 24 ore. Di fronte a tale emergenza, però, il Piano strategico per la lotta alla violenza maschile sulle donne rimane senza attuazione. “Lo scorso 25 novembre i giornali titolavano “Via libera al Piano antiviolenza” - scrivono in un comunicato congiunto Cgil, Cisl, Uil, Associazione Nazionale dei Centri Antiviolenza D.i.Re, Associazione Nazionale Volontarie del Telefono Rosa - Onlus, Udi Nazionale, Pangea, Rete per la Parità - A distanza di 4 mesi, con un femminicidio ogni due giorni, quel Piano, frutto di un lungo confronto tra società civile, varie associazioni di donne, sindacati, ministeri e istituzioni, e che porta con sé la novità di un intervento finalmente strutturale sul tema, non è però ancora operativo”. Il Piano strategico del governo per la lotta alla violenza maschile sulle donne adottato dal Governo per il triennio 2017- 2020, è stato approvato in Conferenza Stato-Regioni e coperto anche con un finanziamento previsto dalla legge di stabilità, ma al momento i fondi non vengono erogati. Benché limitati, i soldi del piano sono essenziali soprattutto per sostenere i centri antiviolenza, unico baluardo per aiutare le donne che denunciano. “Al Governo e al Parlamento chiediamo dunque di renderlo immediatamente operativo - dice il comunicato delle associazioni - predisponendo le risorse economiche dedicate e rendendole immediatamente esigibili per la sua attuazione. Perché in una situazione drammatica come quella italiana, dove molto si dice e poco si riesce a fare per contrastare concretamente la disparità di potere tra uomini e donne, alla radice del fenomeno della violenza, attendere ulteriormente è un fatto gravissimo”. Le associazioni ricordano inoltre che all’attuazione del Piano lo Stato italiano è tenuto anche visti gli impegni presi ratificando la Convenzione di Istanbul. “Le donne non devono ancora subire violenze in attesa che tutti facciano quando dovuto e prescritto dal piano e che le azioni discusse e condivise trovino attuazione”, conclude il comunicato. Reati digitali, una babele di norme. La rincorsa della legge tra privacy e abusi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 24 marzo 2018 A suo modo un caso esemplare di come il diritto si trova sempre più spesso a rincorrere l’evoluzione del costume, anche di quello criminale a dire la verità. La vicenda Facebook, con la sottrazione di milioni di dati personali e il possibile impatto sulle ultime elezioni americane, rilancia l’(eterna) discussione sull’adeguatezza delle norme a fenomeni sociali sempre più sfuggenti. Con la necessaria specificità del diritto penale a richiedere il massimo grado di tassatività, direbbe il giurista, di precisione diremmo tutti, vista la rilevanza dei diritti in gioco. Nel caso specifico, a diritto vigente, si può ipotizzare una serie di misure applicabili. Sul piano generale, il primo riferimento, obbligato, è al Codice della privacy e alle due disposizioni oggetto dell’esposto del Codacons alla Procura di Roma, che ha aperto un fascicolo contro ignoti. L’articolo 167 del Codice sanziona infatti il trattamento illecito di dati, con una reclusione che può andare da un minimo di 6 mesi a un massimo di 3 anni. Nel mirino una pluralità di condotte tutte accomunate dalla violazione delle misure a tutela della riservatezza dei dati personali, con l’obiettivo di trarne un profitto, producendo una danno alle persone interessate. E con l’arresto fino a 2 anni è punito il detentore di dati personali che non adotta le misure minime di sicurezza; tuttavia in questo caso il garante della privacy può concedere un periodo di tempo massimo di 6 mesi per mettersi in regola. Poi, per una valutazione del ventaglio delle misure repressive che possono essere utilizzate dall’autorità giudiziale, il riferimento è ai due contesti nei quali più gravi possono apparire le conseguenze della sottrazione dati, almeno per come appare dalle cronache di queste ore, la possibile alterazione del consenso elettorale e quella dell’informazione degli investitori. Sul primo punto, a dovere essere considerato è il Codice penale e il reato di attentato contro i diritti politici del cittadino che punisce con una pena fino a 5 anni di carcere chi, anche con “inganno”, impedisce in tutto o in parte l’esercizio di un diritto politico oppure ne determina un esercizio in maniera difforme dalla volontà. E quale diritto politico più esemplare di quello di voto? Sul secondo, naturalmente, la bussola è rappresentata dal Tuf e dalla norma a contrasto della manipolazione del mercato, dove il riferimento è a un’altra nozione per molti versi paragonabile, quanto a scivolosità giuridica (a riprova delle difficoltà anche del diritto penale a circostanziare sempre con precisione le condotte rilevanti), all’”inganno”, quella degli “altri artifizi”, idonei a provocare una “sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari”. La sanzione è sia di natura pecuniaria, con una multa fino a 5 milioni di euro sia detentiva con l’arresto sino a 3 anni, oltre all’obbligatorietà della confisca del profitto dell’illecito. Fatto salvo naturalmente il ruolo della Consob che, sul piano amministrativo, può comunque intervenire con elevatissime misure pecuniarie. Insomma, l’arsenale a disposizione delle Procure, sia pure con qualche forzatura, esiste. Certo a sovrapporsi può essere, con esiti non sempre felicissimi, l’attività repressiva di più soggetti. Caporalato. I nuovi “drogati” dell’Agro Pontino di Marco Omizzolo La Repubblica, 24 marzo 2018 “Il padrone italiano ci sfrutta - dichiara T. Singh, bracciante indiano impiegato in un’importante cooperativa agricola in provincia di Latina - noi braccianti indiani siamo obbligati a lavorare 14 ore al giorno piegati o inginocchiati a raccogliere ravanelli o pomodori tutti i giorni del mese per pochi euro. Il padrone ci ordina di lavorare sempre, anche la domenica per mezza giornata e il caporale indiano ci chiama via sms e ci dice che se vogliamo continuare a lavorare dobbiamo obbedire. Così, a causa dello sfruttamento, alcuni di noi assumono sostanze dopanti per sopportare la fatiche imposte. È una piccola sostanza che serve per non sentire dolore, tipo oppio, o meglio semi di bulbi di papavero essiccati che prendono prima di andare a lavorare o la sera per addormentarsi per non sentire i dolori muscolari e riuscire a riposare. A volte l’assumono durante le pause di lavoro con il chai, la nostra bevanda tipica. Il padrone sa tutto e gli sta bene, così i lavoratori sentono meno fatica e lavorano di più”. Questa è una delle diverse interviste raccolte da In Migrazione per il dossier “Doparsi per lavorare come schiavi” che nel 2014 ha denunciato l’utilizzo indotto da parte di alcuni braccianti indiani in provincia di Latina di sostanza dopanti come oppio, metanfetamine e antispastici allo scopo di sopportare le fatiche psico-fisiche alle quali ogni giorno sono obbligati. Una condizione estrema che è interna ad un sistema di sfruttamento, pienamente capitalistico, governato da caporali e trafficanti ma soprattutto da alcuni imprenditori agricoli, dalle logiche imposte dalla grande distribuzione organizzata e dalle mafie che condizionano l’intera filiera agricola nazionale. Andreotti, presidente di “In Migrazione” afferma che “si tratta di una declinazione drammatica dello sfruttamento lavorativo dei braccianti indiani che sta continuano con un’evoluzione che è sottovalutata e che ci preoccupa. La sua espansione dentro la comunità indiana e non solo, ad esempio, sta generando un’economia criminale che consolida la formazione di una criminalità indiana, secondo noi in formazione e ancora non emersa completamente”. Un’analisi che si sposa con quella dell’ultimo rapporto Agromafie di Eurispes e Coldiretti secondo la quale “si tratta di lavoratori migranti costretti a doparsi per reggere un carico di lavoro che non può diminuire”, fenomeno che si aggiunge al quotidiano sfruttamento condotto in diverse cooperative agricole pontine come nel caso, citato ancora dal dossier Eurispes e Coldiretti, “della coop. Centro Lazio, in provincia di Latina, oggetto di un’importante ispezione da parte della Commissione parlamentare d’inchiesta sugli infortuni sul lavoro del Senato, presieduta dalla senatrice Camilla Fabbri. È avvenuta il 23 maggio 2016, organizzata insieme al comando provinciale dei Carabinieri e al Noe. Durante l’ispezione è stato trovato un caporale indiano operante all’interno dell’azienda (e successivamente per questo arrestat), capace di gestire direttamente e in modo illecito più di 100 braccianti indiani e, nel contempo, di determinare un clima di paura per le possibili ritorsioni nei loro riguardi in caso di proteste. minacce di licenziamento, ritmi di lavoro di circa 12 ore al giorno per sei giorni e mezzo alla settimana e il cartellino da timbrare, con tanto di caposquadra all’ingresso del campo pronto a registrare l’orario. Le macchinette sono state riscontrate manomesse in modo da cancellare le date ogni due giorni. Le forze dell’ordine locali hanno arrestato varie volte diversi spacciatori indiani e sequestrato alcuni quintali di bulbi di papavero essiccati, pronti per essere venduti nelle campagne pontine e nei piccoli centri di residenza della comunità indiana. J. Singh, ancora per il dossier di In Migrazione, è molto chiaro: “Sono contento quando i carabinieri arrestano alcuni indiani in possesso delle sostanze dopanti. Sono sostanze pericolose che non vengono prodotte dagli indiani ma da italiani che usano gli indiani come spacciatori. Alcuni braccianti indiani le prendono per non sentire la fatica nei campi. Conosco amici che le assumono la mattina prima di partire in bicicletta per andare in campagna e poi nel pomeriggio per resistere alle dieci o quattordici ore di lavoro. Poi però stanno male. Molti tornano dal lavoro in bicicletta e se hanno assunto troppe sostanze rischiano di sbandare e di venire investiti dalle auto”. Sembra di vivere un altro tempo e un’altra società ed invece ci troviamo ad appena cento chilometri da Roma, capitale di un Paese tra le principali potenze economiche del mondo. Si tratta di capitalismo criminale e mafioso. Gurmukh Singh, capo della comunità indiana del Lazio, non ha dubbi: “Questi ragazzi prendono l’oppio perché non hanno altre soluzioni per sopportare lo sfruttamento nelle campagne. I controlli sono pochissimi, i ragazzi non possono perdere il lavoro e per questo dicono sempre si al padrone e al caporale. Conosco alcuni braccianti indiani che lavorano tutti i giorni del mese da almeno due anni senza neanche una settimana di riposo. Questa non è vita e alcuni di loro decidono di prendere oppio o anche eroina, che viene comprata a Napoli”. Lo conferma anche Andreotti, secondo il quale “da poche decine di casi riscontrati da noi nel 2014 d’uso di piccole sostanze dopanti, siamo arrivati all’assunzione di eroina da parte di alcuni braccianti indiani. La morte di alcuni di loro per overdose nelle campagne del Sud Pontino lo dimostra. Abbiamo seguito diversi casi e si tratta sempre di braccianti gravemente sfruttati e, dunque, particolarmente fragili, che dopo aver assunto sostanze dopanti sono passati all’eroina. Se ne contano almeno una decina nel corso degli ultimi tre anni. Si deve iniziare a ragionare di progetti sociali e sanitari specifici di contrasto a questo fenomeno”. Il grave sfruttamento lavorativo dei braccianti indiani pontini si sta unendo al sistema dello spaccio di eroina campano in mano alla camorra. Un business che sta consolidando presenze e interessi mafiosi radicati da tempo nel pontino. Esistono infatti corrieri, spesso indiani, che vanno nelle piazze dello spaccio a Castel Volturno o a Napoli per acquistare dalla camorra locale l’eroina che poi rivendono ai loro connazionali braccianti nel pontino. Le autorità sono state avvertite ma non si sono preoccupate per tempo di affrontare il problema. Intanto le mafie allargano la loro rete, si radicano ancor più nelle campagne, traggono giovamento dallo sfruttamento. Gurmukh va però oltre e racconta di suicidi per sfruttamento, povertà e dipendenza dal doping. Si resta senza parola nell’ascoltarlo. “Alcuni braccianti - afferma - se non muoiono d’overdose precipitano in una condizione di tale emarginazione e sfruttamento che decidono di suicidarsi, considerando questa opzione l’unica perseguibile. Può volte sono stato chiamato per riconoscere il cadavere e darne comunicazione alla famiglia”. Nel corso degli ultimi ventiquattro mesi 10 braccianti indiani si sono uccisi e, guarda caso, le modalità sono sempre le stesse. Si suicidano infatti impiccandosi nelle serre pontine. Luogo e modalità non casuali. L’impiccagione è il suicidio dei disperati, di chi si sente in trappola e dunque senza via d’uscita, dei prigionieri o dei reclusi condannati “al fine pena mai”. E le serre sono le loro carceri, il loro inferno. Peraltro spesso, secondo un copione noto a tutti, vengono considerati dei pazzi, delle persone in crisi depressiva, anche da alcuni loro connazionali. E invece sono solo i più fragili tra i fragili, i più sfruttati tra gli sfruttati. È accaduto a Fondi, nel Sud Pontino, ma anche a Sabaudia e Terracina diverse volte. Le azioni delle forze dell’ordine, per quanto lodevoli, sono solo repressive e non preventive. Per la prevenzione ci vorrebbe la politica, quella seria. Politica totalmente assente, purtroppo. Basti pensare che tutti gli ultimi bandi europei, nazionali, regionali e locali, per il pontino, non hanno previsto linee di finanziamento per progetti contro lo sfruttamento lavorativo, le dipendenze, il caporalato. Segno di un’indifferenza colpevole ed irresponsabile. Intanto ogni giorno in provincia di Latina i braccianti indiani, per sopportare le fatiche nei campi, prendono metanfetamine, oppio e antispastici, per lavorare come schiavi e arricchire i padroni e le mafie. Altri, invece, stanno assumendo eroina e altri ancora invece pensano al suicidio. Ma sono solo indiani, solo braccianti e solo dei pazzi. La pistola Taser alle Forze dell’Ordine italiane. Come funziona? di Paolo Magliocco La Stampa, 24 marzo 2018 La pistola Taser verrà sperimentata anche in Italia dalle forze di polizia. È un’arma che, secondo i produttori, stordisce senza uccidere, anzi è indicata come un dispositivo in grado di ridurre le lesioni. Il suo funzionamento si basa sul rilascio di una scarica elettrica attraverso due piccole freccette sparate fino a otto metri di distanza. Siccome il corpo umano è un buon conduttore di corrente elettrica, il contatto con entrambe le freccette chiude il circuito e fa passare l’elettricità. La scarica è ad altissimo voltaggio, circa 50.000 volt, ma con una bassissima intensità, pari a pochi milliampere. Il voltaggio misura la differenza di potenziale e di solito viene descritto per analogia come se fosse la pressione in un tubo dell’acqua. L’intensità, invece, è la quantità di cariche elettriche che passano, come se fosse la quantità d’acqua che passa in un tubo. Con la Taser, dunque, si ha una scarica elettrica che è come un getto d’acqua ad altissima pressione, ma che trasporta quantità minime d’acqua. La scarica è fatta di brevi impulsi, 50 o 60 al secondo, per circa 5 secondi. Inoltre la corrente continua, come quella generata dal Taser, ha effetti inferiori sul corpo umano. Secondo la relazione dell’Ufficio federale di giustizia della Confederazione Elvetica, quando si preme il grilletto si generano impulsi elettrici di circa 100 microsecondi che provocano picchi di tensione pari a 900 volt e picchi d’intensità di 3,3 ampere nel corpo. Questa intensità è sufficiente a provocare contrazione dei muscoli e dolore e a stordire la persona colpita, interferendo con i segnali elettrici del nostro corpo. Il numero di muscoli e di nervi colpiti dipende dalla distanza tra le frecce. I timori più forti nell’uso di questo dispositivo sono legati all’interferenza della corrente elettrica con la contrazione del cuore, che avviene pure attraverso impulsi elettrici. La sovrapposizione di impulsi diversi potrebbe provocare fibrillazione e scompenso. Secondo la relazione svizzera non esistono seri rischi nel suo utilizzo. Il magazine degli studenti della New York University riporta un esperimento condotto dal Dipartimento di emergenza dello Hennepin County Medical Center di Minneapolis in cui 34 persone sarebbero state sottoposte a scariche per 15 secondi senza subire conseguenze. Secondo un rapporto di Amnesty International del 2012, 500 persone sarebbero morte per l’uso di questa arma nei dieci anni precedenti negli Stati Uniti. Campania: settemila detenuti dimenticati di Samuele Ciambriello* La Repubblica, 24 marzo 2018 Come liberare? Come aiutare a liberarsi? Come superare la necessità del carcere, in che modo possiamo, insieme, costruire un percorso comune, non solo nella nostra comunità, ma nella società intera che sempre più invoca il carcere per ogni forma di problema sociale? Chiunque di noi abbia avuto esperienza diretta a contatto con le persone detenute sa quanto sia fondamentale le costruzione di una relazione autentica e di ascolto che non può essere delegata alle figure istituzionali, perché nulla può sostituire il legame che si crea nel dialogo tra persone diversamente libere e nell’esercizio della funzione pastorale, educativa, di volontariato o di controllo della magistratura. Perché torna il carcere? Perché i dati indicano che dopo cinque anni in cui avevamo assistito a una lieve, ma progressiva, riduzione dei numeri della popolazione detenuta si registra una inversione di rotta. Siamo tornati a registrare 58.000 presenze, se ne contavano 55.00 nell’ottobre del 2016. In Campania su una capienza di 6157 posti, ospitiamo 7195 persone, di cui 329 donne. I detenuti stranieri sono 948, pari al 12% della popolazione detenuta. Per quanto riguarda la posizione giuridica, i detenuti condannati in via definitiva sono solo 3654, in attesa di giudizio sono 1415, i condannati in via non definitiva sono 1678. Complessivamente in Campania vi è circa il 20% della popolazione nazionale detenuta. E poi ci sono i 69 ristretti nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere (polizia di stato, finanzieri, carabinieri, polizia penitenziaria). Ai 60 ristretti nel carcere minorile di Nisida se ne aggiungono i 39 di quello di Airola, per lo più giovani adulti dai 18 ai 25 anni, e i 220 presenti nelle comunità residenziali. Il recente provvedimento del Governo sulla riforma penitenziaria è un passo in avanti per umanizzare il carcere, renderlo costituzionale, perché alla persona che sbaglia deve essere tolto il diritto alla libertà e non alla dignità. Ci sono più misure alternative al carcere, superando automatismi e preclusioni, tranne che per i condannati per mafia e terrorismo. Attenzione particolare viene data alla socialità del detenuto. In linea, inoltre, con le regole europee, si pone in risalto il diritto del detenuto a essere assegnato ad un istituto prossimo alla residenza della famiglia. Importanti anche le novità sulla sanità in carcere, con l’equiparazione tra infermità fisica e psichica. Cambia il sistema disciplinare interno, c’è la riapertura dei canali per i permessi premio e i benefici bloccati dalla legge Cirielli. Un ruolo importante viene assegnato al volontariato in carcere. Una previsione importante riguarda il regime di semilibertà. Ci sono misure alternative al carcere con lavori socialmente utili, di pubblica utilità, più possibilità di arresti domiciliari per chi deve scontare solo qualche anno. Purtroppo alcune norme essenziali sono rimaste al palo, come il lavoro, la giustizia minorile, quella riparativa e il tema dell’affettività in carcere. Anche se sembra una riforma morta in culla, approvata in zona Cesarini, quasi di nascosto, rappresenta un grande passo in avanti di civiltà rispetto ad una giustizia che spesso è uno strumento di vendetta. Uno Stato che si vendica su un detenuto è uno Stato che educa alla cattiveria, alla vendetta, alla recidiva. Il nostro si fonda sul carattere rieducativo della pena. Anche in Campania, come testimoniano centinaia di esperienze, il carcere rieducativo inibisce il crimine assai meglio del carcere punitivo. Liberare ed aiutare a liberarsi dice la riforma. Qui da noi un mondo del volontariato silenzioso e discreto, interviene già da anni, nei nostri istituti di pena con spirito costruttivo. Io, come garante, mi batterò con loro e con i diversamente liberi per trovare un varco oltre le mura dell’indifferenza e la concezione vendicativa della giustizia. *Garante in Campania delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Lombardia: le visite alle carceri dei Radicali ripartono da Vigevano vigevano24.it, 24 marzo 2018 Oggi nella Casa circondariale dei Piccolini l’iniziativa Radicale “Myriam Cazzavillan”. In attesa della definitiva approvazione delle riforma penitenziaria ripartono dal carcere di Vigevano le visite della Associazione per l’Iniziativa Radicale “Myriam Cazzavillan” nelle carceri lombarde. Questo sabato 24 marzo l’ex consigliere regionale radicale Giorgio Inzani verrà accompagnato dagli iscritti al Partito Radicale Gianni Rubagotti e Filippo Cattaneo. Nella delegazione anche il vicesindaco di Arluno Igor Bonazzoli: come da tradizione della Cazzavillan si cerca di portare a visitare gli istituti di pena amministratori locali. “Il Partito Radicale è il partito della speranza nel momento in cui questo paese è sempre più disperato.” ha dichiarato il segretario della Associazione per l’Iniziativa Radicale “Myriam Cazzavillan”. “Abbiamo sperato contro ogni ragionevolezza di raggiungere 3000 iscritti nel pieno black out informativo e ce l’abbiamo fatta, abbiamo sperato di portare a casa una minima riforma delle carceri in pieno clima giustizialista e ce l’abbiamo quasi fatta. Il prossimo passo è portare un po’ di stato di diritto con queste visite, con le iniziative per ricordare il secondo anniversario della morte di Pannella, di cui questa è l’inizio, e con le proposte di legge di iniziativa popolare che il Partito Radicale sta per lanciare. Chiederemo ancora per questo l’aiuto dei detenuti e anche dei “cosiddetti” liberi in un paese sempre meno libero di conoscerci e di conoscere a cosa va incontro.” L’Associazione per l’Iniziativa Radicale Myriam Cazzavillan è una associazione radicale nata il 3 ottobre 2015 a Milano. È transpartitica e trans-territoriale e promuove le battaglie dei soggetti radicali a Milano e in altri territori dove ha o trova militanti. Organizza serate culturali con sede fisica e in streaming (in collaborazione con Liberi Tv) per permette a chiunque sia collegato a internet di fruirne e intervenire. Napoli: Poggioreale, la denuncia dal padiglione San Paolo “rischiamo la vita” di Andrea Aversa vocedinapoli.it, 24 marzo 2018 Nel reparto ospedaliero del penitenziario vi sono situazioni critiche e disumane. Le segnalazioni dei detenuti alla redazione di vocedinapoli.it. Quattro denunce spedite via raccomandata a quattro destinatari d’eccezione: il presidente della regione Campania, il procuratore della repubblica a Napoli, il direttore generale dell’Asl (Azienda sanitaria locale) Napoli 1 e alla direzione generale del Dap (Dipartimento autorità penitenziaria). Quattro segnalazioni con un unico tema: le precarie e disumane condizioni dei detenuti ricoverati presso il padiglione San Paolo del carcere di Poggioreale. Le ricevute delle raccomandate con tanto di lettera sono state recapitate alla redazione di vocedinapoli.it. Poche righe rivolte da un carcerato alla massima carica istituzionale del paese, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. “Illustrissimo Presidente Mattarella, il centro Sai della Casa circondariale di Poggioreale è un lager sotto il profilo medico. Le scrivo per chiederLe se anche per noi esiste l’articolo 32 della Costituzione. Se poi ciò non è vero allora dateci una morte rapida. Qui non ci sono ergastolani ma solo gente che se curata per tempo e adeguatamente, ritorna sana e salva alle proprie famiglie. Ora si torna a casa per una lunga e dolorosa agonia. Presidente ciò che chiediamo è giustizia”. Queste le parole del detenuto in questione che delle quattro raccomandate, ha ricevuto risposta soltanto da quella inviata alla procura. Gli inquirenti hanno anche disposto un interrogatorio del carcerato per verificare il contenuto della denuncia. Ma non è finita qui, c’è un’altra lettera che la redazione di vocedinapoli.it ha ricevuto. Sempre scritta da un detenuto ricoverato al padiglione San Paolo. In questo caso è richiesta una maggiore attenzione da parte delle istituzioni sui comportamenti dei responsabili sanitari all’interno del reparto. Il detenuto in questione è portatore di “trapianto renale e portatore dei virus B e C”. L’uomo ha denunciato “la presenza nella mia stessa stanza di un altro detenuto affetto dal virus B. Inoltre questa persona ha un fegato cirrotico con relativo carcinoma epatico. Non sta ricevendo alcuna cura e lo vedo peggiorare da almeno due anni. Questa situazione sta causando un trauma alla mia stabilità psichica in quanto vedo calpestare ogni giorno l’articolo 32 della Costituzione. In tutto ciò, il responsabile sanitario non fa nulla”. Gli esposti di entrambi i carcerati sono stati inoltrati al garante dei detenuti per la Campania Samuele Ciambriello, alla coordinatrice del Partito Radicale Rita Bernardini e al segretario dell’associazione ex Don Pietro Ioia. Il tutto avviene proprio nei giorni in cui il governo guidato dal premier Paolo Gentiloni ha approvato i decreti attuativi per la riforma dell’ordinamento penitenziario. La legge per diventare effettiva necessiterà di un ultimo passaggio, non vincolante per il governo, nelle commissioni parlamentari. Molto probabilmente il decreto sarà inserito nell’ordine dei lavori di una commissione speciale. Il provvedimento prevede pene alternative e la scarcerazione per reati non gravi, in favore di quei detenuti che devono scontare ancora 4 anni di detenzione. Inoltre, ci saranno delle procedure più snelle sull’inserimento al lavoro in carcere e all’accesso alle cure sanitarie. Ovviamente il tutto sarà sempre stabilito dal magistrato di sorveglianza che potrà valutare la situazione di un detenuto caso per caso. Esclusi dai benefici i colpevoli per reati legati al terrorismo e i reclusi al regime del 41bis. Bolzano: “ergastolani ostativi, diamo misure alternative” di Raffaele Puglia Corriere dell’Alto Adige, 24 marzo 2018 Incontro sul mondo penitenziario alla Kolpinghaus con Partito Radicale, Ordine degli Avvocati e Camera Penale. Si è parlato delle finalità che deve avere la pena, nonché le condizioni alle quali sono sottoposti coloro che sono stati condannati alla pena dell’ergastolo ostativo. Da un po’ di tempo il mondo dell’avvocatura e i Radicali conducono una campagna per modificare l’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario che di fatto nega misure alternative. Una condizione, che secondo diversi operatori e politici, priva gli ergastolani della dignità e della speranza. “L’avvocato è il guardiano dei diritti - afferma Rudolph Elohim Ramirez, presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bolzano - ma quotidianamente ci troviamo a combattere battaglie per i nostri clienti, consapevoli che a volte saranno battaglie perse”. Il presidente della Camera penale di Bolzano, Paolo Fava, parlando della situazione delle carceri italiane e delle finalità della pena, si è soffermato anche sulle affermazioni politiche fatte negli ultimi giorni in merito alla riforma carceraria: “Speriamo non si avveri quanto dicono per esempio sull’abolizione della riforma carceraria - chiosa Fava - per molti i reati si risolvono con la pena retributiva, ma in realtà bisogna puntare a una tipologia di pena riabilitativa”. L’ex deputata del Pd Elisabetta Zamparutti, ora Radicale, ha ricordato che “anche il Consiglio d’Europa ha sancito il diritto alla speranza, sì a misure alternative”. Milano: carcere di Bollate, la raccolta differenziata che parte dai detenuti Adnkronos, 24 marzo 2018 Recuperare e valorizzazione i rifiuti prodotti nel carcere, nello specifico nel carcere di Bollate dove, solo per fare un esempio, si buttano circa 13 tonnellate di pane all’anno. È l’obiettivo della collaborazione avviata da Novamont e Amsa con Keep the Planet Clean, gruppo di lavoro fondato da alcuni detenuti dell’istituto, presentata a Fa’ la cosa giusta 2018, la fiera del consumo critico e degli stili di vita sostenibili in corso a Fieramilanocity. Tutto nasce nel 2015 quando due detenuti, Fernando Gomes Da Silva e Matteo Gorelli, iniziano a immaginare come recuperare i rifiuti prodotti nelle carceri. Prende vita così il gruppo Keep the Planet Clean che, oltre all’obiettivo iniziale, ha cominciato a pensare più in grande, immaginando possibili attività lavorative ed economiche legate alla gestione e alla valorizzazione dei rifiuti, attività che potessero rappresentare un’opportunità di occupazione per la popolazione detenuta, mantenendo la loro valenza riparativa nei confronti della comunità esterna. Dopo un lungo lavoro di analisi e ricerche è stata presentata una relazione alla direzione del carcere che ha subito coinvolto Amsa e Novamont, avviando così il processo che, partito in forma sperimentale presso il quarto reparto nel gennaio 2017, si è concluso con la partenza ufficiale della raccolta differenziata in tutti i reparti detentivi della II C.R. di Milano Bollate al 1 agosto 2017. Dal 1 settembre 2017, con l’estensione al reparto femminile, la raccolta differenziata coinvolge l’intero penitenziario. Novamont ha donato al penitenziario una quantità di sacchi in bioplastica Mater-Bi sufficienti per gestire il fabbisogno di almeno 12 mesi, considerando un consumo medio mensile di 15.000 sacchi. Nel carcere di Bollate, i sacchi in Mater-Bi, come già accaduto con la città di Milano, si sono rivelati uno strumento fondamentale per consentire una raccolta del rifiuto organico efficiente e igienica. Con oltre 15.000 kg al mese, infatti, la frazione umida rappresenta oltre l’85% dei rifiuti prodotti nel carcere di Bollate. Evitarne lo smaltimento in discarica e consentirne invece il recupero, significa ridurre l’emissione di gas a effetto serra e contribuire alla creazione di compost di qualità, un alleato importantissimo per combattere la desertificazione e l’erosione dei suoli. “Questa esperienza lascia a tutti i suoi protagonisti un dividendo economico, sociale e ambientale di incredibile valore e siamo molto fieri di continuare ad esserne parte, sostenendo anche le altre attività di Keep the Planet Clean”, dichiara Andrea Di Stefano, responsabile progetti speciali di Novamont. Reggio Calabria: nasce l’Ufficio comunale per la Giustizia Riparativa di Ilaria Calabrò strettoweb.com, 24 marzo 2018 Firmato il protocollo d’intesa tra Comune e Ministero della Giustizia per l’istituzione dell’Ufficio per la Giustizia Riparativa. Ieri presso la Sala dei Lampadari di Palazzo San Giorgio è stato siglato il protocollo di intesa tra il Comune di Reggio Calabria e il Ministero della Giustizia - Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità - Centro per la Giustizia Minorile per la Calabria, per l’istituzione dell’Ufficio per la Giustizia Riparativa di Reggio Calabria denominato Mandela ‘s Office, a cui è assegnato dal Comune di Reggio Calabria il bene confiscato alla criminalità organizzata sito in via Diana n. 6. Erano presenti ed hanno siglato il Protocollo: il Sindaco della Città di Reggio Calabria Giuseppe Falcomatà, Il Direttore del Centro per la Giustizia Minorile per la Calabria Isabella Mastropasqua l’Assessore al Welfare Lucia Anita Nucera Il Garante dei Diritti dei Detenuti del Comune di Reggio Calabria Agostino Siviglia. Nel corso della conferenza stampa sono stati illustrati i termini, gli obiettivi e le modalità di funzionamento dell’Ufficio nonché i caratteri dell’impegno del Comune e del Ministero rivolto a promuovere modelli di giustizia riparativa sul territorio. Trento: attivo un servizio di patronato Acli per i detenuti agensir.it, 24 marzo 2018 Un servizio di patronato rivolto ai detenuti della Casa circondariale di Trento è stato attivato in collaborazione con le Acli Trentine. È stato predisposto uno sportello che prevede, grazie all’impegno di due operatrici, colloqui diretti con i detenuti che presentano richieste di competenza del patronato. Ne dà notizia “Non solo dentro”, l’inserto scritto dai detenuti del settimanale diocesano di Trento “Vita Trentina”. Le operatrici sono disponibili a fornire informazioni utili per le pratiche riguardanti la Naspi (ex disoccupazione), gli assegni familiari, il riconoscimento dell’invalidità civile e altre informazioni e chiarimenti che il detenuto può richiedere. Lo sportello è attivo il venerdì dalle 13 alle 15 ed è possibile richiedere il servizio scrivendo patronato Acli nel modulo che la struttura mette a disposizione. Palermo: giovani archeologi detenuti crescono di Valentina Porcheddu Il Manifesto, 24 marzo 2018 Formazione. Il progetto sociale “Mettiamo insieme i cocci”, promosso dal Museo Salinas di Palermo, in cui sette ragazzi di nazionalità italiana e straniera hanno partecipato a un ciclo di incontri multidisciplinari e a un laboratorio di restauro, realizzato per la prima volta in Italia all’interno di un carcere minorile. Domenica 25 marzo sarà l’ultimo giorno per ammirare, nelle sale del Museo archeologico “Antonino Salinas” di Palermo, alcuni vasi di età punica provenienti dalle necropoli dell’antica Panormos. Si tratta di reperti “speciali”, non tanto per il valore intrinseco quanto per il percorso che ha portato alla loro esposizione. Infatti, gli oggetti sono stati restaurati nell’ambito del progetto sociale “Mettiamo insieme i cocci”, promosso dal Museo Salinas in collaborazione con l’Istituto penale dei minori di Palermo, il cui direttore Michelangelo Capitano si è dimostrato preziosa sponda. Durante tre mesi, sette ragazzi di nazionalità italiana e straniera hanno partecipato a un ciclo di incontri multidisciplinari e a un effettivo laboratorio di restauro, realizzato per la prima volta in Italia all’interno di un carcere minorile. A guidare i giovani “tecnici”, l’antropologa Emanuela Palmisano, gli archeologi Alessandra Merra e Emanuele Tornatore, i restauratori Alessandra Barreca e Alessandra Carrubba. Le attività, inoltre, sono state filmate dalla videomaker Giusi Garrubbo. Nel corso dei lavori, i minori coinvolti hanno appreso le pazienti e minuziose abilità necessarie a curare e assemblare un manufatto antico rinvenuto in frammenti. Attraverso queste tappe si è inteso non soltanto suggerire un orientamento professionale ma anche, simbolicamente, offrire una speranza di “ricostruzione” a chi, tra le difficoltà di un mondo talvolta ingeneroso, ha visto la propria vita andare in frantumi. Come ha affermato la direttrice del Museo Salinas Francesca Spatafora, affidare nelle mani dei giovani ospiti del complesso Malaspina reperti di duemilacinquecento anni fa ma al contempo famigliari per usi e tradizioni mediterranee legate alla preparazione e al consumo di cibi nonché al trasporto di merci, ha equivalso a raccontare una storia di arrivi, incontri, mediazioni e integrazione. Un messaggio, dunque, fortemente attuale veicolato in nome di quella responsabilità civica di cui le istituzioni culturali dovrebbero farsi carico, contribuendo ad accorciare barriere religiose e razziali. Intanto, il 19 marzo è stato inaugurato al Salinas un nuovo spazio polifunzionale, concepito - secondo la definizione di Sandro Garrubbo, responsabile della comunicazione del museo palermitano - come un’agorà, una piazza aperta al dialogo e alle relazioni, che possa alimentare l’empatia creatasi tra pubblico e operatori di una sede ancora non totalmente fruibile a causa di un riallestimento in fieri. Nell’ampia corte sovrastata da una moderna copertura trasparente firmata dagli architetti Stefano Biondo e Patrizia Amico del Centro regionale per la progettazione e il restauro dell’Assessorato ai beni culturali della regione Sicilia, sono collocati - in una profusione di luce - sia l’imponente complesso scultoreo costituito dalle gronde a testa leonina del Tempio della Vittoria di Himera, sia la riconfigurazione del maestoso frontone con maschera di Gorgone del Tempio C di Selinunte. Roma: via a uscita primi detenuti per pulizia dei parchi askanews.it, 24 marzo 2018 Da lunedì a Colle Oppio 18 detenuti per lavori pubblica utilità. Dopo la sottoscrizione dell’Accordo congiunto Roma Capitale - Ministero della Giustizia e la successiva firma del Protocollo d’Intesa per il progetto “Lavori di pubblica utilità e recupero del patrimonio ambientale”, con il coinvolgimento dei detenuti della Casa circondariale di Rebibbia, prende il via lunedì 26 marzo il progetto volto a favorire il reinserimento socio lavorativo dei soggetti in espiazione di pena. Partirà in via sperimentale al Carcere di Rebibbia ma coinvolgerà successivamente anche gli altri Istituti penitenziari. Il progetto, si fa sapere dal Campidoglio, si fonda su attività di “lavoro volontario e gratuito”, tenendo conto delle specifiche professionalità e attitudini lavorative, promuovendo un percorso di sensibilizzazione al rispetto del bene comune, alla legalità, all’osservanza delle regole e delle norme, come elementi imprescindibili per il percorso di reintegrazione del reo. Saranno 18 i primi detenuti che da lunedì prenderanno servizio, a partire dalle 9 del mattino, al Parco di Colle Oppio, prima di una serie di ville e parchi destinati alla manutenzione. L’attività lavorativa, che prevede l’impegno in strada 5 giorni a settimana, avrà la durata di 6 mesi sotto il controllo diretto e la supervisione della Polizia Penitenziaria. Un percorso di formazione preventivo, con il rilascio di un attestato per i detenuti, che è organizzato dal Servizio Giardini, e che potrà servire anche successivamente per il loro reintegro nel mondo lavorativo. Forlì: “Come le emozioni diventano colore”, corso-concorso di pittura per detenuti forlitoday.it, 24 marzo 2018 Ha preso il via giovedì 22 marzo, per iniziativa dell’ass. Amici di don Dario, unitamente alla Direzione del Carcere di Forlì , la 3° edizione del corso-concorso di pittura don Dario Ciani “Come le emozioni diventano colore”, riservato ai detenuti della medesima Casa Circondariale di Forlì. L’iniziativa si articolerà in quattro fasi, terminate le quali una commissione selezionerà le tre opere più meritevoli che verranno premiate con un attestato e un piccolo premio in denaro: la premiazione avverrà in due momenti, uno interno al Carcere a cui potranno partecipare i detenuti e uno pubblico il prossimo 26 luglio presso la Chiesa di S. Maria Assunta in Sadurano, in occasione della celebrazione del 3° anniversario della morte di don Dario, a cui seguirà il concerto di chiusura della rassegna musicale Sadurano Serenade. La prima fase, curata dal pittore Alvaro Lucchi, prevede una serie di incontri nei quali l’artista illustrerà i principi fondamentali del disegno e della pittura e presenterà i materiali necessari; ogni incontro sarà introdotto dalla lettura di alcuni passi del libro Il Profeta di Kahlil Gibran, che fungeranno da principi ispiratori per iniziare a prendere confidenza con tecniche e materiali. Successivamente il musicista Yuri Ciccarese proporrà ai detenuti e li introdurrà all’ascolto di alcuni brani musicali, motivi anch’essi “legati” ai racconti dell’opera di Gibran (seconda fase). A seguire (terza fase) Alvaro Lucchi accompagnerà i partecipanti nella realizzazione del bozzetto dell’opera, che poi riprodurranno su tela con l’impiego di colori acrilici (quarta fase). Le letture di Kahlil Gibran vertono attorno ai grandi temi della vita, della morte, dell’amore, della fede, del bene e del male, in definitiva i problemi fondamentali dell’esistenza, con l’obiettivo di suscitare profonde riflessioni sui detenuti, al fine di una loro espressività creativa, che, in definitiva, può essere molto utile anche per la ricostruzione di un personale percorso umano. Pescara: teatro, gli orrori del nazismo in scena nel carcere di Francesco Lo Piccolo* huffingtonpost.it, 24 marzo 2018 In una stazione di una piccola cittadina bavarese, poco prima dell’inizio della seconda guerra mondiale, un uomo con una valigia scende dal treno e inizia a camminare nella confusione, in un via vai di gente che si muove come se fosse in cerca di un riparo o in fuga da quella città dove nessuno riesce a capire che cosa sta succedendo, che cosa è già successo e soprattutto quello che da lì a poco succederà. Si apre così, sulle note di alcuni passi di J’y suis jamais allé di Yann Tiersen, “Quando si spengono le luci”, lavoro teatrale tratto da un libro di racconti di Erika Mann, edito da il Saggiatore, e messo in scena pochi giorni fa nel carcere di Pescara grazie alla riduzione teatrale di Carla Viola e la regia di Alberto Anello. Un lavoro che ho pensato alcuni anni fa e che ho visto finalmente compiuto grazie all’Associazione Voci di dentro, ad amici meravigliosi e con un cast eccezionale fatto da 14 detenuti e 7 volontari di Voci di dentro, oltre all’esperto di suoni e luci Graziano Martella. Un lavoro che ha per tema e filo conduttore la mancanza di libertà, la violenza del regime nazista, il fascismo, anni bui durante i quali le verità erano quelle della dittatura, e dove i cittadini hanno chiuso gli occhi, ora vittime, ora carnefici, consapevoli, ma impotenti, di fronte a una tragedia ormai avviata e che ha portato poi all’Olocausto. Tragedia che forse si sarebbe potuto evitare. E che oggi viene lasciata alle spalle (finita!?) come una vicenda del passato, ma nello stesso tempo, al contrario di tanti buoni propositi, riproposta da movimenti che ancora amano far sventolare svastiche, che si dichiarano razzisti e xenofobi, che rifiutano ed escludono sempre più apertamente opinioni e culture diverse. In nome di una patria, di una identità, di una tradizione in contrapposizione all’altro, al nemico, al capro espiatorio di turno. In una continua escalation all’interno di un ciclo cominciato da tempo dove l’esclusione di chi è povero, di chi viene dal sud del mondo è ormai norma. Norma “perché siamo a rischio invasione” e che ora viene disciplinata, organizzata e regolata secondo criteri che ci portano indietro: i diritti da universali e indipendenti, astratti, ecco che sono diventati delle regalie feudali, delle concessioni che chi ha concede a chi non ha. E soltanto se è “utile”, come se fosse una cosa, come un mezzo. Non molto diverso, a ben vedere, da quanto avvenne nella Germania sotto Hitler quando, dopo mesi di violenze, per legge vennero disposti i provvedimenti antisemiti. Provvedimenti disciplinati, organizzati e regolati e perciò accettati dai tedeschi perché applicati in modo ordinato e legale. Prima tappa di un percorso che poi porterà alle limitazioni delle libertà per gli ebrei, ai lager, agli omicidi in massa. In Germania, in tante parti d’Europa, in Italia. Teatro impegnato, brechtiano, quello che alcuni giorni fa è andato in scena nel carcere di Pescara. Teatro realizzato non tanto per mostrare la capacità di imparare un copione a memoria e ripeterlo con bravura ed espressività su un palcoscenico, ma come un momento di studio e di riflessione, come momento di incontro tra persone, di dialogo e di confronto alla scoperta dell’altro, del rispetto, della fiducia e della collaborazione, contro resistenze, pregiudizi e insicurezze che possono creare fratture e muri. Perché le vite degli altri sono le nostre vite. E affinché il passato sia davvero di lezione e dunque guida e non semplice celebrazione. La rappresentazione “Quando si spengono le luci” dura un’ora e quindici minuti. Sul palcoscenico si vedono un lampione, una panca, una valigia. E poi gente comune: lo straniero, il commerciante, la moglie militante nel partito, la coppia di fidanzati, l’industriale, il giornalista, la cantante. I personaggi sono vittime, ma non mettono mai in discussione il regime direttamente, per manifesta incapacità di tener testa al delirio collettivo. Vittime che scopriamo di scena in scena, come scene sono anche i racconti di Erika Mann, racconti che sono quasi una cronaca giornalistica, storie vere che svelano “la menzogna pubblica - scrive nella postfazione Agnese Grieco che ha curato la pubblicazione del libro della Mann- menzogna propagandistica, generalizzata e martellante”. Storie che si concludono in tragedia. Sul baratro di quella follia che riecheggia in tutte le scene. Un dramma che si conclude con i personaggi finiti nei campi di concentramento. “Mi scusi, signore, ha qualcosa da mangiare?” “Ecco prenda questo pezzo di pane nero”. “Grazie. Sono giorni che non mangio”. “Che cos’è questo rumore?” “Non si preoccupi signore, in questo momento ciascuno sta grattando attentamente con il cucchiaio, il fondo della gamella per ricavarne le ultime briciole di zuppa, e ne nasce un tramestio metallico sonoro il quale vuol dire che la giornata è finita. Vede quel vecchio?” “Non vedo niente”. “Quello laggiù col berretto in testa che dondola il busto con violenza. Sta pregando, ad alta voce”. “Pregare?” “Ringrazia Dio perché non è stato scelto. Quel vecchio è un dissennato. Non vede, nella cuccetta accanto, un ragazzo di vent’anni, domani andrà in gas, e lo sa, e se ne sta sdraiato e guarda fisso la lampadina senza dire niente e senza pensare a niente. Quel vecchio non sa che la prossima volta sarà la nostra. Non capisce che è accaduto oggi un abominio che nessuna preghiera propiziatoria, nessun perdono, nessuna espiazione dei colpevoli, nulla insomma che sia in potere dell’uomo di fare, potrà risanare mai più”. Emozione, tensione, paura, magia, illusioni: c’è questo e tanto altro in questo atto unico reso sul palco dai 21 interpreti guidati per un anno intero da Alberto Anello e seguiti con passione da Carla Viola. Un lavoro non facile: molti degli interpreti sono stranieri con qualche difficoltà con la lingua italiana e tanti sono dovuti essere sostituiti in più occasioni per via di trasferimenti e uscite. Non facile anche perché realizzato dentro un carcere, luogo dove regole e tempi non sono certo uguali a quelli che ci sono nella società esterna. Ma alla fine il risultato c’è stato. Ed è stato un successo. Un grande successo: per il tema affrontato, per le riflessioni che suscita, per l’emozione delle parole del testo e della musica, tra corse e danze, e improvvisi rallentamenti. Dove il fantastico si è unito e confuso alla realtà dando luogo alla follia collettiva che investe uomini e donne sotto il regime. Sotto qualunque regime. Spettacolo appassionante, dall’inizio alla fine, fino al momento dell’ultima scena, dove tutti i personaggi si mettono in piedi, alzano la testa e al grido di viva la libertà, viva l’uomo senza catene e senza bavagli, si mettono a correre verso il pubblico che scoppia, finalmente, in un grande applauso. *Giornalista, direttore di “Voci di dentro” Napoli: Anthony ai detenuti “oltre Gomorra c’è la luce” di Valerio Lai Il Mattino, 24 marzo 2018 Quando si pensa ad una struttura carceraria, spesso sia l’idea di un luogo che porta ad annichilire l’essere umano, confinato nello spazio angusto di una cella. La realtà è ben diversa, e si tende sempre a rendere la pena detentiva più umana. Con questo obiettivo, la Casa Circondariale di Salerno, diretta da Stefano Martone, ha organizzato nel piccolo teatro della struttura un concerto del cantante neomelodico Anthony (all’anagrafe Antonio Ilardo), riservato per ragioni di sicurezza a una ottantina di detenuti. Il cantante napoletano ha riproposto alcuni suoi successi tra i quali “Esageratamente” brano scelto per essere inserito nella colonna sonora del film Gomorra, e alcuni intramontabili classici napoletani, il tutto condensato in circa un’ora di spettacolo. La musica, qualunque essa sia è un linguaggio universale capace di riportare l’armonia e il sorriso in persone che, come ricordato Anthony, hanno commesso alcuni sbagli nella propria vita. “Tutti nella vita facciamo errori, grandi o piccoli. L’esperienza del carcere è un’occasione da non perdere che può far capire dove si è sbagliato. La mia speranza – ha aggiunto - e di incontrarvi tutti, ma fuori di qui”. Grande l’entusiasmo dei detenuti, di certo non abituati ad assistere molto spesso spettacoli simili; tra essi anche molte donne, in visibilio per il proprio beniamino venuto a far loro visita. Un giorno speciale per tutti principalmente per la comunità di Sant’Egidio, che da sempre, con le sue innumerevoli iniziative tenta di alleviare le sofferenze dei detenuti in custodia nelle carceri, persone che, spesso non ricevono una visita e che hanno un grande bisogno di parlare con qualcuno e che stando lontani dei propri familiari, spesso in uno stato di totale inattività, si sentono già durante la detenzione esclusi dal tessuto sociale. Una paura che, spesso, si concretizza all’uscita del carcere della mancata integrazione nella società. Proprio la Comunità di Sant’Egidio rappresentata ieri da Antonio Mattone responsabile del settore carceri, ha promosso il concerto nel carcere di Forni. “Questo evento è molto importante, perché ci consente di aiutare sia i detenuti che chi lavora qui. Il nostro obiettivo è quello di diffondere un senso di amore, di aiuto, per rendere più umani i detenuti - ha spiegato Mattone - e per raggiungere questo obiettivo cerchiamo sempre di programmare eventi simili periodi dell’anno più “sensibili” cioè in prossimità delle feste. Questo concerto, per esempio, è stato fissato poco prima di Pasqua. Un altro consuetudine per la Comunità e quella di offrire il pranzo di Natale ai detenuti proprio per esprimere loro un senso di vicinanza e di solidarietà”. “Eventi come questo sanciscono ancora una volta il legame tra direzione carceraria e la Comunità di Sant’Egidio, ormai da sei anni collabora con noi - ha concluso il direttore della casa circondariale di Salerno Stefano Martone -e funge da anello di congiunzione tra società civile il mondo carcerario. Nel 2050 143 milioni di persone saranno “migranti climatici” di Francesca Santolini La Stampa, 24 marzo 2018 Il rapporto della Banca mondiale sulle migrazioni climatiche chiarisce le enormi dimensioni un fenomeno potenzialmente devastante, con cui dovranno confrontarsi i Paesi nell’epoca del climate. “Groundswell: Preparing for Internal Climate Migration”. Il titolo del rapporto della Banca mondiale sulle migrazioni climatiche, pubblicato lunedì 19 marzo, ha il merito della chiarezza. Perché tratta di un fenomeno di dimensioni enormi e dalle conseguenze potenzialmente devastanti, con le quali dovranno confrontarsi i Paesi nell’epoca del climate change. Il rapporto concentra l’attenzione su tre regioni, l’Africa subsahariana, l’Asia del Sud e l’America latina, che rappresentano il 55% della popolazione dei Paesi in via di sviluppo. Gli esperti interpellati dall’istituto internazionale, stimano infatti che questa area geografica potrebbe subire degli spostamenti interni, al di là dei conflitti armati, di un’ampiezza pari a 143 milioni di persone entro il 2050. L’istituto di Washington, tuttavia, non si accontenta di interpretare il ruolo della Cassandra, ma fornisce anche alcuni spunti di riflessione. “Il cambiamento climatico sta già avendo un impatto sugli spostamenti della popolazione e il fenomeno potrebbe intensificarsi”, afferma John Roome, responsabile dei cambiamenti climatici presso la Banca Mondiale. Ma se riusciamo a limitare le emissioni di gas serra e incoraggiare lo sviluppo attraverso azioni nel campo dell’istruzione, della formazione, dell’uso del territorio ... ci saranno “solo” 40 milioni di migranti climatici, e non 143 milioni, a cui queste tre regioni dovranno far fronte. La differenza è enorme”, sostiene il funzionario, convinto che una crisi migratoria su vasta scala possa evitarsi, purché si prevengano questi massicci spostamenti interni. La Banca Mondiale basa le sue analisi su tre casi studio rappresentati da alcuni paesi in via di sviluppo: Etiopia, Bangladesh e Messico. Per ottenere le informazioni più accurate possibili, i ricercatori dell’Earth Institute della Columbia University, dell’Istituto di ricerca demografica della New York University e del Potsdam Institute per la ricerca sull’impatto del clima, hanno costruito un modello che incrocia diversi indicatori, come l’aumento della temperatura, i cambiamenti nelle precipitazioni, l’innalzamento del livello del mare, con dati demografici e socio-economici. Seguendo la logica adottata dal gruppo di esperti del Panel delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici (Ipcc), i ricercatori hanno organizzato le loro proiezioni intorno a tre scenari: uno pessimista, in cui le emissioni di gas serra rimangono elevate e lo sviluppo economico diseguale; uno intermedio, dove l’economia migliora e le emissioni si arrestano; infine, uno scenario con un’evoluzione “compatibile con il clima”, che associa una riduzione delle emissioni a dei progressi nello sviluppo sociale. Nello scenario “pessimista” esplorato dagli esperti, l’Africa subsahariana potrebbe doversi confrontare, alla fine del secolo, con uno spostamento interno di 86 milioni di persone. Mentre l’Asia meridionale e l’America latina, entro il medesimo orizzonte temporale, potrebbero registrare rispettivamente 40 e 17 milioni di migranti climatici. Il rapporto evidenzia anche la molteplicità dei fattori che costringono le persone a lasciare i loro paesi d’origine, distinguendo delle caratteristiche specifiche proprie di ciascuna regione. In Etiopia, un paese prevalentemente agricolo e caratterizzato da una forte crescita demografica (fino all’85% entro il 2050), è il crollo dei raccolti che costituisce la prima causa di migrazione. Il Bangladesh è indebolito in particolare dall’erosione delle sue zone costiere e dalle difficoltà di accesso all’acqua potabile. Il Messico, invece, vede il dilagare nei centri urbani delle popolazioni che vivono nelle aree rurali colpite dagli effetti del riscaldamento globale. Il campo di applicazione dello studio fa discutere. Gli autori del rapporto, decidendo di esaminare solo gli spostamenti superiori ai 14 chilometri, non hanno considerato le realtà dei piccoli stati insulari, che sono già oggi le prime vittime dei cambiamenti climatici. Il documento non fa neanche menzione delle discussioni in corso sulla definizione dello status giuridico di questi migranti climatici. Di fronte a questo vuoto giuridico, l’Assemblea generale delle Nazioni unite dovrebbe adottare il prossimo settembre, un Patto mondiale sulle migrazioni. Un’iniziativa che però è già stata indebolita da una decisione di Donald Trump. All’inizio di dicembre 2017, il presidente repubblicano ha annunciato infatti il ritiro degli Stati Uniti da questo progetto, perché giudicato incompatibile con la politica migratoria americana. Francia. Dove l’Isis non tramonta di Renzo Guolo La Repubblica, 24 marzo 2018 Lo jihadismo non si manifesta solo nelle banlieue parigine ma anche nella Francia mediterranea e rurale. Ancora la Francia sotto attacco. Fatto, purtroppo, che non sorprende. Perché, nonostante il tracollo territoriale dell’Isis in Siria e Iraq, non sono venuti meno i fattori che alimentano il radicalismo islamista dentro e fuori il Medioriente; perché, come rivela il profilo dell’attentatore di Carcassonne e Trèbes, il bacino di reclutamento jihadista è ancora molto vasto. Solo una certa stanchezza mediatica, motivata anche dal prepotente ritorno degli stati come principali attori della scena mediorientale dopo la fine statuale del Califfato, ha momentaneamente oscurato il fenomeno. Un declino che, però, non vale per la realtà europea, e per quella francese in particolare, nella quale la radicalizzazione non mostra segni di arretramento ma, semmai, una drammatica coazione a ripetere. Biografia e modalità d’azione fanno di Redouane Lakdim un tipico jihadista emulativo. Ventisei anni, marocchino, noto alla polizia per reati comuni come possesso e spaccio di stupefacenti, un passaggio in carcere, in Francia come altrove principale luogo di reclutamento di giovani che nutrono risentimento verso il Paese che li ha visti nascere, crescere, o nei quali sono residenti. Giovani, in prevalenza di origine magrebina o africana, assai numerosi nelle celle, che nell’islam in versione radicale riscoperto dietro le sbarre trovano una concezione totalizzante e antagonista del mondo che offre loro un’identità forte e un salvifico, anche nella morte, strumento di riscatto. Secondo il ministro dell’Interno francese Collombe, nonostante altre fonti sostengano il contrario, Lakdim non era sospettato di radicalizzazione e sarebbe passato all’azione “improvvisamente”. Ma la radicalizzazione ha una dimensione processuale, matura nel tempo, nelle contraddittorie vicende della vita così come nell’andamento del ciclo politico, interno e internazionale. E, come mostrano altre biografie di radicalizzati, non si manifesta sempre attraverso percorsi tanto “classici” quanto sorvegliati, e perciò abbandonati, in chiave mimetica. E proprio il mimetismo costituisce un serio problema di prevenzione. L’attacco in Occitania conferma la diffusione dello jihadismo nella République, che non si manifesta soltanto nelle banlieue parigine o nei grandi agglomerati industriali del Nord, ma anche nella Francia mediterranea o rurale. A dimostrazione che il messaggio radicale attecchisce ovunque: nel grigio del Pas de Calais come nell’azzurro del Midì. Non a caso uno dei nuclei di primo piano dello jihadismo transalpino è stato quello di Tolosa e Albi, guidato da Essid Sabri, recentemente scomparso in Siria e mentore di Mohammed Merah, l’attentatore di Mountaban. Un gruppo, cresciuto attorno all’”Emiro bianco” Olivier Corel, nel villaggio di Artigat nell’Ariège, del quale erano membri anche i fratelli Clain. Proprio Fabien Clain ha rivendicato dalla Siria, per conto dell’Isis, l’attacco del Bataclan che, tra i suoi efferati protagonisti, ha visto Abdeslam Salah, del quale, prima di essere abbattuto, Lakdim ha chiesto la liberazione. Richiesta che mai sarebbe stata esaudita ma significativa. Perché, nella mentalità radicale, ristabiliva la continuità ideale del jihad contro la Francia. Perché Salah, unico superstite del commando stragista del 2015, ha ritrovato la sua aura dopo che molti, anche tra i detenuti del carcere di Fleury-Merogis dov’era rinchiuso, non avevano accettato che si fosse dato alla fuga, senza “immolarsi nel martirio” a Parigi come, al momento della cattura, a Molenbeek. Abdeslam è tornato un’icona spendibile dopo aver contrapposto al Tribunale belga che lo sta giudicando la sola legittimità del giudizio divino. Una mitologia combattente e una dichiarazione di fedeltà ai principi quella sottolineata da Lakdim, che l’Isis ha voluto celebrare rendendo, come sempre in questi casi, onore al suo “soldato”. Stati Uniti. Una generazione in rivolta nella marcia contro le armi di Gianni Riotta La Stampa, 24 marzo 2018 Oggi manifestazioni di massa in tutto il Paese, Trump nel mirino. “Questo movimento sarà come il pacifismo mezzo secolo fa”. Se la marcia fosse stata convocata, con la macchina del tempo, 50 anni fa, nel mitologico 1968, l’appuntamento sarebbe stato certo al West End, il bar di fronte alla Columbia University, dove la generazione beat di Allen Ginsberg intagliava versi sui tavoli di legno, e le speranze degli attivisti per i diritti civili e la pace in Vietnam si affilavano con una birra Budweiser. Almeno finché Mark Rudd, lo studente di Columbia militante negli Students for a Democratic Society, Sds, che avevano approvato nel 1962 il Manifesto di Port Huron, redatto dal futuro marito di Jane Fonda Tom Hayden - giustizia e democrazia per il XX secolo - non lasciò il bar, per andare a cena pochi isolati a sud di Broadway, al Red Building. Là, in un’atmosfera da Soviet a Mosca 1920, vecchi intellettuali marxisti epurati al tempo della caccia alle streghe di McCarthy, col basco esistenzialista in testa, lo convertirono al comunismo, “basta con il pacifismo, serve lotta armata”, un verso di Bob Dylan gli fece fondare i Weathermen Underground, finiti poi nel sangue, le bombe, il terrorismo, con Rudd latitante. Questo passato della New Left americana, tatuato in ogni passo nell’Upper West Side di Manhattan, dalle rivolte di Harlem e di Columbia, alla marcia del reverendo King per la pace in Vietnam al plebiscito contro Nixon, non è affatto amato dai ragazzi che oggi, dall’incrocio con la 72esima strada, partiranno per la March for our lives, la protesta di una generazione contro le armi facili in America. Alla testa del corteo di New York, la giornata di contestazione è nazionale con un grande comizio a Washington, marcerà Alex Clavering, che nel 2020 si laureerà in legge alla Columbia. Alla radio del campus racconta “Quando ho sentito della sparatoria a Parkland, in Florida, ho pensato ai miei ragazzi, ho fatto l’insegnante in Malesia come borsista Fulbright. E se fossero caduti loro?”. Alex non è andato al bar West End a ciclostilare come ai tempi delle “migliori menti della mia generazione” cantate da Allen Ginsberg nel poema “Urlo”, e del resto il quartiere è mutato, tra sushi bar e palestre di Tai Chi, West End non esiste più, come Luncheonette, il bar edicola dove si faceva politica e il padrone serviva le uova al tegamino, scoprendo sull’avambraccio il numero tatuato ad Auschwitz. Ha preferito aprire una pagina Facebook con 30 amici, invitandoli all’impegno. Ma - e qui Dylan suona ancora a proposito -, i tempi cambiano anche nell’America di Donald Trump e dal campus severo di Columbia, con le finestre dietro cui si decidono i premi Pulitzer, Nobel del giornalismo, e lo studio dove, da presidente dell’Università, il generale Eisenhower attese la Casa Bianca, migliaia di ragazze e ragazzi dicono basta all’apatia. “Arriviamo” scrivono, e stavolta non è un Like su Facebook o un tweet furioso, significa prendere dei tubi di cartone per bandiere e striscioni, la polizia non ammette aste di legno o metallo, megafoni - chi avrebbe detto che ancora ne esistevano! - colori per i cartelli. E niente zaini - avverte il sito degli studenti di Giurisprudenza - la minaccia terrorismo rallenterebbe i controlli, meglio tenere in tasca le poche cose utili. Quando Alex Clavering, con gli amici Julia Ghahramani, laureanda nel ‘20, e Ankit Jain, avvocato l’anno prossimo, si fanno fotografare con la tradizionale felpa Columbia, felici sulla scalinata dell’Alma Mater, la statua di bronzo che dà le spalle alla vecchia libreria, hanno raccolto l’adesione di 25.000 newyorkesi, “saremo in strada con voi contro le armi”, e la firma solidale di altri 75.000. Le radio locali ne hanno fatto degli eroi, con gli ospiti a ridere quando Alex, 26 anni, ammette candido: “Per capirci, io sono di gran lunga il più vecchio tra gli organizzatori”. Per pagare le spese, assicurazioni comprese - sì, nelle proteste del XXI secolo occorre mettersi al riparo, se si rompe un vetro o ci si sbuccia un ginocchio, chi paga? - servono 100.000 euro e i ragazzi sono tornati online con un GoFundMe, sottoscrizione digitale, 22.000 già in cassa dopo una settimana, gli altri potrebbero essere coperti dal fondo dell’ex sindaco tecnocratico della metropoli, Michael Bloomberg, via la sua associazione Everytown for gun safety. I cartelli in preparazione non denunceranno solo le troppe armi, in mano a chiunque, killer o squilibrati, con le stragi di odio o follia che innescano. Le femministe sfileranno contro la violenza in famiglia e gli stupri, le minoranze, sottobraccio ai compagni bianchi, ricorderanno la violenza che le armi infliggono alle comunità locali, i gay marceranno con le loro bandiere. Alex, Julia e Ankit, futuri giuristi, sanno che l’America è divisa a metà, e che le 24 ore in cui il presidente Trump ha imposto tariffe a Pechino dichiarando guerra commerciale alla Cina, mentre le Borse cedevano e veniva cacciato il consigliere per la sicurezza nazionale, il moderato generale McMaster, sono state definite dall’esperto Ian Bremmer “il giorno peggiore in politica estera del XXI secolo”. E le massime del nuovo consigliere per la sicurezza, il falco John Bolton, “Le Nazioni Unite? Mai capito a che cosa servano…”, “Attaccare la Corea del Nord è ammesso dal diritto internazionale…” fanno il giro del web, spaventando. Nel 2011 New York si riempì con i picchetti di Occupy Wall Street. Impressionato, l’ex presidente Bill Clinton commise un errore grave, definendo i pochi militanti senza programma o leader “l’evento maggiore degli ultimi tempi”. Occupy svaporò in fretta, e un lustro dopo il Paese elesse Trump. Ora è alla prova un nuovo movimento: durerà oltre il 24, saprà diventare forza politica? Eleonore, 22 anni, bionda, studentessa di Kierkegaard, non ha dubbi: “È l’effetto magico di Trump. Un ragazzino della seconda media, per protestare contro le armi, rifiuta di farsi un selfie con lo speaker della Camera Ryan. Io alla sua età a stento sapevo cosa fosse la Camera! Guarda la mappa elettorale americana degli under 30, vedrai solo blu, il colore dei democratici. Perfino negli Stati da sempre repubblicani, vinciamo noi. Il movimento contro le armi sarà come il pacifismo o i diritti civili mezzo secolo fa, unificando una generazione. Come i nostri padri e nonni cambiarono allora l’America, così oggi la cambieremo noi. Il presidente non lo sa ancora, ma saremo noi, in piazza e nelle urne 2018 e 2020, a batterlo. Voi adulti sarete i primi a stupirvi, l’ho spiegato anche a mamma e papà”. Se la Ue paga le armi della Turchia di Marco Ansaldo La Repubblica, 24 marzo 2018 Sì all’erogazione alla Turchia della seconda tranche di fondi - altri 3 miliardi di euro - per contenere e aiutare i migranti che premono alla frontiera d’Europa. Ma con l’obbligo per Ankara, condannata per le “azioni illegali nel Mediterraneo e nel Mar Egeo”, di “rispettare la legge internazionale e i rapporti di buon vicinato, normalizzare le relazioni con tutti gli Stati membri inclusa Cipro”, invitandola a “una soluzione veloce e positiva delle questioni attraverso il dialogo”. Insomma, un buffetto sulla guancia per Recep Tayyip Erdogan quello dato dal Consiglio europeo appena concluso a Bruxelles. Un gesto fatto di parole anche ferme, comunque respinte da Ankara che strilla di “critiche inaccettabili”, ma recepito in realtà dai turchi come lieve rispetto all’entità della somma che sta per arrivare nelle loro casse. Nessuno ha dubbi che da quando l’intesa è entrata in vigore nel 2016 il fenomeno migratorio sia stato, a ragione o no, fermato. E che per molto tempo la Turchia sia stata lasciata sola a gestire una massa di profughi, in maggior parte siriani, che di anno in anno si sono riversati sul suo territorio raggiungendo ora la ragguardevole cifra di 3,8 milioni. In un Paese di nemmeno 80 milioni quei rifugiati significano addirittura il 5 per cento in più degli abitanti. Nessuno Stato ha mai sopportato un peso simile. Le perplessità riguardano piuttosto la certezza sulla gestione di questo enorme flusso di danaro sborsato dai singoli Stati europei. L’Italia, ad esempio, è chiamata a versare 225 milioni di euro. L’inchiesta de L’Espresso, svolta con un pool investigativo internazionale, rivela che l’Unione europea ha già dato alla Turchia quasi 100 milioni di euro per comprare mezzi corazzati. Lo ha fatto nel pieno controllo delle frontiere, dotandosi dei fondi anti-profughi, ma Bruxelles non è in grado di sapere se questi mezzi - a prova di mina e dotati di apparati per stanare i cecchini - siano stati per caso usati nella presa di Afrin, l’enclave curda in Siria conquistata dall’esercito turco. Uno di questi contratti risulta assegnato alla fabbrica bellica di un parlamentare del partito conservatore di origine religiosa fondato da Erdogan. Proprio in questa area Ankara ha in mente due fasi. Da un lato, far tornare i profughi siriani, riportandoli nelle zone liberate militarmente, come in quella appena sgomberata di Afrin e nelle altre città in procinto di essere attaccate. Dall’altro, proseguire la guerra contro i gruppi che considera terroristi (le unità curde) e jihadisti, rafforzando le milizie siriane ribelli sue alleate. Una determinazione che la sta portando a stracciare l’altolà americano sull’intoccabilità dei combattenti curdi, ritenuti da Washington invece essenziali (vedi Kobane) nella lotta all’Isis. Bene allora ha detto al vertice il premier greco Alexis Tsipras: “Dobbiamo essere molto diretti con la parte turca sui loro obblighi, specialmente sul rispetto della legge internazionale”. La riunione di Bruxelles si sposta adesso lunedì a Varna, sul Mar Nero, nella Bulgaria presidente europea di turno, con il summit diretto fra Ue e Turchia e la definitiva luce verde all’erogazione della somma pattuita. Erdogan annuncia la sua presenza e già batte cassa: “Non continuate a ritardare, dateci i soldi”. Il mantra che risuona ad Ankara è pacta sunt servanda. Giusto. Però occorre vincolare il Sultano non con semplici parole, ma con i fatti, costringendolo a impegni concreti e soprattutto verificabili. Arrivando magari a usare gli stessi codici comportamentali e un atteggiamento altrettanto duro. Pena il non rispetto, dalla controparte turca.