Le carceri, la Costituzione e la dignità di Glauco Giostra Il Sole 24 Ore, 23 marzo 2018 Il presidente della Commissione che ha curato la proposta spiega le ragioni della riforma. Non scrivo per portare olio al lume della speranza: la sorte della riforma penitenziaria è ormai nelle mani della politica e non saranno certamente queste righe a influenzarla. Non scrivo neppure per rispondere a quanti hanno voluto esprimere opinioni giuridicamente spericolate pur di contrastare la riforma, con ciò tributandole un inaspettato riconoscimento: se non hanno trovato nulla di meglio delle censure infondate che le sono state mosse, vuol dire che la caratura del progetto è persino al di sopra di quella ritenuta dagli stessi artefici. Scrivo per la doverosa attenzione dovuta a coloro che, in buona fede, ritengono quasi istintivamente che dalle innovazioni in cantiere possa derivare un pericolo per la sicurezza sociale. Scrivo, ancor più, per il doveroso rispetto nei confronti di quanti hanno sofferto dolori strazianti per i crimini subiti da loro o dai loro cari, spesso vissuti con una reazione composta e dignitosa che sempre mi lascia ammirato, consapevole che non ne sarei certamente capace. Portano ferite che nessuna pena inflitta ai colpevoli riuscirà mai a rimarginare, ma sulle quali l’impunità o il gratuito indulgenzialismo getterebbe liquido ustionante. I motivi del cambiamento Vorrei provare a spiegare le ragioni per cui la riforma penitenziaria che fatica a essere partorita non rappresenta né una minaccia alla sicurezza, né un oltraggio al dolore, ma soltanto un doveroso rispetto della dignità umana e una prudente speranza. In questa stagione della paura e della precarietà il carcere è divenuto, nel nostro subconscio, una sorta di metafora architettonica ove rinserrare tutte le nostre paure. Ogni breccia in questa struttura viene comprensibilmente percepita come un’allarmante insidia e istintivamente demonizzata: solo un carcere blindato in cui rinchiudere tutti i soggetti pericolosi mette la società al riparo dal crimine. Si potrebbe far notare che la più accreditata letteratura criminologica afferma, in base a indagini di vittimizzazione, che nelle carceri è ristretto soltanto il 5% circa degli autori di reato, con non significative oscillazioni da Paese a Paese. Ma, fosse anche rispetto a quel 5%, se la mera segregazione mettesse davvero al riparo da rischi sarebbe opzione da prendere in esame. La realtà si pone in termini del tutto diversi, se non opposti, come sanno (o dovrebbero sapere) anche i detrattori della riforma penitenziaria. Ma in un clima di generalizzata insicurezza il rozzo placebo “gettiamo via le chiavi” continua a essere offerto e ricevuto come risolutivo: perché “non c’è menzogna troppo grossolana a cui la gente non crede, se essa viene incontro al suo segreto desiderio di crederci”, ci spiega Christa Wolf nella Medea. Partiamo, allora, da un’ovvietà troppo spesso trascurata: fatta eccezione per coloro che scontano un ergastolo cosiddetto ostativo, i condannati prima o poi, espiata la pena, escono dal carcere. Sovente per tornare a delinquere. L’indice di recidiva si aggira intorno al 70% (in Italia, il 68%), con qualche sensibile oscillazione da Paese a Paese (ad esempio, in Brasile più dell’80%, nel Regno Unito intorno al 50%); questa inclinazione a ri-delinquere scema fortemente quando il condannato sconta la pena in un regime carcerario che ne rispetti la dignità, lo responsabilizzi e gli offra la possibilità di guadagnarsi - anche adoperandosi in favore della collettività e delle vittime dei reati- un graduale, controllato reinserimento sociale. Pure in tal caso gli indici statistici oscillano (in Italia si scende al 19%, nel Regno Unito al 22%) sino a registrare ancor più vistosi e significativi abbattimenti della recidiva a seguito di particolari iniziative pilota (si parla, ad esempio, del 12% con riferimento a quella degli Apac in Brasile o, addirittura, del 5% per i dimessi dal penitenziario La Stampa di Lugano). Sarebbe intellettualmente poco onesto non riconoscere che si tratta di percentuali non certo affidabili al decimale, essendo spesso frutto di metodiche diverse di rilevazione e di calcolo. Ma sarebbe intellettualmente disonesto negare l’esistenza di una forbice molto significativa tra i crimini commessi da ex condannati a seconda che questi abbiano subìto una pena ciecamente segregativa, orfana di ogni speranza, o una pena pur severa, ma non insensibile alla loro effettiva partecipazione a un progetto di riabilitazione che li abbia preparati a rientrare nella società civile, con l’intento e la capacità di viverci come avrebbero dovuto. Pertanto, quando lo Stato sa offrire una tale opportunità e il condannato sa meritarla, la collettività ne trae un beneficio molto significativo. Da un lato, perché recupera energie sociali: tornano in libertà soggetti in grado di svolgere un positivo ruolo nella collettività e, soprattutto, nelle loro famiglie, quasi sempre “condannate” di riflesso a condurre un’esistenza di precarietà economica e di stigmatizzazione sociale. Dall’altro, perché, modulando gradualmente la pena detentiva in impegnative misure da eseguire in comunità, questa sarà esposta a un minor numero di crimini, anche con positivi ritorni di carattere materiale (lavori di pubblica utilità). Soprattutto, lo Stato si sottrarrà all’autolesionistico compito di mantenere dispendiosamente in galera soggetti con l’unico risultato di prepararli a tornare a delinquere. Ciò non significa, ovviamente, che la pena non debba conservare anche una funzione retributiva: per i reati più gravi non saranno comunque evitabili lunghi periodi di detenzione, quand’anche il condannato sin dall’inizio s’adoperi in un serio e fattivo percorso di riabilitazione. Ciò non significa neppure, come si ripete con logoro cliché, che vi sia incertezza della pena. Diciamo forse che la pena non è certa per il fatto che il giudice possa infliggere al rapinatore una pena da quattro a dieci anni di reclusione? Se a nessuno è mai venuto in mente di sostenerlo è perché tutti comprendono che la discrezionalità concessa al giudice serve per meglio commisurare la sanzione alla gravità del fatto in concreto. Perché, allora, quando le modalità di esecuzione e talvolta la durata della pena sono calibrate dal giudice sulla base dell’evoluzione comportamentale del soggetto, si parla di incertezza della pena? Come non si pretende che tutti i rapinatori siano puniti con X anni a prescindere dal fatto di cui si sono resi protagonisti, non si dovrebbe pretendere che tutti i condannati a X anni di reclusione scontino la stessa pena a prescindere dal loro comportamento nel corso della sua espiazione. Certezza e giustezza della pena Tener conto dell’avvenuta, profonda rielaborazione del male commesso e del conseguente impegno per un operativo riscatto non significa rendere incerta la pena, ma individualizzarne i contenuti per il recupero sociale del condannato, come la nostra Costituzione prescrive. I replicanti della pena certa dovrebbero almeno avere l’avvertenza di precisare che ciò che invocano è in realtà la pena fissa, immutabile. L’incertezza della pena si verifica, semmai, quando lo Stato rinuncia a verificare se debba applicarla, come nel caso della prescrizione processuale, che negli ultimi tempi - fenomeno soltanto nostrano - ha visto ogni anno abortire in media 150mila processi senza l’accertamento delle responsabilità penali. È singolare che sovente quegli stessi che si scandalizzano per l’individualizzazione della pena durante l’esecuzione, difendano un sistema che rinuncia a monte, troppo spesso, ad accertare se di pena ci sia bisogno. La riforma, invece, vuole che sia applicata la pena giusta e necessaria: quella, cioè, che non serve per infierire e per vendicarsi, ma per punire il colpevole e per tutelare la collettività, anche offrendo al condannato la possibilità - ove se ne dimostri meritevole - di farvi graduale, positivo rientro. In sostanza, la riforma intende soltanto attuare la Costituzione, che legittima lo Stato a privare il reo della libertà, non della dignità, né della speranza: le pene, infatti, “non possono consistere in trattamenti inumani e degradanti e devono tendere alla riabilitazione sociale del condannato”. (art. 27 comma 3 Cost.). *Docente di Procedura penale alla Sapienza e presidente della Commissione che ha stilato la riforma dell’ordinamento penitenziario Riforma dell’ordinamento penitenziario. Il momento della verità con il nuovo Parlamento di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 23 marzo 2018 Può suonare un po’ stantio fare ricorso a espressione come “momento della verità”. Di sicuro però, per la riforma dell’ordinamento penitenziario i prossimi giorni saranno decisivi. Il testo del decreto che rappresenta la parte più consistente e significativa dell’intervento è stato approvato dal Governo Gentiloni, per la seconda volta, una settimana fa. Secondo passaggio dopo che si era deciso di non accogliere integralmente quelle osservazioni del “vecchio” Parlamento che avrebbero snaturato l’impianto di una riforma da lungo tempo preparata. Ora il decreto sbarca in un Parlamento i cui rappresentanti si insediano oggi, e tuttavia per la costituzione delle commissioni che dovrebbero pronunciarsi sul testo bisognerà ancora aspettare. Sul piano formale, il Parlamento ha a disposizione una decina di giorni di tempo per formulare le proprie osservazioni o condizioni e il Governo, una volta trascorso questo arco di tempo, potrebbe procedere autonomamente anche nel silenzio di Camera e Senato. Si tratterebbe però di uno strappo istituzionale di cui è improbabile che un Esecutivo uscente voglia farsi carico. Di qui l’ipotesi della immediata costituzione di due supercommissioni parlamentari, una alla Camera e una Senato, con lo specifico compito di esaminare i provvedimenti più urgenti, dal Def alla riforma dell’esecuzione penale appunto. Soluzione certo anomala e probabilmente non molto gradita alle forze politiche che hanno vinto le ultime elezioni: sia il Movimento 5 Stelle sia la coalizione di centrodestra, guidata dalla Lega, hanno già espresso, a riprova ulteriore di una sintonia di fondo, una decisa contrarietà alla riforma nel segno della “certezza della pena”. Difficile quindi fare previsioni, anche se l’attuale ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha più volte dichiarato di volere condurre in porto l’intervento, strutturato poi in altri 3 decreti su temi assai significativi come la giustizia riparativa o il minorile, e si è consolidato un fronte abbastanza compatto e trasversale a favore di avvocatura e magistratura, con l’aggiunta di una buona fetta dell’Accademia. La riforma delle carceri non si può fermare proprio ora di Rita Bernardini Left, 23 marzo 2018 Il 16 marzo il Cdm ha varato il decreto legislativo, adesso servono gli ultimi due passaggi. In un articolo sulla riforma penitenziaria destinato a un quotidiano napoletano (che non so se l’abbia poi pubblicato), Aldo Masullo faceva esplicito riferimento al “partito unico del silenzio sul problema delle carceri”, a cui sembra essersi iscritta l’intera classe politica italiana rappresentata nell’attuale Parlamento. Lo straordinario filosofo, che all’età di 93 anni mi appare come il solo intellettuale italiano capace di intelligenti e salvifici slanci umanitari, richiamava nel suo scritto l’incerto atteggiamento del governo Gentiloni alla vigilia di uno dei suoi ultimi Consigli dei ministri in cui avrebbe dovuto decidere se mandare (o meno) letteralmente in fumo il decreto legislativo sulle misure alternative al carcere. Stiamo parlando del Consiglio dei ministri del 16 marzo e dell’unico decreto - fra i tanti punti della delega conferita dal parlamento all’esecutivo per la riforma penitenziaria - che aveva già ottenuto il primo parere delle commissioni giustizia di Camera e Senato e che aveva i margini per essere adottato già nella fase che precedeva il voto del 4 marzo. Il ragionamento di Aldo Masullo era chiarissimo: “A voler essere realisticamente cinici, fino al 4 marzo, il governo, questo governo, si può comprendere che, nell’infame gioco dello sfruttamento delle emozioni collettive, volesse astenersi da un gesto che, pur doveroso, potesse danneggiare elettoralmente il partito di cui è espressione. Sarebbe stata - scriveva Masullo - una prudenza ai limiti della viltà, ma giustificata dal calcolo politico. Ma oggi, a partito di riferimento bocciato ai voti, quale danno può venire da un estremo adempimento del governo al suo dovere istituzionale? Anzi, potrebbe costituire un gesto coraggioso, e dunque un atto di forza politica. Sarà un peccato - concludeva Masullo - se la prudenza ai limiti della viltà alla fine si riducesse ad una viltà inutile”. Contemporaneamente, a considerazioni altrettanto significative sul partito di riferimento del governo arrivava Massimo Bordin, sempre il 16 marzo, nella sua rubrica su Il Foglio: “Se oggi davvero il Consiglio dei ministri approverà le norme attuatine della riforma dell’ordinamento penitenziario sarà, da parte del Partito democratico, un atto politico di maggiore rilevanza rispetto a qualsiasi intervista a tutta pagina di qualche capo corrente o a qualsiasi dichiarazione su alleanze o presidenze. Un atto politico qualificante perché costruirebbe un caposaldo sui terreni della politica sulla giustizia e della legalità costituzionale. Soprattutto mostrerebbe la capacità di operare scelte coraggiose rispetto alla pulsioni forcaiole, alimentate dalla peggiore politica e dalla peggiore informazione, e un’attenzione a quanto di progressivo si muove nella società”. Il miracolo è poi avvenuto, perché il Consiglio dei ministri del 16 marzo ha effettivamente preso una decisione varando il nuovo testo del decreto legislativo che ora abbisogna di soli altri due passaggi: l’invio del provvedimento alla istituenda commissione speciale (bicamerale) per l’esame degli atti del governo, chiamata ad esprimere nel termine di 10 giorni l’ultimo parere obbligatorio ma non vincolante per il governo, il quale potrà finalmente e definitivamente - ed è questo il secondo passaggio - approvare il testo ritenuto più consono all’esercizio della delega. Il Partito radicale e Nessuno tocchi Caino vigileranno su quest’ultima fase e potranno farlo con l’esercito di migliaia di detenuti da armi divenuti praticanti della nonviolenza attiva, con l’Unione delle camere penali, con le centinaia di giuristi, accademici, associazioni dei diritti umani e del volontariato generosamente impegnati a conquistare questo primo segmento di legalità costituzionale che - come ha detto Roberto Saviano il giorno in cui abbiamo visitato insieme il carcere di Poggioreale - “traccia il confine tra decidere di essere ancora una democrazia o lasciare che tutto collassi”. Comunque vada, la riforma delle carceri rischia grosso di Sonia Ricci Public Policy, 23 marzo 2018 La riforma delle carceri rischia di naufragare. Il controverso testo approvato dal Governo venerdì scorso, per la seconda volta, attende un nuovo esame parlamentare, in quanto dopo il primo passaggio l’Esecutivo ha deciso di non recepire tutte le richieste di modifica delle commissioni Giustizia di Camera e Senato. Come da prassi, infatti, nel caso in cui i pareri non vengano accolti il testo deve tornare in Parlamento per un’istruttoria. C’è tempo dieci giorni dall’assegnazione. Essendo ormai prossimo l’avvio della XVIII legislatura - il nuovo Parlamento si insedia venerdì mattina - è ormai certo che ad esaminarlo saranno le commissioni speciali che verranno nominata nelle prossime settimane, come quelle create in ciascuna Camera nel 2013. Molto probabilmente il premier Paolo Gentiloni si dimetterà formalmente tra venerdì 23 marzo e martedì della prossima settimana. Se in breve tempo non sarà delineata una maggioranza in Parlamento, in grado poi di sostenere la nascita di un Governo, non sarà possibile costituire i rapporti di forza nelle commissioni. E dunque sarà necessario nominare due commissioni speciali (che tra le altre cose dovranno occuparsi anche del Def). Una volta che il provvedimento verrà esaminato, però, è presumibile che sarà il futuro Governo ad occuparsi dell’approvazione finale della riforma dell’ordinamento penitenziario. L’Esecutivo Gentiloni, infatti, resterà sì in carica fino al passaggio di testimone, ma solamente “per il disbrigo degli affari correnti”. Secondo fonti di Palazzo Chigi è al quanto improbabile che il Governo in regime di “prorogatio” possa approvare un decreto legislativo, soprattutto su cui le commissioni potrebbero chiedere nuovi ritocchi. Non essendo ancora chiari i futuri equilibri governativi è difficile prevedere quale sorte spetterà a questo pezzo della riforma Orlando. Certo è che un futuro Governo con dentro la Lega non darebbe vita facile al provvedimento, che rischierebbe anche di decadere. Malati psichiatrici in carcere: Ordinamento penitenziario alla Consulta di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 23 marzo 2018 Va alla Consulta l’ordinamento penitenziario per la parte in cui non prevede la detenzione domiciliare anche in caso di grave infermità psichica, e non solo fisica, sopravvenuta durante l’esecuzione della pena. La Corte di cassazione, con l’ordinanza 13382, solleva d’ufficio i dubbi sul possibile contrasto con la Carta dell’articolo 47-ter comma 31ter della legge 354/1975, che metterebbe in atto una disparità di trattamento perché non prevede la detenzione domiciliare anche nel caso di gravi patologie psichiatriche che hanno colpito il detenuto durante l’espiazione della pena. I giudici della prima sezione penale, chiedono lumi alla Consulta per decidere sull’istanza di un detenuto, con numerosi precedenti penali, con una pena residua di sei anni e 4 mesi, per rapina. L’uomo, al quale era stato diagnosticato un disturbo bordel line della personalità, si era tagliato la gola in due occasioni ed era seguito da uno psichiatra. Il tribunale di sorveglianza aveva respinto la richiesta di differimento facoltativo dell’esecuzione della pena, come previsto dall’articolo 147 del codice penale, però solo per chi ha una malattia fisica. Il tribunale aveva osservato che non c’erano margini neppure per il rinvio obbligatorio dell’esecuzione pena (articolo 146 del Codice penale) applicabile in altri casi: dalla donna incinta al malato di Aids. La Suprema corte esclude la possibilità di applicare la norma sull’infermità psichica sopravvenuta che prevede il ricovero negli ospedali psichiatrici giudiziari (articolo 148 del Codice penale) per la sua “tacita” abrogazione. Né può ipotizzarsi la sostituzione degli Opg con le Rems, posto che le vigenti disposizioni indicano le Residenze come luoghi di esecuzione delle sole misure di sicurezza. Non è rilevante neppure la previsione della legge 103/2017, in particolare il punto della delega (lettera d) articolo 16, comma 1) che prevede l’assegnazione alle Rems anche dei soggetti portatori di una grave infermità psichica sopraggiunta nel corso della detenzione in caso di inadeguatezza dei trattamenti praticati all’interno del carcere. La possibilità non torna utile essendo, appunto, indicata in una delega non ancora tradotta in disposizione applicabile. La Cassazione prende atto del fatto che, al momento, il nostro ordinamento non prevede una via d’uscita per chi si trova nella situazione del ricorrente, con una pena residua superiore a 4 anni. La mancata alternativa al carcere è però secondo i giudici sia in contrasto con la Costituzione sia con la Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. I giudici della prima sezione avvertono anche del rischio di scivolare nel divieto di trattamenti inumani e degradanti, e attirano l’attenzione sul diritto fondamentale alla saluta oltre che sulla funzione rieducativa della pena. È abbastanza per chiamare in causa il giudice delle leggi. Intercettazioni, l’alleanza avvocati-pm di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 23 marzo 2018 Il tentativo di modificare la riforma, oggi incontro a Roma: “Sbagliato il divieto totale di trascrizione”. Il decreto è entrato in vigore a gennaio, ma solo per due articoli su sette (a parte la clausola finanziaria e la norma transitoria). Il resto è rinviato alla fine di luglio. Dunque ci sarebbe ancora tempo per modificare le nuove regole sulle intercettazioni, o almeno per aggiustare quelle che pubblici ministeri e avvocati considerano vere e proprie storture, che non aiutano a proteggere la privacy degli intercettati (come nelle intenzioni del legislatore) e servono solo a ostacolare le indagini e il mandato difensivo. Per una volta, su alcuni capitoli della riforma varata dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, le toghe sembrano schierate dalla stessa parte; una inedita alleanza fra accusa e difesa già emersa dai documenti inviati in autunno in Parlamento, e che verrà rilanciata oggi in un pubblico confronto organizzato a Roma tra i procuratori e i presidenti delle Camere penali delle principali città. L’intenzione dichiarata è trovare un’intesa per unire le forze e migliorare la riforma approvata il 29 dicembre scorso dal governo Gentiloni; e l’impostazione tesa al dialogo costruttivo è dimostrata dal fatto che l’introduzione ai lavori è stata assegnata al procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e al presidente della Camera penale capitolina Cesare Placanica, mentre a tirare le conclusioni saranno il presidente dell’Associazione magistrati Eugenio Albamonte e il capo dell’Unione camere penali Beniamino Migliucci. Le osservazioni già trasmesse alle commissioni Giustizia di Camera e Senato dai procuratori e rappresentanti degli avvocati di Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo e Firenze hanno sortito qualche effetto. Ad esempio, per i difensori degli indagati è stato reintrodotta la possibilità non solo di ascoltare le intercettazioni utilizzate per emettere un ordine di arresto, ma anche di ottenere la copia delle trascrizione, cosa che nella precedente versione del decreto era impedita. E gli avvocati hanno pure ottenuto che delle conversazioni registrate casualmente con i loro assistiti non venga annotata alcuna indicazione sui contenuti. È rimasto invariato, invece, un punto dirimente e qualificante della riforma che rappresenta un ostacolo sia per i pubblici ministeri che per i difensori: “È vietata la trascrizione, anche sommaria, delle comunicazioni o conversazioni irrilevanti ai fini delle indagini, sia per l’oggetto che per i soggetti coinvolti”. Per i procuratori questa disposizione è d’intralcio all’accertamento di fatti e responsabilità, ma anche al diritto di difesa, giacché l’irrilevanza si può dedurre solo al termine delle indagini, e non nell’immediatezza dell’ascolto; analisi condivisa dagli avvocati, che senza i “brogliacci” con il riassunto degli argomenti trattati non saprebbero come orientarsi nel mare di registrazioni da ascoltare. Di qui il suggerimento dei magistrati di introdurre il divieto solo per le conversazioni “manifestamente irrilevanti”, lasciando un margine d’interpretazione più ampio; finora è rimasto inascoltato, se riproposto insieme potrebbe avere un destino diverso. Su altre questioni magistrati e pm restano divisi (ad esempio sull’uso del trojan, il virus che trasforma computer e telefonini in microspie) ma l’intenzione è muoversi congiuntamente per raggiungere gli obiettivi comuni. “Trovare sinergie con l’avvocatura è una strada da percorrere in generale - dice il presidente dell’Anm Albamonte, ma in particolare quando c’è da coniugare l’efficacia delle indagini con i diritti delle persone”. E il presidente della Camera penale di Roma Placanica rilancia: “Alcuni miglioramenti li abbiamo ottenuti, ma altri potranno venire se riusciremo a fare fronte comune con i magistrati”. Intercettazioni. Come si blindano quelle “scomode” di Milena Gabanelli e Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 23 marzo 2018 Non ci sono i server, i pc, gli apparati di sorveglianza e di sicurezza e neppure le stanze dove metterli, non c’è il personale specializzato e perfino le regole di organizzazione sono evanescenti. Nessuna delle 140 procure italiane ha ancora allestito “l’archivio riservato” dove custodire le intercettazioni, secondo il decreto legislativo varato a fine dicembre a parere di molti sull’onda del populismo giustizialista. A poco più di quatto mesi dall’entrata in vigore della nuova norma gli addetti ai lavori scommettono su un rinvio. Perché è stata fatta la legge - “Abbiamo un Paese che utilizza le intercettazioni per contrastare la criminalità e non per alimentare i pettegolezzi o distruggere la reputazione di qualcuno”, disse il ministro della Giustizia Andrea Orlando dopo l’approvazione del decreto legislativo sulla cui delega il governo mise la fiducia. L’obiettivo era di impedire che le intercettazioni di conversazioni che riguardano particolari della privacy delle persone continuassero a finire sui giornali, come se si trattasse di un fenomeno così diffuso da richiedere un intervento urgente, guarda caso a poco più di due mesi dalle elezioni del 4 marzo. A dire il vero, a parte rari episodi spesso legati a veri e propri abusi e reati, la stampa non fa che pubblicare le intercettazioni depositate agli atti e già depurate dei dati “sensibili” e delle conversazioni che non riguardano strettamente l’indagine. Invece, in nome di una urgente lotta alla “gogna mediatica”, c’è il rischio concreto di limitare la libertà di stampa, specie su procedimenti che coinvolgono politici e potenti. Il problema è che la nuova procedura rischia di restringere anche il campo visivo del pubblico ministero e degli avvocati difensori. Il numero delle intercettazioni e i costi - Il quadro è questo: il numero delle intercettazioni in Italia è in calo, così come la spesa sostenuta dal ministero della Giustizia per pagarle. Si è passati dalle 141.169 del 2013 alle 130.746 del 2016, ultimo dato a disposizione. Di queste, quelle telefoniche sono la maggioranza (110.688) seguite da quelle ambientali (15.984) e “altre”, come i “captatori informatici” o “trojan” (4.074). I numeri si riferiscono ai “bersagli” colpiti e non alle persone, che sono molto meno. Un sospettato per corruzione che, ad esempio, usa un cellulare, un pc, un tablet, ha una macchina, un ufficio e una casa si traduce in sei bersagli da mettere sotto controllo. E i criminali, spesso, ne hanno molti di più. Cinque distretti giudiziari (Napoli, Roma, Milano, Palermo e Reggio Calabria) fanno metà delle intercettazioni totali e nel Sud e nelle Isole si spende circa il 60% del totale nazionale, come ha scritto Marco Galluzzo sul Corriere della Sera, spiegando che il distretto di Milano spende intorno a 20 milioni di euro l’anno, mentre quello di Palermo 35. Grazie alla rinegoziazione dei contratti con le società private che mettono a disposizione le apparecchiature, si spende meno: dai circa 300 milioni totali del 2009 si è scesi ai 230 del 2015 fino ai 205 del 2016. Chi stabilisce se una conversazione è o non è rilevante? - La riforma sembra non piacere a nessuno, almeno non tutta. È stato introdotto il divieto di trascrizione anche sommaria delle intercettazioni non rilevanti - quelle, cioè, che riguardano i dati sensibili (preferenze sessuali, vizi privati, salute, opinioni politiche, religione) - o delle conversazioni tra l’indagato e il suo difensore. A decidere se una conversazione è rilevante è la polizia giudiziaria, che si limita a scrivere nel brogliaccio (l’elenco delle conversazioni intercettate con il sunto di quelle rilevanti) soltanto ora, data e dispositivo con il quale sono state eseguite. Se ha dei dubbi chiama il magistrato, il quale valuta e, in caso la pensi in modo diverso, deve emettere un decreto che autorizza la trascrizione. Il rischio è che una conversazione che è irrilevante, ma molto compromettente per chi parla, non arrivi al pm ma resti solo a conoscenza dell’agente che l’ha sentita e che potrebbe rivelarla ai suoi superiori (come gli impone una norma varata l’anno scorso e molto discussa). E chi può garantire che a qualcuno non possa venire in mente di usarla in modo distorto, magari per un ricatto? C’è chi, come il presidente dell’Anm Eugenio Albamonte, ha parlato di “strapotere della polizia giudiziaria” aggiungendo che “diventa impossibile un vero controllo da parte del pm” e che “non dare copia agli avvocati di tutto il materiale intercettato è un vulnus”; mentre il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato sostiene che se c’è un rischio di sottovalutare le conversazioni di interesse, c’è anche il rischio di ridurre la circolazione delle informazioni tra le procure. Cosa cambia a partire dal 26 luglio - Gli atti andranno conservati in un archivio riservato gestito “sotto la direzione e la sorveglianza del procuratore della Repubblica, con modalità tali da assicurare la tutela del segreto”. Se gli avvocati vogliono accedere all’archivio per capire se ci sono intercettazioni che non sono state usate dall’accusa, ma che potrebbero essere utili alla difesa del loro assistito, le possono solo ascoltare, senza copiarle o trascriverle. Tutto questo apre un’autostrada di problemi per procure, avvocati e anche giornalisti, mentre i dati restano paradossalmente a totale disposizione delle società private che fanno le intercettazioni e che, come si è successo almeno in un caso, potrebbero anche usarli per fini non proprio leciti. Intervenendo a Milano ad un convegno organizzato da Unicost - la corrente più rappresentativa nella magistratura che ha chiesto il differimento dell’entrata in vigore della norma - il capo della locale procura, Francesco Greco, ha detto chiaramente che per luglio non sarà possibile allestire l’archivio. “Forse abbiamo individuato un luogo fisico nel quale non potranno andare più di 15 postazioni, ma ce ne vorrebbero molte di più” ha esordito spiegando che mancano server pc e software. “Non abbiamo il personale che sappia usare questi nuovi sistemi e che sorvegli l’ingresso degli avvocati, che non si sa se bene se devono essere perquisiti”. A tutto questo deve provvedere il Ministero. Pare, comunque, che si stia cercando una soluzione condivisa. Greco ha detto che i procuratori sono “sconcertati” per “problemi che consiglierebbero un ministro più attento e un legislatore più accorto a rinviare l’applicazione” e ha chiesto l’intervento del Csm. Dal Ministero, invece, assicurano che tutto procede per essere pronti per il 26 luglio e che è stato inviato al garante della privacy il decreto sull’archivio riservato. Avvocati sul piede di guerra - Anche gli avvocati sono sul piede di guerra. Se plaudono alla “condivisibile esigenza di evitare le oramai intollerabili fughe di notizie”, sono preoccupati per la compressione del diritto di difesa. Solo un imputato con grandi mezzi economici potrebbe permettersi uno stuolo di legali che, armati della sola memoria da Pico della Mirandola, in massimo 20 giorni scandaglino ore e ore di intercettazioni per trovare quella che magari salva il cliente. C’è poi la questione del “trojan”, il virus informatico che può essere inoculato dagli investigatori negli smart-phone copiandone il contenuto e attivando microfoni e telecamere. È uno strumento molto invasivo per la libertà delle persone che era usato quasi esclusivamente per delitti di mafia e di terrorismo, ma che ora la nuova normativa estende anche ad altri reati. Ebbene, le linee guida sull’utilizzo di questo strumento non sono ancora chiare. La legge non dice nulla invece sui sequestri di telefonini o computer: dentro c’è tutta la tua vita, i tuoi vizi e debolezze. Oggi ne viene fatta copia integrale che finisce poi nel fascicolo e agli avvocati. E se c’è materiale “scomodo” può finire giornali. Basta applicare le leggi che ci sono già - La legge non dice nulla nemmeno sul destino dell’enorme quantità di ore di intercettazioni e filmati conservati nelle stanze riservate delle procure: rimangono nelle disponibilità delle società private di intercettazioni e non si sa se andranno distrutte e quando. Insomma l’intento della nuova normativa di disciplinare l’indisciplinabile, aumenterà i costi e i passaggi burocratici, con il rischio di allungare tempi e costi dei processi. Sarebbe più realistico applicare le leggi che già esistono, ovvero la deontologia professionale per i giornalisti e le sanzioni per i magistrati che abusano delle intercettazioni. “Giù le mani dal pm del G8”. Magistratura democratica difende la toga genovese di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 23 marzo 2018 Morosini (Md): “nessuno mette in discussione l’operato delle forze di polizia, ma vanno attivati gli anticorpi verso gli abusi di potere che minano lo stato di diritto”. I consiglieri del Csm di Area-Md si sono schierati ieri a favore del sostituto pg di Genova Enrico Zucca, nell’occhio del ciclone per alcune sue affermazioni a proposito delle gerarchie della polizia di Stato. “Chi ha coperto i torturatori del G8 di Genova, come dicono le sentenze della Corte di Strasburgo, sono i vertici della polizia, come possiamo chiedere all’Egitto di consegnarci i loro torturatori”, aveva detto la toga genovese durante un convegno sul diritto internazionale alla presenza dei genitori di Giulio Regeni. Riferimento neppure tanto velato ai numerosi dirigenti della polizia che, seppure condannati in via definitiva per aver falsificato le prove contro gli occupanti della scuola Diaz, prima di essere arrestati illegalmente e resi oggetto di un violento pestaggio, avevano scalato in scioltezza tutti i gradi del Dipartimento della pubblica sicurezza. Fino a raggiungere, come nel caso di Gilberto Caldarozzi, addirittura il posto di n. 2 della Direzione investigativa antimafia. Le dichiarazioni di Zucca hanno scatenato l’ira del capo della polizia Franco Gabrielli, secondo cui si tratterebbe di frasi “ignobili”, finite immediatamente sotto la lente del ministro della Giustizia Andrea Orlando e del pg della Cassazione Giovanni Fuzio per una loro verifica sotto l’aspetto disciplinare. Il presidente della prima Commissione del Csm, il laico Antonio Leone, si era spinto anche oltre, chiedendo di appurare se a carico di Zucca potesse esserci una incompatibilità di tipo ambientale con conseguente trasferimento d’ufficio del magistrato. Di diverso avviso, invece, i togati di Area- Md, il gruppo progressista della magistratura associata al quale è iscritto Zucca. Ercole Aprile, giudice di Cassazione, ha evidenziato come gli “attacchi” a Zucca, il pm che ha indagato sui fatti della Diaz, siano ormai una costante e che “già in passato han- no determinato l’apertura di una pratica a tutela” del magistrato genovese proprio per salvaguardare il diritto della toga ad esprimere le proprie opinioni. Il riferimento è ad una impropria richiesta dell’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano, su sollecitazione dell’ex capo della polizia Alessandro Pansa, di avviare un procedimento disciplinare a carico di Zucca. I vertici della polizia avevano chiesto la testa del magistrato “reo” di aver detto che su quanto accaduto Genova c’era stata una “rimozione” collettiva da parte delle Forze dell’ordine. “Ferma restando la libertà di ogni componente del Csm di sollecitare una valutazione da parte del Consiglio, inviterei a maggiore cautela nell’anticipare giudizi sommari perché bisogna verificare il contesto in cui tali dichiarazioni sono state rese e leggerle con attenzione nella loro completezza per evitare il rischio di generalizzazioni non volute”, ha detto Ercole Aprile. Più “diretto” l’ex gip di Palermo Piergiorgio Morosini che, senza tanti giri di parole, ha invitato tutti ad una riflessione sui fatti di Genova: “La drammatica vicenda del G8 del 2001 oggetto di sentenze non solo della magistratura italiana ma anche della Corte Edu, impone grande cautela nella valutazione delle dichiarazioni Zucca”. I pestaggi di Genova sono costati all’Italia una condanna di Strasburgo oltre a risarcimenti milionari nei confronti delle vittime. I provvedimenti legislativi conseguenti, in tema di tortura, non hanno poi fornito una risposta efficace al riguardo. “Prima di formulare giudizi, anche di tipo deontologico, è bene conoscere i passaggi salienti dell’intervento e il contesto in cui le frasi sono stare riferite stante la delicatezza dei temi affrontati”, ha aggiunto Morosini, sottolineando come “nessuno ha intenzione di mettere in discussione l’operato di tanti esponenti delle Forze di polizia che ogni giorno fanno il loro dovere tra mille difficoltà; ma vanno attivati tutti gli anticorpi verso quegli abusi di potere che minano lo Stato di diritto”. “Il legame perverso tra procure e polizia è peggiore del legame tra procure e stampa” di Simona Musco Il Dubbio, 23 marzo 2018 Intervista a Enrico Zucca, sostituto procuratore generale di Genova. “Punire e rimuovere i funzionari coinvolti in fatti commessi in violazione dell’articolo 3 della Cedu è un obbligo convenzionale, non un’opinione”. Enrico Zucca, sostituto procuratore generale di Genova e pm del processo sul pestaggio alla scuola Diaz durante il G8, non si tira indietro di fronte alle polemiche, dopo il suo intervento ad un convegno sul caso Regeni, organizzato dall’ordine degli avvocati di Genova. Un intervento che le agenzie di stampa hanno riassunto in una frase - “i nostri torturatori sono al vertice della Polizia, come possiamo chiedere all’Egitto di consegnarci i loro torturatori?” - e che ha scatenato reazioni furiose, tra le quali quelle del capo della Polizia Franco Gabrielli, che ha parlato di accuse “infamanti” e “oltraggiose”. Ma, spiega il magistrato, a parlare sono principalmente i fatti, cristallizzati dalle pronunce della Corte europea che ha statuito che, nonostante gli sforzi degli inquirenti, “i responsabili di quanto accaduto alla Diaz non sono stati individuati perché la Polizia si è impunemente rifiutata di collaborare con la magistratura”. Una conclusione racconta al Dubbio, che “dovrebbe far riflettere”. La sua frase ha suscitato molte polemiche. Ma come sono andati veramente i fatti? Accetto di ritornare sull’argomento perché ritengo necessario ricostruire una base informativa reale, su cui possono legittimamente basarsi la libere valutazioni. Si è attivato un circuito mediatico, le cui dinamiche sono poco controllabili, su dati non verificati. Ho fatto un intervento nel corso di un convegno organizzato da avvocati, quindi addetti ai lavori, che verteva sulla tutela dei diritti umani a livello internazionale. Un dibattito focalizzato sull’esperienza del caso Regeni e durante il quale ho fatto un discorso piuttosto ampio. I giornali hanno riportato una frase mozzata e prima di scrivere avrebbero potuto meglio documentarsi: l’incontro è videoregistrato. Ma non è che voglia scappare, è risaputa la nomina in posti di responsabilità di vertice di funzionari condannati per reati infamanti, cioè di aver coperto la tortura alla Diaz, un’azione che la Cassazione ha definito “scellerata mistificazione”, con l’aggiunta che quanto avvenuto “ha gettato discredito all’Italia nel mondo intero”. Questo è un dato obiettivo di verità che ben può essere rappresentato anche dalla frase brutale - che non ho detto - lanciata impropriamente dalle agenzie di stampa. Le è stato contestato di aver espresso la sua opinione su un fatto vero, insomma. Il dato può essere valutato sotto diversi profili, di opportunità o politica. Io l’ho esposto e valutato per quanto mi compete, cioè come violazione convenzionale che fa parte della sentenza di condanna della Cedu, che richiede in caso di condanna ben altri epiloghi che la collocazione in ruoli operativi di responsabilità di comando dei funzionari pubblici. L’Italia è stata richiamata a marzo 2017 a giustificare questo dal Comitato dei ministri del consiglio di Europa, organo che monitora l’esecuzione delle sentenze di condanna della Corte Edu, che ha richiesto informazioni sulle sanzioni disciplinari inflitte ai condannati, che avrebbero dovuto, contrariamente a quello che è avvenuto, essere sospesi in pendenza di giudizio. Informazioni che i governi non hanno mai dato alla Corte, che infatti stigmatizza nelle sue sentenze il silenzio sul punto. Tra le critiche c’è anche quello di aver equiparato i fatti della Diaz al caso Regeni. In che senso si possono accostare? La registrazione del mio intervento smentisce questa sciocchezza. L’accostamento semmai non è tra i fatti, di evidente diversa gravità - per quanto nel raid alla Diaz si sia rischiata la morte di almeno tre feriti, portati in codice rosso all’ospedale, ma tra le reazioni degli apparati istituzionali dopo i fatti, cioè nel caso dei processi del G8 genovese, l’omertà, la copertura, quindi il tradimento - impunito - secondo la Corte Edu, dell’obbligo di collaborare per la ricerca dei colpevoli delle violenze. Dunque violazione convenzionale, della Cedu e della Convenzione Onu che impongono indagini serie ed efficaci per l’accertamento dei fatti di tortura. A quest’ultima convenzione è legato anche l’Egitto, paese dittatoriale. Ecco la riflessione che ho fatto: con le nostre violazioni delle convenzioni internazionali, su episodi di ben diversa gravità, non possiamo negare di aver perso autorevolezza nell’invocare ora, come sarebbe giusto fare, il rispetto dei principi e degli obblighi giuridici derivanti dalle convenzioni stesse, abbiamo cioè lasciato solo al rapporto di forza, alle convenienze delle reciproche ragion di stato la sorte delle indagini nel caso Regeni. Abbiamo dimostrato di non credere neppure noi alla cogenza delle convenzioni e dei valori in esse codificati. Nel confronto con una dittatura non è cosa di poco conto. Se la democrazia non sa essere trasparente non ci si può aspettare di più da altri. Sono venuti meno i principi democratici? Il contesto internazionale dopo l’11 settembre è drammaticamente mutato, anche le democrazie più solide, quelle che si ergevano a baluardo nella tutela dei diritti umani, hanno dubitato della cogenza dei principi su cui si fondano e solo i giudici nelle varie Corti Supreme continuano a sostenerne l’assolutezza. Quello che ho fatto durante il convegno è stato chiedermi se siamo ancora in grado di attenerci a questi principi così alti che ci ricordano i giudici. Per limitarci all’Italia, dalle sentenze di condanna per violazioni della convenzione Edu, forse la risposta è no. Ho fatto riferimenti alla storia del Paese, che ha avuto pagine oscure di tortura istituzionalizzata, rimasta impunita, per fortuna appartenente al passato remoto che si è superato grazie alla fede, allora, in quei principi ora relativizzati. La mia conclusione è stata quella che dobbiamo ritrovare quella fede. Come si può polemizzare sulla sua frase e non sul fatto che ignoriamo i trattati? È un meccanismo di reazione e controreazione, perché sotto la cenere cova fuoco. Ma non per le parole, per i fatti. Il G8 non è chiuso per davvero, se i condannati vengono reintegrati in spregio alle indicazioni della Corte. E su questo non c’è stata polemica: la stampa ha trattato la notizia in maniera asettica, senza nessun commento. Non c’è un organo di stampa in Italia che chieda spiegazioni, che critichi. E se la stampa non critica c’è qualcosa che non va. Negli Usa la recente nomina del nuovo capo della Cia è stata oggetto di critica, per via del suo passato da sovrintendente in un centro di detenzione con interrogatori “rinforzati”, insomma un torturatore, sebbene mai condannato perché (sappiamo ora per quel processo di trasparenza che la democrazia americana assicura grazie all’azione di una stampa libera), addirittura “legalmente autorizzato” dai famosi memoranda dei consiglieri legali del Presidente. Qui c’è una condanna, con anni di galera in parte indultati - altra violazione convenzionale - e c’è stata qualche critica? No. Però è stata avviata un’indagine sulle sue parole... Gli accertamenti sono doverosi, è chiaro che bisogna accertare come siano andate veramente le cose. Certo fa tremare i polsi la circostanza che soggetti istituzionali, poi anche chiamati a pronunciarsi in argomento, anticipino giudizi senza un accenno di verifica, sulla base appunto dei lanci di agenzia. Anche il presidente dell’Anm lancia i suoi giudizi addirittura descrivendo miei atteggiamenti psicologici, senza sapere di cosa parla. Quanto alla eccessiva aggressività che avrei dimostrato nei processi, le sentenze dei Giudici di Appello e Cassazione, se lette, vanno oltre le impostazioni accusatorie, accentuando la responsabilità dei vertici condannati. Non imparziali neppure i giudici? Intanto gira con grande apprezzamento uno sferzante commento pubblicato in prima pagine del Corriere, senza che venga pubblicata la mia smentita alle circostanze arbitrariamente distorte in merito a ciò che ho detto e nessuno ha sentito. Così va il mondo assecondando il vento del momento, come se si fosse aspettata l’occasione per togliere voci dissonanti. La pistola taser in uso alla polizia. I primi test partono da Milano di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 23 marzo 2018 L’arma elettrica che immobilizza le persone. Via alla sperimentazione in sei città. Il via libera è arrivato, già deciso l’elenco delle questure. Parte la sperimentazione della pistola elettrica taser, che serve a immobilizzare le persone con una scossa e consente di avere un’alternativa al manganello e soprattutto alle armi da fuoco. Si comincia a Milano, Brindisi, Caserta, Catania, Padova e Reggio Emilia. La circolare firmata dal capo della direzione anticrimine è partita il 20 marzo. Appena i poliziotti avranno misurato gli effetti del dispositivo e soprattutto testato l’utilizzo si andrà a regime in tutta Italia. Una procedura che coinvolge anche i carabinieri. Il puntatore laser - Già dal 2014 era stata valutata la possibilità di questa nuova dotazione per le forze dell’ordine, soprattutto per chi è impiegato nei servizi di ordine pubblico. Ma soltanto negli ultimi mesi si è arrivati a una soluzione condivisa con i sindacati che si erano molto spesi per ottenere la pistola “per essere al passo con le polizie di tutta Europa”. Agli inizi di gennaio si è dunque scelto il modello da usare. Il taser di dotazione sarà l’”X2 con scarica elettrica ad intensità regolare con durata controllata di 5 secondi; sistema di mira con doppio puntatore laser, uno per ogni dardo; possibilità di colpire il bersaglio fino a 7 metri di distanza; colpo di riserva, quindi se si dovesse mancare il bersaglio sarà possibile sparare nuovamente senza dover per forza caricare il taser manualmente”. Inoltre “ogni operatore avrà sulla propria divisa una particolare telecamera a colori ad alta definizione - dotata anche di visione notturna - che si accende automaticamente non appena viene tolta la sicura dell’arma, così da controllarne l’operato”. Il fermo dei sospetti - La richiesta di utilizzare il taser era stata presentata dagli agenti “per evitare colluttazioni con i fermati”. Sono stati fatti numerosi incontri con i funzionari al vertice del dipartimento guidati dal capo della polizia Franco Gabrielli che lo hanno ritenuto uno strumento efficace “per ridurre gli interventi corpo a corpo”, ma anche “per fronteggiare le aggressioni in cui ogni giorno vengono coinvolti poliziotti, carabinieri e militari”. Non a caso sono state studiate le linee guida che tutti dovranno seguire e soprattutto si è decisa la sperimentazione. La circolare diramata il 20 marzo scorso dal prefetto Vittorio Rizzi, conferma gli accordi presi e indica alla direzione logistica e all’ufficio per il coordinamento e la pianificazione delle forze dell’ordine la decisione di procedere. La scelta delle questure prevede di sperimentare la nuova arma in realtà diverse che comprendono città caratterizzate dalla delinquenza di tipo comune, ma anche quelle del Sud dove più alta è invece l’incidenza della criminalità organizzata. Patteggiamento a ricorso limitato di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 23 marzo 2018 Corte di cassazione - Sentenza 13434/2018. Stretta sulla contestazione del patteggiamento. La Corte di cassazione, con la sentenza 13434 della Quinta sezione penale, depositata ieri, ha infatti applicato, ed è una della primissime volte, la riforma in vigore da pochi mesi, dall’agosto scorso, del processo penale, che ha introdotto una riduzione dei motivi di impugnazione. Tra questi ultimi aveva trovato posto nel caso concreto la violazione dell’accordo raggiunto tra le parti che subordinava l’efficacia della richiesta di patteggiamento alla concessione della sospensione condizionale delle pena, concessione che però non venne poi accordata. La Corte, nell’affrontare l’impugnazione, sottolinea innanzitutto il cambiamento normativo che, quanto al ricorso contro la sentenza di patteggiamento, ne limita la proponibilità solo a motivi che riguardano l’espressione della volontà dell’imputato, il difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, l’erronea qualificazione del fatto e l’illegalità della pena. Al di fuori di questa casistica non è possibile la contestazione in Cassazione della sentenza concordata. L’obiettivo dell’intervento, coerentemente un po’ con tutto l’impianto della legge n. 103, è quello di circoscrivere l’utilizzo delle impugnazioni, e con particolare riferimento alla Cassazione ridurne i carichi di lavoro rispetto a impugnazioni pretestuose. Il ricorso diventerà possibile, per esempio, quando risulta che la decisione non corrisponde alla richiesta oggetto dell’accordo formatosi tra le parti anche in termini di specificazione di ciascuna delle condizioni che la compongono; è il caso del mancato riconoscimento, a pena quantitativamente inalterata, di alcune delle circostanze attenuanti concordate o la omessa concessione della sospensione condizionale della pena o la applicazione della sanzione sostitutiva se specificamente richieste. Così, la Cassazione respinge il ricorso mettendo in evidenza che non emerge un difetto di correlazione tra la richiesta di applicazione della pena che era stata formulata e la successiva sentenza, perché la subordinazione dell’efficacia della richiesta alla concessione della sospensione condizionale della pena era stata formulata a condizione che al riconoscimento del beneficio della sospensione stessa non fosse di ostacolo una precedente condanna subita dallo stesso imputato. Con la conseguenza che il giudice non applicando la sospensione non ha affatto violato un accordo raggiunto, avendo, tra l’altro, indicato le ragioni della decisione negativa e cioè il fatto che l’imputato aveva riportato una condanna a 6 mesi di reclusione a 6 mesi di detenzione riportata solo 2 anni prima e questa sì poi oggetto di sospensione condizionale. La sentenza puntualizza poi, di fronte al ricorso di un altro imputato che aveva messo nel mirino l’effetto preclusivo della recidiva rispetto all’accesso al patteggiamento, che non rappresenta una violazione di legge, da valorizzare eventualmente a titolo di illegalità della pena, l’applicazione, a un altro imputato, della pena su richiesta superiore a 2 anni, anche se gli era stata contestata l’aggravante della recidiva, visto che il giudice ha ritenuto che il reato in concreto commesso non fosse espressione della particolare pericolosità dell’interessato. La natura privatistica dell’attività svolta non lascia margini per l’abuso di ufficio di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 23 marzo 2018 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 22 marzo 2018 n. 13284. Non può essere ravvisato il reato di abuso di ufficio a carico di soggetti che non abbiano una qualifica soggettiva di pubblici ufficiali o incaricati di pubblici servizi e che in concreto svolgano lavori che non abbiano un’attinenza diretta con il servizio pubblico. La vicenda - Questo il principio espresso dalla Cassazione con la sentenza n. 13284/18. Secondo la Corte la circostanza che la società avesse ricevuto una concessione per l’espletamento dell’attività non bastava a connotarla come pubblica in quanto si si trattava di pulizia dell’aerostazione ma soprattutto della progettazione, sviluppo, realizzazione, adeguamento, gestione, manutenzione e uso degli impianti e delle infrastrutture dell’aeroporto di Fontanarossa. I Supremi giudici anche per rafforzare le motivazioni hanno richiamato un precedente (sentenza n. 6427/10) che di fatto aveva escluso la sussistenza della qualifica di incaricato di pubblico servizio del componente di un’azienda speciale aeroportuale che aveva come scopo quello di incrementare le attività turistiche e commerciali a esso collegate, sulla base quindi della natura privatistica dell’ente in quanto privo di poteri autoritativi e certificativi. Si legge nella decisione, pertanto, che nell’individuazione del pubblico servizio occorre considerare tutti i servizi previsti dal Dlgs 18/1999, con esclusione di tutte le altre attività di carattere commerciale, anche se svolte in ambito aeroportuale, alle quali va attribuita esclusiva natura privatistica. I servizi prestati - Nella fattispecie i servizi effettivamente oggetto di concessione erano limitati alla realizzazione di condotte e attività direttamente riferibili agli impianti e alle infrastrutture aeroportuali. Veniva effettuata inoltre l’attività di pulizia dei soli locali della stazione aeroportuale di Catania (e non anche degli aerei) così da integrare un lavoro assoggettabile nella sfera esclusivamente di diritto privato. Il direttore della testata online deve togliere il post diffamatorio di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 23 marzo 2018 Corte di cassazione - Sentenza 13398/2018. Il direttore responsabile della testata giornalistica online risponde per gli articoli postati in maniera anonima, se non li rimuove tempestivamente. La Cassazione, (sentenza 13398) accoglie il ricorso della parte civile - respinto in appello - che chiedeva i danni per la diffamazione subìta a causa di un articolo senza firma, pubblicato nel sito web di un giornale, con il quale gli venivano attribuiti fatti specifici. La Corte d’appello aveva negato che, nel caso esaminato, potesse scattare la “colpa” del direttore prevista dall’articolo 57 del Codice penale. I giudici di seconda istanza erano partiti da un principio errato, assimilando il giornale telematico più alla tv che alla “carta” per l’assenza dei requisiti tipici della riproduzione telegrafica. Infine avevano anche concesso, con una motivazione “sbrigativa”, la tutela del diritto di cronaca. La Cassazione fa ordine. I giudici ricordano, prima di tutto, che già le Sezioni unite hanno chiarito che il giornale online è sottoposto allo stesso trattamento della stampa, sia per quanto riguarda i diritti, sia per i doveri. Sempre le Sezioni unite hanno in realtà anche escluso una responsabilità del direttore per i commenti online postati direttamente dall’utenza, difficili da “arginare”. Nello specifico, però, i giudici della quinta sezione penale non escludono la responsabilità soltanto perché l’articolo era stato postato senza firma, valorizzando alcuni elementi, ad iniziare dalla posizione dello scritto e dal tempo di permanenza online. Il “pezzo” diffamatorio era inserito nel corpo della testata, dove era rimasto per quasi 12 mesi, alla portata di un numero potenzialmente illimitato di lettori. Una modalità che lascia presumere la possibilità da parte del direttore - che nello specifico era anche amministratore del sito dove veniva pubblicato il giornale - di fare un controllo preventivo. Ma la Suprema corte va oltre, spiegando che neppure l’accertamento dell’impossibilità di controllare prima della pubblicazione il contenuto dell’articolo postato in forma anonima salverebbe il direttore. La responsabilità a titolo di colpa o di concorso prevista nella diffamazione, a seconda che ci sia adesione o meno rispetto alle affermazioni incriminate, scatta se il pezzo postato non viene rimosso. E il reato dura fino a quando lo scritto non viene tolto dalla rete. Al dentista non abilitato alla professione vanno confiscati studio e attrezzature di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 23 marzo 2018 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 22 marzo 2018 n. 13307. Legittimo il sequestro preventivo delle attrezzature e apparecchiature rinvenute nello studio dentistico, quando il titolare sia privo di un titolo abilitativo alla professione e tutto lasci presagire il regolare svolgimento dell’attività di odontoiatra. Il fumus commisi delicti - La Cassazione, con la sentenza n. 13307/18, ha rilevato come nella fattispecie fosse di tutta evidenza la presenza del fumus commisi delicti, condizione prodromica all’applicazione della misura cautelare reale. L’indagato si era difeso rilevando come era vero che indossasse un camice verde, ma all’interno dello studio non c’era alcun paziente e non stesse eseguendo alcuna attività riservata agli iscritti all’albo dei medici odontoiatri. A sua difesa il soggetto ha rilevato, inoltre, come avesse ottenuto in Portogallo l’abilitazione all’esercizio della professione odontoiatrica sin dal 2003 e che tale qualifica alla luce delle direttive comunitarie n. 786/78 e n. 787/86, del principio di non discriminazione tra i diversi cittadini dell’Unione europea e dell’articolo 10 del Dlgs 206/2007 “che consente di compiere interventi, anche in assenza di iscrizione all’albo italiano, perfino in assenza di alcuna comunicazione al ministero della Salute, quanto meno nei casi di stretta urgenza”. La Cassazione ha smontato completamente la tesi difensiva. Si legge, infatti, come l’ordinanza impugnata avesse messo in evidenza che - durante un controllo della polizia giudiziaria - nell’ambito della repressione e contrasto al lavoro nero aveva rinvenuto all’interno dello studio il titolare dello studio, una socia e tre dipendenti. Questi ultimi, rigorosamente con camice verde, avevano la mansione di segretaria e assistenti alla poltrona. La sentenza ha ravvisato la presenza del fumus alla stregua dei seguenti elementi: 1) l’atteggiamento del titolare dello studio e delle tre assistenti, tutti con camice verde; 2) la struttura dello studio oggetto di accesso i cui locali erano “allestiti e pronti all’uso”; 3) l’assenza nello studio di un medico odontoiatra abilitato all’esercizio della professione; 4) la disponibilità da parte della società di altro studio dotato di strutture omogenee; 5) la posizione dell’indagato come socio accomandatario dell’impresa; 6) l’allegazione di sole due fatture al mese per tre medici, eccessivamente modesta rispetto alla complessità della struttura della società. Sul fronte della presunta abilitazione ottenuta in Portogallo, la Cassazione ricorda come il titolo ottenuto in uno Stato Ue sia abilitativo anche in Italia alla sola condizione che il soggetto abbia presentato apposita domanda al ministero della Sanità e questo dopo aver accertato la regolarità dell’istanza nonché la presenza di tutte le credenziali, abbia trasmesso la stessa all’ordine competente per l’iscrizione. La normativa italiana - Per concludere nella decisione viene ricordato come l’articolo 10 del Dlgs 206/2007 vieti al prestatore di opera proveniente da altro Stato membro di esercitare qualunque attività professionale senza aver previamente informato con dichiarazione scritta l’autorità competente “salvo i casi di emergenza”. Ma in modo del tutto logico la Cassazione ha escluso che uno studio così ben strutturato e dotato di personale potesse servire per fare fronte esclusivamente a questa tipologia (assolutamente residuale) di casi. Umbria: dal carcere al lavoro grazie al Progetto “Sfide 2” lavoce.it, 23 marzo 2018 Il progetto “Sfide 2: una buona pratica di presa in carico multi-professionale”, finanziato dalla Regione Umbria con 592 mila euro e gestito dalle cooperative sociali “Frontiera lavoro” di Perugia, Helios di Terni e il Quadrifoglio di Orvieto, ha coinvolto 80 cittadini in esecuzione penale. Ossia, detenuti affidati agli uffici di Esecuzione penale esterna di Perugia e Terni per favorirne l’inclusione in contesti lavorativi, in modo da facilitare la loro integrazione sociale. In questo modo si vogliono mettere a disposizione delle persone contenuti di orientamento al lavoro e formativi, utili per potersi approcciare con efficacia al mercato del lavoro. Il progetto “Sfide 2” vuole diventare una buona prassi, replicabile e sostenibile, sul tema dell’inclusione di persone detenute. “Le statistiche afferma Roberta Veltrini, presidente della cooperativa sociale Frontiera lavoro ci dicono che solo il 27% delle persone in esecuzione penale svolge un’esperienza di lavoro durante la permanenza in carcere, e di questi solo il 19% presso datori di lavoro esterni alla struttura penitenziaria. Con il progetto “Sfide 2” vogliamo offrire un’occasione di integrazione sociale concreta per persone che si trovano in regime di restrizione della libertà. Il ciclo di incontri di sensibilizzazione che abbiamo organizzato su tutto il territorio regionale ha puntato proprio a spiegare all’opinione pubblica e alle aziende del territorio il valore etico e sociale insito nell’offrire percorsi di reinserimento sociale e lavorativo per i detenuti. Fornire a persone in esecuzione penale gli strumenti per cercare un lavoro è dare loro una speranza di integrazione unica che richiede il sostegno delle imprese, il primo luogo in cui si realizza l’integrazione sociale”. Ben 206 sono state le aziende, di diversi settori produttivi, che hanno aderito al progetto; e 80 sono stati i percorsi di inserimento al lavoro attivati attraverso lo strumento del tirocinio formativo che ha previsto una durata di 6 mesi per una indennità mensile di 800 euro. Al termine dell’esperienza formativa, 35 destinatari sono stati assunti con regolare contratto di lavoro dalle aziende ospitanti. In “Sfide 2” le persone sono state seguite dagli operatori del progetto con un programma di educazione e orientamento al lavoro volto ad agevolare il loro futuro ingresso nel mercato ordinario del lavoro. Le attività hanno previsto colloqui individuali, redazione di un progetto professionale, orientamento di gruppo e individuale, sostegno all’integrazione, monitoraggio del percorso svolto. Le attività sono state condotte dal personale di Frontiera lavoro, Helios e Quadrifoglio con la metodologia e il know-how che da oltre 20 anni contraddistinguono il loro operato. Il bilancio delle competenze e la redazione del progetto professionale sono alla base di una metodologia che ha come presupposto fondamentale l’adesione attiva del beneficiario al percorso di educazione e orientamento al lavoro. “Come dimostra l’esperienza che abbiamo maturato anche in altri contesti dichiara Luca Verdolini, coordinatore del progetto Sfide 2 la rieducazione delle persone in esecuzione penale è efficiente sia per loro stessi sia per la società e il lavoro è la forma più adeguata per perseguirla. L’esperienza lavorativa, infatti, aumenta il grado di stima dei detenuti consentendo una riscoperta della loro dignità, permette il recupero dei legami familiari favorendo una rinnovata socialità e, infine, incide sulla recidiva migliorando i comportamenti individuali e le abitudini sociali. Per questo, riteniamo che il progetto Sfide 2 rappresenti un’occasione unica per i carcerati di sperimentare un contesto reale con cui misurarsi”. Ravenna: De Caro (Associazione Antigone) “pochi detenuti accolti fuori per lavorare” di Federica Ferruzzi settesere.it, 23 marzo 2018 Alla luce dell’approvazione, da parte del Consiglio dei ministri, della riforma dell’ordinamento penitenziario, che allargherà la possibilità di accedere alle misure alternative al carcere per i detenuti, abbiamo chiesto ad Elia De Caro, presidente regionale dell’associazione Antigone - l’osservatorio sulle condizioni di detenzione nelle oltre 200 carceri italiane - di tracciare un bilancio relativo a quelle locali. Il testo della riforma, lo ricordiamo, non è definitivo e dovrà tornare alle commissioni parlamentari per l’ultimo vaglio. De Caro, partiamo dall’inizio: Salvini, in un tweet, lo ha definito un sistema “salva-ladri”, lei cosa ne pensa? “Si tratta di una riforma che interviene solo su alcuni aspetti della vita detentiva. Si poteva fare di più, questa revisione è fin troppo timida, ma è comunque un passo in avanti. Nessuno ancora ne conosce bene i dettagli, ma non sarà uno svuota carceri: non ci sono nuove misure alternative, bensì l’aggiornamento di alcuni provvedimenti. Ad esempio viene ampliato l’affidamento in prova e viene permesso il trasferimento anche per motivi di lavoro oltre a quelli di salute e familiari. Ai fini del reinserimento sociale è fondamentale creare opportunità per l’apprendimento di un mestiere. Se una persona commette un reato è nell’interesse della società che non lo commetta di nuovo. Ora, se si butta la chiave il problema non si risolve, perché una volta scontata la pena l’individuo uscirà dal carcere e allora saremo daccapo. A Bologna, ad esempio, si sta sperimentando il lavoro di detenuti in un’officina meccanica che li sta trasformando in operai specializzati, cosa che permetterà loro di mantenersi e pagare le spese della detenzione. L’obiettivo è creare un carcere che funzioni e alleggerire lo Stato dalle tante spese a cui deve far fronte. In questo senso la riforma va nella direzione di riconoscere maggiormente e di far sviluppare le professionalità dei singoli. Ben venga quindi che il trasferimento non sia più utilizzato solo come decompressione degli istituti”. A giugno avete effettuato l’ultimo sopralluogo nel carcere di Ravenna, come lo avete trovato? “È proprio da Ravenna che vorremmo inaugurare il 2018 perché nell’ultimo periodo ci sono stati segnalati episodi di suicidio e occorre un ulteriore sopralluogo. Il 23 saremo a Roma per la riunione del direttivo nazionale e lì stabiliremo una nuova data di visita. Il carcere di Ravenna, così come quello di Forlì, presenta una struttura molto datata, poco adatta ad un istituto di pena proiettato alla rieducazione, in cui svolgere attività educative ed incontri familiari in modalità protetta. In generale devo dire che la situazione a livello romagnolo è migliorata perché è migliorato il rapporto con il magistrato di sorveglianza. Sul fronte del lavoro, però, c’è ancora molto da fare: se a Rimini solo un terzo dei detenuti lavora, ma almeno esistono datori di lavoro esterni al carcere, a Ravenna non ci sono aziende esterne in grado di impiegare detenuti. Qui esistono corsi di cucina base, di mosaico, di catalogazione di libri, per citarne alcuni, a cui accedono 45 degli oltre 70 detenuti, ma non ci sono datori di lavoro diversi dall’amministrazione penitenziaria. La direzione è attenta, ma rimane difficile trovare imprenditori che abbiano voglia di investire. Diversa, ad esempio, la situazione a Bologna, dove invece si sono mosse ditte importanti quali Maccafferri e Bonfiglioli. Per questo a Ravenna servirebbe una campagna di sensibilizzazione tra l’imprenditoria locale. Nella nostra regione c’è sempre stata una situazione di maggiore attenzione al volontariato rispetto ad altre realtà, ma devo dire che anche qui stiamo riscontrando il trend degli istituti del Nord Italia, dove c’è una forte presenza di detenuti stranieri, per cui spesso è più difficile costruire percorsi alternativi per mancanza di pregressi contatti con i servizi o di reti familiari di riferimento, e un sottodimensionamento del personale educativo che causa difficoltà nella redazione di progetti. Siamo messi meglio di altre realtà regionali, ma continuiamo a scontare un forte tasso di presenze, un sovraffollamento e un sottodimensionamento degli organici”. Qual è invece la situazione nella casa circondariale di Rimini? “Per quanto riguarda Rimini è in programma, a breve, il trasferimento a Reggio-Emilia della sezione che ospita i detenuti transessuali. Nel carcere emiliano è infatti presente uno spazio che un tempo era riservato all’ospedale psichiatrico giudiziario dove, ci auguriamo, questi detenuti possano trovare migliore collocazione. Il trasferimento, in sé, non comporta automaticamente il miglioramento delle condizioni, ed è per questo che bisognerà ricostruire un tessuto di volontariato attivo, la predisposizione di attività mirate ed il coinvolgimento dell’Ausl per garantire assistenza adeguata a questi detenuti. Il carcere di Rimini, a livello strutturale, non è messo peggio di altri, ma sconta mancanze storiche, ad esempio non è mai stato approvato un regolamento di istituto, esiste solo un documento interno”. Milano: la libertà? Piantala. Ecco gli alberi al carcere di Bollate di Roberta Rampin Il Giorno, 23 marzo 2018 Venti nuovi alberi, il legame simbolico tra i detenuti e chi crede nella possibilità del recupero sociale: è l’ultima iniziativa del Rotary. Albero come simbolo della vita. Albero come logo del Gruppo della Trasgressione. Da ieri l’albero, o meglio venti alberi, sono diventati il legame tra i detenuti del carcere di Bollate e chi dall’altra parte del muro crede nella loro rinascita alla vita, in questo caso il Rotary Club Milano Duomo. L’iniziativa rientra nella mission del Rotary Club di promuovere equilibrio e benessere e rafforza la collaborazione che da anni esiste fra Rotary Club Milano Duomo e il Gruppo della Trasgressione fondato nel 1997 da Angelo Aparo e attivo nel carcere di Bollate e Opera. “Quest’anno la mission a livello internazionale ha come slogan “un albero per ogni socio” e noi abbiamo individuato delle aree dove piantumare gli alberi, due all’interno delle carceri e una oltre le mura - dice Paolo Broglia, presidente del Rotary Club Milano Duomo - l’iniziativa di questa mattina è la prima, ha una valenza ambientale e sociale, ci piace pensare all’albero come a qualcosa che rende più bello il mondo e come rifioritura di persone che nella vita hanno sbagliato”. Gli alberi sono stati piantati nelle aree adibite al passeggio dei detenuti. Le buche sono state fatte dai detenuti, le piante di castagno, leccio, corniolo e ciliegio, sono state sistemate nelle zolle di terra dai soci del Rotary, da Andrea Pernice, Governatore del Distretto Metropolitano Milanese. Zappe per vangare, buche per piantumare e la lettura di alcune poesie scritte dai detenuti del Gruppo che parlano di errori, di alberi e di vite da ricostruire. “Il Gruppo della trasgressione vive cercando di ottenere dal malessere, dal danno e dalla storia di ogni detenuto qualcosa di utile per la società - ha spiegato una detenuta - Chi ha avuto la possibilità e la fortuna di poter partecipare a questo progetto, dopo aver preso coscienza di sé partecipa a iniziative utili a prevenire e combattere il bullismo fra gli adolescenti. In questo modo si crea una possibilità di riscatto per chi, consapevole dei propri errori, ha ancora desiderio di rimettersi in gioco e di diventare una risorsa per quella stessa società che aveva ferito”. Firenze: “così l’istruzione ha cambiato le nostre vite”, le storie di chi ce l’ha fatta La Nazione, 23 marzo 2018 Figure positive - “role model” - che attraverso il racconto delle loro storie di riscatto sociale possono ispirare chi vive in contesti difficili. L’Agenzia nazionale Erasmus+ Indire e l’Unità italiana Epale, la comunità per l’apprendimento degli adulti in Europa, su invito della Commissione europea, hanno ideato il concorso “Storie di Resilienza”. L’obbiettivo era quello di raccogliere testimonianze di migranti, rifugiati, giovani a rischio di abbandono scolastico, detenuti, ex-detenuti, disabili e giovani svantaggiati, che hanno dato una svolta alla loro vita grazie a un percorso di istruzione e di formazione. Gli autori dei 25 migliori racconti sono stati presentati e premiati a Firenze, nella Sala Poccetti dell’Istituto degl’Innocenti, nell’ambito dell’evento “Storie di resilienza. Istruzione, formazione e apprendimento per trasformare le difficoltà in momenti di crescita e riscatto sociale”. “L’iniziativa - spiega la coordinatrice dell’Agenzia Erasmus+ Indire, Sara Pagliai - ci permette di dar voce a persone che vivono esistenze ai margini, vite che non fanno notizia ma che hanno molto da dirci. Abbiamo ricevuto settanta racconti ricchi di umanità, storie diverse ma legate tutte da una “rinascita”, in cui l’istruzione e la formazione hanno avuto un ruolo determinante. Abbiamo presentato gli autori delle storie più significative, perché la loro esperienza possa ispirare altri individui a intraprendere un percorso di crescita”. Fra i racconti selezionati, molte storie di migranti, che dopo il viaggio drammatico verso le coste italiane sono stati accolti e inseriti in percorsi di istruzione universitaria o nel mondo del lavoro. Altre storie riguardano esperienze come il carcere, l’indigenza e la disabilità fisica. Nel corso del 2018, queste persone potranno avere un ruolo di testimonial in scuole, carceri e istituti per l’apprendimento degli adulti per raccontare la loro storia nell’ottica del role model, una figura di riferimento che interviene in favore di un ambiente di apprendimento e di una società più inclusiva e accogliente. Caserta: “Non è mai troppo tardi”; scuola in carcere, al via progetto scolastico del Cpia ecodicaserta.it, 23 marzo 2018 “Non è mai troppo tardi”, questo il progetto che ha preso il via presso il Cpia di Caserta. Previsto nell’ambito del Piano d’interventi nazionale per “La scuola in carcere” (ex art.13 del D.M. n° 663/2016), il progetto si snoda attraverso sette laboratori didattici attivati presso le quattro strutture penitenziarie presenti nella provincia di Caserta (Arienzo, Aversa, Carinola e Santa Maria Capua Vetere) e presso la comunità di giustizia per minori “Angiulli” di Santa Maria Capua Vetere. Tali moduli formativi, saranno tenuti dai docenti interni delle sezioni di scuola carceraria del Cpia in orario extracurriculare. Il progetto prevede, inoltre, un piano di formazione e di aggiornamento professionale specifico per il personale docente e per quello educativo afferente l’amministrazione penitenziaria, che come argomenti principali affronterà le innovative tematiche inerenti la “Didattica capovolta” (in collaborazione con l’Associazione Flipnet a.p.s. di Roma) e l’analisi dei “bisogni educativi speciali” nel problematico contesto dell’educazione-istruzione carceraria. Un’offerta formativa aggiuntiva che si aggiunge ai tanti progetti ministeriali già in corso di svolgimento presso il Cpia, come il progetto sperimentale di educazione finanziaria Edufin Cpia”, che accredita sempre più questa “giovane” istituzione scolastica come centro di ricerca, di sperimentazione e di sviluppo nel campo dell’istruzione in età adulta. L’era della disinformazione (non solo su Facebook) di Luigi Ripamonti Corriere della Sera, 23 marzo 2018 Le fake news, o la post-verità, non sono novità, come non lo sono il complottismo, o la più banale “dietrologia”. Si tratta di fenomeni antichi quanto l’uomo. Già all’alba di Roma circolavano voci, che oggi definiremmo incontrollate, sulla fine di Romolo, il quale, secondo Cassio Dione, sarebbe stato circondato e fatto a pezzi dai senatori mentre pronunciava un discorso. Una “bufala”? Sarebbe solo una delle prime, perché da allora fino ai nostri giorni la Storia ne è costellata, talvolta con conseguenze estremamente tragiche, come nel caso dei Protocolli dei Savi di Sion, un falso noto e pubblicato nei primi del Novecento nella Russia imperiale che ebbe un ruolo non irrilevante nella propaganda antisemita durante il secolo scorso. Si potrebbe continuare ricordando il presunto Nuovo Ordine Mondiale, oppure il gruppo Bilderberg, che secondo alcuni tirerebbe i fili del destino di tutti noi. E gli esempi potrebbero essere ancora molti. Quindi è ingenuo pensare che la circolazione delle leggende, più o meno metropolitane, sia prerogativa del nostro tempo, un sottoprodotto di Internet. É però vero che la comunicazione globale e istantanea ne rappresenta un detonatore formidabile. Come ricorda Rob Brotherton in “Menti sospettose” (Bollati Boringhieri), la politologa Jodi Dean nel 2000 scriveva che “A mano a mano che le reti dell’informazione si fanno sempre più intrecciate, molti di noi si sentono sopraffatti e insidiati da un’incertezza onnipervasiva”. Da allora, continua Brotherton, le cose non possono che essere peggiorate, tanto che uno studio del 2015 sulla diffusione delle teorie del complotto attraverso i social media ha portato a definire il nostro tempo come “L’Era della disinformazione”. Il problema tocca tutti i settori, dalla politica, all’economia, alla cronaca, ma gioca un ruolo particolare nel campo scientifico. La peculiarità sta nel fatto che questo ambito dovrebbe essere quello più immune dalla contaminazione di teorie prive di consistenza, proprio perché retto e governato dal metodo scientifico, che, dai tempi di Galileo, traccia le regole che consentono di vagliare un’ipotesi. Il criterio è semplice: si esegue un esperimento, si descrive esattamente come lo si è fatto (oggi si può tradurre in “si pubblica”), altri lo esaminano, lo ripetono, e vedono se i risultati che ottengono sono gli stessi. In caso contrario l’ipotesi viene scartata. È ciò che il filosofo Karl Popper chiamava falsificabilità: un’affermazione è accettabile in termini scientifici solo se può essere falsificata, cioè sottoposta a una prova in grado di determinare se regge o meno a una verifica controllata. In caso contrario non può nemmeno essere presa in considerazione. Eppure, proprio in aree che dovrebbero essere protette da questa solida armatura concettuale, come per esempio quella della salute, riscuotono attenzione e fanno proseliti alcune fra le notizie e le tesi false più perniciose. Sul perché ciò accada le ipotesi si sprecano. Per esempio, se si considera la diffusione di terapie alternative di dubbia o nessuna efficacia si può additare come ragione l’incapacità del medici di dare ascolto ai malati. Nel caso, invece, dei movimenti anti-vaccinisti, si può rintracciare fra le cause del loro successo la scomparsa dalle cronache delle malattie che proprio i vaccini hanno debellato. Circostanza che potrebbe, infatti, indurre a pensare che le vaccinazioni siano ormai del tutto inutili e rendere più facile concentrarsi sui loro eventuali effetti collaterali piuttosto che sui loro enormi benefici. In questi e in molti altri casi, la credibilità di ciò che circola a ritmi vertiginosi attraverso la rete può fare in effetti la differenza rispetto al passato. Eula Biss, nel suo libro “Vaccini, virus e altre immunità”, cita il caso di un medico che, dopo aver pubblicato un articolo sui vaccini sul proprio sito si è accorto di un errore e lo ha corretto. Peccato che nel frattempo la prima versione avesse già fatto il giro del mondo: quella giusta era ormai del tutto irrilevante perché quella sbagliata era diventata “virale”. Un paradosso semantico, date le circostanze, che serve a capire come informazioni prive di fondamento riescano a influenzare il pensiero collettivo. Si potrebbe obiettare che in questo caso l’informazione di partenza, anche se errata, godeva del credito del suo autore originale, che era un medico. Ma nella realtà della rete in genere il problema si pone ben diversamente, perché sui social media, anche quando si parla di scienza, il curriculum vale zero, o meglio uno: l’opinione di una persona che ha dedicato anni di studi a un tema vale quanto quella di chiunque altro. O anche molto meno se il chiunque altro è dotato di un considerevole seguito. Un percorso approfondito e molto ben documentato, quello di Eula Biss, che affronta e svela anche aspetti poco conosciuti e inaspettati che si celano dietro il dibattito sul tema. L’autrice ricostruisce l’origine e le ragioni di convinzioni diffuse a proposito dei vaccini e ha molto da insegnare su come si riesce a essere credibili se non si cerca di convincere nessuno a sposare la propria causa, per il buon motivo che la sua causa è soltanto il bene del figlio. Nelle oltre 200 pagine del libro, non a caso, non c’è traccia di ansie da “correttezza politica” ma nemmeno della tentazione di ricorrere alla provocazione gratuita come strumento di seduzione del lettore. Insomma, la Biss dà l’impressione di procedere a passi decisi senza preoccuparsi di essere simpatica o antipatica: vuole solo arrivare a risolversi su quale decisione prendere. E così, semplicemente, ci racconta come si è informata e che cosa ha scoperto, per concludere con la frase: “Ho capito che l’immunità è uno spazio condiviso, un giardino di cui ci prendiamo cura insieme”. Una chiusa che non è una sollecitazione, ma solo il termine di un’analisi che finisce per contestualizzare il significato del termine “immunità” non soltanto dal punto di vista medico, ma anche sotto il profilo politico, economico e storico e metaforico. Sono migranti il 17% dei ricoverati in strutture giudiziarie-psichiatriche Libero, 23 marzo 2018 Si chiama “boufee delirante”, una sorta di psicosi di cui soffre gran parte della popolazione africana che arriva in Italia. “La patologia, legata spesso al cambio del contesto culturale, si manifesta con manie di persecuzione da spiriti”. Lo rivela il professor Claudio Mencacci, medico psichiatra e past president della Società italiana di Psichiatria. In sostanza, questi pazienti, che arrivano dal Ghana come dal Senegal, dal Burkina Faso o dalla Costad’Avorio, sono convinti di essere perseguitati da presenze sovrannaturali, avvolti in un cerchio magico che manda in cortocircuito la dimensione reale con quella mistica che appartiene alla loro cultura, dalla quale si sono staccati solo fisicamente. “Sono patologie - spiega il professor Mencacci, che solitamente scatenano ansia, paure. Se a queste però si aggiunge l’uso di sostanze stupefacenti o di alcol, allora si possono manifestare reazioni violente”. Almeno un richiedente asilo su tre soffre di disturbi mentali, ma come si spiegano tutte queste turbe psichiche? “Secondo me sono meno, ma ad ogni modo parliamo di persone, per lo più provenienti da Nord Africa o Siria, che hanno subìto traumi, e questo incide ovviamente. Poi si trovano a dover cambiare completamente il proprio ambiente, le persone, la propria vita”. Il 17% delle persone ricoverate in strutture giudiziarie-psichiatriche, è composto da extracomunitari. “Stranieri, per l’appunto - precisa il professore; il numero è formato da migranti, da albanesi, da rumeni”. Per quello che riguarda invece i detenuti stranieri in carcere, quelli che soffrono di disagi psichici legati anche all’uso di alcol o stupefacenti, sono il 24% e in gran parte uomini (le donne sono il 5%). L’osservatorio di Mencacci è quello del Fatebenefratelli, un’altra struttura che si sta organizzando per affrontare l’emergenza delle patologie mentali legate ai migranti, dove dirige il dipartimento di Neuroscienze e salute mentale. “Dal mio osservatorio, posso dire che ci sono altre numerose patologie da affrontare, per esempio quelle delle donne in gestazione che subiscono traumi i cui effetti si protraggono post parto. Ripeto, parliamo di persone di culture diverse, catapultati in realtà nuove”. Restano legati alla loro terra, e si portano in Italia i loro spiriti, che qui diventano però folli e deliranti, persecuzioni che creano buchi nella testa e nell’anima pronti ad esplodere se accesi da alcol o altre sostanze. Il problema non è solo legato ai continui arrivi. Quel che preoccupa di più è la mancanza di risorse. Questo perché più aumentano gli sbarchi nel nostro Bel Paese, e più gli immigrati con problemi mentali, salvo pochi centri meglio organizzati, vengono lasciati a sé. Non è facile per i nostri medici neppure curarli, perché molto spesso i pazienti si presentano alla prima visita e poi spariscono. Oppure si rifiutano di prendere i farmaci. Una cosa è certa: l’emergenza psicosi c’è e va risolta. Vaticano. La guerra a Bergoglio di Piero Sansonetti Il Dubbio, 23 marzo 2018 Bergoglio ha iniziato una rivoluzione. La sua idea di cristianesimo e di modernità è opposta a quella del populismo dilagante in Europa. Un ex Papa che indirizza un siluro micidiale contro il suo successore non si e era mai visto (anche perché, in verità, non si erano mai visti ex papi). La decisione di Joseph Ratzinger di compiere un gesto clamoroso e aperto di ostilità verso Francesco lascia abbastanza stupiti. Ma suggerisce anche alcune riflessioni. Stupiti perché magari uno non si aspetta la freccia avvelenata dal rappresentante (o, comunque, ex rappresentante) di Dio in terra. Deve essere complicato, per un cattolico, immaginare come possa una persona scelta e ispirata dallo Spirito Santo - cioè dalla bontà celeste - compiere un gesto oggettivamente perfido come quello compiuto da Benedetto XVI. Gli hanno chiesto di scrivere una introduzione a un libro su Francesco, lui poteva tranquillamente rispondere di no, punto e basta. Non sarebbe successo niente. Ma accettare l’incarico, poi scrivere con feroce malizia di non avere avuto tempo di leggere il libro, e infine vergare parole al veleno contro uno degli autori... beh sembra un gioco dettato molto più dall’astio che da Dio. Dopodiché il Vaticano ha fatto un pasticcio e ha censurato Ratzinger. E a quel punto l’ex papa ci ha messo il carico da 11, innalzando ancora il livello di cattiveria nello scontro, e vendicandosi nel modo in cui in genere fanno i politici o i Pm: passando le carte a qualche giornalista amico e facendo scoppiare lo scandalo. Fin qui lo stupore. Diceva Andreotti, che di Vaticano se ne intendeva assai, “a pensare male si fa peccato ma in genere ci si azzecca”. Poi c’è la riflessione, e nella riflessione lasciamo da parte le ironie e gli sberleffi. Dunque Ratzinger, in modo abbastanza esplicito, ha aperto le porte al piccolo e battagliero esercito, interno alle gerarchie ecclesiastiche, che è in guerra aperta con il papa. La guerra, come tutte le guerre, riguarda naturalmente il potere e la suddivisione del potere, però riguarda anche alcune grandi scelte ideali. E questa guerra, combattutissima dentro la Chiesa e dentro le gerarchie, si è largamente estesa a pezzi ampi di società. Alla politica, dell’intellettualità, soprattutto al giornalismo. A questo punto ci interessa limitatamente la questione del potere nella Chiesa. Ci interessano di più, perché riguardano tutti - anche il pezzo di società dei non credenti (della quale, peraltro faccio parte) - le idee di fondo che sono al centro di questa guerra. Papa Francesco ha portato dentro la Chiesa e dentro il suo magistero una vera e propria rivoluzione. Ha rovesciato senza tanti indugi gli atteggiamenti del suo predecessore, e anche in gran parte i suoi punti di vista. Ha trasformato la dottrina della Chiesa da dottrina fondamentalmente conservatrice (come era diventata da subito dopo la conclusione del Concilio, diciamo più o meno dalla fine degli anni sessanta) a dottrina liberale e di progresso. Ha accentuato la parte antiliberista del pensiero di Wojtyla, gettando a mare però tutto l’apparato fideistico, tradizionalista e liturgico di Giovanni Paolo II. Ha inventato un modello di Chiesa molto sociale, costruita sul valore assoluto della carità e della fratellanza (ispirandosi a San Paolo), e che mette in secondo piano l’importanza della fede, i riti, le gerarchie, gli autoritarismi. Ha immaginato, e sta provando a costruire, una Chiesa che sia il punto di riferimento per un pezzo di società laica, e anche non credente, liberale, democratica e che considera la solidarietà e l’aspirazione all’uguaglianza come le bussole per la politica. Vi pare poco? Beh, in nessun caso sarebbe poco, un’impresa di questo genere. Diventa davvero un’impresa titanica se viene messa in moto, in Occidente, in un momento storico caratterizzato dal dilagare, nello spirito pubblico, del populismo, del nazionalismo, del giustizialismo, ma anche della meritocrazia e del mercatismo. Cioè tutto il contrario del bagaglio ideale e spirituale che il papa getta nella mischia. Con la consapevolezza di compiere una scelta minoritaria, quasi di elite, e cioè una scelta in contrasto con un pezzo grandissimo della storia della Chiesa (che, di solito, ama lo stare in maggioranza). C’è una obiezione, che spesso mi sento fare. Questa: come fai a sostenere che il papa è nemico del populismo, visto che lui stesso ha un’origine culturale e persino religiosa di chiaro stampo populista, o addirittura peronista? La domanda, naturalmente non è infondata. Il fatto è che il populismo di oggi - sostanzialmente nazionalista, xenofobo e legalitario - ha pochissimo a che fare col populismo peronista dal quale proviene Bergoglio. Il peronismo di Bergoglio è in modo evidente un peronismo rivoluzionario. Il populismo che sta dominando l’Europa è di carattere reazionario. Il peronismo di Bergoglio è fortemente cristiano, affonda le radici sull’essenziale del vangelo. Il populismo moderno è completamente pagano, anticristiano, cresciuto nella negazione orgogliosa della solidarietà, della diversità, e nel rifiuto degli ultimi. Ho scritto queste cose per sostenere un concetto molto semplice: la lotta tra bergogliani e anti bergogliani (nella quale ha deciso di scendere anche Ratzinger) non è una semplice guerra civile interna alla Chiesa. È il fronteggiarsi tra due idee di modernità, opposte e difficilmente conciliabili, che con il passare dei prossimi anni finiranno per giungere alla resa dei conti finale. Sarà difficile assumere posizioni intermedie. Bisognerà scegliere. La modernità è solidarietà e diritti, o invece la modernità è merito e mercato? Ciascuno di noi dovrà rispondere, compiendo una scelta non solo di fede. E in questa scelta la Chiesa avrà un peso grande. Bisognerà vedere se resterà la Chiesa di Bergoglio o tornerà ad essere la Chiesa di Ratzinger. Francia. A Parigi tutti pazzi per la cronaca giudiziaria di Anais Ginori La Repubblica, 23 marzo 2018 I grandi quotidiani nazionali francesi come Le Monde e Le Figaro solo raramente pubblicano articoli di cronaca nera, chiamati con una punta di snobismo “faits divers”. La tradizione giornalistica ha però un’illustre eccezione: la cronaca giudiziaria, sorta di aristocrazia del mestiere. I cronisti di giudiziaria sono di solito tra le migliori penne delle redazioni, non a caso l’association de la Presse Judiciaire fondata nel lontano 1887 ha avuto tra gli iscritti addirittura due ex presidenti della République, Alexandre Millerand e Raymond Poincaré. Ancora oggi il racconto dei grandi processi assume un valore tutto particolare: in assenza di fotografi, microfoni, telecamere, i cronisti della carta stampata hanno il compito di restituire lo spettacolo del disordine umano nelle aule di Giustizia. Da quindici anni Pascale Robert-Diard e Stéphane Durand-Souffland sono maestri nel genere. Non si limitano a descrivere le sedute della Corte d’Assise ma colgono l’universalità che esiste in ogni vicenda criminale, nella commedia umana che sfila tra imputati, testimoni, avvocati, magistrati, giurati, parenti delle vittime. “Mondi che non avrebbero mai dovuto e voluto incontrarsi e che sono costretti a guardarsi, scoprirsi, ascoltarsi”, spiega Pascale Robert-Diard di Le Monde, autrice de La Deposizione, tradotto l’anno scorso da Einaudi. Insieme a Durand-Souffland, storica firma del Figaro, hanno scritto Jours de Crime, pubblicato da L’Iconoclaste. È un formidabile elogio del mestiere. Sono attimi di verità, luci e ombre, frammenti di vita vissuta nelle aule. Le interminabili attese nel Corridoio dei Passi perduti. La tenerezza di un giurato che porge un fazzoletto a una vittima. Il contenuto della valigia di un latitante. La pietà di una bambina per l’assassino di sua madre. Gli autori scelgono di spostare il proiettore su scene eccezionali di gente ordinaria, rendendo Jours de Crime un oggetto letterario. “La routine della Giustizia - spiega Durand-Souffland - è molto diversa da quella descritta nei commenti politici. Spesso tutto avviene in modo civilizzato, anche la violenza, l’odio sono canalizzati nel contraddittorio fra le parti”. In epigrafe del libro c’è una citazione di Emmanuel Carrère sulla strana “tribù” dei cronisti di giudiziaria. Il romanziere ha frequentato le aule di giustizia per il processo Romand e per L’Avversario. Una prova, se ce ne fosse ancora bisogno, che il passo verso la letteratura può essere davvero breve. Stati Uniti. La polizia lo uccide: non stava estraendo una pistola, ma un telefonino di Sara Volandri Il Dubbio, 23 marzo 2018 Ancora un giovane afroamericano che cade “per errore” sotto i colpi d’arma da fuoco della polizia. Stephan Clarck è stato crivellato di colpi da due poliziotti che hanno sparato 20 proiettili contro di lui nel cortile posteriore della sua abitazione, scambiando il cellulare che aveva in mano per una pistola. L’ennesima uccisione di un nero da parte delle forze dell’ordine è avvenuta domenica notte a Sacramento, ma solo mercoledì la polizia ha ammesso di essersi sbagliata, che Clark aveva in mano solo un cellulare. La polizia ha pubblicato il video della tragedia, registrato con le body cam delle divise degli agenti, un filmato in cui si sentono gli spari quasi immediatamente dopo l’ordine di alzare le mani, mentre uno degli agenti grida “una pistola, una pistola”. Il capo della polizia di Sacramento, Daniel Hahn, ha detto che i due agenti sono stati messi in congedo pagato in attesa che venga conclusa l’indagine. Ma i familiari di Clark e la comunità afroamericana chiede perché la polizia abbia sparato 20 volte e vuole sapere se al giovane sia stato dato il tempo di obbedire all’ordine di alzare le mani. Lunedì scorso il dipartimento di polizia della capitale della California aveva diffuso una dichiarazione con cui affermava che la pattuglia era arrivata nella zona a seguito di una telefonata al 911 in cui si diceva che un uomo stava rompendo i finestrini di un’automobile. Arrivati sul luogo hanno trovato Clark che gli agenti credono essere il sospetto. “Si trovava nel posto sbagliato nel momento sbagliato? Era nel cortile di casa sua, non possono dire questo”, ha tuonato. al Sacramento Bee Sequita Thompson, la nonna del giovane ucciso che anche contesta il fatto che gli agenti abbiano scambiato il nipote per il ricercato l’uomo che era stato descritto come alto mentre il nipote era basso. Anche il sindaco della città, Darrell Steinberg, porgendo le condoglianze a nome della città alla famiglia di Clark, ha assicurato che verrà condotta un’accurata indagine “basata unicamente sul video” prima di arrivare ad una conclusione finale. Iraq. Il pugno di ferro contro i terroristi dell’Isis di Lorenzo Vita occhidellaguerra.it, 23 marzo 2018 In Iraq cala la scure della giustizia sui miliziani dello Stato islamico. E adesso le carceri irachene traboccano di persone accusate di essere membri dell’Isis. Un recente report della Associated Press parla di 19mila membri dell’organizzazione terroristica detenuti nelle prigioni presenti su tutto il territorio iracheno. Di questi, 3mila sono già stati condannati a morte. Numeri impressionanti che mostrano come il governo di Baghdad si trovi di fronte a un problema estremamente grave. La complessità di questa situazione è data da più fattori. Il primo di questi è certamente nei numeri. Una popolazione carceraria di quasi 20mila persone, tutte arrestate per appartenenza all’Isis, è un pericolo. Le prigioni sono da sempre centrali di radicalismo, di reclutamento e di proliferazione di messaggi jihadisti. Fu proprio nei centri di detenzione iracheni che il morbo dell’estremismo islamico iniziò a imperversare nel Paese trovando terreno fertile per la nascita dell’Isis. Un problema di difficile risoluzione, dal momento che le strutture sono poche e non c’è un’attenzione nei confronti di questo fenomeno. Soltanto nella prigione di Nassiriya ci sono 6mila detenuti accusati di terrorismo. Con il rischio che si riproducano le stesse condizioni che hanno condotto all’esplosione dello Stato islamico e alla nascita di nuovi al Baghdadi. Il sovraffollamento nelle carceri, le pessime condizioni di vita e la presenza di predicatori di odio rischiano di essere la miccia per un nuovo fenomeno terroristico. Va poi ricordato che i numeri potrebbero essere addirittura superiori a quelli ottenuti in esclusiva dall’agenzia di stampa. Il conteggio dei prigionieri si basa sull’analisi di un documento che elenca tutte le 27.849 persone detenute in Iraq a fine gennaio, e che è stato fornito da un funzionario che ha richiesto l’anonimato. A questa cifra, si devono aggiungere altre migliaia di detenuti catturati da altri organismi e che non sono nelle carceri ufficiali. Questi organismi variano dalla polizia all’intelligence militare fino alle forze curde. Si ritiene che i prigionieri nelle mani dei servizi segreti abbiano raggiunto le 11mila unità. Soltanto dall’inizio del 2013, 8.861 prigionieri elencati nei carteggi rilasciati all’Ap sono stati giudicati colpevoli di terrorismo. Gli arresti sono avvenuti in base alla “stragrande probabilità di essere collegati al gruppo dello Stato Islamico”, come affermato da un funzionario dell’intelligence irachena. Ma molti altri iracheni, circa 6mila persone, sono stati arrestati per reati di terrorismo prima del 2013, già durante l’invasione statunitense. E stavano scontando la loro detenzione per terrorismo prima della nascita del Califfato. Due fiumi di detenuti che adesso vivono nelle stesse carceri e con uno Stato molto indebolito dalla guerra. Il governo iracheno non vuole andare molto per il sottile. Il primo ministro Haider al-Abadi, in barba a ogni tipo di monito proveniente dalle organizzazioni umanitarie, ha chiesto più volte di accelerare con le condanne a morte. Anche al netto di processi molte volte al limite della sommarietà o in cui sono appurati legami minimi con lo Stato islamico. Ma da Baghdad non vogliono sentire ragioni. Il documento analizzato dall’Associated Press mostra che dal 2013 sono stati 3.130 i detenuti condannati a morte, e che dal 2014 sono state effettuate circa 250 esecuzioni di persone condannate per appartenenza allo Stato islamico. Le parole di Saad al-Hadithi, portavoce del governo iracheno, sono più che eloquenti: “Il governo vuole che ogni criminale e terrorista riceva la punizione che gli spetta”. Israele. Condannata la ragazzina che schiaffeggiò il soldato di Valerio Sofia Il Dubbio, 23 marzo 2018 A 16 anni era diventata una star di Internet come simbolo palestinese. L’adolescente Ahed Tamimi lo scorso dicembre era divenuta simbolo della lotta dei palestinesi dopo la diffusione di un video su Facebook in cui si vede la teenager, facilmente riconoscibile per i capelli ricci chiari, spintonare, schiaffeggiare e scalciare due soldati israeliani che lo scorso 15 dicembre, durante le manifestazioni contro Gerusalemme capitale, cercavano di entrare nella sua abitazione nel villaggio di Nabi Saleh, un villaggio della Cisgiordania. Adesso a qualche mese di distanza ha patteggiato una condanna a otto mesi con la Corte militare di Ofer nei Territori palestinesi. Secondo la sua legale Gaby Lasky, l’accusa e la difesa hanno concordato per lei quella pena dopo che sono state cancellate diverse imputazioni che erano state avanzate in un primo tempo. Secondo il quotidiano Haaretz come parte dell’accordo la ragazza dovrà dichiararsi colpevole di quattro dei 12 capi d’imputazione di cui era accusata, tra cui aggressione e incitamento alla violenza. Dovrà inoltre pagare 5mila shekel di multa (quasi 1200 euro). Di conseguenza la giovane attivista sarà rilasciata la prossima estate. Il processo della Tamimi che ha destato grande attenzione nei media internazionali - si è svolto finora a porte chiuse per volere del giudice secondo il quale il provvedimento viene di norma adottato “a protezione dei diritti dei minori”. Tamimi ha trascorso quattro mesi in detenzione finora e il suo arresto ha scatenato le critiche dei gruppi internazionali per i diritti umani e dell’Unione europea contro il sistema giudiziario israeliano per il trattamento discriminatorio dei minorenni palestinesi che osano sfidare la repressione in Cisgiordania. La Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia stabilisce che l’incarcerazione di un minore deve essere una misura di “ultima istanza” e deve avere una durata “più breve possibile”. Amnesty International, dopo l’arresto di Ahed Tamimi, ha lanciato una petizione internazionale per il suo rilascio, firmata da oltre 1,7 milioni di persone. Per l’Ong israeliana B’tselem, il caso di Ahed è rappresentativo del ruolo delle corti militari minorili e del sistema che ogni anno sottopone “centinaia di minori palestinesi allo stesso scenario”. Intanto a Gaza il ministero dell’Interno del governo di Hamas ha annunciato la morte dell’indiziato numero uno dell’attentato del 13 marzo scorso al convoglio del premier del governo dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) Rami al-Hamdallah, che si trovava in visita a Gaza insieme al capo dell’intelligence dell’Anp, Majid Faraj. L’attentatore è stato ucciso in uno scontro con le forze di sicurezza, che avevano chiesto a lui e ai suoi complici di arrendersi, cosa che si sono rifiutati di fare iniziando invece a sparare contro gli agenti, due dei quali sono morti. Yemen. Profughi africani detenuti in un magazzino, senza cibo e senza acqua africa-express.info, 23 marzo 2018 La foto potrebbe sembrare uno dei tanti lager della Libia, ormai i più si sono abituati a vedere i migranti adagiati uno accanto all’altro per terra nei squallidi centri di detenzione della nostra ex colonia. Questi poveracci, tutti provenienti dall’Africa subsahariana, per lo più dal Corno d’Africa, sono invece capitati in un luogo ancora più terribile, se possibile: il suolo libico. Sono nello Yemen, dove si consuma un sanguinoso conflitto interno dal marzo del 2015. I migranti sono stipati in una specie di magazzino senza tetto ad Aden, città portuale nel sud del Paese. Sono scappati dalla loro patria alla volta dell’Arabia Saudita o in altri Stati del golfo in cerca di lavoro e fortuna; strada facendo si sono trovati intrappolati nello Yemen in guerra, prigionieri, perché considerati migranti clandestini, affamati e terrorizzati, in attesa di essere deportati. I seicento e più disperati, sorvegliati a vista, da giorni non ricevono più cibo, sono allo stremo. Hanno paura di morire di fame, altri ancora - come per esempio gli eritrei - sono terrorizzati al pensiero di essere deportati. Ad Asmara non sarà certo un tappeto rosso ad attenderli. Già ben prima della guerra lo Yemen era un Paese pericoloso. Spesso i migranti venivano rapiti, picchiati, torturati da bande criminali, rilasciati solamente dietro pagamento di un lauto riscatto, potevano proseguire il loro viaggio verso gli Stati confinanti dove molti dei loro conterranei lavorano da anni, spesso maltrattati, peggio degli schiavi. Ma chi è disperato, chi ha fame, affronta ugualmente un simile viaggio, pur conoscendo i rischi che esso comporta e il numero dei migranti verso queste mete è in continua crescita. Secondo i dati forniti dall’Unhcr, nel 2015 poco più di 92 mila, nel 2016, invece, 100.117 africani hanno tentato questa via di fuga. Un ufficiale del luogo ha specificato che quindicimila “illegali” vengono fermati mensilmente ai checkpoint di Aden e d’intorni, zone controllate dal governo. Tutti i servizi dello Stato sono allo sfascio per la grave crisi economica, conseguenza del conflitto interno. Dunque, procurare del cibo per i migranti è l’ultimo dei problemi delle autorità. Il conflitto interno dello Yemen vede contrapposto due fazioni: da un lato gli huti, un movimento religioso e politico sciita, che appoggiano il presidente destituito Ali Abd Allah ?ale?, dall’altro le forze del presidente Mansur Hadi, rovesciato dagli huti con un colpo di Stato nel gennaio 2015. La coalizione saudita entra nel conflitto nel marzo 2015 a sostegno di Hadi, che a tutt’oggi è riconosciuto dalla comunità internazionale come capo di Stato. Il vecchio leader Saleh è stato ucciso a metà dicembre dello scorso anno dagli huti, con i quali lui era alleato. Messico. La parabola di Padre Mario, il gesuita che salva le anime dei narcos di Giulia Bonaudi occhidellaguerra.it, 23 marzo 2018 Un’isola carcere di massima sicurezza nel bel mezzo del Pacifico: è questo lo scenario surreale, al punto da sembrare di essere stati catapultati in un romanzo, in cui si incontrano i destini dei signori della droga messicani e di un “soldato” di Gesù italiano. Confinato per sua scelta, Mario Picech racconta cosa significa essere il cappellano nel carcere federale dell’Islas Marias. “Quando è nata la necessità di andare in un luogo dove nessuno voleva andare io mi sono subito proposto”, così padre Picech, friulano di 55 anni, spiega con aria divertita cosa lo ha spinto a imbarcarsi in questa missione nell’Islas Marias, un pugno di isole situate nel golfo della California a 110 km di distanza dalle coste messicane. La sua storia è quella di un gesuita impegnato nel recupero spirituale e sociale di chi sta scontando pene gravissime in uno dei Paesi dai tassi di criminalità più alti al mondo. Al suo arrivo il carcere era ancora una colonia penale dove erano ospitati 8mila detenuti, numero sceso oggi di otto volte anche perché nel frattempo l’area è stata trasformata in un carcere federale di massima sicurezza. Il “restyling” del sistema carcerario, voluto dal governo Calderon nel 2010, è stato possibile grazie ai contributi versati dagli Stati Uniti, decisi a dare un chiaro segnale contro il narcotraffico. La struttura si compone di un villaggio principale dove vivono le guardie carcerarie e il personale del carcere; diversi accampamenti, tra cui uno di massima sicurezza con due torri dove vivono reclusi i detenuti più pericolosi e infine un piccolo villaggio che ospita i familiari che vengono in visita. A scandire le giornate dei carcerati è il lavoro: sette giorni su sette si dedicano alla agricoltura, alla falegnameria, all’apicoltura, all’allevamento, all’acquicoltura e alla pesca. Il tutto non retribuito, fatta eccezione per alcuni che ricevono un compenso simbolico. La presenza dei gesuiti è stata fissa e continuativa negli anni ma quando si trasformò in carcere federale la loro missione venne messa in discussione: nacque allora il problema di cosa si potesse fare in un carcere di massima sicurezza dove il contatto è molto limitato. Anche per i gesuiti era difficile entrare in una realtà nuova. Per padre Picech l’impatto è stato brusco i primi tempi: le restrizioni e l’isolamento del resto valevano anche per lui. Eppure la soluzione migliore è stata proprio abbracciare quella condizione: “Mi chiedevo come rendermi partecipe di quelle vite vissute nel mondo della droga e ho scoperto che il modo migliore era vivere le limitazioni che ti poneva la vita carceraria, essendo lì con loro”, racconta con voce commossa. Eppure, non di sole privazioni e di lavoro è fatta la vita nel carcere messicano: “Ultimamente ci viene data la possibilità di fare il bagno nel mare e la mattina sulla spiaggia, lunga chilometri, camminiamo in silenzio e c’è questo momento, un regalo che viene dato ai detenuti, di immergersi in questa natura bellissima e selvaggia”. “Li vedo come compagni di vita e lo ritengo un grande privilegio stare con loro. Non ho mai pensato che sono in un contesto di persone malvagie perché non è così”, confida padre Mario. Com’è possibile stabilire un legame di intimità con uomini induriti da crimini efferati, abituati allo spregio della vita umana e così lontani dal bene? Padre Picech non esita un istante e fuga ogni dubbio con voce sicura: “Noi pensiamo ed etichettiamo una persona in base al reato che ha commesso ma è un uomo e di conseguenza non c’è solo questa dimensione: non solo c’è il desiderio del bene ma anche la capacità di fare del bene e questo non viene annullato solo se hai commesso dei delitti efferati. Anzi, probabilmente un processo di conversione e di lettura della propria vita in chi è stato coinvolto con il male, riesce a leggere il bene in una maniera diversa da noi, più profonda e quindi mi insegna molto”. Smontato il primo preconcetto sull’uomo in quanto criminale, padre Mario capovolge anche l’immagine, condivisa dal pensiero comune, che vede il carcere come luogo che non permette seconde possibilità: “Nel carcere rimane vita in cui si può vivere appieno e si può riconoscere come il Signore ti accompagna in questo tempo: che porte ti apre, dove ti porta. In effetti con i detenuti io imparo questo, a riconoscere, a leggere questa esperienza che è un’esperienza difficile e dura però come un luogo dove il signore ti benedice. È così il carcere, un luogo che aiuta a ritrovarti”. Gli chiediamo l’episodio più forte che ha segnato la sua missione finora: “Un detenuto mi ha detto che il carcere è stata una benedizione di Dio”, risponde padre Mario e con fare rassicurante sostiene che “la possibilità di cambiare direzione c’è in tutti”. Mario Picech, che ora si trova a Torino, ripartirà per l’Islas Marias fra qualche settimana. Questa è l’unica “pausa” che si concede durante l’anno. Il tempo di rivedere i parenti e salutare i suoi compagni gesuiti. “Quando rientro in Italia dico sempre di essere un gesuita felice perché capisci che stai spendendo bene la vita”. Bene in che senso? “Bene nel senso che è coerente con la scelta che hai fatto”. Messico. Detenuti formano rock band e fanno una tournée nelle carceri di Vito Nicola Lacerenza dailycases.it, 23 marzo 2018 Sono i “Segregados” la nuova band diventata famosa nelle carceri del Paese latino dove vanno in tournée. “Appena entri in carcere dormirai nella calca, seduto su un water in una cella larga 4 X 5 metri. Il primo giorno di carcere devi “formarti”. O, per chi ne sia capace, formare un gruppo rock come hanno fatto i “Segregados” (i segregati) che con le loro canzoni raccontano le difficili condizioni dei detenuti durante la reclusione. I musicisti hanno esordito nel 2006 nei bagni di un penitenziario di Città del Messico, dal momento che la prigione è sprovvista di sale audio, e hanno accresciuto il numero dei loro membri volta per volta, portandolo da 3 a 10. All’inizio erano solo due chitarristi e un cantante ma, nel via vai della gente che entrava e usciva dai bagni, sempre più persone si sono cimentate nella musica arrivando persino a chiedere all’autorità giudiziaria il permesso di portare, all’interno del carcere, i loro strumenti musicali. Antonio Ruiz Gomar, batterista dei Segregados, è riuscito persino a farsi consegnare la sua batteria e gli strumenti di registrazione, rivelatisi fondamentali per il successo che la band avrebbe raggiunto poco dopo la sua nascita. Finalmente dotati di tutto il necessario, i Segregados hanno prodotto il loro primo album: “todos es playa” (tutto è spiaggia). Il disco con cui il gruppo rock si è conquistato la fama in tutti i penitenziari del Messico, nei quali è andato in tournée. “Una volta un mio amico è venuto in carcere per visitarmi- ha raccontato il batterista- ha chiesto qualche minuto per parlare con me e si è sentito rispondere dalle guardie carcerarie: “chi? Antonio Ruiz Gomas dei Segregados? Non c’è. È in tournée!”. Dopo il successo, però, la separazione: ciascun membro della band è stato assegnato ad un penitenziario diverso. La storia del gruppo rock, però, non è terminata dietro le sbarre. Il ricongiungimento dei dieci musicisti sarebbe avvenuto in libertà, fuori dal penitenziario, che, nonostante le sue durissime condizioni, ha regalato agli ex detenuti momenti di felicità. “So che a molti può sembrare una pazzia, ma io sono felice dei miei dieci anni e tre mesi trascorsi in galera - ha detto Antonio Ruiz Gomas - non avrei mai conosciuto i miei migliori amici se non fossi stato arrestato. Dopo l’esperienza della reclusione ho capito che, ovunque ci si trovi, bisogna saper trarre vantaggio dalla vita: se ti ha voluto in un posto, allora sarà quello giusto per te”.