No, la riforma non è un salva-ladri o uno svuota-carceri di Valter Vecellio lindro.it, 22 marzo 2018 Con l’approvazione della riforma della Giustizia, è stata restituita dignità al cittadino detenuto. Avevano preconizzato, Cassandre inascoltate disastri sul fronte di scarcerazioni facili e indiscriminate, qualora il Governo avesse approvato la riforma della Giustizia che ha varato in zona Cesarini l’altra settimana. Indossati i panni delle dolorose prefiche avevano paventato una vera e propria apocalisse. Naturalmente non è, non sarà così. Chiunque dia anche una rapida occhiata al testo di riforma si può agevolmente rendere conto che il provvedimento non “svuota” un bel nulla; si limita a fare piccoli passi verso un modello di pena e detenzione in linea con quanto prescritto dalla Costituzione e dalle Corti Europee di Giustizia e dei Diritti dell’Uomo. Per cominciare: i reati più gravi sono - come è giusto siano - esclusi dalle misure alternative. Niente “liberi tutti”, per esempio, per mafiosi, camorristi, e simili. Per loro i portoni del carcere restano chiusi. Anche il peraltro discutibile regime del 41bis, il carcere duro, non viene minimamente messo in discussione. Dunque? Si cerca di sfoltire la numerosa popolazione carceraria, questo sì: ci sono una quantità di carcerati per reati che possono essere scontati in altro modo (magari anche impiegati in attività di pubblica utilità?) rispetto a lunghissime, inerti giornate chiuse stipati nelle celle a far nulla di buono per nessuno. Lo certificano decine di studi e ricerche: il sovraffollamento favorisce e aumenta il rischio che la “pena” non sia rieducativa, come è interesse di tutti sia. Si stabiliscono inoltre maggiori tutele per i diritti dei detenuti in termini di salute, identità di genere, incolumità personale; e questo è un dovere che uno Stato civile ha nei confronti dei suoi cittadini, e a maggior ragione quando - per ragioni non importa quali - si stabilisce di privarli della loro libertà di movimento. In quel momento lo Stato si fa massimamente garante della salute psichica e fisica del cittadino a cui toglie la libertà. Si prevede, inoltre una nuova disciplina per i colloqui con i familiari, e per l’uso delle tecnologie informatiche all’interno del carcere. È deprecabile? Le forze del centro-destra, salvo sporadiche eccezioni, proseguono nella loro campagna di demagogia e allarmismo. In particolare la Lega di Matteo Salvini e i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni suonano la grancassa. Forza Italia e Silvio Berlusconi, va riconosciuto, sono più cauti, prudenti. Ha un bel dire il ministro della Giustizia Andrea Orlando che nel testo approvato dal Governo non c’è un solo appiglio che possa essere utilizzato come “salva-ladri”, o “svuota-carceri”. Ha un bel dire che saranno comunque dei magistrati, i giudici di sorveglianza, a dover stabilire e valutare se e quando il comportamento di un detenuto merita di essere ammesso alle misure alternative al carcere; misure che prevedono precisi percorsi di lavoro e di servizio sociale, con il quale il detenuto avrà modo di restituire parte di quello che ha tolto alla società, e soprattutto di non essere recidivo. Il principale obiettivo della riforma è rendere attuale l’ordinamento penitenziario previsto dalla legge di riforma penitenziaria 354/1975, e adeguarlo ai successivi orientamenti della giurisprudenza della Corte Costituzionale, Corte di Cassazione e delle Corti europee. Si tratta di provvedimenti che non intaccano la giusta esigenza di sicurezza della collettività; come si è detto, sono esclusi i detenuti in regime di 41bis per reati di mafia e per i reati di terrorismo. Si cerca piuttosto di dare attuazione a quell’articolo 27 della Costituzione che prevede la finalità rieducativa della pena; al tempo stesso si facilita la gestione del settore penitenziario e si diminuisce il sovraffollamento. La riforma comporterà così ripercussioni positive sulla vita in carcere. Si potrà finalmente porre mano alla necessaria e sempre procrastinata ristrutturazione e messa a norma degli istituti carceri. Una realtà, quella del sistema penitenziario negata per troppo tempo, e di cui finalmente anche a livello dei “palazzi” del potere si prende atto, riconoscendo che la situazione ha raggiunto livelli intollerabili per un paese civile. È un inizio di lavoro; resta ancora molto da fare, e per dire: la questione dei minori, dei bambini cresciuti in carcere perché le loro madri sono detenute; le questioni legate all’affettività. Chissà se il Parlamento uscito dalle urne dopo il 4 marzo, e il Governo che prima o poi ne sarà espressione, avranno la stessa capacità di “visione” (anche se lentissima è stata la marcia verso il giusto obiettivo) del governo guidato da Paolo Gentiloni. Ci augura di sì, si teme il contrario. Poveri internati: per loro non esistono misure alternative di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 marzo 2018 Il recupero sociale di queste persone che hanno già scontato la pena non è garantito. Una pena prolungata nonostante sia già scontata, poche concessioni rispetto ai detenuti stessi, misure di sicurezza che risalgono al codice Rocco che ha come impronta il retaggio fascista che considera il lavoro come misura correzionale. Parliamo ancora degli internati, gli ultimi degli ultimi. Con l’articolo di ieri de Il Dubbio abbiamo affrontato in generale la figura dell’internato e il fenomeno del cosiddetto doppio binario risalente al codice Rocco. Le misure di sicurezza sono da aggiornare, renderle costituzionali, o ancora meglio superate. Il governo, purtroppo, non ha approvato il testo della riforma dell’ordinamento penitenziario che riguarda la parte dedicata alle misure di sicurezza. Quindi non ha introdotto nessuna modifica per la vita detentiva (anche se in teoria non lo è) degli internati. Tranne, però, una piccola novità che è comunque importante. A spiegare a Il Dubbio questa modifica è Laura Longo - candidata di Potere al Popolo alle scorse elezioni e che è intervenuta alla recente assemblea del Partito Radicale sul superamento dell’ergastolo ostativo e il 41bis - che è stata stimatissima magistrata di sorveglianza per oltre 20 anni. Si dedicò in maniera particolare proprio alle condizioni degli internati. Fu grazie a lei, dopo una difficilissima battaglia di legalità, che si riuscì a far trasferire in una casa circondariale di Vasto, degli internati ristretti nel carcere duro di Sulmona. Sì, perché nel 2010 si suicidarono diversi internati nel super carcere. La sezione era denominata proprio “reparto internati” e formalmente era una casa lavoro pensata proprio per queste persone che, appunto, pur avendo terminato di scontare la pena, non vengono rimessi in libertà in quanto ritenuti “socialmente pericolosi”. In realtà era un luogo di disperazione, dove gli “internati” restano rinchiusi per mesi e anni senza far nulla e senza “fine pena” certo. Persone che non capivano il senso della restrizione visto che avevano già finito di scontare gli anni. “La riforma di cui si spera si darà attuazione - spiega Laura Longo a Il Dubbio - non ha introdotto nessuna novità per gli internati se non quella, certamente molto importante, della revoca della misura di sicurezza in caso di declaratoria di estinzione pena per esito positivo dell’affida- in prova”. Laura Longo ci tiene a sottolineare che si tratta di “una innovazione che potrà evitare la tragedia di chi pur se ha concluso la pena con un percorso risocializzante positivo, si trova esposto all’ordine di internamento”. Rimane comunque invariata la figura dell’internato. Lauro Longo ci tiene a precisare che per gli internati “non ci sono misure alternative, neanche l’affidamento terapeutico, ma solo la licenza e la semilibertà”. Eppure sono misure alternative importanti e che incidono sulla decisione dei magistrati stessi di prolungare o meno l’internamento. Lo aveva spiegato molto bene sempre Laura Longo quando, da magistrato, scrisse una relazione per un convegno sulle misure di sicurezza, in particolare su quella detentiva della casa di lavoro. Nella relazione spiega che la popolazione degli internati è composta prevalentemente da soggetti deboli, ovvero da persone che commettono crimini legati alla tossicodipendenza e alla doppia diagnosi con problematiche psichiatriche correlate alla tossicodipendenza stessa. “Per il soggetto socialmente debole - si legge nella relazione della dottoressa Longo si evidenzia un rischio maggiore di recidiva, con la conseguenza di reiterate proroghe della misura di sicurezza detentiva, spesso inevitabili, non potendo la magistratura di sorveglianza, in assenza di opportunità esterne di assistenza o cura, addivenire ad un giudizio di cessazione o attenuazione della pericolosità sociale”. Per questo motivo, l’internamento protratto nel tempo finisce così per dissolvere l’identità stessa del soggetto e la sua vita di relazione. “Cosicché - si legge sempre della relazione, in una spirale senza via d’uscita, la nuova condizione di persona destrutturata e ormai priva dei più elementari referenti esterni (come la famiglia e il domicilio), si pone come ulteriore fattore ostativo alla possibilità di revoca o trasformazione della misura di sicurezza”. L’amara conseguenza, quindi, è quella che un magistrato è costretto a emettere un giudizio (per la revoca dell’internamento o meno) non su elementi riconducibili al soggetto - colpevolezza/condotta di vita - ma su cause ad esso del tutto estranee. Il problema principale, in sintesi, è la mancanza di dare possibilità all’internato di percorrere una riabilitazione, quella che poi serve per dare al magistrato uno strumento valido di valutazione. Una pena, quindi, ancora più dura e senza garanzie. Ad esempio, per gli internati tossicodipendenti sottoposti alla misura di sicurezza detentiva della casa di lavoro o della colonia agricola, viene concessa solo la semilibertà. “Misura alternativa, questa, spiega Laura Longo - del tutto inadeguata, in quanto il lavoro costituisce per tali soggetti un fattore riabilitativo, solo se inserito in un programma di recupero a carattere multidisciplinare, gestito da comunità terapeutiche o strutture sanitarie specializzate”. In tutto questo, l’unico dato positivo, è quello della decisione della Corte Costituzionale risalente al 2017: in pratica recepisce la giurisprudenza della Cassazione relativa alla nuova legge del 2014 che introduce la durata massima prevista per l’Opg, ora Rems, e la applica anche per le misure di sicurezza presso la Casa Lavoro. Dunque è caduto quell’elemento di indeterminatezza che rischiava di far diventate perenne l’internamento. Resta però la figura dell’internato, privo di garanzie e che, di fatto, subisce una pena detentiva che viene prolungata nel tempo. Pena che va in contrasto con la raccomandazione della Corte europea, ovvero che non si può giustificare l’applicazione di una misura di sicurezza detentiva solo in ragione della funzione preventiva dalla stessa svolta, se poi di fatto la sua esecuzione non si differenzia da quella di una pena. Ma funziona la misura di sicurezza? L’ex magistrato Laura Longo dice di no. “La prevenzione ha una finalità ben precisa e una casa lavoro - retaggio del ventennio - non garantisce il recupero sociale di un internato”. La Longo fa l’esempio dei soggetti autori di reati di natura sessuale. “Appare inutile la misura di sicurezza della casa di lavoro nei loro confronti - spiega l’ex magistrata, perché anziché l’acquisizione di abilità lavorative, occorrerebbe prevedere interventi trattamentali diversi, di tipo psicoterapeutico, attuabili nel corso della esecuzione della pena od anche, eventualmente, attraverso misure aggiuntive di prevenzione, a carattere non detentivo”. La vera soluzione, quindi, non rimane che il superamento dell’attuale misura di sicurezza. Un milione nelle piazze con l’Associazione Libera per dire “no” alle mafie La Stampa, 22 marzo 2018 È un grido di dolore e di speranza lanciato da un milione di persone che in tutta Italia tra piazze, scuole, carceri, università e parrocchie hanno aderito alla 23esima Giornata dell’impegno e della memoria in ricordo delle vittime delle mafie, promossa dall’associazione Libera anche in altri paesi d’Europa e dell’America Latina. A Foggia, scelta quest’anno quale piazza principale “per la ferocia di una mafia emergente e sottovalutata”, la pioggia e il freddo non hanno fermato i 40mila che hanno sfilato in corteo agitando bandiere della pace e striscioni per chiedere a gran voce “verità e giustizia” per le vittime di mafia. Tra le autorità presenti anche il presidente del Senato Pietro Grasso, che si è impegnato a presentare “un disegno di legge per l’istituzione di una commissione d’inchiesta su tutte le stragi che non hanno avuto una soluzione completa sotto il profilo della verità”. “Ma non è delegando che si ottiene il cambiamento - avverte don Luigi Ciotti, fondatore di Libera, interrotto da ripetuti applausi. La vita ci chiede di osare e di avere più coraggio. Dobbiamo contribuire tutti di più. Anche perché il 70 per cento dei familiari delle vittime della violenza mafiosa non conosce la verità. L’omertà uccide la verità”. I 972 nomi delle vittime che a oggi sono nell’elenco di Libera sono state poi scandite dalla piazza foggiana. Il dottor Zucca, certo, ha torto però ha anche un po’ ragione... di Piero Sansonetti Il Dubbio, 22 marzo 2018 Le dichiarazioni molto aspre del Pm genovese Enrico Zucca, a proposito dei vertici della polizia, aprono almeno due problemi complessi e di difficile soluzione. Tutti e due riguardano il rapporto intricato che esiste tra libertà (e diritti individuali) e Istituzioni (e doveri istituzionali). Zucca ha usato frasi-shock per sollevare il problema, e forse (probabilmente) ha sbagliato. Ma la sollevazione contro di lui da parte dei vertici delle istituzioni rischia di nascondere sotto il tappeto molta polvere. Polvere che esiste ancora nel funzionamento di alcune nostre istituzioni che dispongono di grandi poteri. Per esempio la polizia, per esempio la magistratura. Vediamo la prima questione, che è la più bruciante. Zucca ha messo sul tavolo il tema del diritto al reintegro dei funzionari di polizia condannati per reati che riguardano l’esercizio delle proprie funzioni e il rapporto con i cittadini. Lo ha ha fatto usando parole un po’ più ruvide di quelle che sto adoperando io. Ha detto: “Torturatori”. La giustificazione formale per l’uso di questo termine, molto ingiurioso, è che effettivamente a Genova, nel 2001, ci furono episodi gravi di vera e propria tortura da parte di poliziotti e altri tutori dell’ordine. E questo fatto gettò un grande discredito sul nostro paese: ne sfregiò l’immagine a livello internazionale. Il problema è che una cosa è dire che ci fu tortura, e un’altra cosa è indicare i nomi dei torturatori, o almeno farli intuire, riferendosi a persone - dirigenti di polizia - che sono stati con- dannati da un tribunale ma per reati diversi dalla tortura (reato che all’epoca, peraltro, non esisteva). Domanda: può un magistrato, il quale ha il dovere di dimostrare rigore ed equilibrio di fronte a tutti i cittadini - perché tutti i cittadini, potenzialmente, potrebbero essere giudicati da lui - usare giudizi approssimativi in un suo ragionamento politico? E per di più, approssimativi sul piano giuridico? O invece deve astenersi, o dal ragionamento politico, o comunque dalle forzature polemiche? Mi spiego meglio. Io penso che la sostanza del ragionamento di Zucca abbia un fondamento. Anch’io mi sono sempre chiesto come possa uno Stato che per dire - ha visto un suo cittadino (penso a Stefano Cucchi) picchiato a morte in una sua prigione (nella quale, oltretutto, era stato portato per motivi discutibili), e che dieci anni dopo non sa ancora dirci chi ha picchiato a morte Stefano, dove, come e perché; come può, dicevo, indignarsi perché lo Stato egiziano non sa dirci come è stato ucciso Giulio Regeni? Ipocrisia massima. Io però non sono un magistrato, e - volendo - posso anche esagerare nella polemica. Il dottor Zucca - che ha sollevato esattamente questo tema, con più di una ragione - è autorizzato a farlo usando toni ancora più alti e azzardati di quelli che sto usando io, libero cittadino senza incarichi nello Stato? È la sostanza del problema, vecchio - e che ci si ostina a non affrontare - del rapporto tra magistratura e politica, e dei limiti che i magistrati devono imporsi. Naturalmente il pensiero va immediatamente ad altri magistrati, anche con incarichi molto più alti di quelli del dottor Zucca, che varie volte hanno distribuito alla stampa e alla Tv pareri molto spericolati, ad esempio, sulla colpevolezza a prescindere dei politici, e non solo, ed è impossibile non notare che nei confronti di quei magistrati le reazioni sono state molto più blande e quei magistrati non sono mai stati sottoposti a procedimenti. In ogni caso il problema c’è, è lì, e andrebbe affrontato una volta per tutte. Fino a quale confine può spingersi la libertà politica di un magistrato senza mettere in discussione la sua credibilità e la sua terzietà? Quando la politica porrà mano a questo problema sarà sempre un po’ tardi. La seconda questione è quella del rapporto tra garanzie individuali e funzione pubblica. Io non so bene a quali poliziotti si riferisse il dottor Zucca. Sicuramente c’è il caso del dottor Gilberto Caldarozzi, che è appunto uno dei poliziotti condannato per le violenze di Genova e che, dopo aver scontato la pena, è stato reintegrato ed è stato nominato ai vertici della Direzione nazionale antimafia. Ha assunto il ruolo di vicedirettore. È chiaro che ci sono due esigenze giuste che cozzano. La prima è il rispetto del senso della pena. Aver scontato la pena estingue il reato. E una volta estinto il reato e pagato il prezzo per i propri errori, ciascuno di noi ha il diritto di essere pienamente reintegrato nella società. Anche il poliziotto che ha sbagliato a Genova. Ma, detto questo, mi chiedo: è giusto che sia assegnato un compito delicato come quello di guidare la lotta alla mafia e al terrorismo, a una persona che in passato ha svolto i suoi compiti usando metodi inaccettabili e che hanno provocato grandi ingiustizie? Quali certezze ho che questa persona, seguendo le indagini e quindi occupandosi di cittadini sospetti ma innocenti, non userà ancora i metodi che ha usato a Genova? Sono - lo vedete bene - due esigenze tutte e due sacrosante ma inconciliabili. Vi confesserò che questo problema non so risolverlo, nemmeno sul piano teorico. Stavolta, in modo clamoroso, rivendico il diritto al dubbio. Zucca, Regeni e la paura che fa la verità di Giulio Cavalli Left, 22 marzo 2018 “In nome di chi ha dato il sangue, di chi ha dato la vita chiediamo rispetto. Sono oltraggiose le parole di chi non più tardi di ieri ha detto che ai vertici della polizia ci sono dei torturatori”. A parlare così è il super capo della Polizia Franco Gabrielli che ha risposto al procuratore generale di Genova Enrico Zucca. “Arditi parallelismi e infamanti accuse”, ha tuonato Gabrielli. E sbaglia. E di grosso. E come al solito quando si innesca il cameratismo in difesa delle forze dell’ordine si utilizza il solito patetico giochetto di difendere “l’onore” del corpo di polizia fingendo di non avere capito i termini della discussione finché in modo abbastanza patetico si finisce per chiamare accusa una verità. Enrico Zucca ha detto una verità sacrosanta (tra l’altro da persona informata sui fatti essendo stato pm proprio nel processo sulle violenze del G8 di Genova): sulle torture (sì, torture) avvenute nel 2001 per mano dei poliziotti ci sono stati depistaggi, insabbiamenti, reticenze istituzionali e alcuni dei (pochissimi) condannati sono addirittura stati promossi a ruoli di prim’ordine. Zucca non ha puntato il dito contro la Polizia: ha ricordato i torturatori. E se è vero che era prevedibile che si muovesse il Csm viene da chiedersi cosa abbia da studiare il ministro Orlando (che ha chiesto l’acquisizione delle dichiarazioni di Zucca) che non abbia già scritto l’Europa che ha parlato, in riferimento ai fatti di Genova, di “sospensione della democrazia”. La stessa democrazia mancante (in questo caso egiziana) che da mesi tiene in stallo la giustizia che ci spetterebbe sulla morte di Giulio Regeni: nonostante le promesse e le chiacchiere nulla si muova sull’omicidio del giovane studente italiano e anche in questo caso una coltre di omertà protegge le responsabilità. Non ci voleva il procuratore Zucca per capire quanto siano affini le due situazioni, legate a doppio filo dalla difficoltà che uno Stato abbia il pudore di processare se stesso. Del resto la verità ha sempre fatto paura al potere che ha bisogno di fare il prepotente perché non riesce a governare secondo le regole. Che sia italiano, egiziano o che parli una lingua qualsiasi del mondo. E i valorosi poliziotti citati fuori luogo da Gabrielli (“chi ha dato il sangue”, “chi ha dato la vita”) sarebbero stati i primi a prendere a calci nel culo i colleghi omertosi. Polemica sul pm Zucca, ma lui rilancia “la Polizia torturò anche le Br” di Liana Milella La Repubblica, 22 marzo 2018 L’ira di Gabrielli: “Accuse oltraggiose e infamanti”. La Cassazione avvia accertamenti. Accuse “infamanti e oltraggiose” per il capo della Polizia Gabrielli. “Inappropriate e inaccettabili” per il vice presidente del Csm Legnini. Tali da spingere il Guardasigilli Orlando a chiedere una relazione dettagliata al procuratore generale di Genova e ad acquisire la registrazione. Non partono gli ispettori, ma poco ci manca. Mentre il Pg della Cassazione Fuzio, titolare dell’azione disciplinare, già avvia gli accertamenti preliminari. E Leone, il presidente della prima commissione del Csm delegata ai trasferimenti d’ufficio, chiede di aprire subito una pratica. Con Enrico Zucca, l’ex pm di Genova protagonista delle indagini sul G8 e sulle torture della Diaz e di Bolzaneto, riconosciute anche dalla Corte di Strasburgo, oggi nel ruolo di sostituto procuratore generale, restano solo il suo capo Valeria Fazio. “Il suo era un discorso articolato e pienamente condivisibile” - e la sua corrente, Magistratura Democratica, che non considera “oltraggiose le sue parole per la polizia” e riconosce ai magistrati “il diritto a partecipare al dibattito pubblico”. Ma tant’è. La frase di Zucca, al dibattito con i genitori di Giulio Regeni per presentare il docu-film di Repubblica “Nove giorni al Cairo”, scatena la bufera. Serve a poco che Zucca chiarisca il contesto e quanto ha effettivamente detto. La battuta isolata dalle agenzie: “I nostri torturatori sono al vertice della polizia, come possiamo chiedere all’Egitto di consegnarci i loro torturatori?” - viene altrimenti spiegata. A Repubblica dice: “Non ho paragonato i fatti di Genova con la tragedia di Regeni. Ho detto che se l’Italia, come da plurime sentenze di condanna, viola le convenzioni, senza che ci sia nessuna reazione dell’ordinamento interno, perde l’occasione di invocare le convenzioni stesse, cioè il rispetto dei principi nei confronti di Paesi non democratici, ma dittatoriali, per quanto “amici”. E lascia la sorte di Regeni alle contingenti esigenze e convenienze delle reciproche ragioni di Stato”. Zucca rimprovera alla Polizia di aver rimesso in carriera i poliziotti “condannati” per le torture del G8. Ma il paragone con il caso Regeni fa infuriare Gabrielli che da Agrigento, dove ricorda Beppe Montana, il capo della catturandi di Palermo ucciso dalla mafia, parla di “arditi parallelismi e infamanti accuse che qualificano solo chi li proferisce”. Gabrielli chiede “rispetto” e lo fa “nel nome di chi ha dato il sangue e la vita, perché noi facciamo i conti con la nostra storia ogni giorno e sappiamo riconoscere i nostri errori”. Ma Zucca resta della sua idea, tant’è che al Tg della 7 dichiara: “I morti della polizia e delle istituzioni non si negano. Ma non possiamo non ricordare che il sacrificio anche di vite umane dei giudici ha consentito di combattere con la legalità, con la regola, con processi regolari, il fenomeno del terrorismo, mentre la politica, il ministero dell’Interno, le forze di polizia percorrevano la scorciatoia della tortura”. La ferita del G8 è ancora troppo aperta per Zucca che, come pezza di appoggio, cita la sentenza di Strasburgo contro l’Italia dove si riconosce il reato di tortura e si chiede che i responsabili non occupino più posti di responsabilità. Cosa che, secondo Zucca, invece è avvenuto. Tortura, difesa d’ufficio: Gabrielli contro Zucca. Il Csm apre un’inchiesta di Eleonora Martini Il Manifesto, 22 marzo 2018 È bufera sulla frase pronunciata dall’ex pm del processo per la scuola Diaz. Md lo difende e ricorda: la condanna di Strasburgo impone di sospendere i responsabili. “Arditi parallelismi e infamanti accuse che qualificano soltanto chi li proferisce”. Reagisce male, il capo della polizia Franco Gabrielli, alle parole pronunciate dal sostituto procuratore della corte d’Appello di Genova Enrico Zucca che durante un’iniziativa dell’ordine degli avvocati su Giulio Regeni aveva detto: “I nostri torturatori sono ai vertici della polizia, come possiamo chiedere all’Egitto di consegnarci i loro torturatori?”. La sua però è una difesa d’ufficio un po’scontata e retorica: “Noi facciamo i conti con la nostra storia ogni giorno, noi sappiamo riconoscere i nostri errori - ha detto Gabrielli durante un’iniziativa ad Agrigento in ricordo di Beppe Montana, poliziotto ucciso dalla mafia nel 1985 - Noi, al contrario di altri, sappiamo pesare i comportamenti. Ma al contrario di altri, ogni giorno i nostri uomini e le nostre donne, su tutto il territorio nazionale, garantiscono la serenità, la sicurezza e la tranquillità”. Eppure, neanche un anno fa in un’intervista a Repubblica Gabrielli affermava a chiare lettere che durante il G8 del 2001 nella caserma di Bolzaneto venne praticata la “tortura” e che se fosse stato al posto di Gianni De Gennaro si sarebbe “dimesso”. Lui che nell’aprile 2016 venne spostato velocemente dalla prefettura di Roma al vertice della polizia proprio per dare manforte ad un governo che annaspava davanti alla Corte di Strasburgo chiamato a difendersi per le violenze alla Diaz. “La nottata non è mai passata - disse Gabrielli nell’intervista - A Genova, un’infinità di persone, incolpevoli, subirono violenze fisiche e psicologiche che hanno segnato le loro vite. E se tutto questo, ancora oggi, è motivo di dolore, rancore, diffidenza, beh, allora vuol dire che, in questi sedici anni, la riflessione non è stata sufficiente. Né è stato sufficiente chiedere scusa a posteriori”. Sei mesi dopo, uno dei protagonisti di quella storia, Gilberto Calderozzi, condannato in via definitiva a 3 anni e otto mesi per aver attestato il falso e coperto omertosamente le violenze e le torture inferte dalle forze dell’ordine all’interno della scuola Diaz divenne il numero due della Direzione investigativa antimafia. Ieri però, al solito bailamme sollevato dalle destre e dai sindacati delle forze dell’ordine - i funzionari di polizia parlano addirittura di “rischio disordini” - il presidente della Prima commissione del Csm, Antonio Leone, ha chiesto l’apertura di una pratica sul caso “per valutare gli eventuali profili di incompatibilità”, anche se il vicepresidente Giovanni Legnini si è limitato a definire quella di Zucca “una dichiarazione impegnativa con qualche parola inappropriata”. Mentre il ministero di Giustizia ha acquisito la registrazione integrale del convegno dell’ordine genovese degli avvocati. Ma l’ex pm del processo Diaz - che considera “normale e doveroso” l’accertamento dei fatti da parte degli organi competenti - insiste sul punto: “La rimozione del funzionario condannato è un obbligo convenzionale, non una scelta politica, e queste cose le ho dette e scritte anche in passato. Il Governo deve spiegare perché ha tenuto ai vertici operativi dei condannati. Fa parte dell’esecuzione di una sentenza”. E ancora, riferendosi al caso Regeni: “Se noi violiamo le convenzioni, è difficile farle rispettare ai Paesi non democratici. Il mio messaggio di ieri era: crediamo in primis noi ai principi, prima di pretendere che ci credano altri”. I genitori di Giulio, il ricercatore torturato e ucciso al Cairo che non ha ancora ottenuto verità e giustizia, hanno voluto esprimere “la nostra stima e gratitudine al dott. Zucca per il suo intervento preciso ed equilibrato”. D’altronde il procuratore della Corte d’Appello genovese non ha fatto altro che fotografare la realtà. Lo ricorda Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, quando dice che Zucca “evidenzia qualche problema reale, non sta inventando niente”. E lo ricorda Magistratura democratica con una nota in cui osserva “che le pronunce della Corte di Cassazione e della Corte Europea dei diritti dell’uomo hanno qualificato i fatti di Genova in termini di tortura e hanno censurato il nostro Paese per non avere posto in essere quegli adempimenti procedurali - tra cui la sospensione dal servizio dei responsabili - necessari per prevenire e reprimere il delitto di tortura”. “Sulla base di queste premesse condivise”, la corrente democratica dell’Anm ritiene dunque “che non possa qualificarsi oltraggioso per le forze dell’ordine ribadire l’incidenza di quella grave vicenda sulla credibilità delle istituzioni”, dentro le quali, “si collocano le forze di polizia con il loro quotidiano e indispensabile lavoro, nella legalità e a tutela della legalità”. Solidarietà a Zucca è stata espressa anche da Pap, Leu, e da numerosi giudici, legali, studiosi e cittadini comuni che hanno sottoscritto un appello - e invitano a firmare (appellozucca@altreconomia.it) - affinché si applichino le indicazioni prescritte nelle condanne Cedu per Diaz e Bolzaneto. Reati meno gravi, si apre alla conciliazione Italia Oggi, 22 marzo 2018 Ampliato l’istituto della procedibilità a querela di parte, estendendolo a quei reati contro la persona e contro il patrimonio che si caratterizzano essenzialmente per il valore privato dell’offesa o per il suo modesto valore offensivo. Questo con l’obiettivo di migliorare l’efficienza del sistema penale, favorendo meccanismi di conciliazione per i reati di minore gravità, anche attraverso la collegata operatività dell’istituto della estinzione del reato per condotte riparatorie, che riguarda i reati procedibili a querela ma con querela rimettibile, e di conseguenza una maggiore efficacia dell’azione di punizione dei reati più gravi. Lo prevede il decreto legislativo approvato invia definitiva ieri dal consiglio dei ministri con le “Disposizioni di modifica della disciplina del regime di procedibilità per taluni reati in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 16, lettere a) e b), e 17, della legge 23 giugno 2017, n. 103”. La procedibilità a querela viene introdotta per i reati contro la persona puniti con la sola pena pecuniaria o con la pena detentiva non superiore a quattro anni, con l’eccezione per il delitto di violenza privata, nonché per i reati contro il patrimonio previsti dal Codice penale. Viene fatta salva, in ogni caso, la procedibilità d’ufficio qualora la persona offesa sia incapace per età o per infermità, o ricorrano circostanze aggravanti a effetto speciale ovvero le circostanze aggravanti indicate all’art. 339 cp o, in caso di reati contro il patrimonio, il danno arrecato alla persona offesa sia di rilevante gravità. Inoltre, in relazione a reati che già prevedono la procedibilità a querela nella ipotesi base, si riduce il novero delle circostanze aggravanti che comportano la procedibilità d’ufficio. Codice della privacy Approvato, in esame preliminare, un decreto legislativo che, in attuazione dell’art. 13 della legge di delegazione europea 2016-2017 (legge 25 ottobre 2017, n. 163), introduce disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del Regolamento europeo relativo alla protezione delle persone fi siche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati. A far data dal 25 maggio 2018, data in cui le disposizioni di diritto europeo acquisteranno efficacia, il Codice in materia di protezione dei dai personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, sarà abrogato e la nuova disciplina in materia sarà rappresentata principalmente dalle disposizioni del Regolamento immediatamente applicabili e da quelle recate dallo schema di decreto volte ad armonizzare l’ordinamento interno al nuovo quadro normativo dell’Unione Europea in tema di tutela della privacy. Altri provvedimenti L’esecutivo ha approvato un decreto legislativo di attuazione dello statuto speciale della Regione autonoma Friuli Venezia Giulia in materia di trasferimento di beni del demanio idrico e delle relative funzioni. Ok in esame definitivo, a un regolamento che prevede l’inserimento del porto di Monfalcone all’interno dell’Autorità di sistema portuale del Mar Adriatico orientale. Approvato, in esame preliminare, un regolamento, che provvede al riordino dell’Istituto statale dei sordomuti di Roma mentre la ministra per la semplificazione Maria Anna Madia è stata autorizzata a esprimere il parere favorevole del governo sull’ipotesi di contratto collettivo nazionale di lavoro relativo al personale del comparto istruzione e ricerca per il triennio 2016- 2018, sottoscritta dall’Aran e dalle confederazioni e organizzazioni sindacali di categoria lo scorso 8 febbraio. Il governo ha infine deliberato di impugnare la legge di stabilità regionale 2018 della regione Molise, in quanto una norma, disponendo il rifinanziamento di un livello di assistenza sanitaria supplementare, si pone in contrasto con le previsioni del Piano di rientro dal disavanzo sanitario cui è soggetta la Regione; e di sollevare conflitto di attribuzione innanzi alla Consulta avverso la deliberazione della Giunta regionale del Veneto “Indizione di referendum consultivo sul progetto di legge n. 8 di iniziativa popolare relativo a “Suddivisione del comune di Venezia nei due comuni autonomi di Venezia e Mestre”. Indizione della consultazione referendaria per domenica 30 settembre 2018 e approvazione del quesito referendario”. Più spazio alla querela di parte di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 22 marzo 2018 Si estende l’area della procedibilità a querela. Il Consiglio dei ministri di ieri, l’ultimo prima dell’insediamento del nuovo Parlamento, ha dato il via libera definitivo al decreto legislativo che riscrive le condizioni di esercizio dell’attenzione penale per una serie di reati. Il provvedimento va letto insieme alla legge di riforma del processo penale in vigore dall’agosto 2017: da allora infatti è stata introdotta una nuova causa di estinzione del reato, a beneficio di chi realizza condotte riparatorie, che si può applicare soltanto all’area dei reati perseguibili a querela. L’obiettivo evidente è quindi quello di renderne più ampio l’utilizzo, valorizzando nello stesso tempo meccanismi conciliativi. In termini generali, la procedibilità a querela è considerata punto di equilibrio e di compromesso tra due opposte esigenze: da un lato quella di evitare l’applicazione di meccanismo automatici di repressione per fatti che hanno in realtà una gravità relativa, e, anzi, dannosi, per il perseguimento invece di fatti di ben altra rilevanza penale; dall’altro quello di fare emergere e valorizzare l’interesse privato alla punizione del colpevole in un contesto che è caratterizzato dalla lesione di bei strettamente individuali. In particolare, la procedibilità a querela viene introdotta per i reati contro la persona puniti con la sola pena pecuniaria o con la pena detentiva non superiore a quattro anni, con l’eccezione della violenza privata e dei reati contro il patrimonio previsti dal Codice penale. Viene fatta salva, in ogni caso, la procedibilità d’ufficio quando la persona offesa è incapace per età o per infermità, o ricorrono circostanze aggravanti a effetto speciale ovvero le circostanze aggravanti indicate all’articolo 339 del Codice penale o, in caso di reati contro il patrimonio, il danno provocato alla persona offesa sia di rilevante gravità. Inoltre, con riferimento a reati che già prevedono la procedibilità a querela nella ipotesi base, si riduce l’effetto delle circostanze aggravanti che comportano la procedibilità d’ufficio. Ancora più nel dettaglio, tra i reati espressamente interessati, rientrano le minacce gravi, la violazione di domicilio commessa da pubblico ufficiale l’alterazione o soppressione di corrispondenza, la truffa aggravata (ma con l’eccezione del danno patrimoniale di rilevante gravità), la frode informatica, l’appropriazione indebita in relazione a cose possedute a titolo di deposito necessario o ai casi in cui il reato è commesso con abuso di autorità o di relazioni domestiche o di ufficio. La data di entrata in vigore del decreto rappresenterà poi uno spartiacque da vecchio e nuovo regime di procedibilità. Infatti, il termine per la presentazione della querela per i reati interessati commessi in un momento antecedente inizierà a decorrere proprio dalla data di entrata in vigore se la persona offesa ha avuto conoscenza del fatto-reato. Se è in corso un procedimento sarà il pm, nella fase delle indagini preliminari, oppure il giudice, dopo l’esercizio dell’azione penale, a informare la persona offesa. Escluso invece il cambio delle condizioni di procedibilità se il giudizio, sempre al momento dell’entrata in vigore della riforma, è in Cassazione. Sì alla convalida dell’arresto in flagranza fatto da privati di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 22 marzo 2018 Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 21 marzo 2018 n. 13094. ll giudice deve convalidare l’arresto, in flagranza, fatto dai privati che inseguono l’autore di un reato del quale sono stati testimoni oculari e lo fermano fino all’arrivo dei carabinieri. Con la sentenza 13094, la Cassazione accoglie il ricorso del Pubblico ministero, che contestava la decisione con la quale il tribunale aveva detto no alla convalida dell’arresto di una cittadina straniera, che aveva sottratto il bancomat ad una cliente all’interno dell’ufficio postale. La vittima aveva inseguito la donna per riavere il bancomat ma era riuscita solo a farsi malmenare, mentre meglio era andata agli altri inseguitori, anche loro presenti nell’ufficio postale, che erano riusciti a bloccare l’autrice del furto, prima dell’arrivo dei militari che l’avevano arrestata. Un’operazione che il tribunale si era rifiutato di considerare valida perché le forze dell’ordine, ad avviso dei giudici, non avevano agito in flagranza, ma sulla scia di informazioni ricevute dai soggetti presenti alle Poste. Inoltre i militari non avevano trovato la “refurtiva” addosso all’arrestata perché il bancomat era stato prontamente recuperato da uno dei dipendenti dell’ufficio postale prima del loro arrivo. Il tribunale aveva sottolineato come non sia possibile, secondo le Sezioni unite (sentenza 39131/2016) procedere all’arresto in flagranza sulla base di informazioni della vittima o di terzi fornite nell’immediatezza dei fatti. La Suprema corte ricorda però che il caso sul quale si è espresso il supremo collegio riguardava un episodio di lesioni personali e l’arresto era avvenuto dopo un inseguimento “investigativo” avvenuto grazie alle indicazioni fornite dalla vittima. Diversa la situazione in esame in cui ad arrestare non erano stati i carabinieri, arrivati solo alla fine, ma direttamente le persone che avevano colto in flagranza l’autore di un reato perseguibile d’ufficio. L’arresto fatto dai privati, secondo la Cassazione, è dunque in linea con il codice di rito penale (articoli 383 e 380). Il reato resta anche con debito estinto di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 22 marzo 2018 Corte di cassazione 13110/2018. Se la sentenza di condanna è definitiva, il pagamento integrale del debito non può portare alla non punibilità in applicazione della nuova norma penale tributaria. A fornire questo principio è la Corte di Cassazione, terza sezione penale, con la sentenza n. 13110 depositata ieri. Un contribuente veniva condannato per il reato di omesso versamento di ritenute con una sentenza del 2013. Avverso la decisione era stata proposta istanza di revoca, rigettata però dal Gip in sede di esecuzione e pertanto l’imputato ricorreva in Cassazione. In particolare, lamentava la mancata revoca della pena nonostante, prima della sentenza di applicazione, avesse integralmente pagato il debito tributario. Evidenziava, infatti, che per effetto delle modifiche intervenute all’articolo 13 del decreto legislativo 74/2000 (a opera del Dlgs 158/2015), al versamento del dovuto prima dell’apertura del dibattimento di primo grado conseguiva la non punibilità del reato. La giurisprudenza di legittimità intervenuta sul punto ha affermato che tale facoltà va riconosciuta anche a chi ha eseguito il versamento in data successiva, a condizione che il dibattimento fosse avvenuto prima della modifica normativa. La Suprema Corte, ritenendo infondato il ricorso, ha chiarito alcuni principi sull’applicabilità della nuova norma. Innanzitutto è stato confermato che la non punibilità prevista è applicabile ai procedimenti in corso al momento di entrata in vigore della disposizione e che in simili ipotesi il limite temporale va ravvisato nella prima udienza utile successiva alla norma. Tuttavia, occorreva comprendere il trattamento da riservare ai procedimenti “non più in corso” perché irreversibilmente definiti. Sul punto, la Cassazione ha rilevato che la modifica della norma, riguardando esclusivamente le implicazioni sanzionatorie, non produce l’effetto di escludere la configurabilità del reato e la responsabilità risarcitoria per i pregiudizi cagionati ai terzi. La modifica, infatti, incide soltanto sulla possibilità di irrogare la sanzione nei confronti del suo autore. Ne consegue, pertanto, che nonostante l’integrale pagamento del dovuto, il reato resti comunque punibile. Il sequestro sui beni dell’indagato prosegue su cessioni fittizie alla figlia di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 22 marzo 2018 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 21 marzo 2018 n. 13111. Il sequestro preventivo indirizzato sui beni dell’indagato e poi condannato per reati tributari, continua ad essere efficace nel caso i beni oggetti della misura cautelare reale siano finiti nella disponibilità della figlia attraverso una cessione azionaria simulata. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 13111/18. Il ricorso - La difesa della donna si basava su una sua presunta qualità di persona estranea al reato non avendo ella concorso al reato non avendone tratto alcun vantaggio economico. Sul punto la risposta molto chiara della Cassazione, secondo cui la figlia, solo in senso formale poteva essere qualificata soggetto terzo estraneo al reato, essendo stata in tal senso rimarcata la natura simulata della cessione di quote (avvenuta il 7 febbraio 2012), in funzione della mancanza di un corrispettivo della cessione, dell’assenza di qualunque dichiarazione al Fisco, della modestia del prezzo della cessione e dell’esistenza di operazioni analoghe tra padre e figlia, elementi questi che escludevano la natura meramente liberale dell’atto. Sul punto - si legge nella sentenza - la ricorrente non era rimasta affatto neutrale rispetto al compimento dell’atto simulato del quale anzi ella era stata controparte negoziale nell’ambito di un’operazione contraddistinta da molteplici aspetti di “anomalia”, non consistiti solo nello stretto legame interpersonale tra i contraenti, ma anche e soprattutto nella regolamentazione del corrispettivo, rivelatosi troppo modesto costituendo altresì ulteriore sintomo della natura simulata dell’atto la circostanza che la ricorrente avesse omesso ogni dichiarazione del reddito al Fisco. Conclusioni - La ricorrente - per concludere - non ha adempiuto all’onere di allegazione sia rispetto alla rivendicata connotazione liberale dell’atto (comunque già smentita dall’accertamento definitiva della colpevolezza del padre) sia in ordine alla propria asserita buona fede, intesa come non conoscibilità, con l’uso della diligenza richiesta dalla situazione concreta, del rapporto di derivazione della propria posizione soggettiva dal reato commesso dal condannato, “non essendo invece dirimente in questa sede la considerazione difensiva relativa alla dimostrazione del concreto vantaggio personale conseguito dal ricorrente”. Sulmona (Aq): muore dopo aver trascorso 26 anni in carcere e dona i suoi organi di Carlo Pecoraro La Città di Salerno, 22 marzo 2018 I familiari di Pellegrino Cataldo, 68 anni, giunti da Salerno, decidono di rispettare la sua volontà. L’uomo doveva scontare gli ultimi anni di reclusione a seguito di una condanna a 30 anni. Muore in carcere e dona i suoi organi. Si chiude così, con un gesto d’amore e di estrema generosità, la parabola del boss Pellegrino Cataldo. A darne notizia il quotidiano “Il Centro” di Pescara, in Abruzzo, dove il 68enne di Pontecagnano era detenuto nel carcere di Sulmona. Qui aveva scontato 26 anni e a breve sarebbe uscito per buona condotta, prima della scadenza della pena, prevista per il 2022. La volontà di donare gli organi, era maturata in cella e i familiari hanno mantenuto fede a quella volontà. Cataldo, è morto venerdì nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Sulmona dove era ricoverato a seguito di una grave emorragia cerebrale, non operabile, che non gli ha lasciato scampo. Un’agonia cominciata per il 68enne mercoledì scorso. Cataldo si era sentito male nella sua cella ed era stato immediatamente soccorso dai medici del penitenziario allertati da un altro detenuto. La situazione era apparsa subito molto grave, tanto da spingere i medici a trasferire con urgenza il detenuto all’ospedale di Sulmona. Venerdì la situazione è precipitata e i familiari, rispettando il desiderio espresso dal proprio congiunto, hanno dato il consenso al prelievo di organi. All’uomo sono stati prelevati il fegato, espiantato da una équipe giunta con l’elicottero da Palermo (dove si trovava un paziente in attesa di un trapianto), e le cornee che sono state, invece, affidate alla Banca degli occhi dell’ospedale San Salvatore dell’Aquila. Il prelievo delle cornee è stato eseguito dalla dottoressa Graciela Di Michele, mentre la parte anestesiologica è stata curata dalla sua collega Marianthi Zolotaki. Sassari: convenzione per l’assistenza ai detenuti con malattie infettive buongiornoalghero.it, 22 marzo 2018 L’hanno siglata la Aou di Sassari e l’Ats Sardegna - Assl Sassari e consentirà di effettuare visite mediche specialistiche, prescrivere farmaci anti-infettivi e predisporre piani terapeutici personalizzati. L’accordo, della durata di un anno, vedrà lavorare assieme, secondo un piano di lavoro concordato, i medici della clinica di Malattie infettive dell’Aou e quelli dell’unità operativa “Tutela della salute in carcere” dell’Assl sassarese. Nel 2016 Aou e Asl avevano siglato apposita convenzione per il trattamento dei pazienti affetti da malattie infettive. Un atto che, già da allora, metteva in evidenza la necessità di garantire questo tipo di assistenza sanitaria all’interno delle case circondariali del territorio della provincia. E il motivo è chiaro: “Il carcere è un’occasione straordinaria di sanità pubblica e concentra numerose patologie, con soggetti affetti da Hiv, da epatiti C e B, quindi ancora malattie sessualmente trasmissibili e tubercolosi latente”. A dirlo è Sergio Babudieri, direttore della clinica di Malattie infettive e presidente onorario della Società italiana di Medicina e sanità penitenziaria. Di origini romane, da oltre trent’anni vive e lavora a Sassari. Dal 1987 in Malattie infettive, per il suo lavoro ha conosciuto la realtà di San Sebastiano, il carcere cittadino ottocentesco, che dal 2013 ha chiuso i battenti per dare spazio alla nuova Casa circondariale “Giovanni Bacchiddu” a Bancali. Una realtà lontana da Sassari ma a volte, “anche in città, bastava un muro per separare, oscurare e nascondere la popolazione che stava al di qua di quella cinta muraria”, aggiunge lo specialista. In Italia il dato sulla popolazione dei detenuti, aggiornato al 28 febbraio, è di 58.163 e di questi 2.402 sono donne e 19.765 stranieri. A Sassari, invece, alla stessa data i detenuti sono 492, 16 donne e 166 stranieri, quindi ad Alghero 126 di cui 46 stranieri. Secondo le stime a disposizione degli specialisti, “perché mancano i dati epidemiologici ufficiali”, oltre il 33 per cento della popolazione carceraria italiana è portatrice di epatite C, il 6 per cento di epatite B, quindi tra il 3 e il 4 per cento dell’Hiv e il 25/30 per cento della Tbc. Si comprende l’importanza dei medici infettivologi all’interno del carcere. “Ecco perché il carcere è occasione unica di sanità pubblica - aggiunge il direttore della clinica di Malattie infettive - perché oltre alla diagnosi è possibile iniziare una terapia su persone che, una volta tornate in libertà, sarebbe difficile rintracciare”. Questa attività, che presenta le sue difficoltà, è centrale per la sanità pubblica. “Non farla in carcere, può significare perdere il contatto con molte malattie, non solo infettive. Ci troviamo difronte a persone che - prosegue Sergio Babudieri - non hanno certamente il bene salute in cima alle proprie necessità”. L’obiettivo è, allora, oltre l’aspetto sanitario e terapeutico, quello della prevenzione. “Con il contatto diretto - spiega ancora - rendiamo maggiormente consapevoli queste persone della loro situazione e, una volta che saranno fuori, non trasmetteranno l’infezione. L’attività che portiamo avanti con il colleghi dell’Ats rappresenta quindi un nuovo stimolo, che va nel senso di considerare la sanità penitenziaria come sanità pubblica”. La Clinica di Malattie infettive è, comunque, sempre stata un riferimento sul territorio. “Storicamente - conclude il direttore della Clinica - siamo sempre stati impegnati con un’attività che ci ha portato a essere presenti nel territorio con i nostri specialisti, nelle comunità terapeutiche, nelle case famiglia, nell’assistenza domiciliare e, periodicamente, nelle scuole per la formazione e la sensibilizzazione degli studenti”. Trento: “Non solo dentro”, il giornale realizzato dai detenuti e dai volontari dell’Apas vitatrentina.it, 22 marzo 2018 Arriverà da giovedì nelle edicole e in tante case il giornale realizzato dai detenuti della Casa circondariale insieme ai volontari dell’Apas. Il giornale dei detenuti “dentro” Vita Trentina. Presentata la nuova iniziativa editoriale dell’Apas con il settimanale diocesano. Poi l’annuncio: don Mauro Angeli è il nuovo cappellano della Casa circondariale di Trento. Non poteva essere più tempestiva l’uscita in edicola, con Vita Trentina, del giornale dei detenuti del carcere di Trento, da giovedì 22 marzo pubblicato come inserto del settimanale diocesano. Realizzato dai detenuti della Casa Circondariale insieme ai volontari dell’Apas (Associazione Provinciale per l’Aiuto Sociale), nell’ambito di un’attività avviata da quattro anni all’interno della struttura di Spini di Gardolo, il giornale arriverà da giovedì anche nelle case degli abbonati al settimanale. Proprio all’indomani della riforma dell’ordinamento penitenziario approvata dal governo; una riforma che prevede, tra l’altro, una riduzione del ricorso alla detenzione in favore di misure alternative al carcere. Stampata in precedenza come supplemento al bollettino dell’associazione Apas “Oltre il muro”, la rinnovata testata muta il titolo da “Dentro” a “Non solo dentro. Parole dal carcere” e uscirà come inserto trimestrale. Si propone di diventare non solo lo strumento che raccoglie le voci interne al carcere, ma anche un organismo di trasmissione con la comunità trentina, come ha ribadito nella presentazione alla stampa mercoledì 21 marzo presso l’Ufficio Stampa diocesano a Trento don Marco Saiani, vicario diocesano e presidente della cooperativa editrice Vita Trentina. Don Marco Saiani, nella sua doppia veste, ha prima di tutto informato della nomina di don Mauro Angeli, sacerdote diocesano, a nuovo cappellano della casa circondariale di Trento, al posto del comboniano padre Stefano Zuin, a sua volta subentrato nel Natale 2017 al compianto padre Fabrizio Forti, e a fine mese in partenza per la missione, nel Sud Sudan. Sia la nomina di don Mauro - che proprio mercoledì ha compiuto 35 anni ed era già impegnato in percorsi di avvicinamento al carcere con i giovani della pastorale universitaria, di cui è responsabile dal 2016 - sia l’investimento nella nuova pubblicazione rappresentano, ha detto don Saiani, un segno di attenzione della Chiesa trentina al mondo del carcere. “Abbiamo chiesto questo impegno a un sacerdote giovane, pur in presenza di tante necessità, proprio per significare l’attenzione della nostra diocesi di Trento”, ha ribadito don Saiani, ricordando che fino ad ora erano sempre stati dei religiosi ad occuparsi dell’assistenza spirituale in carcere. Il direttore di Vita Trentina, Diego Andreatta, ha presentato “la nuova fatica editoriale” che si apre con un editoriale che affronta il tema della certezza della pena. In prima pagina anche la riflessione di Paolo sull’esperienza della vita in carcere, mentre all’interno si esprime un ringraziamento per la presenza di don Stefano Zuin. Spazio anche alla Garante dei detenuti Antonia Menghini, che si presenta ai lettori e tratteggia i compiti del suo ufficio e al teatro in carcere con la rappresentazione di “A nord di nessun sud” ideata e diretta da Emilio Frattini. “La rivista - ha detto Andreatta - raccoglie il frutto di anni di attività dell’associazione Apas in carcere e punta ad ampliare, ogni tre mesi, in allegato al settimanale diocesano, la diffusione dei contenuti elaborati dalla redazione all’interno del carcere di Spini di Gardolo”. Responsabile della redazione è Piergiorgio Bortolotti. Impossibilitato ad essere presente all’incontro, Bortolotti ha inviato un breve messaggio, letto da Andreatta, nel quale sottolinea la volontà della redazione del giornalino carcerario - il numero dei redattori varia da 10 a 15 persone - di instaurare attraverso le pagine “un dialogo con il mondo di fuori, del quale, sia pure reclusi, si sentono a tutti gli effetti parte” e al quale, un giorno “vicino o lontano nel tempo” torneranno. Sono persone, afferma Bortolotti, “consapevoli degli sbagli commessi” e nelle quali “è vivo il desiderio di voltar pagina”: ed “è interesse di tutti, non solo loro, operare perché questo avvenga e avvenga nel modo migliore”. “La speranza è il rischio da correre… abbiamo scritto accanto al titolo della testa, ed è questo che ci proponiamo attraverso questa piccola attività”, conclude Bortolotti. Per dialogare con la redazione del giornalino, si può mandare una e-mail all’indirizzo info@apastrento.it oppure dialogo@vitatrentina.it, ha precisato Andreatta, esprimendo in conclusione compiacimento in quanto “in Italia non vi sono molte realtà analoghe, di giornalino realizzato in carcere pubblicato insieme alla rivista diocesana, anche se ci sono numerose esperienze di giornale in carcere, ma dalla circolazione interna e molto contenuta”. Soddisfazione per le nuove, inedite e più ampie possibilità di diffusione della voce delle persone detenute hanno espresso i rappresentanti dell’Apas. Il presidente dell’associazione, Bruno Bortoli, ha osservato che “l’offerta di Vita Trentina permette non solo una diffusione più ampia dei contenuti prodotti, ma soprattutto di informare e sensibilizzare la popolazione su temi a noi cari e congeniali”, mentre il direttore dell’associazione, Aaron Giazzon, ha ricordato l’impegno dell’Apas esercitato anche attraverso il volontariato e il sostegno della Provincia autonoma di Trento, attraverso la convenzione sulla legge provinciale n. 35. “La rivista nasce per essere luogo di riflessione e di approfondimento non solo sul carcere, ma sulla vita stessa dei detenuti”, ha concluso, ringraziando in particolare la Garante dei detenuti Antonia Menghini, presente sul giornale con una lunga intervista. Quest’ultima, nel suo intervento, ha parlato con accenti commossi, dicendosi contenta della “bella notizia” della nomina di don Mauro Angeli. Dei suoi primi sei mesi da Garante dei detenuti, Antonia Menghini ha colto in particolare la necessità, per i detenuti, di avere delle relazioni, di riuscire a trovare canali di comunicazioni: la rivista offre loro un’opportunità in tal senso “e di questo ringrazio la Chiesa trentina e il settimanale Vita Trentina”. Dal canto suo don Mauro Angeli, fresco di nomina, si è detto convinto che “il carcere ha molto da dire”, che “le parole del carcere sono importanti” perché lì dentro “c’è sofferenza, c’è riflessione”. “Mi avvicino al carcere in punta di piedi”, ha sottolineato don Mauro, che in passato è stato viceparroco a Trento (nelle parrocchie di Sant’Antonio e del Sacro Cuore), quindi segretario dei vescovi Luigi Bressan, fino al 2013, e Lauro Tisi, fino al settembre 2017. “È un ambiente - ha detto - dove si impara anzitutto ad ascoltare. Spero di riuscire a farlo in modo adeguato, aiutando nel contempo la comunità trentina, cominciando da quella ecclesiale, a sentire il carcere come un luogo che merita grande attenzione e vicinanza da parte di tutti”. Milano: innocente finisce in carcere per una settimana e perde il lavoro di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 22 marzo 2018 La terribile disavventura accaduta a un 58enne incensurato: sei testimoni lo hanno indicato come l’autore di una serie di rapine seriali. È stato in carcere una settimana prima che il figlio arrivasse da Londra e lo discolpasse. Il fotogramma di un telecamera e ben 6 testi oculari che ti riconoscono: hai fatto tu 8 rapine e derubato 4 persone ai bancomat, gli dice la polizia quando il 18 gennaio l’arresta su ordine del gip Maria Vicidomini in una inchiesta del pm David Monti. Vi sbagliate, cade dalle nuvole Ahmed Abou Elhammd Abbas Ahmed, 58enne italiano di origine egiziana, incensurato addetto alle pulizie di un negozio Ikea. L’alibi inattaccabile - Lo salva solo la fortuna: foto e testi, evidentemente ingannati dalla somiglianza con il vero bandito, erano dell’8 novembre 2017, ma lui dal 25 ottobre al 29 novembre era a Londra a trovare il figlio (che il 21 gennaio 2018, non sapendolo arrestato e non sentendolo da 3 giorni, volerà a Milano temendolo morto da solo in casa). Aveva perso il posto - Dopo 8 giorni di carcere, l’arrestato è scarcerato dal Gip che “dichiara la perdita di efficacia della misura essendo decorsi i 5 giorni per l’interrogatorio di garanzia”. Torna sul posto di lavoro, ma scopre che la sua assenza gliel’aveva fatto perdere: per forza, prova a spiegare, mi avevano arrestato ma è stato uno sbaglio. La sua cooperativa e l’Ikea non gli credono. Allora il legale Eugenia Bellu chiede aiuto al pm, che il 31 gennaio rilascia due righe attestando che “gli iniziali elementi di responsabilità si sono rivelati non di sicura gravità indiziaria”. E ora, dopo un altro mese di esiti negativi, è il pm stesso ad aver chiesto già l’archiviazione definitiva. Torino: nuove vite in carcere nel ricordo di Alberto Musy di Maria Teresa Martinengo La Stampa, 22 marzo 2018 La moglie Angelica alla Casa circondariale con 120 studenti. Sei anni fa, come ieri, Alberto Musy, professore universitario e consigliere comunale, era vittima di un agguato incomprensibile, vigliacco: cinque colpi di pistola, diciannove mesi di calvario, la fine. Ieri la sua sposa, Angelica d’Auvare, lo ha ricordato entrando in carcere con 120 studenti e i loro insegnanti per un momento speciale di Teatro-Conferenza inserito nel progetto che dal 2014 il Fondo Alberto e Angelica Musy porta avanti. Il Fondo, presso l’Ufficio Pio della Compagnia di San Paolo, sostiene con borse lavoro il reinserimento dei detenuti, oggi dodici, che hanno scelto di dedicarsi agli studi universitari. Un nuovo inizio. “Game over: per un nuovo inizio” è lo spettacolo, di e con Elisabetta Baro, Franco Carapelle e gli intermezzi del rapper Alp King: negli ultimi due mesi lo hanno visto mille studenti di 7 scuole superiori. Un messaggio ottimista sul tema del riscatto, la “seconda chance”. Incontro importante Per i ragazzi, un po’ intimiditi, senza cellulari e con molta curiosità, è stata un’esperienza importante: due ore alla scoperta del carcere, della sua vita, delle attività, delle difficoltà, dei sentimenti attraverso le parole del direttore Domenico Minervini, della garante dei detenuti Monica Cristina Gallo, dei detenuti-studenti Roberto e Michele. Poi, l’incontro con la forza d’animo di Angelica, sorridente, costruttiva. “Ho tre figlie tra i 14 e i 18 anni - ha raccontato - alle quali devo spiegare tante cose. Dico loro che se un detenuto ce la può fare, ce la possiamo fare anche noi come famiglia. Poi, sostenere la “seconda opportunità” con il Fondo è un modo per prendere il testimone e rappresentare Alberto nella nostra città, che si è dimostrata sempre affettuosa e alla quale faccio appello perché ci resti vicina: è importante il senso di comunità che insieme possiamo costruire”. Con la società civile Tante le domande rivolte dai ragazzi degli istituti Berti, Grassi e Vittone a Minervini, che all’inizio aveva detto: “Questo luogo ha bisogno della società civile, di presenze come le vostre perché il carcere è un pezzo di città. Oggi i detenuti sono 1360, cento hanno attività all’esterno. La vita di un detenuto può cambiare, ma molto dipende dal clima di un istituto, dalle opportunità”. Errori giudiziari, permessi, contatti con le famiglie, diritti umani al centro della curiosità degli studenti. Una ragazza ha domandato agli ospiti: “Siete divisi o vi aiutate?”. Michele ha risposto che “al Polo Universitario c’è molta solidarietà”. Per Lorenzo e Raffaella, del Berti, una mattina preziosa: “Tutti sono stati capaci di mettersi in gioco davanti a noi e di rompere gli stereotipi. Una mattina che ci ha fatto crescere”. Uscendo, i ragazzi hanno imbucato cartoline con la risposta alla domanda: “Che adulto diventerò?”. Roma: Giovedì Santo, il Papa oltre le sbarre di Regina Coeli di Alberto Chiara Famiglia Cristiana, 22 marzo 2018 Francesco conferma scelte “fuori dai nostri recinti”, come twittò un anno fa. Dopo Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II è il quarto Pontefice a entrare nell’antico carcere romano. L’incontro con i detenuti ammalati in infermeria; quindi la celebrazione della messa in Coena Domini, con il rito della lavanda dei piedi a 12 detenuti, nella “rotonda”; infine, un momento con alcuni reclusi dell’ottava sezione. Il 29 marzo, Giovedì Santo, papa Francesco va nel carcere romano di Regina Coeli. Per la quarta volta in cinque anni di Pontificato Jorge Mario Bergoglio ha scelto un istituto di pena. Il 28 marzo 2013, poco dopo esser stato eletto Papa, è andato nel carcere minorile di “Casal del Marmo”. Il 17 aprile 2014 s’è recato tra i disabili del Centro riabilitativo Santa Maria della Provvidenza della Fondazione don Carlo Gnocchi. Il 2 aprile 2015 ha celebrato la Messa in Coena Domini nel carcere di Rebibbia. Il 24 marzo 2016 papa Francesco è invece andato tra gli stranieri del Centro di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) di Castelnuovo di Porto. Il 13 aprile 2017, infine, è entrato nella Casa di Reclusione di Paliano, in provincia di Frosinone. “Ci fa bene uscire dai nostri recinti, perché è proprio del Cuore di Dio traboccare di misericordia, straripare, spargendo la sua tenerezza”, ha twittato lo scorso anno Francesco, offrendo così la chiave interpretativa di questi (di tanti altri) suoi gesti. Bergoglio è il quarto Papa, negli ultimi 60 anni, a varcare le porte di Regina Coeli, il carcere che sorge a poca distanza dal Vaticano: il primo fu Giovanni XXIII nel giorno di Santo Stefano del 1958, poi Paolo VI il 9 aprile 1964 e Giovanni Paolo II il 9 luglio 2000, in occasione del Giubileo nelle carceri. Lucca: “La prospettiva rovesciata”, domani l’incontro sulla giustizia riparativa comune.capannori.lu.it, 22 marzo 2018 “È osceno che noi siamo ancora vivi, mentre altri sono morti”. Tra le pagine de “Il libro dell’incontro - vittime e responsabili della lotta armata a confronto”, si legge anche questo. Sono tanti i pensieri e le riflessioni dei criminali e delle loro vittime - più facilmente dei parenti delle vittime - raccolti in questo toccante volume (edizioni Il Saggiatore) dai mediatori penali Guido Bertagna, Adolfo Cerretti e Claudia Mazzucato. Proprio dalle pagine di questi scritti si partirà, venerdì 23 marzo, alle ore 21.00 al polo culturale Artémisia a Tassignano, per parlare di giustizia riparativa, ovvero di quel delicato percorso - per lo più ancora sconosciuto in Italia - che porta a incontrare reo e vittima per capire davvero la gravità e “il senso” di un crimine. Per la rassegna “I venerdì letterari” di Capannori, organizzata dal Comune di Capannori in collaborazione con Ecoeventi e il supporto di Ubik Lucca, relatori speciali per parlare sul tema saranno Davide Bellarte, responsabile del progetto Jonathan di Vicenza, una delle prime case accoglienza per detenuti in pene alternative nata in Italia e un “ospite” del progetto. Modera l’incontro la giornalista Romina Lombardi. Il Progetto Jonathan opera in Veneto dal 1989 e ha per obiettivo l’accoglienza, l’accompagnamento ed il reinserimento sociale dei detenuti con preferenza per i più giovani e poveri, specialmente attraverso il lavoro. L’obiettivo è dare alle persone recluse una possibilità di vita all’interno della legalità, permettere loro di lavorare e riallacciare relazioni significative, vedere modalità di vita possibili diverse da quelle criminali e devianti. Dalla sua fondazione, il Progetto Jonathan ha accolto oltre 300 detenuti che potevano disporre delle pene alternative quali la semilibertà, l’affidamento ai servizi sociali esterni e la detenzione domiciliare, riuscendo a far rientrare in società molte persone che hanno smesso di delinquere e, anzi, che hanno intrapreso percorsi di riparazione verso la società stessa. Per capire quanto le strutture come il Jonathan - ancora poche in Italia - siano utili soprattutto per la sicurezza dei cittadini, basta un dato: in Veneto chi sconta gli ultimi anni di condanna in pene alternative torna a delinquere nell’8% dei casi, chi sconta solo in carcere lo fa nel 70%. L’ingresso è gratuito. Per informazioni: biblioteca “Ungaretti” telefono 0583.936427, email artemisia@comune.capannori.lu.it. Milano: la notte che tutti erano liberi al carcere di Opera di Manuela D’Alessandro glistatigenerali.com, 22 marzo 2018 Una serata di “Rinascimento”, così la introduce Angelo Aparo, lo psicologo che da anni porta i detenuti a parlare coi ragazzi nelle scuole. E sembra proprio immaginarla maiuscola la ‘R’ di rinascimento perché c’è una cattedrale di bellezza che fiorisce in questa notte speciale al carcere di Opera dove si trovano assieme magistrati, carcerati, vittime e giornalisti, ispirati dal documentario ‘Lo Strappo - quattro chiacchiere sul criminè. Assieme davvero: nessuno parla per sé ma il dialogo è continuo, un filo che tutti tessono tra le mani, che a volte brucia ma non si spezza per un secondo. Tutti in cerchio, attorno allo stesso fuoco. Come Adriano Sannino, che sta scontando la pena, e l’ex procuratore antimafia, Franco Roberti. Si erano sfiorati, anni fa. “Dopo avere sentito le lettere della vittime, mi sento piccolino vicino a questo dolore così forte. In passato ho usato tante “maschere” in carcere, ora per me è un onore stare a fianco del dottor Roberti, che conosce quei processi in cui ero coinvolto. Io vengo da Poggioreale, sono campano, come lui. Ero dall’altra parte della giustizia, ero lì per distruggere la società. Chiedo scusa alle vittime in sala perché ho ucciso. Ma ho incontrato delle persone che mi hanno preso per mano e mi hanno fatto innamorare della vita. Grazie al direttore Giacinto Siciliano (ora a San Vittore, ndr), al “Gruppo della trasgressione” di Aparo, a chi lavora in carcere”. O come Alessandro Crisafulli, 45 anni, in carcere da 24, ergastolano. Lui ha in testa un ponte. “Siete voi, familiari, i coraggiosi, voi siete la parte che ha subito, sono io che devo fare degli sforzi per venirvi incontro. Sono un ex assassino, non ci sono parole ma io devo trovare qualcosa da dire se vogliamo costruire questo ponte a cui tutti ambiamo. Se oggi potessi incontrare il ragazzo che uccideva, 25 anni fa, più che parlargli, ascolterei i silenzi che gravavano su di lui che viveva in una famiglia silenziosa dove non era riconosciuto in alcun modo”. Non è una strada dritta, quella dei detenuti che provano a essere liberi in una prigione. Chiede un giovane recluso dal pubblico: “Perché alcuni del “Gruppo della trasgressione” quando escono in permesso commettono ancora reati?”. “È difficile dirlo. Io quando esco - ragiona Crisafulli - mi dico: come posso tradire chi mi ha preso in una discarica e mi ha messo su una strada? Come posso tradire ancora quel ragazzo che ero?”. Non era nemmeno un ragazzo l’avvocato Umberto Ambrosoli quando suo padre Giorgio venne assassinato l’11 luglio del 1979. Alla domanda dal pubblico su cosa si aspettino i familiari delle vittime dalla giustizia, rianima un episodio che ammutolisce: “Uno dei tre condannati per l’omicidio di mio padre ripresentò, 5 anni dopo una prima richiesta respinta, una domanda di grazia. Venni chiamato dai carabinieri, com’era già successo la prima volta, che mi consegnarono un modulo per esprimere il mio eventuale consenso. In quei giorni, mi arrivò la mail della figlia che diceva che il padre era un uomo ormai molto anziano, aveva sbagliato tutto nella vita ma aveva il diritto a morire vicino ai suoi figli. Rimasi pietrificato, non avevo mai pensato che quell’uomo potesse avere un figlio. Degli altri due conoscevo alcuni dettagli della famiglia, ma non mi ero mai posto domande sul terzo. Mi sono sentito in colpa perché avevo perso un’occasione di curiosità per fare un percorso. Qualche settimana dopo quell’uomo è morto senza che si completasse l’iter processuale”. Mario, ergastolano, pone un’altra domanda che farebbe paura in ogni luogo, ma non qui, stasera. “Dopo tanti anni coi compagni del Gruppo, ci siamo guardati dentro e oggi ho preso coscienza della mia colpa. Spero di poter restituire qualcosa di significativo del mio cambiamento, anche se sembra un’offesa dirlo davanti alle vittime. Ce la stiamo mettendo tutta, anche coi ragazzi delle scuole (alcuni sono in sala, ndr). La mia domanda è: cosa faccio della mia colpevolezza?”. Manuela Massenz, magistrato di Monza, risponde col coraggio che merita una domanda così: “Prendendo per mano quei ragazzi, come poteva essere Alessandro 25 anni fa, in un certo modo restituite quello che avete tolto”. Se non si dovesse chiudere per motivi di ‘palinsesto’, la sensazione è che si potrebbe andare avanti fino all’alba. C’è tempo anche per l’ammissione dei giornalisti, Paolo Colonnello e Max Rigano, che lo ‘strappo’ per i media, disinteressati alle carceri, non c’è ancora stato. Tocca al direttore Silvio Di Gregorio, che ha raccolto l’eredità preziosa di Siciliano, mandare tutti a dormire: chi fuori, chi dentro. Non prima di avere ringraziato gli straordinari della polizia penitenziaria “che sta lavorando per l’occasione dalle 8 di stamattina”. Una cattedrale ha bisogno di tutti per diventare alta e bella. Libri. “Un ambasciatore a Regina Coeli”, di Claudio Moreno primapaginanews.it, 22 marzo 2018 Prosegue il tour letterario dell’Ambasciatore Claudio Moreno. Il suo libro “Un ambasciatore a Regina Coeli” (Editori Riuniti, Introduzione di Rita Bernardini e Prefazione di Vitaliano Esposito) è stato presentato con successo in tutta una recentemente in una serie di location, alcune delle quali di grande prestigio. È accaduto nella sede del Partito Radicale, presenti i più noti rappresentanti della leadership Radicale, da Rita Bernardini a Sergio d’Elia, da Elena Zamparutti allo stesso Ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata, lui ex Ministro degli Esteri; e altrettanto al Circolo degli Affari Esteri, con la partecipazione dell’Ambasciatore Umberto Vattani, dell’Ambasciatore Riccardo Sessa e dell’ex Procuratore Generale presso la Suprema Corte di Cassazione Vitaliano Esposito. E come se tutto questo non bastasse, il libro dell’Ambasciatore Moreno è stato anche presentato presso la Camera Penale Nazionale, alla Residenza di Ripetta di Roma, proprio come volume-guida per affrontare uno dei temi di maggiore attualità del momento, l’approvazione dei Regolamenti carcerari da parte del Governo. In questa occasione Marisa Laurito ha letto con partecipata emozione alcuni dei brani del libro di Moreno. La descrizione contenuta nel libro è una appassionata analisi sociologica delle condizioni prevalenti nel Carcere di Regina Coli, con la descrizione minuziosa di ogni aspetto delle 24 ore di un detenuto, una realtà carceraria denuncia l’ambasciatore- dove la tutela dell’individuo è pura demagogia, detenuti abbandonati a se stessi, e la cui vita viene scandita da regole carcerarie non scritte e imposte solo da consuetudini malavitose, o peggio ancora della violenza verso i più giovani e i più deboli. L’ambasciatore Moreno non concede sconti a nessuno e nel suo saggio racconta di tutto: racconti di ogni genere, abitudini consuetudinarie, mancanza di cure mediche, affollamento oltre ogni limite lecito delle celle, centinaia di casi personali gravi, devastati dalla depressione, centinaia di casi di autolesioni, centinaia di crisi di astinenza di detenuti drogati, e decine di tentativi diversi di suicidio. Spesso la “prima carcerazione” - spiega nel suo libro l’Ambasciatore Noreno - diventa per i più giovani una vera e propria scuola di ingresso per passare poi a livelli superiori, e più specializzati, di criminalità organizzata. L’Autore dichiara in maniera palese il suo interesse personale, e di ricercatore, verso questo assurdo pianeta di violenza e di violenze, un racconto che si snoda come la sceneggiatura di un film, piena di colpi di scena, di fatti drammatici, di note di colore, persino di aspetti comici, di regole non scritte che accompagnano il detenuto per tutta la sua permanenza in carcere, il tutto immerso di un clima di violenza latente, di inganno e di sopraffazione. Moreno non manca nella sua analisi di esplorare e di proporre anche dei suggerimenti che possano in qualche modo migliorare la qualità della vita dei detenuti. Va ricordato che Rita Bernardini che ha condiviso i fini umanitari del libro di Moreno ha combattuto per mesi perché si giungesse all’approvazione dei Regolamenti Carcerari, prolungando il suo sciopero della fame durante 32 giorni fino alla approvazione anche se parziale di detti Regolamenti che erano già stati approvati dalla Camera e dal Senato, e solo lei poteva farlo con tanta determinazione e tanto rigore. Questo fa di lei una donna straordinaria e come tale rende onore a ognuna di noi. Facebook e big data, quando non paghi qualcosa il prodotto sei tu di Arturo Di Corinto Il Manifesto, 22 marzo 2018 “D” come data mining. Per Wikipedia il data mining “è l’insieme di tecniche e metodologie che hanno per oggetto l’estrazione di un’informazione o di una conoscenza a partire da grandi quantità di dati”. Il processo avviene attraverso metodi automatici o semi-automatici. E aggiunge che con data mining “si intende anche l’utilizzo scientifico, industriale o operativo di questa informazione”. Perciò grazie Wikipedia, e non dimenticate di fare una donazione all’enciclopedia libera che tutti usano senza dirlo per le sue belle e sintetiche definizioni. Nell’epoca di Facebook e dei “Big Data”, il data mining è cruciale per individuare la propensione all’acquisto dei consumatori, ma anche per definirne il profilo politico, sessuale, religioso. Perfino il rischio sanitario o creditizio. I dati, provenienti dalle fonte più disparate, come l’uso di app, computer e smartphone, carta degli sconti, tessere elettroniche e per la pay-tv, vengono raccolti in grandi database e, incrociati fra di loro, possono essere usati per costruire profili singoli e aggregati, individuali e collettivi di consumatori, lavoratori o elettori. Questi dati, shakerati con i metodi della statistica e delle scienze sociali grazie a sistemi automatizzati, definiscono la nostra “data-immagine”. Che è il profilo digitale della nostra persona, quello che ci precede quando andiamo a chiedere un mutuo in banca o cerchiamo di contrattare con l’assicurazione. Però mentre prima questi dati andavano raccolti e con fatica da fonti diverse, oggi basta usare quelli accumulati da social network come Facebook per fare una profilazione completa degli individui ed essere in grado di offrire al consumatore quello che è più propenso a desiderare. Per capire come questo accade, la società Data X, di base a New York, ha creato un add-on, un’estensione per Mozilla Firefox o Chrome, che si chiama Data Selfie. Scaricata e installata sul nostro computer ci permette di vedere quanto tempo passiamo a leggere i post dei nostri amici, quanti like produciamo, quanti link clicchiamo e che cosa digitiamo o cancelliamo dai post di Facebook. Dopo avere interagito un poco sulla piattaforma avremo un quadro preciso e dettagliato del tipo di dati che sono in possesso di Facebook e potremo capire perché sia al centro dello scandalo di Cambridge Analityca, accusata di aver contribuito a manipolare il voto della Brexit e quello per Trump proprio grazie a un uso spregiudicato dei dati degli utenti di Zuckerberg. Ma Data Selfie fa di più: usando degli algoritmi matematici impilati in un software dall’Università di Cambridge è in grado di generare un profilo psicologico dettagliato dell’utente legato a età, genere, preferenze sessuali, intelligenza, ma anche soddisfazione per la vita, orientamento politico e religioso. Per farlo usa anche alcuni strumenti di IBM Watson, l’intelligenza artificiale di IBM, che è in grado di identificare emozioni, propensioni sociali e stili di vita dei soggetti di cui elabora i dati. È proprio quello che faceva Cambridge Analityca a giudicare dal rapporto creato da Michael Phillips, suo impiegato esperto di “Big Data”: con poche righe di codice reso pubblico sul sito GitHub, Phillips era in grado di geolocalizzare gli elettori e poi attraverso gli hashtag usati, i link cliccati e le conversazioni intrattenute, ricavarne il “sentiment”, cioè l’inclinazione emotiva e cognitiva verso temi elettorali per poi cucirgli addosso un messaggio politico che “non erano in grado di rifiutare”. Amnesty International accusa Twitter: fa troppo poco contro le molestie alle donne di Riccardo Noury Corriere della Sera, 22 marzo 2018 Nel giorno in cui Twitter celebra i 12 anni trascorsi dal primo tweet, Amnesty International ha accusato la piattaforma di non prevenire la violenza e le molestie online contro le donne. L’organizzazione per i diritti umani, sulla base di un sondaggio condotto negli ultimi 16 mesi e di interviste a 86 donne e persone di genere non binario tra cui giornalisti, esponenti politici e utenti comuni del Regno Unito e degli Usa, è arrivata alla conclusione che Twitter non prende sul serio le segnalazioni di molestie. Sebbene Twitter dichiari di stare “dalla parte delle donne in ogni parte del mondo” e abbia avuto un ruolo importante nello sviluppo di movimenti come #MeToo, molte donne quando aprono il loro account trovano minacce di morte e di stupro e offese razziste od omofobe. Le donne di colore, quelle appartenenti alle minoranze etniche o religiose, le donne Lgbti, le persone di genere non binario e le donne con disabilità sono prese di mira più delle altre. In questo modo persone già marginalizzate vengono tenute fuori dalla conversazione pubblica. Le regole di Twitter sui comportamenti d’odio vietano la violenza e le molestie contro le donne e la piattaforma è dotata di un sistema di segnalazione degli account o dei tweet che violano quelle politiche. Tuttavia, secondo il rapporto di Amnesty International, Twitter non fa sapere agli utenti come interpreta e applica queste regole o come forma i moderatori a rispondere alle segnalazioni di violenza e molestie. Il rapporto termina affermando che le regole sono applicate in modo incoerente e che talvolta non c’è reazione alle segnalazioni: ciò rende i contenuti molesti ancora visibili nonostante violino le regole della piattaforma. Twitter ha fatto sapere di non essere d’accordo con le conclusioni della ricerca di Amnesty International. In una dichiarazione, l’azienda ha dichiarato di “non poter cancellare odio e pregiudizio dalla società”, di aver fatto oltre 30 cambiamenti negli ultimi 16 mesi per migliorare la sicurezza e di aver aumentato il numero delle azioni intraprese nei confronti di tweet molesti. La compagnia ha reiterato il suo rifiuto di fornire informazioni su come gestisce le denunce di molestie, spiegando che “gli strumenti per segnalare sono spesso usati in modo inappropriato”. Amnesty International ha replicato che nessuno pretende di chiedere a Twitter di risolvere i problemi del mondo, ma di introdurre cambiamenti concreti per dimostrare veramente che le molestie contro le donne non sono benvenute sulla piattaforma. Come ogni altro attore economico, Twitter ha la responsabilità di rispettare i diritti umani, tra cui il diritto di vivere liberi dalla discriminazione e dalla violenza e il diritto alla libertà di espressione e di opinione. Parlano i protagonisti del Facebook-gate: “Vendere dati è normale nella pubblicità digitale” di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 22 marzo 2018 Il caso Cambridge Analytica. Sandy Parakilas (ex manager di Facebook) spiega al parlamento inglese come i dirigenti dell’azienda siano stati messi al corrente della vulnerabilità della piattaforma ma non abbiano agito. Parla Alexander Kogan, il ricercatore a cui Zuckerberg ha addebitato le responsabilità della violazione dei dati: “Sono un capro espiatorio”. Dalle loro testimonianze emerge come funzionano le piattaforme digitali per la pubblicità. E le campagne elettorali. Davanti al Comitato per il digitale, la cultura e i media del parlamento inglese Sandy Parakilas, responsabile Facebook per il controllo delle violazioni dei dati da parte di sviluppatori di software terzi tra il 2011 e il 2012 e una delle fonti del “Facebookgate”, ieri ha detto che i dirigenti dell’azienda erano stati messi al corrente della vulnerabilità della piattaforma. Il problema è questo: una volta che i dati lasciano i server di Facebook verso le “app” esterne non c’è alcun controllo. Almeno nel 2015, l’anno in cui è iniziato lo scandalo che ha messo in crisi il social network celebrato come una reliquia contemporanea. Parakilas ha detto che l’azienda dava l’impressione di temere di essere ritenuta responsabile nel caso in cui un’indagine avesse dimostrato una violazione anche da parte di terzi. In questo caso avrebbe sostenuto di essere “solo” una piattaforma e di non essere responsabile per l’uso dei dati che è stato fatto dalla Cambridge Analytica nella campagna presidenziale di Donald Trump nel 2016. La deputata laburista Julie Elliott ha chiesto a Parakilas se pensa che Facebook capisca l’enormità del problema per le sorti della democrazia. “No - ha risposto - altrimenti avrebbero agito due anni e mezzo fa più velocemente”. La materia è incandescente e riguarda la natura stessa del capitalismo digitale, almeno quello fino ad oggi percepito: piattaforme che servono a intrattenersi, e non a produrre profitti colossali. Se fosse appurata una violazione di dati, la Federal Trade Commission americana può imporre una multa fino a 40 mila dollari per violazione. Il totale da pagare sarebbe di oltre 2 miliardi di dollari. Il problema non è solo questo, ma la vendita di dati - lavorati e ricombinati da altre aziende che “micro-targettizzano” le persone per la pubblicità o le campagne elettorali. “Questa è una caratteristica della pubblicità digitale” ha confermato Parakilas. Una precisazione essenziale per comprendere, in maniera materialistica e in direzione di una critica dell’economia politica digitale, la posta in gioco. È interessante, a questo proposito, l’intervista rilasciata ieri al quarto canale radiofonico della Bbc da Alexander Kogan, ricercatore a Cambridge e a San Pietroburgo, che ha creato l’app “This is your digital life” con la quale ha reclutato 270 mila utenti secondo le modalità note su mercati digitali come “Amazon Mechanical Turk”. In cambio di 3/4 dollari (e 800 mila dollari di budget) queste persone hanno risposto a un quiz sulla personalità. Fondi messi a disposizione da un’azienda per cui Kogan ha lavorato: la Strategic Communication Laboratories. Cambridge Analytica, diretta fino all’altro ieri da Alexander Nix poi dimissionato, è una sua costola. L’azione contestata è questa: Dai dati prodotti dalla forza lavoro di 270 mila persone si è risaliti ai loro “amici” su Facebook. E si è realizzato il “raccolto” di 50 milioni di profili, sostiene il “whistleblower” Christopher Wylie. Questo “raccolto” è stato usato per profilare e raggiungere qualcuno di quei 40 mila votanti nei tre stati americani che hanno permesso a Trump di vincere le elezioni nel 2016. È la tesi di Mark Turnbull, direttore del ramo politico della Cambridge Analytica. Kogan si è definito un “capro espiatorio”. “Cambridge Analytica utilizza i dati Facebook delle persone per il micro-targeting - ha detto - È in questo modo che sono usati i dati dalla maggior parte delle piattaforme. Facebook e Twitter e altre piattaforme fanno soldi attraverso la pubblicità. L’utente otterrà un prodotto che costa miliardi di dollari per farlo funzionare e in cambio le aziende lo vendono agli inserzionisti”. “Mi hanno assicurato che tutto era perfettamente legale e rispettava i termini del servizio”. “Quello che mi è stato comunicato con forza è che migliaia e forse decine di migliaia di app stavano facendo la stessa cosa. È stato un caso d’uso abbastanza normale dei dati di Facebook”. Kogan ha detto di ignorare come i dati da lui prodotti siano stati usati. Sarebbe “orribile”, ha detto, se avessero permesso di influenzare l’elezione di Trump “i cui valori non sono ben allineati con i miei”. È una valutazione convergente con quella di Facebook che si è detto “ingannato”. Nel gioco degli appalti e dei subappalti, ricorrente anche nell’economia digitale, sembra la norma. Ma non solleva Zuckerberg - che ha riconosciuto “errori” - dal sospetto di essere stato usato come uno strumento per affermare una visione politica opposta alla propria. Svalutando il bene capitalistico per eccellenza: la fiducia nella piattaforma e la sua reputazione. Migranti. Il “reato di solidarietà” inventato dall’Italia Simona Maggiorelli Left, 22 marzo 2018 Nel 2018 si celebrano i 70 anni della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo con mostre, convegni, dibattiti e festival dei diritti umani, che toccheranno l’acme il 10 dicembre. Ma molti Paesi che hanno sottoscritto il testo approvato nel 1948 dall’assemblea generale delle Nazioni unite oggi sembrano non “ricordare”. O peggio ancora. Fin dalla rivoluzione francese, l’Europa si auto descrive come la culla di una cultura giuridica illuminata, ma nella prassi politica oggi si comporta in maniera opposta, negando quegli stessi principi di cui si proclamata sostenitrice all’uscita dalla guerra. In questo quadro, emblematico è il caso Italia. Nel 2017 è stata finalmente varata una legge contro la tortura, ma come scrive Lorenzo Guadagnucci del Comitato verità e giustizia per Genova è “così contorta e maliziosa da risultare un insieme di norme che disciplinano più che vietare la tortura”. Come è noto l’Italia è stata più volte condannata perché le condizioni di detenzione violano i diritti umani. Il 16 marzo il Consiglio dei ministri ha varato i decreti attuativi della riforma carceraria: “In zona Cesarini”, ha detto la radicale Rita Bernardini, che ha condotto una lunga battaglia non violenta. Un buona notizia, certamente, ma da qui alla fine dell’iter a luglio, tutto purtroppo può ancora accadere. Ed eccoci a un altro tema cruciale che è stato del tutto ignorato dai partiti durante la campagna elettorale. Le donne in Italia hanno conquistato molti diritti sul piano formale, ma sono quotidianamente vittime di violenze di ogni tipo, fino al femminicidio. Sono lasciate sole dalla legge che punisce lo stalking con pene pecuniarie. Il diritto all’autodeterminazione viene continuamente negato e la scelta di interrompere una gravidanza è ostacolata da percentuali bulgare di obiettori di coscienza. Mentre sbarrano la strada alle famiglie migranti e ai cittadini che chiedono lo ius soli, politici misogini si lanciano in difesa della razza italiana: dalla Lega con in testa il neo governatore Fontana ai Cinque Stelle che (dopo aver boicottato lo ius soli con l’astensione) ora propongono di investire 17 miliardi di euro per la crescita demografica. Questo per limitarsi ai due partiti usciti vincenti della tornata elettorale del 4 marzo. Ed ora veniamo al problema più macroscopico: il lacerante contrasto fra la Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948 e la politica italiana che criminalizza le ong, sequestra le navi che soccorrono i naufraghi e promuove respingimenti collettivi (vietati dalla Convenzione europea dei diritti umani) facendo accordi con la guardia costiera libica che rinchiude i migranti in lager dove i diritti umani non esistono. Il sogno di una Europa unita è naufragato in una unione di mercati, dove le merci possono circolare liberamente ma non altrettanto le persone. Il Vecchio continente è diventato una specie di fortezza, impermeabile ai migranti. Per blindare i confini spagnoli il socialista Zapatero dette alla guardia civil l’ordine di sparare contro chi arrivava “clandestinamente” Africa scappando da guerre e fame. Accadeva nei primi anni Novanta. Nel secondo decennio degli anni Duemila, Orban e i Paesi del gruppo di Visegrád hanno costruito muri circondati da fili spinati. Come se non bastasse ora arriva la decisione europea di rinnovare l’intesa con la Turchia, pagando perché blocchi i profughi siriani. Questo proprio mentre il presidente Erdogan rilancia l’offensiva dell’esercito turco contro l’enclave curda di Afrin, nel nord della Siria. Noi pensiamo che non sia né accettabile né utile affrontare la questione epocale dei migranti con politiche securatarie, xenofobe, che negano diritti umani universali. Sui danni prodotti dalla legge Minniti Orlando (sulla strada già aperta dalla Bossi Fini) abbiamo scritto molto. Ma la cronaca ci sorprende ogni giorno, andando oltre ogni immaginazione. Dopo politiche di respingimenti al motto di “aiutiamoli a casa loro”, dopo aver cancellato il diritto d’appello per i richiedenti asilo, l’Italia rilancia una campagna denigratoria delle ong (“taxi del mare” secondo Di Maio) colpevoli di “estremismo umanitario” perché soccorrono chi rischia di affogare. La nave spagnola Proactiva open arms, ormeggiata nel porto di Pozzallo, è stata posta sotto sequestro, dopo aver salvato 218 persone. Dai vertici della ong accusati di “associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina” si leva una voce inconfutabile: “Salvare in mare è un dovere”. Non possiamo assistere inerti a un nuovo tentativo di introdurre un inaccettabile “delitto di solidarietà”. La sinistra che si batte da sempre per i diritti sociali cosa aspetta a fare propria, fino in fondo, anche la battaglia per i diritti umani? Serbia. Fotoreporter torinese arrestato con accusa infondata di Roberto Travan La Stampa, 22 marzo 2018 È stato arrestato in Serbia con l’accusa di aver aggredito tre profughi afghani. Nonostante sia stato scagionato dalle vittime, da sei giorni è in carcere. Non è ancora finita la disavventura di Mauro Donato, 41 anni, il fotoreporter torinese fermato venerdì scorso al confine con la Croazia. Il giornalista è accusato di rapina aggravata: rischia una condanna fino a quindici anni. L’episodio è accaduto a Sid, la città in cui il reporter stava documentando con il collega Andrea Vignali il passaggio dei profughi verso l’Europa. Donato, che in passato ha collaborato anche con l’Ansa, da alcuni anni segue l’esodo dei rifugiati lungo la “Balkan route”, la strada percorsa ogni anno da migliaia di disperati in fuga da guerre ed emergenze umanitarie. L’aggressione, secondo le prime ricostruzioni, sarebbe avvenuta in un capannone abbandonato che da mesi ospita centinaia di irregolari. Una rapina per pochi spiccioli, trecento dinari, neanche tre euro. E due feriti, uno con sei coltellate all’addome. La polizia ha fermato il fotografo italiano dopo un’indagine sommaria: due vittime hanno riconosciuto Donato nella fotografia della sua carta di identità, fotocopiata giorni prima durante un controllo alla frontiera. L’immagine sul documento, scattata otto anni fa, da tempo però non corrisponde all’attuale aspetto del reporter. A discolpa di Donato la testimonianza di Vignali e quella del terzo rapinato che hanno smentito categoricamente il coinvolgimento del fotografo nell’aggressione. Per sei giorni - nonostante l’intervento dell’ambasciata italiana a Belgrado e l’insistenza dell’avvocato difensore - il tribunale si è rifiutato di ascoltare le prove a discolpa del fermato. Lunedì il giudice ha interrogato le vittime della rapina, sottoponendo Donato a un confronto in aula. A tarda notte la scarcerazione sembrava a portata di mano. “Non è lui la persona che ci ha aggredito” hanno dichiarato i tre afghani. Martedì pomeriggio, la doccia fredda: il tribunale non è convinto, decide di proseguire le indagini, Mauro Donato resta in cella. Nei prossimi giorni sarà sentito anche Andrea Vignali, ma l’udienza non è stata ancora fissata. Preoccupato il commento di Giulia Marco, la moglie del reporter: “La nostra ambasciata a Belgrado continua a tranquillizzarmi. Afferma che sta seguendo con attenzione la vicenda, che mio marito sta bene, ha un’ora d’aria al giorno. Ma non ha alcuna certezza sulla data del rilascio”. Del caso si sta occupando anche l’Unità di crisi della Farnesina, che due giorni fa aveva annunciato alla famiglia l’imminente liberazione del reporter italiano. Stati Uniti. Ecco come in Alabama gli sceriffi possono intascarsi i soldi dei carcerati tpi.it, 22 marzo 2018 Vedere uno sceriffo che “ruba” i soldi destinati al nutrimento dei detenuti non è un evento ordinario. Diventa ancora più strano a pensare che è una pratica del tutto legale. Tra il 2014 e il 2016, lo sceriffo di una contea dell’Alabama ha intascato più di 600mila euro “in eccesso”, prelevati dai contributi ricevuti dal suo ufficio per nutrire i detenuti nella prigione della contea che sovrintende. Lo sceriffo della contea di Etowah ha tolto più di 600mila euro dal fondo destinato all’acquisto del cibo per i carcerati, per poi acquistare per sé una casa da villeggiatura. La notizia in sé è già eccentrica, ma se si aggiunge che la cosa è totalmente legale nel paese, diventa ancora più curiosa. In effetti, in Alabama esiste una legge, redatta durante gli anni della Depressione, secondo la quale gli sceriffi possono “prendere e tenersi” i soldi che non sono stati spesi per l’alimentazione dei carcerati. Gli sceriffi, dunque, godono dei soldi in eccesso come di un’entrata personale ma, nel caso in cui esagerassero, sono personalmente responsabili di risarcire il danno. Questo è possibile perché in Alabama gli sceriffi sono personalmente responsabili di dare da mangiare ai detenuti nelle loro carceri e di ricevere fondi per coprire i costi. Per i detenuti di stato, i fondi corrispondono a meno di due euro per detenuto al giorno; nelle contee, nelle città o nelle federazioni, l’importo può essere più alto. Se gli sceriffi riescono a nutrire i detenuti con meno denaro, possono tenersi ciò che resta. La legge era stata fatta per evitare gli sprechi durante il periodo della Grande Depressione statunitense, risalente al 1929. “La legge dice che è un’entrata personale ed è così che l’ho sempre vista”, ha detto Todd Entrekin, sceriffo della contea di Etowah, al giornale The Birmingham News. Lo sceriffo, secondo quanto ha dichiarato, ha sempre approfittato della legge per aumentare le sue entrate mensili, così come lo hanno fatto per decenni tutti gli sceriffi dello Stato. Quello che non è chiaro, è il modo in cui funziona la legge: “Attualmente non si sa quanti soldi sono stati presi dagli sceriffi di tutto lo stato, perché la maggior parte di loro non lo riportano sulla dichiarazione dei redditi”, ha scritto a gennaio l’associazione Southern Center for Human Rights. In che modo si è diffusa la notizia? La fonte principale della storia, scritta dal giornalista Connor Sheets, era il giardiniere dello sceriffo Entrekin, Matthew Qualls. La sua storia è stata pubblicata il 18 febbraio 2018, e il 22 febbraio Qualls è stato arrestato. Ora è in una prigione sorvegliata dallo sceriffo Entrekin. Qualls ha dichiarato al giornale online AL.com che nel 2015 veniva pagato dallo sceriffo Entrekin, per falciare il suo prato, con i soldi “in eccesso” destinati al mantenimento dei detenuti. Qualls è stato arrestato con l’accusa di traffico di droga, in seguito ad una chiamata anonima in cui veniva fatto notare il forte odore di marijuana proveniente dal suo appartamento. Qualls non era mai stato arrestato in precedenza, e ora rischia di essere accusato di sei capi d’accusa ed è detenuto con una cauzione da più di 50mila euro, come riferisce Sheets. Ed è detenuto in una prigione controllata da Entrekin. Lo sceriffo Entrakin, da parte sua, ha negato il coinvolgimento nel caso di Qualls, facendo notare che il giardiniere non era stato arrestato o incriminato dal suo ufficio dello sceriffo. Le accuse aggiuntive sono state fatte dalla Drug Enforcement Unit, composta da agenti prelevati dal dipartimento dello sceriffo, dall’Fbi e da altre forze dell’ordine statunitensi. Egitto. Scattò le foto del massacro in piazza Rabaa, Shawkan lasciato a morire in carcere di Pierfrancesco Curzi Il Fatto Quotidiano, 22 marzo 2018 Peggiorano le condizioni di Mahmoud Abu Zeid, noto come Shawkan, il fotoreporter in prigione dal 14 agosto 2013. Il quadro preoccupante è emerso durante l’ultima visita nel carcere di Tora, alla periferia del Cairo, da parte dei familiari e del suo avvocato, Karim Abdelrady. Ultima visita coincisa con l’ennesima udienza della Corte rinviata, per la 53esima volta. Il tutto a pochi giorni dalla richiesta della Procura generale: condanna a morte per “adesione ad un’organizzazione criminale, omicidio, tentato omicidio”. I fatti risalgono al 13 agosto 2013 e da allora il fotoreporter è chiuso in prigione. Quel giorno Shawkan, professionista assunto da un’a ge nzia britannica, si trovava in piazza Rabaa dove i Fratelli Musulmani avevano indetto una manifestazione di protesta. Poche settimane prima il premier, Mohamed Morsi, uscito vincitore dalle urne del 2012, le prime elezioni dopo la caduta di Hosni Mubarak, era stato arrestato in seguito al golpe orchestrato proprio dal suo ministro della Difesa, il generale Abdel Fattah al-Sisi, l’attuale presidente dell’Egitto. Una manifestazione repressa nel sangue: oltre 800 morti. Shawkan svolse il suo lavoro, fotografando le scene cruente del massacro. La richiesta di condanna per Shawkan - le sanzioni a lui addebitate comprendono la condanna a morte per impiccagione - è arrivata insieme ad altre 700 e formano un unico processo politico contro la Fratellanza Musulmana. Nel 2017 in Egitto ci sono state 53 condanne a morte, 29 soltanto tra dicembre e febbraio scorsi. Israele. Otto mesi di carcere per la ragazza simbolo della lotta palestinese di Francesca Caferri La Repubblica, 22 marzo 2018 Ha patteggiato 8 mesi di carcere Ahed Tamimi, la 17nne palestinese arrestata a dicembre per aver schiaffeggiato due soldati israeliani nel cortile della sua casa, in Cisgiordania. L’arresto di Tamimi e della madre aveva generato una campagna internazionale, con Amnesty International che ne aveva chiesto la liberazione e gli israeliani che l’avevano definita una minaccia. “Abbiamo patteggiato perché altrimenti sarebbero rimaste in carcere per tre anni”, ha detto Bassem Tamimi, il padre di Ahed. Con i lunghi capelli biondi e gli occhi azzurri, Ahed Tamimi è diventata un simbolo per la causa palestinese, azzoppata da una leadership corrotta e dalla mancanza di sostegno internazionale, dimostrata ancora una volta dalle deboli reazioni alla decisione di Donal Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico. Tamimi potrebbe uscire di prigione a maggio.