Riforma del carcere, il mito senza verità dei regali ai criminali di Errico Novi Il Dubbio, 21 marzo 2018 L’ergastolo ostativo che non viene cancellato. Il “fine pena mai” senza possibilità di benefici è il profilo a più netta incostituzionalità del nostro ordinamento penitenziario. ecco perché le nuove norme lasciano tutto com’è, non solo per i mafiosi. È di ieri la nota che ha aggiornato le “Statistiche penali del Consiglio d’Europa”: l’Italia continua ad essere ai vertici della classifica continentale quanto a sovraffollamento delle carceri. L’infamante graduatoria è guidata da Macedonia, Ungheria e Cipro. Noi siamo sesti, ex aequo col Portogallo. La riforma penitenziaria appena messa sui binari della stazione di arrivo è dunque il minimo che il governo potesse fare. Eppure le forze uscite vincitrici dal voto del 4 marzo, Lega e M5s, già dicono di volerla sopprimere. A favorire proclami degni di una repubblica islamica, probabilmente, contribuisce la complessità della legislazione penitenziaria: un incrocio di benefici e preclusioni fitto, quasi inestricabile, che il provvedimento si limita a sfrondare. Chi pretende di semplificare con frasi del tipo “è un regalo ai delinquenti” dimostra con certezza solo una cosa: non ha letto le norme di cui parla. Leggerle è faticoso. Ma vale la pena si segnalare almeno alcuni degli aspetti tecnici di dettaglio contenuti nel decreto più importante, quello che tra l’altro modifica le preclusioni nell’accesso a benefici e misure alternative. Vi si coglie tutta la cautela con cui il guardasigilli Andrea Orlando e l’esecutivo hanno messo mano alla materia. Come è evidente, l’istituto che più di ogni altro confligge con il principio costituzionale del fine rieducativo della pena è l’ergastolo ostativo. Quella di chi parte da un “fine pena mai” è infatti una condizione disperante nel momento in cui si accompagna all’impossibilità di ottenere, anche dopo diversi anni, permessi premio e, man mano, altri benefici fino alla semilibertà. Una pena pur lunga ma limitata nel tempo, invece, lascia comunque aperto un orizzonte di speranza. Ecco, proprio quello che è l’aspetto più controverso dell’ordinamento, dal punto di vista della legittimità costituzionale, non viene di fatto intaccato, se non in minima parte e con seri rischi di sostanziale inapplicabilità. Com’è noto, la ostatività alla concessione di benefici è regolata dall’articolo 4 bis dell’ordinamento. Ora, i reati di mafia terrorismo restano a pieno titolo in questa “segregazione ostativa”. E naturalmente, l’efficacia del famigerato articolo 4 bis permane anche su fattispecie introdotte in tempi relativamente recenti, come quella dello “scambio elettorale politico mafioso”. Discorso simile per le associazioni a delinquere finalizzate ad altri gravi delitti: si tratta di quelle rivolte a “riduzione in schiavitù”, “prostituzione minorile”, “sequestro di persone a scopo di estorsione”, dei delitti relativi all’immigrazione clandestina; si tratta inoltre delle associazioni finalizzate allo spaccio di droga e al contrabbando. Il solo minimo aggiustamento per tali categorie di reati è che l’ostatività cade per chi è riconosciuto colpevole di alcuni di questi delitti sul piano “mono-soggettivo”, in particolare per il sequestro a scopo di estorsione, l’acquisto e l’alienazione di schiavi e i reati di cui all’articolo 12 del testo unico sull’immigrazione. In realtà c’è un superamento della preclusione ostativa anche per chi è coinvolto nelle associazioni criminali sopra ricordate a livello di “mera partecipazione”, senza aver rivestito alcun ruolo di particolare rilievo. Una norma di minimo buonsenso: chi ha fatto parte di associazioni a delinquere in modo periferico, chi ne è in pratica un satellite e non partecipa alle fasi decisionali, andava assolutamente ascritto al novero dei soggetti per i quali lo Stato deve concedere un’opportunità rieducativa. Ma la cosa spiazzante è che la possibilità di applicare effettivamente l’apertura ai benefici per tali “pesci piccoli” delle bande criminali (sempre comunque non mafiose né terroristiche) resta sospeso all’esilissimo filo di magistrati di sorveglianza così coraggiosi da distaccarsi da valutazioni anche solo dubitative dei procuratori distrettuali. Ecco, per chiarire quest’ulteriore limite delle modestissime aperture sul 4 bis va chiamato in causa un altro mito senza fondamento, quello secondo cui i magistrati dell’accusa non avrebbero più potuto pronunciarsi sulla pericolosità sociale dei soggetti. È vero che il decreto appena varato sopprime la disposizione di cui al comma 3 del 4 bis, che assegnava al capo della Dna o al procuratore distrettuale il potere di precludere l’accesso ai benefici. Ma è anche vero che resta in piedi il comma 2, in base al quale il procuratore distrettuale è comunque tenuto a rendere un parere al giudice di sorveglianza riguardo la pericolosità del soggetto. E poiché in questi pareri quasi mai si riesce a dire con certezza che un certo condannato per reati associativi di riduzione in schiavitù, o sequestri di persona e così via, è effettivamente periferico all’organizzazione, di fatto l’ostatività finirà per permanere, nella maggior parte dei casi, anche i “meri partecipanti”. Va insomma assolutamente sfatata la leggenda nera di una riforma permissiva. Idea che davvero può nascere solo dall’ignoranza della norma. Riforma del sistema carcerario: una questione di umanità di Sarah Franzosini salto.bz, 21 marzo 2018 L’avvocato Fabio Valcanover (Radicali) sull’approvazione della riforma del sistema carcerario da parte del governo. “Non è uno svuota-carceri, inutile scandalizzarsi”. Venerdì scorso (16 marzo) il Consiglio dei ministri ha approvato una riforma del sistema carcerario che estenderà la possibilità di accedere alle misure alternative al carcere per i detenuti che hanno un residuo di pena fino a 4 anni, ma sempre dopo la valutazione del magistrato di sorveglianza. Una possibilità che tuttavia non sarà estesa ai detenuti al 41bis per reati di mafia e quelli per reati di terrorismo. Obiettivo della riforma, ha detto il ministro della Giustizia Andrea Orlando, è quello di facilitare il reinserimento nella società delle persone condannate e di rendere migliori le condizioni di vita di chi già si trova fra le mura del carcere. Va detto che il decreto, che aveva già incassato il via libera lo scorso 22 dicembre, era poi passato all’esame delle commissioni Giustizia di Camera e Senato per riceverne il parere non vincolante. Dopo che le commissioni hanno elaborato alcune osservazioni il governo ha quindi riesaminato il documento non accogliendo tutte le osservazioni ma apportando altre piccole modifiche, motivo per cui il testo della norma è stato inviato di nuovo al Parlamento. Altamente improbabile, tuttavia, che le commissioni si riuniscano prima dell’insediamento della nuova legislatura, il 23 marzo. L’esecutivo dovrà quindi decidere se inviare il decreto alle prossime commissioni che avranno tempo per l’esame fino a giugno, ovvero fino alla scadenza della delega approvata dal Parlamento, oppure se chiamare in causa la commissione speciale, che ha il compito di analizzare i provvedimenti urgenti. “Il decreto - spiega a salto.bz Fabio Valcanover, avvocato del foro di Trento ed esponente dei radicali - è stato anticipato da una sentenza della Corte Costituzionale dei primi di marzo che applica lo stesso principio previsto da questa riforma, dunque non comprendo chi si scandalizza per il via libera del governo”. La levata di scudi è arrivata da Lega e 5 stelle, per Matteo Salvini si tratta di una norma “salva-ladri”, mentre per il grillino Alfonso Bonafede, indicato dal M5s come papabile “candidato” per il ministero della Giustizia, si tratta di un provvedimento che “mina alla base il principio della certezza della pena”. Si tratta di misure che danno un margine di umanità maggiore nell’esecuzione della pena, nella speranza che tale pena persegua la finalità costituzionale laddove possibile, ovvero quella del reinserimento della persona nella società e permetta di evitare la recidiva, che ha costi economici giganteschi per lo Stato Per Valcanover non si tratta di una norma svuota-carceri ma di prendere atto che le strutture penitenziarie non sono l’unico modo di affrontare la pena, “Attraverso questa norma si intende rivitalizzare la funzione giurisdizionale, di dare ai magistrati di sorveglianza pieni poteri relativamente a reati meno gravi. Essi avranno il compito di valutare, caso per caso, nel contraddittorio delle parti, tra accusa e difesa, se il detenuto ha diritto a misure alternative, dunque checché se ne dica non sussiste alcun automatismo”. Fra le altre cose la norma mette in rilievo il diritto del detenuto a essere assegnato a un istituto prossimo alla residenza della famiglia “fatta salva l’esistenza di specifici motivi contrari” e consente l’uso delle tecnologie informatiche nel carcere, posta elettronica, ad esempio, o Skype, “si tratta di misure che danno un margine di umanità maggiore nell’esecuzione della pena, nella speranza che tale pena persegua la finalità costituzionale laddove possibile, ovvero quella del reinserimento della persona nella società e permetta di evitare la recidiva, che ha costi economici giganteschi per lo Stato: perseguimento di reati che vuol dire processi, che vuol dire ancora carceri, in sostanza soldi buttati. L’espiazione della pena deve essere utile a non commettere ulteriori reati”, così Valcanover. In Italia, aveva evidenziato anche il Guardasigilli Orlando, “spendiamo quasi 3 miliardi l’anno per il trattamento dei detenuti, ma abbiamo una delle recidive più alte d’Europa”. Restano insolute questioni rilevanti come quelle che afferiscono alla sfera dell’affettività, “una delle componenti più importanti dello sviluppo umano e che comprende anche la sessualità - sottolinea infine l’avvocato trentino, senza affetti un ingresso nel consesso civile, che sia consono alle aspettative della collettività, diventa inevitabilmente molto complicato”. Carceri, quel “buonismo” dei padri costituenti di Francesco Petrelli* Il Mattino, 21 marzo 2018 Il percorso che conduce all’attuazione dei principi costituzionali è lunga e non sempre lineare. Da quando settanta anni fa è stata promulgata la nostra Costituzione repubblicana il principio della finalità rieducativa della pena non ha certo avuto una strada in discesa. C’è piuttosto da riflettere, oggi, sul fatto che un principio che oggi viene da molti rinnegato, tacciato di “buonismo” e ritenuto antistorico in un’epoca assediata dal crimine, fosse stato coniato da uomini che, a prescindere dallo loro provenienza politica e culturale, uscivano tutti non solo dalla devastante esperienza del conflitto mondiale, ma anche da un atroce guerra civile che aveva dilaniato la società intera e che ancora in quegli anni lasciava strascichi di una criminalità sanguinaria, cinica e feroce, dotata di un inestinguibile arsenale di armi ed a tratti eversiva. Una condizione che tuttavia ancor più persuase quella classe politica della inevitabilità di quel principio e di quel fine come unica possibile risposta della legalità dello Stato a chi avesse violato le sue leggi. E d’altronde si trattava di idee che erano maturate nel secolo precedente, elaborate e diffuse dall’illuminismo, prima, e dal positivismo poi, che erano state condivise dal liberalismo dell’ottocento e dal socialismo. Impietoso e memorabile il discorso di denuncia che Filippo Turati tenne il 18 marzo 1904 davanti alla Camera dei deputati sulle condizioni delle carceri in Italia: terribile pensare che cento anni dopo sarebbe giunta, con la sentenza “Torreggiani”, l’umiliante condanna dell’Europa per violazione dell’art. 3 relativo al divieto di pene e trattamenti “inumani o degradanti”. Tant’è che, entrata in vigore la Costituzione, il “Regolamento Rocco”, emanato nel 1931, e frutto di una visione reazionaria ed autoritaria della giustizia penale, rimase interamente in vigore nonostante la sua visibile contrarietà al principio indicato dal secondo comma dell’art. 27. E lo sarebbe rimasto ancora per moltissimi anni. Le stesse conclusioni della Commissione parlamentare d’inchiesta voluta da Calamandrei ed affidata a Giovanni Persico nel luglio del 1948 rimasero del tutto inattuate (abolizione del taglio obbligatorio dei capelli, dell’isolamento diurno, del divieto di leggere libri e giornali, dell’uso di chiamare il detenuto con il numero di matricola anziché con il suo nome, introduzione del reclamo di legalità al magistrato di sorveglianza, e delle licenze per “gravi sventure familiari”). Alle timide aperture del Guardasigilli Zoli seguirono, alla metà degli anni 50, i vistosi arretramenti del ministro De Pietro, con la proibizione, non solo di riviste che presentavano immagini di nudo, pur se di tipo “balneare”, ma soprattutto di quelle che affrontassero tematiche politiche o che indugiassero su fatti di cronaca. Se pure la strada delle riforme carcerarie, prima e dopo il 1975, non appare priva di contraddizioni, è ancora possibile riconoscere una linea di tendenza positiva. A ben vedere, infatti, le forze politiche progressiste, democratiche e liberali hanno sempre svolto nel nostro Paese una azione propulsiva nello sviluppo dell’istituto carcerario. Solo il fascismo ebbe a costituire un deciso arretramento del carcere e delle pene detentive in senso repressivo. Sbaglia dunque la politica a lasciare il tema della riforma penitenziaria nell’ambito di demagogiche e superficiali contese securitarie. Ed ha certamente sbagliato il Governo a non mettere subito “in sicurezza” l’approvazione dei decreti attuativi voluti da una legge del Parlamento e frutto di un lavoro approfondito e condiviso da ampi settori della magistratura e dell’accademia. Decreti che, sebbene assai incompleti ed insoddisfacenti, non meritavano comunque di essere messi in coda alla legislatura, all’esito di una difficile e contrastata contesa elettorale, privando di fatto la riforma del necessario respiro civile e consegnandola alle incertezze ed alle angustie del presente scenario politico. Il Governo poteva fare, tuttavia, una cosa ancora peggiore di questa ai danni della riforma penitenziaria e della storia civile di questo Paese: non approvarla affatto. Sebbene tradisca nel metodo e nei contenuti le sue promesse, questa riforma resta importante perché segna comunque un passo in avanti nella ricucitura degli strappi operati dai primi anni 90 in poi nel tessuto dell’ordinamento penitenziario e nel reimpostare su basi costituzionali un più moderno ed efficace percorso di reinserimento del condannato. E se ha ragione Giovanni Maria Flick quando dice che la Costituzione parla al futuro, dobbiamo anche prendere atto che quel futuro è il nostro presente e che dunque siamo noi che dobbiamo impegnarci per difendere quella lunga e tormentata storia di controverse, mai facili e mai irreversibili, piccole ed incomplete conquiste di civiltà. *Segretario Ucpi, Unione Camere Penali Italiane Consiglio d’Europa: sovraffollamento causato dall’aumento della durata delle condanne agensir.it, 21 marzo 2018 Italia al quinto posto per l’affollamento, seconda dopo la Germania per costo delle carceri. “Con una media di oltre 9 detenuti per 10 posti, le carceri europee sono prossime alla saturazione”: la conferma viene dalle Statistiche penali annuali del Consiglio d’Europa (Space), con dati riferiti al 2016, pubblicate oggi a Strasburgo. Lo studio mostra che “il tasso di detenzione è passato da 115,7 a 117,1 detenuti per 100mila abitanti” tra il 2015 e il 2016. Lo studio CdE spiega che il tasso di detenzione “è influenzato principalmente dalla durata delle pene e delle misure imposte. Anche la durata media della detenzione, che da questo punto di vista può essere considerata come un indicatore del modo in cui viene applicato il diritto penale, è aumentata lievemente, raggiungendo 8,5 mesi”. I Paesi nei quali il tasso di detenzione ha registrato la crescita maggiore sono la Bulgaria (+10,8%), la Turchia (+9,5%), la Repubblica ceca (+7,6%), la Serbia (+6,6%) e la Danimarca (+5,5%). Le amministrazioni penitenziarie nelle quali vi è stata una diminuzione maggiore sono l’Islanda (-15,9%) e l’Irlanda del Nord (-11,8%). Dall’altro lato, “il sovraffollamento resta un grave problema in molti Paesi. Su 47 amministrazioni penitenziarie”, tanti sono gli Stati aderenti al CdE, “13 segnalano un numero di detenuti superiore al numero dei posti disponibili”. I tassi più elevati di sovraffollamento delle carceri si riscontrano nella ex Repubblica jugoslava di Macedonia (132 detenuti per 100 posti), in Ungheria (132), a Cipro (127), in Belgio (120), in Francia (117), in Portogallo (109), in Italia (109), in Albania (108) in Serbia (109), nella Repubblica ceca (108), in Romania (106) e in Turchia (103). Italia al quinto posto in Ue per sovraffollamento L’Italia è la quinta nazione europea per sovraffollamento delle carceri. Con 109 detenuti ogni 100 posti disponibili Il nostro Paese è dietro solo a Ungheria, Cipro, Belgio e Francia e allo stesso livello del Portogallo. Lo affermano le Statistiche penali annuali del Consiglio d’Europa (Space), con dati riferiti al 2016, pubblicate a Strasburgo. Quello italiano è il secondo budget totale più elevato speso da una amministrazione penitenziaria (2,8 miliardi di euro) in tutta Europa, seguendo solo la Germania che ha sostenuto costi per 3 miliardi. Se tra il 2006 e il 2016, i tassi di incarcerazione sono cresciuti in Italia del 37%, il nostro Paese è al quarto posto nella classifica della percentuale di incarcerati per reati di droga con il 30,8%, mentre si piazza al secondo posto per il più alto numero di immigrati detenuti (18.311) seconda solo alla Germania (22.922). I poteri dei Garanti e i detenuti del 41bis di Giovanni Fiandaca Il Manifesto, 21 marzo 2018 Quali poteri spettano al Garante dei detenuti riguardo alle modalità di contatto con soggetti sottoposti allo speciale regime detentivo del 41bis? Un orientamento molto restrittivo, sostenuto ad esempio dalla magistratura di sorveglianza di Viterbo, pretende due cose. Per un verso, di distinguere i rispettivi poteri del Garante nazionale e dei Garanti territoriali: soltanto al primo spetterebbe il potere di vigilare sugli abusi commessi a danno dei detenuti in violazione dei diritti loro riconosciuti; mentre competerebbe ai secondi la più limitata funzione di assicurare che anche i carcerati possano fruire dei servizi e delle prestazioni pubbliche - come ad esempio l’assistenza sanitaria o l’istruzione - che le regioni e gli altri enti locali destinano a tutti cittadini. E, per altro verso, di assimilare i “colloqui” con i Garanti locali a quelli che i detenuti al 41bis intrattengono, in forma non riservata, con i propri familiari o con terzi. Sicché, essendo consentito per questo tipo di detenuti un solo colloquio al mese, chi è al carcere duro dovrebbe optare tra il colloquio col Garante territoriale e quello con un congiunto! Un diverso indirizzo, sostenuto ad esempio dal tribunale di sorveglianza di Perugia, perviene a conclusioni contrarie sulla base di argomenti assai convincenti. Si contesta intanto la differenza di funzioni tra Garante nazionale e Garanti regionali. La legge n. 10/2014, che ha istituito il ruolo del Garante nazionale a completamento della rete dei preesistenti Garanti regionali, gli ha attribuito tra l’altro il compito di coordinare le funzioni di garanzia svolte da questi ultimi: proprio il concetto di coordinamento conferma l’omologia funzionale tra i diversi Garanti. Si aggiunga che i Garanti locali, per la loro vicinanza agli istituti penitenziari siti nei diversi territori, hanno maggiore possibilità rispetto al Garante nazionale di intervenire con rapidità nelle situazioni carcerarie problematiche. Quanto alle visite e ai colloqui con i Garanti, è indubbio che le norme dell’ordinamento penitenziario (artt.18 e 67) ne prevedono una disciplina uniforme, senza distinguere tra tipi di detenuti e tipi di Garanti. Se così è, tale disciplina deve valere anche rispetto ai detenuti in regime speciale: lo stesso art. 41 bis O.P. infatti non contiene alcuna deroga espressa agli artt. 18 e 67, né deroghe sono contenute in altre fonti di rango legislativo. Non può, dunque, non apparire arbitraria ogni interpretazione giudiziale che pretenda di introdurre limitazioni che la legge non prevede. Ne deriva che è illegittimo includere i colloqui col Garante regionale nel numero complessivo dei colloqui mensili consentiti ai detenuti in 41bis. Come pure è illegittimo sottoporre tali colloqui ai controlli previsti per quelli con i familiari. Piuttosto, è la stessa logica della garanzia a postulare che agli incontri con ogni tipo di Garante venga concessa la maggiore riservatezza possibile (con esclusione, quindi, della registrazione video e audio). È superfluo rilevare che, quanto più un regime penitenziario comporta restrizioni, tanto più deve essere assicurata la possibilità di denunciare senza timore abusi o eccessi rigoristici. Infine, non è scontata la presunta maggiore affidabilità del Garante nazionale rispetto a quelli territoriali. Una criminalità potente può tentare di condizionare anche al di là dei confini locali. E in ogni caso, a prescindere dalla diversità delle procedure di nomina, contano davvero le qualità morali e professionali del titolare del ruolo di garanzia. Internati, ovvero condannati all’ergastolo bianco di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 marzo 2018 Sono i reclusi che, dopo aver scontato una pena, non vengono liberati perché considerati pericolosi. Il Garante Mauro Palma ha sottolineato che la criticità riguarda la loro permanenza in carcere invece di stare in Casa di lavoro, Colonia agricola o Rems. Ufficialmente non scontano una pena detentiva, perché hanno già pagato il loro conto con la giustizia. Per questo motivo, nel glossario del diritto penitenziario, vengono definiti “internati” per distinguerli dai “detenuti”. In sintesi, sono i reclusi che, dopo aver scontato una pena, non vengono liberati perché considerati pericolosi. Alla fine del 2016 era 295, secondo i dati del Dap. Eppure la differenza, di fatto, non esiste. Alcuni sono internati in 41 bis, altri nelle celle assieme ai detenuti, altri ancora si trovano internati nei penitenziari in attesa di trovare posto nelle Rems. Il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, nella relazione del suo primo anno di attività, ha infatti sottoli- neato che la criticità riguarda, in primo luogo, la permanenza negli Istituti penitenziari di queste persone che, scontata la pena, devono eseguire una misura di sicurezza detentiva: l’assegnazione a una Casa di lavoro, Colonia agricola o, per quanto riguarda le patologie psichiatriche il ricovero in una Rems, si trasformano in concreto nella continuazione della vita detentiva giacché gli internati vengono spesso trattenuti nell’Istituto penitenziario e, a volte, nella medesima stanza di detenzione e sezione. Gli internati - definizione che richiama il vecchio linguaggio manicomiale - vivono in carcere a tempo indeterminato, quasi come se fosse un fine pena perché, appunto, una pena da scontare non ce l’hanno. Il rischio è di scontare, di fatto, una lunghissima pena nonostante abbiano già fatto i conti con la giustizia. Gli internati, infatti, chiamano la loro condizione “ergastolo bianco”, perché la misura di sicurezza può essere prorogata diverse volte. Il motivo? Subentra un meccanismo nel quale, non lavorando di fatto, gli internati non offrono elementi per far valutare ai giudici la loro cessata o diminuita pericolosità. A quel punto non possono che scattare le proroghe dell’internamento. Prima del 2014, il rischio di chi è internato era davvero quello di scontare una pena perpetua. A far fronte a questo problema, ai sensi dell’art. 1 comma 1ter del D.L. 31 marzo 2014 n. 52 così come convertito in legge 30 maggio 2014 n. 81, si prevede che “le misure di sicurezza detentive provvisorie o definitive, compreso il ricovero nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, non possono durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato commesso, avuto riguardo alla previsione edittale massima”. Questi internamenti sono misure che risalgono al codice fascista Rocco, non a caso diversi giuristi le definiscono “reperti di archeologia giuridica”. Reperti che hanno anche una definizione ben precisa “il doppio binario”. Ovvero un doppio sistema sanzionatorio caratterizzato dalla compresenza di due categorie di sanzioni distinte per funzioni e disciplina: le pene, ancorate alla colpevolezza del soggetto per il fatto di reato e commisurate in base della gravità di quest’ultimo, e le misure di sicurezza, imperniate sul concetto di pericolosità sociale dell’autore del reato e di durata indeterminata. Il doppio binario si risolve, con riferimento ai soggetti imputabili e al contempo socialmente pericolosi, nell’applicazione congiunta di pena e misura di sicurezza: è questo il profilo più problematico dell’istituto, che può tradursi in una duplice privazione della libertà personale dell’individuo, ben oltre il limite segnato dalla colpevolezza per il fatto. Non a caso, la Corte Europa ci bacchettò su questo punto specifico. Sentenziò che non si può giustificare l’applicazione di una misura di sicurezza detentiva solo in ragione della funzione preventiva dalla stessa svolta, se poi di fatto la sua esecuzione non si differenzia da quella di una pena. Proprio perché anche le misure di sicurezza hanno carattere afflittivo, è necessario assicurare che la differenza di funzioni tra pene e misure di sicurezza si traduca anche in differenti modalità esecutive, così da garantire i supporti riabilitativi e risocializzativi necessari a consentire al soggetto di interrompere quanto prima l’esecuzione della misura. Eppure persiste ancora una mancata differenziazione con la pena detentiva. Pensiamo al 41 bis. Considerato lo specifico riferimento, operato dall’art. 41bis comma 2, agli internati, il “carcere duro” può essere applicato anche nei confronti di coloro che sono sottoposti ad una misura di sicurezza personale detentiva. Tale disposizione suscita, da sempre, notevoli perplessità tra gli interpreti. In primo luogo, infatti, è difficile comprendere come la pericolosità sociale che qualifica l’internato, assegnato a colonia agricola o a casa di lavoro, oppure ricoverato in una Rems, possa essere coniugata con i ben differenti parametri del 41 bis. In secondo luogo, è stato osservato in dottrina che l’accertamento, da parte del magistrato di sorveglianza, circa la permanenza della suddetta pericolosità finisce inevitabilmente per incidere sulla sussistenza dei presupposti stabiliti per l’applicazione del regime speciale: invero, qualora venga accertato che “è probabile che il soggetto commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati” 137, ben difficilmente - in sede di controllo del decreto ministeriale - si potrà escludere l’attuale capacità del medesimo di mantenere collegamenti con il crimine organizzato. In sintesi, un internato può scontare, di fatto, una lunga pena al 41bis. Un caso emblematico del quale se ne occupò il Partito Radicale, è quello riguardante Vincenzo Stranieri. Ha un tumore alla laringe e i 24 anni di 41bis gli hanno causato gravi problemi di tipo psichiatrico. La sua pena teoricamente sarebbe dovuta finire il 16 maggio del 2016, ma invece di uscire, è stato internato sempre al 41bis. A maggio, dopo due anni di internamento in regime duro, dovrebbe uscire. Emergenza stalker e piaga femminicidi. “Legge troppo blanda, ora il giro di vite” di Alberto Alfredo Tristano Il Mattino, 21 marzo 2018 Dall’inizio dell’anno già 15 donne uccise dai mariti o dai compagni: scatta la mobilitazione bipartisan. Immacolata e Laura sono state le ultime. Solo poche settimane fa toccò a Pamela e Jessica. Sono almeno 15 le donne uccise dai loro compagni dall’inizio dell’anno. “È una vera mattanza a cui bisogna porre rimedio. La politica deve trovare una soluzione”, dice Maria Gabriella Carnieri Moscatelli, presidente di Telefono Rosa. Il fenomeno del femminicidio inquieta la società a qualsiasi sfera; dalle famiglie alla politica, passando per le aule di giustizia. “Lo Stato ha fallito e continua a fallire nei tempi e nella sottovalutazione delle denunce, sia da parte delle forze dell’ordine che nelle aule dei tribunali”, dice il pm Fabio Roia, che rincara: “Se la denuncia di una donna perseguitata resta in un cassetto per negligenza, o peggio, per un atteggiamento negazionista, per quella donna, lasciata sola, il rischio di morire diventa altissimo”. “Il nuovo Parlamento ha l’obbligo di affrontare il tema del femminicidio e della violenza di genere come una priorità assoluta”, dice invece la ferrista Mara Carfagna, spiegando che “è una battaglia che ci deve vedere tutti impegnati, senza divisioni e con rapidità”. “Occorrono azioni forti, a partire anche dall’introduzione dell’arresto obbligatorio per chi maltratta e per gli stalker”, scrive su twitter il reggente del Pd, Maurizio Martina. Per inquadrare meglio la questione, è inutile considerare l’ultimo rapporto dell’Eures, istituto di ricerche economiche e sociali, uscito pochi mesi fa (novembre 2017) che analizza numeri e casistica dei femminicidi registrati dall’anno 2000 in avanti. Nel nuovo millennio (il rapporto ferma l’analisi alla fine del 2016) si contano complessivamente 2.844 vittime sui 9.825 omicidi volontari censiti, pari al 28,9% del totale. A fronte di un generale decremento del fenomeno omicidiario nel suo complesso (-46,4% nell’arco temporale considerato, passando dal valore massimo di 754 omicidi del 2000 a quello minimo di 404 nel 2016), i femminicidi registrano una riduzione molto più contenuta (-24,6%, passando da 199 a 150) e segnalano un nuovo incremento nel2016 rispetto al 2015: da 142 a 150. Quanto al 2017, ha fatto sapere ieri l’Eures, c’è stata per fortuna una flessione: i femminicidi sono stati 140, pari al 36,7% del totale degli omicidi censiti in Italia. Tra i 140 casi, 108 pari al 77,1% sono stati commessi in famiglia e 73 per mano di un marito/partner o di un ex marito/ex partner. Nella lettura del femminicidio è appunto l’ambito familiare e delle relazioni a confermarsi, in tutto il periodo considerato, il contesto più “a rischio”: in famiglia si concentra il 71,6% del totale delle vittime. In particolare, è la dimensione coniugale o comunque la convivenza a risultare maggiormente a rischio, evidentemente esacerbando e alimentando nella quotidianità le pulsioni negative. I femminicidi registrano una incidenza più elevata di omicidi duplici e plurimi, riconducibili, in particolare ai cosiddetti suicidi allargati (in cui l’autore, dopo aver sterminato la propria famiglia, si toglie la vita) o alle stragi familiari. In particolare, tra il 2000 e il 2016 sono 80 i casi di omicidi plurimi con almeno 3 vittime tra i femminicidi familiari (pari al 3,9% del totale) e 241 (pari all’11,8%) i duplici omicidi. In Lombardia con 25 femminicidi (i dati sono sempre del 2016) si registra il più alto numero, anche se in termini relativi con 4,9 femminicidi per milione di donne residenti si pone solo leggermente al di sopra della media nazionale. Seguono, per numero di casi censiti, il Veneto con 17 femminicidi e un indice di rischio pari a 6,8. Terza la Campania con 16 casi (a fronte dei 31 nel 2015) e un indice di rischio paria5,3. Diversa la situazione se analizzata per province: vagliando le prime dieci, i valori più alti sono a Milano con 10 femminicidi nel 2016 (a fronte di 3 casi nel 2015), seguita da Napoli con 8 femminicidi nel 2016 (14 nel 2015) e da Roma con 7 casi (6 nel 2015); a seguire, Genova e Verona registrano 6 femminicidi ciascuna, Caserta e Firenze 5, mentre 4 casi si rilevano nelle province di Monza-Brianza, Padova, Rovigo e Torino. La criminalità esercita un ruolo di maggior peso nella criminogenesi dei femminicidi nel Sud, potendosi attribuire a tale contesto il 21,7% dei casi censiti nell’area contro il 7,7% del Centro e il 5,1% del Nord. Se si prende la classifica delle prime dieci province per femminicidi di prostitute, nell’arco di 17 anni, si conferma il triste primato di Milano, ma sono presenti ben tre delle 5 province campane: Caserta, Salerno e Napoli. Sul piano generale, a maggiore rischio sono le donne anziane: i femminicidi con vittime di 65 anni e più sono quasi un terzo. La seconda fascia anagrafica più a rischio tra le donne è quella delle 25-34enni. Quanto agli autori di femminicidio, in 9 casi su 10 è un uomo. L’età media degli assassini subisce nel 2016 un netto aumento, passando da 46,3 anni nel periodo 2000-2016 a 50,3 anni nel 2016. In relazione alla nazionalità, soltanto un autore su 5 risulta non italiano. La grande farsa delle intercettazioni di Vincenzo Conti* Il Tempo, 21 marzo 2018 Tante le criticità della legge sulle registrazioni telefoniche. Dalle trascrizioni dei brogliacci ai limiti della difesa: ecco i punti da migliorare. si sta insediando il nuovo Parlamento. Lo scenario del futuro governo appare ancora imperscrutabile e incerto. Veniamo dall’ultimo anno di legislatura caratterizzato da novità importanti in materia penale e scandito dal rafforzamento del confronto tra Camere Penali e magistratura associata, fruttuoso metodo per migliorare - attraverso scelte condivise - l’efficienza del settore giustizia, efficienza non soltanto intesa in senso quantitativo ma anche in senso qualitativo e temporale (durata del procedimento penale). Veniamo anche dal tormentato dibattito per l’approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario ottenuto grazie all’impegno dei Radicali sostenuti dall’Unione delle Camere Penali. I penalisti all’indomani dell’approvazione della normativa sulle intercettazioni telefoniche avevano replicato alla nota dei cinque procuratori della Repubblica trasmessa ai presidenti delle Commissioni Giustizia di Camera e Senato. I rappresentanti degli uffici delle Procure più importanti avevano scritto segnalando dal loro punto di vista le criticità della nuova normativa. E la risposta dei cinque omologhi presidenti delle Camere Penali di Roma, Torino, Milano, Firenze, Napoli e Palermo non si era fatta attendere. Era stato un confronto tra gli addetti ai lavori a distanza: alcune criticità condivise e profonda diversità di vedute in relazione - in particolare - al captatore informatico così detto Trojan. Siamo d’accordo: bisogna evitare le fughe di notizie sulle frasi intercettate fuori contesto. Ma non possiamo accettare le novità contenute nel decreto attinenti alle limitazioni delle trascrizioni dei brogliacci nonché ogni forma di cedimento al radicale divieto di intercettazione tra indagato e difensore. E inoltre non si comprende perché al difensore - che ha pieno diritto ad avere la copia delle registrazioni su supporto idoneo alla riproduzione dei dati - sia precluso il diritto di avere copia dei verbali delle comunicazioni e conversazioni intercettate (brogliacci). Oggi è arrivato il momento di raccogliere le questioni e chiedere pubblicamente un intervento legislativo di miglioramento della normativa, facendo arrivare il messaggio alle orecchie dei rappresentanti della politica. Il funzionamento del sistema nel rispetto delle garanzie dei cittadini è interesse di tutti e gli equilibri costituzionali del processo passano attraverso il costante confronto tra avvocatura e magistratura in specie su temi quali rapporto con politica e stampa. Venerdì 23 marzo alle 12 a Roma si svolgerà l’incontro per mettere sul piatto le proposte di pubblici ministeri e avvocati penalisti sulle intercettazioni. Con un titolo provocatorio: “Una riforma miglioratile?”. C’è attesa per gli interventi degli ospiti nella consapevolezza che un impegno congiunto di avvocati e magistrati possa sensibilizzare il nuovo Parlamento e il futuro Governo. I penalisti sono pronti al ruolo di interlocutori naturali sul punto come in generale su tutte le questioni della giustizia penale nella consapevolezza della funzione. All’incontro, che si svolgerà presso l’aula Europa della Corte di Appello di Roma con inizio alle ore 12.00, interverranno per i saluti il presidente della Corte Luciano Panzani, il Procuratore Generale Giovanni Salvi, il presidente del Tribunale Francesco Monastero, il presidente del Consiglio delle Camere Penali Armando Veneto e la presidente Anm Lazio Roberta Di Gioia. Seguiranno gli interventi dei Procuratori (Giovanni Melillo, Armando Spataro, Francesco Lo Voi, Giuseppe Creazzo e Alessandra Dolci) e degli avvocati (Monica Gambirasio, Attilio Belloni, Roberto Trinchero, Vincenzo Zummo, Luca Bisori) introdotti e moderati dal procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e dal presidente della Camera Penale di Roma Cesare Placanica. Il presidente Ucpi Beniamino Migliucci e il presidente nazionale Anm Eugenio Albamonte tireranno le conclusioni, moderati da Giuliano Dominici componente del direttivo della Camera Penale di Roma. *Vicepresidente della Camera Penale di Roma Caso Cucchi, un teste: “Stefano mi disse che i cc si erano divertiti a picchiarlo” La Repubblica, 21 marzo 2018 Ricordi shock di un testimone della procura nel processo bis in corte d’assise: “Aveva il volto gonfio come una zampogna e sanguinava da un orecchio”. La sorella: “Racconto drammatico”. “La sera del 16 ottobre del 2009 mi trovavo presso il centro clinico di Regina Coeli quando vedo arrivare un ragazzo che aveva il volto gonfio come una zampogna, con evidenti ematomi in faccia e sugli zigomi. Aveva un colorito violaceo, perdeva sangue da un orecchio e faceva fatica a parlare. Gli portai un caffè ma non riusciva neanche a inghiottire la sua saliva”. Quel ragazzo era Stefano Cucchi, fresco del pestaggio subito nella prima caserma dei carabinieri al momento dell’arresto per droga avvenuto sei giorni prima di morire all’ospedale Sandro Pertini. A riferire di questo incontro è stato oggi il detenuto Luigi Lainà, sentito come testimone della Procura nel processo bis, in corte d’assise, che vede imputati cinque carabinieri, accusati a vario titolo di aver pestato Cucchi, di aver falsificato il verbale e di aver dato la colpa dell’aggressione a tre agenti della polizia penitenziari, processati e già assolti definitivamente. Roma, caso Cucchi, un teste: “Stefano mi disse che i cc si erano divertiti a picchiarlo” “Gli ho chiesto di alzarmi la maglietta” ha raccontato Lainà, rispondendo alle domande del pm Giovanni Musarò che lo interrogò una prima volta nel novembre del 2014. “E lui mi ha mostrato la schiena: era uno scheletro, sembrava un cane bastonato, roba che neanche ad Auschwitz. Aveva il costato di colore verdognolo-giallo, come quello di una melanzana. Gli ho chiesto se a ridurlo così fosse stato qualcuno della penitenziaria... ero pronto a fare un casino... e invece lui rispose che erano stati i carabinieri che lo avevano arrestato... “Si sono divertiti”, mi aggiunse. Volevano che facesse la spia, che parlasse per far arrestare altri spacciatori, ma lui è stato un grande, non ha fatto un nome. Mi spiegò che era stato picchiato da due militari in borghese mentre un terzo in divisa intervenne per invitare i due a smetterla”. “Quando sbagliamo - si è sfogato Lainà - è giusto essere arrestati, messi in carcere e giudicati da un tribunale. Non è giusto, invece, essere massacrati di botte. È successo pure a me qualche volta, e anche io come tanti altri ho dovuto dire di essere caduto per evitare di essere pestato di nuovo. Ma devo ammettere che non ho mai visto un detenuto, come Cucchi, portato in cella in quelle condizioni”. Fu proprio Lainà, sconcertato da quello che aveva visto, a sollecitare l’intervento del medico di Regina Coeli Pellegrino Petillo che ne dispose il ricovero al Fatebenefratelli anche se poi Cucchi il giorno dopo venne spedito al reparto di medicina protetta del Pertini. “A Petillo dissi che se non fosse intervenuto in tempo, Cucchi sarebbe morto subito a Regina Coeli per quanto stava male” ha precisato Lainà. “Io una cosa così non l’avevo mai vista”. “Il racconto del testimone Lainà è drammatico dal punto di vista emotivo, rivedo anche il carattere e i modi di fare di mio fratello e soprattutto la sua sofferenza che per tanti anni è stata nascosta”. Lo ha detto Ilaria Cucchi, a margine dell’udienza del processo a carico di cinque carabinieri accusati dalla procura di Roma, a seconda delle posizioni, di omicidio preterintenzionale, abuso di autorità, falso e calunnia in relazione alla vicenda del geometra romano morto nell’ottobre del 2009. “Per anni - ha aggiunto - si è parlato di lesioni lievi, lui stava malissimo invece, e quel dolore è aumentato ora dopo ora fino a farlo morire. In questi anni è stato tutto astratto sembrava che mio fratello fosse morto senza una ragione, da oggi si comincia a capire cosa è effettivamente successo”. Caso Moro, la procura apre un’inchiesta sulle parole di Barbara Balzerani La Stampa, 21 marzo 2018 L’ex dirigente della colonna romana delle Brigate rosse aveva detto che “fare la vittima sta diventando un mestiere”. Il Comune vota una mozione per riprendersi lo stabile occupato. Le frase “C’è una figura, la vittima, che è diventata un mestiere, questa figura stramba, per cui la vittima ha il monopolio della parola”, che avrebbe pronunciato l’ex Br Barbara Balzerani, nel corso della presentazione del suo libro al Cpa-Firenze sud, il 16 marzo scorso, giorno dell’anniversario della strage di via Fani e del rapimento di Aldo Moro, non ha solo sollevato un vespaio di polemiche e l’indignazione della figlia dello statista democristiano assassinato e di molti altri familiari di vittime del terrorismo. Ha spinto la procura di Firenze, alla quale la Digos ha trasmesso un’informativa sulla serata al Cpa, ad aprire un fascicolo, al momento senza indagati e senza ipotesi di reato. E il caso è diventato, improvvisamente, giudiziario. Anche perché sulle dichiarazioni di Barbara Balzerani, Lorenzo Conti, figlio del sindaco di Firenze Lando Conti, ucciso dalle Br nel 1986, ha annunciato l’intenzione di querelare l’ex brigatista. La vicenda - Del resto era prevedibile che le istituzioni reagissero alle frasi dell’ex Br che fu dirigente della colonna romana delle Brigate rosse e componente del commando che organizzò il rapimento del leader democristiano e condannata a sei ergastoli. La vicenda, però, ha avuto uno strascico che ha coinvolto direttamente il Centro popolare autogestito Firenze sud che aveva invitato l’ex brigatista a presentare il suo libro. Lunedì, infatti, il Consiglio comunale di Firenze ha votato una mozione, a larga maggioranza, presentata dal centrodestra, nella quale si invita il sindaco a intraprendere le azioni necessarie per recuperare l’immobile occupato abusivamente da una decina d’anni dal Cpa-Firenze sud in via Villamagna. Oggi, su Facebook, il Cpa ha replicato: “Il Centro popolare non si tocca. Contro le speculazioni della destra. Contro chi vorrebbe cancellare qualsiasi voce di dissenso in questa città. Per chi pensa sia ancora necessario aprire spazi di lotta, incontro, dibattito e solidarietà. Per chi non vuole regalare questa città all’egoismo ed ai reazionari. Il centro popolare non si tocca! Seguiranno una presa di posizione ufficiale da parte dell’assemblea del Cpa Fi-sud”. Al Centro popolare autogestito, infine, è arrivata la solidarietà di Potere al popolo e del Partito comunista. “Sarebbe stato un atto di cautela e di buon senso - ha affermato Potere al popolo in una nota - da parte della maggioranza consiliare quello di evitare facili strumentalizzazioni del quarantennale del rapimento Moro. Sono anni che la destra, nelle sue varie anime, chiede lo sgombero del Cpa e ci pare assurda la reattività con cui si è accolto l’ennesimo pretesto della destra. Avremmo voluto che una reattività simile si fosse dispiegata su connessioni molto più semplici, l’omicidio di Idy Diene e il razzismo di Pirrone ad esempio”. E il partito comunista, che “si schiera al fianco dei compagni del Cpa e si rende disponibile a qualsiasi tipo di iniziativa per contrastare la decisione di sgomberare il centro sociale”, ha concluso affermando che “non ci stupiamo dell’accaduto, infatti ormai tutto l’arco istituzionale ha abbracciato una svolta reazionaria e aspettava solo la scusa, il passo falso, per montare ad arte un caso per poter agire ed avere il pretesto dello sgombero”. G8 Genova. “I nostri torturatori ai vertici della polizia”, l’accusa choc del pm di marco grasso La Stampa, 21 marzo 2018 Zucca, magistrato del processo sul G8 di Genova: “Come possiamo chiedere giustizia all’Egitto su Regeni?”. Il ministero chiede gli atti. “I nostri torturatori sono ai vertici della polizia, come possiamo chiedere all’Egitto di consegnarci i loro torturatori?”. A intervenire sulla morte di Giulio Regeni è Enrico Zucca, pubblico ministero che ha fatto condannare i vertici della polizia italiana nel processo per il massacro della scuola Diaz, durante il vertice del G8 di Genova del 2001. Le dichiarazioni sono state pronunciate ieri pomeriggio, durante un convegno a cui erano presenti anche i genitori del ricercatore, torturato e ucciso al Cairo, dove è stato ritrovato il 3 febbraio del 2016. A stretto giro è arrivata la replica del ministero della Giustizia, da cui trapela, a tarda sera, la prossima acquisizione degli atti cartacei e video, se disponibili, riguardanti l’intervento del magistrato. La rabbia della famiglia Durante l’incontro, la famiglia di Regeni, assistita dall’avvocato esperto in diritti umani Alessandra Ballerini, ha lanciato un j’accuse nei confronti delle autorità italiane: “Ho fiducia nella legge - ha ribadito Paola Deffendi, madre di Giulio - negli avvocati bravi e nella stampa buona e abbiamo tanta solidarietà dai social. Ci aspettavamo di più da chi ci governa: dal 14 agosto quando il premier Gentiloni ci ha annunciato che l’ambasciatore tornava in Egitto: ci siamo sentiti soli, siamo stati abbandonati”. L’incontro è stato promosso dall’ordine degli avvocati, e introdotto dal presidente dei legali genovesi Alessandro Vaccaro. Ma le dichiarazioni che fanno più rumore sono quelle dell’ex pm dei processi del G8, oggi sostituto procuratore generale presso la Corte d’Appello del capoluogo ligure: “L’ll settembre 2001 e il G8 hanno segnato una rottura nella tutela dei diritti internazionali. Lo sforzo che chiediamo a un Paese dittatoriale è uno sforzo che abbiamo dimostrato di non saper far per vicende meno drammatiche”. Il precedente - Già nel 2015 Zucca era stato attaccato dall’ex ministro dell’Interno Angelino Alfano e dall’allora capo della polizia Alessandro Pansa (entrambi invocarono punizioni disciplinari) per alcune dichiarazioni espresse dal magistrato durante il festival “La Repubblica delle Idee”, parole che sostanzialmente riprendevano la censura della Corte europea dei diritti umani sulla mancanza di una legge sulla tortura. Il dibattito di ieri, in realtà, ripercorre un articolo firmato dallo stesso Enrico Zucca, già apparso sulla rivista istituzionale della magistratura “Questione Giustizia”, pubblicazione vicina alla corrente progressista delle toghe Magistratura Democratica. Nel testo, pubblicato alcuni mesi fa, il magistrato aveva già accostato la vicenda di Regeni alla vicenda del G8: “Non può stupire pertanto, come sia in discussione, nel caso Regeni, lo standing morale attribuibile al nostro Paese, che non ha saputo adempiere il primordiale dovere di svolgere in casa propria un’indagine efficace e pretendere dai responsabili del corpo di polizia la consegna dei torturatori, assecondando il loro sostanziale rifiuto a spezzare l’omertà solidale del corpo - impunemente - mentre rivendica ora alla giustizia di uno Stato dittatoriale l’individuazione dei torturatori di un proprio cittadino”. Non è concussione se manca il potere di mettere in atto la minaccia di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 21 marzo 2018 Corte di Cassazione - Sezione VI - Sentenza 20 marzo 2018 n. 12873. La Corte di cassazione con la sentenza n. 12873/2018 depositata ieri ha escluso la tentata concussione nel caso in cui la parte offesa sia un pubblico ufficiale non sottoposto né politicamente né gerarchicamente a chi ha provato a costringerlo a un determinata richiesta di favori per evitare le conseguenze negative prospettate. Inoltre, non può scattare la condanna neanche per il tentativo di concussione se la minaccia che doveva essere espressa da un intermediario non viene portata a conoscenza della potenziale parte offesa. Il caso - È questo il motivo della mancata condanna di un sindaco che - tramite il vicepresidente della Commissione regionale politiche sociali e salute - minacciava di fatto il direttore generale di un’azienda sanitaria prospettando di adoperarsi affinché venisse bocciato il bilancio della Asl in questione. La minaccia del sindaco veniva correlata alla pretesa di vedere affidato un ruolo di vertice nell’ambito dello stesso distretto sanitario a una persona da lui raccomandata. Il Gup ha emesso nei suoi confronti sentenza di non luogo a procedere in quanto l’intermediario risulta che non avesse riportato la minaccia al diretto interessato e che anzi si fosse adoperato “spontaneamente” affinché la pretesa del sindaco venisse esaudita. Tra l’altro l’intermediario, secondo il Gup e la Cassazione che ora respinge il ricorso della Procura, sarebbe stato in una posizione politicamente sovraordinata rispetto al sindaco e che quindi non avrebbe potuto patire la pressione ricevuta mettendo in atto il comportamento richiesto dal primo cittadino. Il sindaco non è stato quindi assolto perché semplicemente la parte offesa era a sua volta un pubblico ufficiale, ma perché l’intenzione illecita non si era concretata nella condotta che il codice penale sanziona all’articolo 317. Ciò nonostante il sindaco sia stato assecondato dal soggetto che avrebbe dovuto riportare la minaccia. Il rigetto del ricorso - La Corte di cassazione ha negato il ragionamento espresso dal Procuratore che sosteneva, al contrario che la condotta illecita fosse rilevante ugualmente anche se l’aiuto preteso veniva offerto senza indugi dall’intermediario che non riportava al direttore generale della Asl la minaccia di impedire l’approvazione del bilancio. La Corte dà ragione al Gup sull’insussistenza del reato sottolineando in particolare alcuni aspetti: la sovra-ordinazione politica del vertice della Commissione regionale rispetto al sindaco; il sindaco nonostante la carica di presidente della conferenza dei sindaci per la Asl non poteva incidere in alcun modo sulle decisioni del direttore generale dell’azienda sanitaria in quanto rivestivano ruoli organicamente “sganciati” tra essi. Infine la Cassazione rileva, nel dare ragione alla decisione assolutoria del Gup la circostanza che l’intermediario compulsato a fare e soprattutto a far fare a un terzo una data azione di fatto non abbia mai riportato la richiesta comprensiva di minaccia affermando di aver giudicato la prospettazione di impedire l’approvazione del bilancio solo come uno sfogo. Viola il diritto all’oblio riproporre in Tv il vecchio filmato di un’intervista negata di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 21 marzo 2018 Corte di cassazione - Sezione I - Sentenza 20 marzo 2018 n. 6919. Rimandare in onda a distanza di 5 anni un filmato in cui un noto personaggio pubblico rifiuta in modo perentorio un’intervista viola il suo diritto oblio. Un diritto che può cedere il passo a quello di cronaca solo se il fatto narrato si inserisce in un dibattito di pubblico interesse, dal punto di vista sociale, culturale, scientifico ecc. Nulla di tutto questo può invocare la Rai che, nel programma “La vita in diretta” ha rimandato in onda, a distanza, di anni il no secco del cantante Antonello Venditti, al solo scopo di inserirlo ai vertici della classifica dei personaggi più scorbutici e antipatici. Bollandolo anche come artista sul “viale del tramonto”. La Corte di cassazione, con la sentenza 6919, accoglie il ricorso del noto cantautore romano contro la Rai, una causa che l’artista aveva perso in entrambi i gradi di merito. Sia il Tribunale sia la Corte d’Appello avevano “infatti” considerato legittimo sacrificare il diritto all’oblio, che il cantante rivendicava, sull’altare della sua notorietà. Una fama che, per i giudici, rendeva sostenibile la tesi dell’interesse pubblico a rivedere un vecchio filmato, già mandato in onda a “caldo” nel quale il cantautore, avvicinato da un giornalista all’uscita di un ristorante, rifiutava in modo categorico di rispondere a delle domande. La Cassazione coglie l’occasione per ripercorrere la giurisprudenza interna e sovranazionale, per ricordare che la violazione del diritto all’oblio si può giustificare in situazioni del tutto differenti da quella esaminata. La Suprema corte sottolinea che l’esigenza è quella di mettere sul piatto della bilancia due diritti fondamentali: quello di cronaca posto al servizio dell’interesse pubblico all’informazione e quello della persona a che certe vicende della sua vita cadano nel “dimenticatoio”, perché ormai prive del carattere dell’attualità. Sia la Corte di Strasburgo che le corti interne si sono occupate del tema - per quanto riguarda il web, la “carta”, la tv e anche le camere di commercio - in relazione a grandi fatti di criminalità o importanti temi sociali. Ma nello specifico non c’è nulla di tutto questo, e la notorietà del personaggio non basta, a giustificare il sacrificio del diritto all’oblio. In più il servizio era commentato anche in modo denigratorio Napoli: il Garante dei detenuti a Poggioreale, tra le criticità omofobia e sovraffollamento di Nadia Cozzolino Dire, 21 marzo 2018 Ai detenuti transessuali di Poggioreale, casa circondariale di Napoli, è consentito di frequentare i corsi scolastici tra le mura della struttura. Ma le discriminazioni omofobe, che riguardano “sia i detenuti che alcuni operatori del settore”, li costringono ad essere “esclusi da ogni attività lavorativa”. La fotografia della struttura detentiva di Poggioreale è scattata dal garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, che ha visitato le carceri della Campania lo scorso anno insieme a una delegazione dell’organismo. Nel rapporto ufficiale, pubblicato solo il mese scorso ed analizzato dall’agenzia Dire, si evidenziano diverse criticità che riguardano il carcere, a partire dal sovraffollamento, un’emergenza che ritorna a farsi viva troppo spesso a Poggioreale. La capienza regolamentare dell’Istituto è di 1611 posti ma la chiusura di due reparti, per lavori di ristrutturazione in corso, ne rende effettivamente disponibili 1467: al momento della visita (marzo 2017) della delegazione “si registrava la presenza di 2061 persone detenute e, di conseguenza, un affollamento pari al 140,29%”, si legge nel rapporto del Garante. Dei 12 padiglioni, solo uno, “Firenze”, ristrutturato di recente, risponde agli standard europei. Negli altri, evidenzia Palma, “gli ambienti appaiono complessivamente fatiscenti e per molti aspetti degradati, viste le condizioni dei servizi igienici, la mancanza di docce nelle stanze, la promiscuità assoluta tra lo spazio della cucina e il bagno, l’umidità degli ambienti rivelata dalla presenza di muffa sulle pareti e sui soffitti” anche se “la situazione è stata affrontata dalla Direzione mettendo in programma diversi e ampi interventi di risanamento e manutenzione straordinaria”. Le aule scolastiche “solo eufemisticamente possono essere definite come estremamente carenti”, dato che sono disponibili solo due spazi per 2.000 detenuti. La visita del Garante nazionale ha riguardato anche il reparto “Roma”, un edificio articolato su quattro piani che ospita le persone transessuali, i detenuti sieropositivi, i tossicodipendenti in cura al Sert e i cosiddetti “sex-offender”, detenuti per reati sessuali. Lo spazio che accoglie i transessuali è un ambiente “poco accogliente”, così lo definisce il Garante “dove le stanze sono in condizioni degradate e i bagni necessitano di lavori di manutenzione ordinaria nonostante la ristrutturazione recente”. Nella sezione al terzo piano, dove si trovano quelle persone che si sono macchiate di reati di tipo sessuale, “le stanze sono molto grandi (fino a 12 persone). La presenza di una sola tv e un solo bagno - si legge nel rapporto - rendono la convivenza difficoltosa. I detenuti del reparto, in quanto inseriti in un regime “protetto”, non sono autorizzati a frequentare gli ambienti comuni e sono costretti a svolgere tutte le attività trattamentali in una piccola stanza polivalente”. Palma ha raccomandato all’Amministrazione penitenziaria di allineare progressivamente gli Istituti della Campania, compreso Poggioreale, agli standard internazionali sul limite dei tre metri quadri per detenuto, una soglia al di sotto della quale “si ha forte presunzione di violazione dell’articolo 3 della Cedu (Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ndr) con il rischio di condanna per trattamento inumano e degradante”. Alla Casa circondariale si chiede, tra l’altro, di “risolvere le criticità delle persone transessuali e garantire alle persone con disabilità l’accesso a ogni luogo consentito”. Livorno: inaugurata la Casa di accoglienza per detenuti in permesso iltelegrafolivorno.it, 21 marzo 2018 Intitolata a don Quilici, si trova in via della Maddalena. È stata inaugurata oggi la casa incontro “Don Quilici”, l’appartamento di via della Maddalena 8 che offre ai detenuti in permesso un luogo accogliente e dignitoso per riunire la famiglia. La cerimonia è iniziata con la celebrazione eucaristica presieduta dal vescovo nella chiesa dei Santissimi Apostoli Pietro e Paolo ed è proseguita con la benedizione dei nuovi locali. Nata dalla collaborazione con la Congregazione delle Figlie del Crocifisso, proprietarie dell’immobile, Casa Incontro ha accolto negli ultimi tre anni oltre 100 persone prima di essere chiusa nella seconda metà del 2017 per essere sottoposta a importanti lavori di restauro e rifunzionalizzazione. Il progetto che la anima ha come obiettivo quello di sostenere il diritto all’affettività delle persone detenute, con particolare attenzione a quelle meno abbienti che stanno scontando la pena lontano dal luogo di residenza. Il carcere, per molte famiglie, significa una brusca interruzione della vita affettiva. Questo avviene in particolare per coloro che provengono da regioni come la Sicilia, la Campania, la Puglia, la Sardegna o la Calabria e che affollano la sezione di alta sicurezza della casa circondariale “Le Sughere”. In occasione dei colloqui o dei permessi, i loro parenti devono affrontare lunghi viaggi e spese importanti a cui, in molti casi, vanno ad aggiungersi i costi per l’affitto di una stanza di albergo. Questa situazione, di fatto, spesso ostacola i contatti tra i detenuti e i loro cari, contribuendo al senso di isolamento e di separazione dalla società di chi vive in carcere. Casa Incontro vuole garantire a tutti i detenuti l’opportunità di restare in contatto con i loro familiari e, seppure nelle difficoltà legate alla loro condizione, di coltivare gli affetti in vista del ritorno in libertà. In occasione della nuova apertura, alla casa verrà dato il nome di Don Giovanni Battista Quilici, fondatore della Congregazione delle Figlie del Crocifisso, che nel 1882 entrò come “istruttore gratuito” nella colonia penale di Livorno e si fece promotore di una riforma in senso più umano dell’esecuzione penale che fu poi adottata da varie carceri del Granducato di Toscana. Suor Raffaella, nel presentare l’evento, ha ricordato come questa inaugurazione, a pochi giorni dalla Santa Pasqua, voglia offrirsi alla città e soprattutto alla comunità penitenziaria come segno di speranza. Cuneo: in carcere nasce lo Sportello d’orientamento legale per i detenuti di Nicolò Daniele laguida.it, 21 marzo 2018 Oggi la firma dell’accordo presso il Tribunale Civile del capoluogo. Oggi alle 11 presso la sede dell’Ordine degli Avvocati in via Bonelli 5 (sede del Tribunale Civile), si procederà alla sottoscrizione di un accordo volto ad attivare un servizio specifico dedicato ai cittadini detenuti, il secondo in Italia dopo Milano. Il servizio in questione è uno sportello per l’orientamento legale usufruibile da tutti i carcerati stanziati presso la casa circondariale di Cuneo, la casa di reclusione a custodia attenuata di Fossano e la casa di reclusione “Rodolfo Morandi” di Saluzzo. Il progetto, fortemente voluto dall’Ordine dell’Avvocatura di Cuneo, è stato realizzato in collaborazione con la Sezione di Cuneo della Camera Penale “Vittorio Chiusano” e con il Coordinamento dei Garanti delle persone detenute del Piemonte, in particolare Rosanna Degiovanni, Garante di Fossano; Bruna Chiotti, garante di Saluzzo e Mario Tretola, garante di Cuneo. Firenze: a Sollicciano più attività dedicate ai detenuti transgender comune.fi.it, 21 marzo 2018 Approvata risoluzione del gruppo Articolo 1-Mdp. Rossi e Collesei: “Siano date anche a loro le stesse opportunità di uomini e donne”. “Nella seduta del Consiglio comunale di ieri è stata approvata all’unanimità la risoluzione presentata dal nostro gruppo Articolo 1 - Mdp e firmata da altri consiglieri di opposizione e di maggioranza perché vengano effettuate attività formative rivolte ai detenuti trans gender presenti nel carcere di Sollicciano. Dopo il Consiglio dell’11 dicembre scorso, presso l’Istituto penitenziario noi consiglieri abbiamo avuto l’opportunità di ascoltare direttamente dagli interessati le problematiche che quotidianamente detenuti e operatori sono costretti a vivere. Da qui sono nati alcuni atti con i quali vogliamo cercare di dare un contributo alla loro soluzione, questo in particolare chiede che siano aumentate le attività per i detenuti transgender. Questi detenuti, in realtà, sono una piccolissima rappresentanza, si tratta di una quindicina di persone, ma non per questo devono essere ignorati. Essi trascorrono le giornate nella più totale inedia, nell’emarginazione, possono solo contare le ore, non hanno attività né educative né di svago, come invece avviene per la sezione femminile e, in minor misura, per quella maschile, non dispongono di una stanzina per i colloqui con gli operatori. Il principio è che essi non hanno le stesse opportunità degli altri, è già difficile il reinserimento per coloro che frequentano corsi, impossibile per chi vive ai limiti dell’isolamento. Siamo arrivati tardi, la legislatura è terminata, ma la nuova si deve insediare; è a questa e in particolare al nuovo Direttore dell’Istituto penitenziario del quale abbiamo vissuto l’insediamento, che ci rivolgiamo perché la situazione di questa piccola rappresentanza di detenuti possa avere le stesse opportunità degli altri. I consiglieri Collesei e Rossi”. (fdr) Qui di seguito il testo della mozione: Movimento democratico e progressista - Tipo Atto: Risoluzione - N° 188/18 - Oggetto: “Per aumentare le attività per i detenuti transgender” Proponenti: Stefania Collesei - Alessio Rossi - Sono firmatari della Risoluzione i/le Consiglieri/re Armentano, Fratini, Lauria, Pugliese Perini, Scaletti, Verdi, Bieber, Colangelo, Tenerani. Il Consiglio Comunale, considerato che durante la seduta del Consiglio comunale dell’11/12/2017 presso il carcere di Sollicciano sono emerse diverse carenze e sono state avanzate altrettante richieste; Preso atto che all’interno del penitenziario operano molte persone dal settore della sorveglianza al personale docente, ai volontari ed educatori che svolgono varie attività, formative, didattiche ricreative e culturali; Appreso che comunque le attività che coinvolgono le persone detenute presentano differenze anche fra le diverse sezioni; si riscontra infatti l’effettuazione di un maggior numero di attività nella sezione femminile, in minor misura nella sezione maschile ed ancor meno per i detenuti trans gender; Constatate le enormi difficoltà che si incontrano per l’effettuazione delle attività dei detenuti trans gender, poiché per evitare qualsiasi contatto con gli altri detenuti i loro corsi avvengono al termine di quelli di tutti gli altri, sezione femminile e maschile, e che quello che più preoccupa gli educatori è la situazione vicino all’isolamento in cui vengono tenute queste persone che sfocia dopo anni di detenzione in un considerevole peggioramento dell’essere fisico e mentale; Rilevato che per questi detenuti la cui entità numerica non raggiunge le 15 unità non è resa disponibile neppure una saletta per i colloqui con gli educatori; Considerato che, al netto delle difficoltà organizzative che pure vi saranno, si ritiene tuttavia che questa esclusione di fatto generi una vera e propria discriminazione fra i detenuti stessi; Invita l’amministrazione comunale a rappresentare presso le istituzioni di competenza la condizione di vita dei detenuti trans, ed ad adoperarsi per consentire l’esecuzione di alcune attività nella sezione femminile del genere percepito ed alleviare lo stato di inedia che oggi vivono. Impegna la Presidente del Consiglio Comunale a trasmettere il presente atto al Ministro della Giustizia, al Direttore del Carcere ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica, ai Capigruppo parlamentari di Camera e Senato. Ferrara: Interno Verde apre le porte del GaleOrto, giardino del carcere cronacacomune.it, 21 marzo 2018 L’orto più segreto di Ferrara, quello coltivato dai detenuti che abitano il carcere dell’Arginone, aprirà eccezionalmente le porte al pubblico di Interno Verde. Il festival dedicato ai giardini più suggestivi e curiosi della città - che quest’anno si terrà sabato 12 e domenica 13 maggio 2018 - inaugura la terza edizione con un evento decisamente inusuale, organizzato grazie alla preziosa collaborazione della casa circondariale e della polizia penitenziaria: una visita guidata che, nella mattina di venerdì 11 maggio, permetterà ai ferraresi di scoprire la natura che cresce all’ombra delle torrette di guardia e del filo spinato, curata e coltivata grazie a un progetto educativo di notevole impatto e significato, intitolato ironicamente Galeorto, coordinato dall’associazione Viale K. “Interno Verde già dalla prima edizione ha cercato di favorire, attraverso la meraviglia suscitata dal giardino, lo sviluppo di una socialità spontanea e vicina, in un’atmosfera inclusiva, di scambio e condivisione”, raccontano i soci de Ilturco, l’associazione che ha ideato Interno Verde. Questa intenzione si è esprime tanto nell’organizzazione della manifestazione, che certifica per le persone disabili l’accessibilità degli oltre 60 giardini a disposizione dei visitatori, quanto nella selezione dei luoghi da coinvolgere, tra i quali già l’anno scorso spiccava la presenza della Residenza Santa Chiara, uno dei luoghi più delicati di Ferrara per la fragilità degli utenti a cui presta le proprie cure. “In un momento in cui purtroppo le carceri italiane vengono citate dai mass media soprattutto per le criticità di cui si fanno carico, l’apertura straordinaria dell’orto di via Arginone crediamo rappresenti non solo un’importante occasione formativa per le persone che avranno occasione di partecipare - tanto per i detenuti quanto per i visitatori accolti - ma anche un importante segnale per la comunità”. La visita al GaleOrto - disponibile solo su prenotazione, per un gruppo di massimo 30 persone - si terrà venerdì 11 maggio alle 10. All’interno della struttura i soci di Viale K, assieme ad alcuni detenuti impegnati volontariamente nella coltivazione di frutta e verdura, spiegheranno la nascita e lo sviluppo del progetto - che comprende sia un campo dedicato alla produzione per il consumo interno, dove crescono diverse varietà vegetali, sia un campo di sole zucche violine, la cui eccedenza è destinata alla vendita. Per partecipare è necessario essere maggiorenni, non avere familiari detenuti, non avere carichi penali pendenti. La prenotazione deve essere inviata tramite mail entro domenica 15 aprile all’indirizzo info@internoverde.it, allegando la scansione del proprio documento di identità. Per maggiori informazioni è possibile rivolgersi all’associazione Ilturco - la cui sede si trova in via del Turco 39, aperta dal lunedì al venerdì, dalle 9 alle 19 - o telefonare al coordinamento di Interno Verde, cell. 3391524410. Interno Verde è patrocinato dal Mibact, da Ibc Emilia-Romagna, dal Comune di Ferrara e dall’Università degli Studi di Ferrara. Trani (Bat): un’occasione di riscatto per 10 detenuti della Casa circondariale bisceglielive.it, 21 marzo 2018 Iniziativa della Società Cooperativa Sociale Irsea di Bisceglie in collaborazione con la Comunità Oasi2 San Francesco Onlus di Trani. Far emergere tutte le potenzialità del territorio e donare una vera occasione di riscatto a 10 detenuti della Casa Circondariale Maschile di Trani, per guardare con speranza concreta al proprio futuro. Con queste finalità nasce il percorso formativo “Operatore per la realizzazione e manutenzione dei giardini”, che a breve la Società Cooperativa Sociale Irsea di Bisceglie realizzerà in collaborazione con la Comunità Oasi2 San Francesco Onlus di Trani. L’intervento progettuale, previsto dalla Regione Puglia in condivisione con il Ministero della Giustizia, della durata di 900 ore, prevedrà la realizzazione di: azioni integrate di formazione teorica e pratico/laboratoriale, finalizzate a potenziare le competenze professionali dei detenuti, indispensabili per ridurre le condizioni discriminatorie nel mercato del lavoro; azioni di accompagnamento, volte ad incrementare la motivazione all’apprendimento e - nel contempo - a promuovere relazioni di fiducia e di valorizzazione del grado di autostima, a supporto anche della gestione delle relazioni parentali. L’Irsea si avvarrà di un partenariato di qualità costituito da: Uffici di Piano di Trani-Bisceglie e Barletta, Patto Territoriale per l’Occupazione Nord-Barese Ofantino, le associazioni Cittadinanza Attiva e Nova e l’azienda Floralia. Infatti, il coinvolgimento di una feconda rete di collaborazioni con istituzioni e soggetti privati, profit e non profit, in grado di promuovere il progetto sul territorio e di accrescere le potenzialità di successo, risulta essere precondizione indispensabile per una completa integrazione, data sia dal grado di autonomia sviluppabile dal detenuto, cioè dalla sua capacità d’integrarsi, sia dalla disponibilità della comunità a “ricevere l’integrazione”, acquisendo strumenti culturali funzionali al superamento di pregiudizi diffusi. Torino: la vedova di Musy che regala ai detenuti una seconda chance di Sara Strippoli La Repubblica, 21 marzo 2018 Una rapina, il carcere a Torino, una pena molto alta. In prigione cresce la voglia di sapere, conoscere il mondo, le regole. È la storia di Aldo (nome di fantasia) muratore. Entrato in carcere con la licenza media, uscito con una laurea in giurisprudenza. “Storie così ne ho ascoltate in questi anni. C’è chi non ha paura di immaginare di provare una nuova vita, di darsi una seconda opportunità. E se anche una sola di queste persone riesce a dare una svolta alla sua vita grazie al fondo nato per portare avanti l’impegno di mio marito Alberto, ho la conferma di non aver sbagliato”, racconta Angelica Musy, la moglie del consigliere comunale dell’Udc, avvocato e professore universitario. Morto dopo 19 mesi di coma per un’aggressione commessa esattamente sei anni fa da un uomo che con un casco in testa lo ha aspettato nel cortile di casa e gli ha sparato. A febbraio di quest’anno, con la condanna definitiva della Cassazione che ha confermato l’ergastolo a Francesco Furchì, il sipario è calato su una delle vicende più assurde dell’Italia degli ultimi anni. Da quel dolore, nel 2014, è nato il Fondo Alberto e Angelica Musy: “Abbiamo scelto il progetto Logos dell’Ufficio Pio della Compagnia di San Paolo indirizzato ai detenuti. Destiniamo le risorse che raccogliamo ad attivare piccole borse-lavoro. Un’occasione di inserimento part-time nel mondo del lavoro, enti pubblici e società private. Sono dodici quelle che siamo riusciti ad offrire, per altrettante storie di riscatto: un uomo che ha commesso un omicidio e ha iniziato a studiare in carcere, ha preso la laurea in legge e ora lavora all’Università per quattro ore al giorno; un uomo di 35 anni che ha fatto un percorso straordinario e ora è tornato nel suo Paese, in Albania”. Ma la seconda opportunità non è solo per chi commette un reato e riesce a scorgere una prospettiva nuova per il futuro: “La seconda chance è anche per noi, la famiglia. Da queste storie impariamo che non servono i piagnistei, che la vita va avanti e siamo chiamati a viverla”. Questa mattina Angelica sarà nel carcere torinese con un progetto teatrale che ha fatto conoscere la storia di suo marito ai ragazzi delle superiori: “Game over. Per un nuovo inizio”. E racconterà: “In mezzo a tutto cerchi un segno, un significato. Io l’ho trovato nei momenti in cui mi sono sentita parte della mia comunità. Non sono sola, le figlie, i parenti, gli amici mi sono vicini, ma vorrei sentire un soffio di quella libertà che ti fa dire “Io ci sono, mi espongo, lotto anche per te, perché penso che tu valga”. L’Italia spaccata su lavoro, sicurezza e immigrazione di Nicoletta Picchio Il Sole 24 Ore, 21 marzo 2018 Preoccupati, ansiosi, delusi, frustrati, arrabbiati, fragili: sono le parole che esprimono lo stato d’animo della maggioranza degli italiani. Frutto di fratture sociali e divergenze percepite ancora molto forti come tra onesti e furbi, ricchi e poveri, chi ha un lavoro stabile e uno flessibile, l’immigrazione rispetto a “prima gli italiani”. In uno scenario in cui lo scontro tra cittadini ed élite appare destinato ad aumentare. È la fotografia del sondaggio di Swg sull’analisi del voto, presentato nel convegno organizzato da Formiche, Menabò, “Leggere il presente per disegnare il futuro”. È il lavoro la priorità per rispondere ai disagi secondo il direttore generale di Confindustria, Marcella Panucci, insieme ad un rilancio delle infrastrutture, soprattutto nel Sud. “Ci sono forti differenze tra Nord e Sud, in alcune regioni come il Veneto la disoccupazione è al 4 per cento”, ha detto la Panucci intervenuta in una tavola rotonda insieme al segretario generale della Fim Cisl, Marco Bentivogli, e l’ex ministro Dc, Enzo Scotti, davanti ad una platea di politici, in particolare del M5stelle, Pd, Forza Italia e Lega. “Alcune regioni meridionali sono state abbandonate a se stesse. Occorre colmare i divari: sul lavoro bisognerebbe ridurre il cuneo fiscale, azzerarlo per le assunzioni dei giovani fino a 35 anni, rafforzare le politiche attive”. Dai dati del sondaggio arriva al 68% la percentuale dei ripiegati (40) e rancorosi (28), mentre i ruggenti (sereni, dinamici e appagati) sono il 32 per cento. Sono percepite come molto forti le divaricazioni tra tasse e libertà d’impresa, persone che consumano e chi non può, popolo ed élite, sicurezza e insicurezza, esclusi ed inclusi. “Dobbiamo fare i conti con invecchiamento della popolazione, innovazione e immigrazione”, ha detto Bentivogli, che sul Sole 24 Ore ha firmato insieme al ministro dello Sviluppo, Carlo Calenda, la proposta di un piano industriale per l’Italia. “La formazione è fondamentale, ci sono profili professionali che non si trovano. La tecnologia è la strada per far rientrare in Italia produzioni. E se l’Embraco ha lasciato il nostro paese non è solo per i costi, è che la Slovacchia offre zero burocrazia”, ha continuato il sindacalista. Problemi ai quali la politica e il prossimo governo dovranno rispondere. “Non ha vinto nessuno, nessun programma potrà prevalere, bisognerà trovare punti di convergenza”, ha detto la Panucci, ricordando le proposte presentate alle Assise di Confindustria di Verona, a metà febbraio. E sottolineando gli effetti di misure come Industria 4.0 e Jobs act, visibili nell’aumento della domanda interna e dell’export: “Non vanno smontate”, ha insistito. Il direttore generale di Confindustria ha sollevato anche il pericolo dazi: “Possono ridurre la crescita mondiale, il protezionismo fa male all’Italia più che ad altri, siamo un paese esportatore”. E si è soffermata sull’Europa: “Piuttosto che fare una battaglia sul 3% di deficit, facciamola sui fondi europei, a partire dall’innovazione, e sull’introduzione degli euro-bond per finanziare le infrastrutture”. Furto dati. Dopo Cambridge Analytica il web non sarà più lo stesso di Daniele Manca Corriere della Sera, 21 marzo 2018 Il tonfo in Borsa di Facebook ha travolto tutta la Silicon Valley. E lo scandalo rischia di essere per il tech quello che lo scandalo diesel è stato per le auto. Basta guardare l’andamento dei titoli in Borsa di Facebook e degli altri “titani del web” per capire che lo scandalo legato a Cambridge Analytica rischia di essere qualcosa di più di un semplice inciampo. Qualcosa che assomiglia a una rivoluzione per la Rete. Il social network creato da Mark Zuckerberg è crollato lunedì e ieri. E così Twitter. Hanno frenato Amazon, Netflix, Apple e Alphabet (società che controlla Google). Il caso è noto. Facebook ha i dati che i suoi clienti gli regalano ogni volta che vogliono usarlo per mettersi in contatto con amici e parenti. Questi vengono impastati per creare dei profili che vengono “venduti” agli inserzionisti pubblicitari. Con Cambridge Analytica si è capito che oltre alle aziende a essere interessati ai nostri profili ci sono anche i partiti. Quello che sinora era un tema di posizioni dominanti sul mercato si è tramutato in questione politica. Riuscire a influenzare un voto come quello negli Usa non è cosa di poco conto. E così mercati e investitori in queste ore si stanno chiedendo cosa accadrà di questi big che sinora rispondevano a logiche di business e ora devono fronteggiare un’offensiva anche sociale e politica. Che cos’è successo, esattamente? Quando c’è di mezzo la politica non c’è business che tenga. Una troppo potente Standard Oil all’inizio del secolo scorso diede inizio e orientò le politiche antitrust mondiali grazie al celebre Sherman Act. Ora il caso di Cambridge Analytica rischia di essere per il web quello che è stato lo scandalo diesel per le auto. Una scossa che ha rivoluzionato approcci e regole. In quale direzione? Incerta. E l’incertezza è quello che da sempre temono i mercati. Migranti. Richieste di asilo nell’Ue dimezzate in un anno, ma in Italia aumentano del 4% di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 21 marzo 2018 Eurostat ha reso noto che il numero è diminuito in un anno del 46%, mentre in Italia è cresciuto del 4. Dopo il boom del 2015 e 2016, il flusso è tornato ai livelli del 1992 (quando si dissolse la Jugoslavia). Il numero degli immigrati che fanno domanda di asilo politico nella Ue è sceso nel 2017 a 650.000, rispetto al milione e 206.000 dell’anno precedente. Dunque si è registrato un calo del 46%, quasi la metà, che riflette il minor numero di sbarchi e di arrivi dai paesi del terzo Mondo. Lo ha comunicato Eurostat, l’istituto di statistica dell’Unione Europea. La Germania si conferma primo Paese Ue per numero di richieste con il 31% del totale, ma con un netto calo del 73% rispetto al 2016. In controtendenza l’Italia, che, pur raccogliendo “solo” 121.000 richieste di asilo (il 20%, è la quarta destinazione europea) registra un aumento del 4% in un anno. Da Siria e Iraq le richieste maggiori - Secondo Eurostat il flusso dei richiedenti asilo ha subito una netta flessione rispetto agli anni più “caldi” che sono stati il 2015 e il 2016, quando il fiume di arrivi superò abbondantemente il milione di unità. Il numero di 650.000 fa tornare le statistiche ai livelli del 1992, anno della prima ondata di richiedenti asilo, che all’epoca provenivano dalla ex Jugoslavia. Attualmente a chiedere protezione umanitaria sono soprattutto siriani (102.000 domande) iracheni (47.500) e afghani (43.000). Anche in questo caso l’Italia rompe lo schema: la prima nazione di provenienza per i rifugiati che chiedono asilo in Italia è infatti la Nigeria. Appena 27 richieste in Slovacchia - Le richieste di asilo disegnano ancora una volta una mappa molto diseguale dell’Europa: del calo drastico della Germania si è detto (ma nell’accordo di governo sottoscritto da Cdu e Spd si parla di accogliere ogni anno 200.000 rifugiati). Anche Austria, Olanda e Gran Bretagna hanno visto calare il numero delle domande. In proporzione alla popolazione residente, il flusso maggiore del 2017 è diretto verso la Grecia, quello minore verso la Slovacchia, dove appena 27 stranieri hanno chiesto protezione. Migranti. Una campagna giudiziaria contro l’umanitarismo di Alessandro Dal Lago Il Manifesto, 21 marzo 2018 Ma ci chiediamo: gli accordi che Minniti ha stipulato con Serraj - che delegano di fatto alle milizie di Tripoli il respingimento e l’internamento dei migranti, in cambio di denaro, armi di vario tipo e sostegno politico - hanno valore di legge? O non esiste forse una convenzione internazionale che fa obbligo ai comandanti delle navi di soccorso di portare i naufraghi nel “più vicino porto sicuro”? Le risposte sono scontate. Le accuse di Zuccaro sono gravi ma nebulose, generiche e in fondo inconsistenti. Ne abbiamo viste tante in questi anni in tema di migrazioni. Ma che una procura accusi la nave di una organizzazione non governativa di aver disobbedito alla guardia costiera libica lascia a bocca aperta. O meglio: lascerebbe a bocca aperta, se non si sapesse che la singolare iniziativa è stata presa dal dr. Carmelo Zuccaro, procuratore capo di Catania, che da più di un anno ha messo nel mirino le Ong che salvano i migranti nel Mediterraneo tra Libia e Sicilia. Un uomo che un anno fa dichiarò di non avere prove, ma di “sapere” che c’era qualcosa di molto sospetto nell’attività umanitaria delle Ong. Dopo un anno, le prove non sono saltate fuori, ma l’implacabile dr. Zuccaro prosegue la sua campagna giudiziaria contro l’umanitarismo. Ed ecco i nuovi fatti. Il 15 marzo, la nave “Open arms” della Ong spagnola Pro Activa salva dal naufragio più di 200 donne e bambini in acque libiche (così sostiene la guardia costiera di Tripoli, notoriamente una bocca della verità). I libici intimano alla nave di consegnare loro i migranti, minacciando l’uso delle armi, ma il comandante non obbedisce e, dopo aver sbarcato alcuni bambini in gravi condizioni a Malta, porta i naufraghi a Pozzallo. La decisione è doverosa. Numerose testimonianze di Ong e istituzioni internazionali (a partire dall’Onu) hanno denunciato nei mesi scorsi le atroci condizioni dei centri di internamento dei migranti in Libia, dei veri e propri lager finanziati, non dimentichiamolo, dal governo italiano. Consegnare i migranti ai libici avrebbe significato condannarne una parte alla morte e tutti a quasi tutti alla violenza, agli stupri e ogni tipo di vessazione. Ma sulla scelta umana e di buon senso degli spagnoli si abbatte ora il pugno di Zuccaro, secondo il quale la nave spagnola avrebbe violato la legge e gli “accordi internazionali”. Noi non sappiamo quali siano i fini del procuratore, ammesso che ne abbia, né le sue motivazioni. Ma ci chiediamo: gli accordi che Minniti ha stipulato con Serraj - che delegano di fatto alle milizie di Tripoli il respingimento e l’internamento dei migranti, in cambio di denaro, armi di vario tipo e sostegno politico - hanno valore di legge? O non esiste forse una convenzione internazionale che fa obbligo ai comandanti delle navi di soccorso di portare i naufraghi nel “più vicino porto sicuro”? Le risposte sono scontate. Le accuse di Zuccaro sono gravi ma nebulose, generiche e in fondo inconsistenti. Non dubitiamo che saranno fatte cadere e che comunque non daranno luogo a condanne, come è sempre accaduto in casi simili. Ma hanno l’effetto di scoraggiare ulteriormente il salvataggio dei naufraghi. Con gli esisti letali che è facile immaginare. Mentre la procura di Catania agisce nelle retrovie, il ministro Minniti è in prima linea, in Niger, non sappiamo a fare che cosa: se a convincere il riluttante governo nigerino ad accettare la presenza dei nostri soldati, se a finanziare le forze armate nigerine, o se a tessere le fila della nostra lungimirante politica estera (a proposito, che fine ha fatto Angelino Alfano che, se non ricordiamo male, ha la carica di Ministro degli affari esteri?). In ogni caso, le iniziative di Minniti l’Africano non aumenteranno di un centesimo il Pil pro capite del Niger, che supera di poco i 400 dollari annui. E così la tenaglia di repressione e povertà si chiude, favorita dall’esito delle elezioni italiane, che hanno premiato con il 65% dei voti le forze politiche ostili ai migranti (una cifra che supera l’80%, se consideriamo anche il partito del ministro di Minniti, lo sceriffo dei due continenti). Fiat lex et pereat iustitia, “si applichi la legge e al diavolo la giustizia” proponiamo ora come motto da incidere sulla facciata della procura di Catania. Migranti. “La solidarietà non è un crimine”, campagna a sostegno del soccorso di Marco Accossato La Stampa, 21 marzo 2018 Medici e infermieri dell’operazione Freedom Mountain che ha base a Bardonecchia: “È nostro dovere aiutare chi è in pericolo”. “Soccorrere non è un crimine”. Parte da Torino la solidarietà alla guida alpina francese che rischia cinque anni di carcere per aver aiutato - il 10 marzo scorso al Monginevro - una donna migrante incinta al confine tra Italia e Francia. Il gruppo di medici e infermieri volontari della missione “Freedom Mountain” che dallo scorso dicembre assiste chi attraversa la montagna rischiando l’assideramento e la vita attraverso il Monginevro e Bardonecchia ha dato il via stamattina sui social a una campagna in tre lingue: italiano, inglese e francese: “Soccorrere non è un crimine”, “Rescue is not a crime”, “Sauver n’est pas un crime”. Soccorrere è un dovere. E la cura non è da confondere col favoreggiamento all’immigrazione. Questa la convinzione che ha dato immediatamente il via all’iniziativa tra i volontari dell’associazione, appena diffusa la notizia del fermo operato dalla gendarmeria francese: la donna - che poche ore dopo il salvataggio ha partorito all’ospedale di Briançon - era stata colta dalle doglie mentre camminava sulla neve ai 1900 metri del Monginevro, insieme al marito e ad altri due figli di 2 e 4 anni. Il dottor Paolo Narcisi, fondatore dell’associazione Rainbow for Africa e coordinatore della missione “Freedom Mountain” con base a Bardonecchia, è lapidario: “Per noi medici e infermieri è imprescindibile che chi è in pericolo, chi ha bisogno, chi è malato debba essere soccorso. E questo soccorso non può essere reato: non lo può essere per il procuratore di Catania Zuccaro che sequestra una nave Ong di Open Arms e non lo può essere per la Gendarmeria francese che incrimina la guida alpina che ha soccorso la donna incinta che stava per partorire”. E questo, “al di là dei confini e del fatto che sia reato immigrare clandestinamente”. La donna migrante soccorsa aveva scelto insieme alla sua famiglia la strada apparentemente meno ardua per arrivare in Francia: quella che dalla Valle Stretta sopra Bardonecchia sale al Col d’Echelles per poi scendere a Nevache, nuova rotta di migranti. La guida alpina ora incriminata li ha trovati e soccorsi stremati nella neve e li ha caricati in auto per raggiungere l’ospedale francese. Ma la vettura è stata fermata dalla gendarmerie, la donna caricata in ambulanza per essere portata in ospedale, e la guida è stata accompagnata in caserma. Qui è scattata la denuncia: favoreggiamento di immigrazione clandestina. Sono quasi quattro mesi che i medici e gli infermieri volontari di “Freedom Mountain operano tra Bardonecchia e la Francia, con un piccolo centro di accoglienza e soccorso in una stanza messa a disposizione dalle Ferrovie in stazione: “Si pensava che l’inverno avrebbe scoraggiato i migrati dall’avventurarsi in montagna - spiega il dottor Narcisi - invece provano con ostinazione a raggiungere il confine, fino a rischiare la vita, convinti di trovare meno controlli proprio a causa dell’inverno e del freddo. Vestiti con scarpe da ginnastica e maglioncino s’incamminano al buio: “Nessuno di loro immagina che la montagna possa essere più insidiosa del deserto”. Migranti. “No all’asilo senza diritti alla difesa”, a Milano e Venezia protestano i legali di Ferruccio Sansa Il Fatto Quotidiano, 21 marzo 2018 L’udienza in primo grado non è necessaria. L’appello non è più previsto. Il ricorso in Cassazione non sempre è praticabile. Dopo il decreto Minniti, gli stranieri che ricorrono contro la Commissione Territoriale che concede la Protezione Internazionale rischiano di non avere nemmeno un grado di giudizio. Da Milano a Venezia le garanzie processuali riservate ai richiedenti asilo suscitano proteste: raccolte di firme, ricorsi, aspre critiche di un sottosegretario del governo. Non esistono ancora dati sugli effetti dell’applicazione del decreto Minniti, ma l’avvocato Livio Neri dell’Asgi (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione) spiega: “I comuni cittadini hanno a disposizione tre gradi di giudizio. Per gli stranieri è molto diverso”. Cosa succede? “Oggi - prosegue Neri -l’appello contro la Commissione Territoriale non è più previsto. E il ricorso in Cassazione è possibile solo per motivi di diritto. Non solo: un decreto del Tribunale di Milano ha stabilito che l’udienza di primo grado non è sempre necessaria. Ma la Convenzione di Strasburgo prevede un’udienza pubblica”. Da tre gradi di giudizio, sostengono legali e giuristi, in alcuni casi si passa a zero. I giudici milanesi nei giorni scorsi hanno respinto il ricorso di un migrante contro la decisione della Commissione Territoriale. La legge oggi stabilisce che il giudice per decidere abbia a disposizione una videoregistrazione della seduta. Ma in Italia non ne esistono. Il Tribunale di Milano però stabilisce: non esiste “alcun automatismo tra mancanza di videoregistrazione e necessità indefettibile di fissazione di udienza e tantomeno di rinnovo dell’audizione”. In pratica, il ricorso - se il giudice ritiene che non esistano nuovi elementi di fatto - si può decidere senza udienza e senza riascoltare il migrante. A Venezia il presidente del Tribunale, Manuela Farini, e il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Paolo Maria Chersevani, hanno firmato un protocollo per la “Sezione Immigrazione”. Come ha raccontato Il Manifesto, al punto 5 si legge: “I difensori, ove siano a conoscenza di malattie infettive del ricorrente (ad esempio tbc), sono tenuti a comunicare la circostanza al Giudice e a richiedere al ricorrente la produzione di certificazione medica che attesti l’assenza di pericolo di contagio”. Il punto 6 stabilisce che “l’audizione del ricorrente verrà condotta dal Giudice senza l’intervento del difensore”. Fino al punto 5: “Un ritardo superiore ai dieci minuti” dell’avvocato e del ricorrente “comporterà la corrispondente contrazione dei tempi dell’audizione”. Si prevedono poi compensi ridotti per i difensori che operano con il gratuito patrocinio. Insomma, un trattamento diverso rispetto ai normali ricorrenti. Intervengono i Giuristi Democratici che parlano di “diritto alla difesa violato”. Ma anche il sottosegretario alla Giustizia, Gennaro Migliore: “Il protocollo viola il principio cardine di ogni sistema garantista: il diritto di difesa con l’avvocato”. Migranti. Le toghe del patto: “troppi malati, così avremo tempo per tutelarci” di Alberto Zorzi Corriere Veneto, 21 marzo 2018 Una difesa su tutta la linea, punto per punto, ma affidata solo a una nota scritta, giusto perché tutte le virgole siano a posto. Il presidente del tribunale di Venezia Manuela Farini e quello dell’Ordine degli avvocati di Venezia Paolo Maria Chersevani non ci stanno a finire sulla graticola per il protocollo firmato il 6 marzo scorso, che regola le udienze dei ricorsi dei migranti richiedenti protezione internazionale. “L’obiettivo del protocollo è assicurare una gestione dei procedimenti maggiormente efficiente, nell’interesse primario del ricorrente ad ottenere una risposta giudiziaria in tempi compatibili con le esigenze di celerità previste dal legislatore e nel rispetto del diritto di difesa costituzionalmente garantito”, è la premessa. Ma prima di affrontare le questioni più tecniche, bisogna saltare al punto 7 del documento, che spiega la misura più contestata, cioè quella che chiede all’avvocato del migrante di far sapere se il suo cliente ha malattie infettive e di produrre un certificato medico per scongiurare il rischio di contagio. “Si riferisce alle patologie trasmissibili per via aerea, in particolare alla Tbc, da cui sono risultati affetti numerosi ricorrenti - è scritto. Il Mycobacterium tuberculosis rimane sospeso in aria e viene trasportato dalle correnti anche a notevole distanza dal punto di emissione, rimanendo vitale a lungo nell’ambiente”. Dopo una piccola “bacchettata” ai difensori - “è accaduto spesso che la comunicazione (della malattia, ndr) sia stata effettuata solo all’udienza, senza alcuna certificazione di avvenuto superamento della fase contagiosa e quindi senza consentire al giudice di adottare le doverose misure” (un’aula defilata o un orario di minore afflusso) - spiegano poi che questi non avranno obblighi, perché nel testo si dice che devono comunicarlo “ove siano a conoscenza”. Magistratura democratica e gli avvocati che si occupano di immigrazione avevano lamentato una grave violazione della privacy. “Nel necessario bilanciamento tra le esigenze di salute pubblica e quelle della privacy la legge ha accordato la prevalenza alle esigenze di tutela della prima”, spiegano Farini e Chersevani. Ed elencano le norme e anche le linee guida per il controllo della tubercolosi nella Regione Veneto, che nel 2014 dicevano che “tra i soggetti ad alto rischio ci sono gli immigrati che provengono da Paesi ad alta endemia tubercolare”. “Il problema è quindi oggettivo e non frutto di pregiudizi o discriminazioni - è la chiosa finale - In ogni caso i ricorrenti affetti da Tbc sono stati sempre sentiti, in presenza dei necessari presupposti”. I presidenti spiegano poi che la prassi di far parlare il ricorrente senza interventi del difensore è conforme al codice: l’avvocato può essere presente, com’è ovvio, ma l’audizione deve essere condotta dal giudice “in modo ininterrotto, senza che il difensore possa intervenire con domande preventive o suggestive”. Mentre la “sanzione” per i legali “ritardatari” oltre i dieci minuti, che prevede una riduzione del tempo dell’audizione, è dovuta alla necessità di gestire tantissime udienze al giorno senza possibilità di rinvii, per non creare danni agli altri utenti della giustizia. Infine vengono difese le previsioni di una apposita lista di avvocati specializzati e un compenso massimo per i patrocini a spese dello Stato. La presidente della Corte d’appello Ines Marini non si esprime nel merito (“sono decisioni discrezionali del capo dell’ufficio”) ma pare in linea: “Le risposte siano state chiare, precise e basate sulle norme - dice - Il tentativo è quello di risolvere il problema di un contenzioso che drena molte risorse”. Quanto al problema sanitario, Marini non lo nasconde: “È un aspetto reale che merita attenzione - conclude - il rischio è non solo per i magistrati ma anche per il pubblico”. Migranti. Le coop: misura inutile. I poliziotti: e noi niente? di Renato Piva Corriere Veneto, 21 marzo 2018 “Credo sia difficile chiedere a particolari categorie cose diverse da quelle che si chiedono a tutti gli altri. Se si riuscirà ad ottenere certificazioni di buona salute per gli italiani, lo si farà anche per i richiedenti asilo”. Prima di tutto il principio: Roberto Tuninetti, dirigente di cooperative sociali ed esperto di migrazioni, ragiona sullo “scudo sanitario” sollevato dalla presidente della Corte d’Appello di Venezia, Manuela Farini. Nel merito, parla di “assurdo, per quanto la Costituzione sia - a suo parere - chiara” sul punto. L’esperienza di Tuninetti a contatto coi migranti, però, può servire ad altro. Prima questione: il giudice Farini chiede protezione (meglio, dà a sé e al proprio tribunale) da un pericolo reale? E quanto insidioso? “Sono trent’anni che l’informazione sanitaria ci dice che i migranti arrivano sani, e la Tbc la contraggono nei luoghi malsani in cui cadono” una volta finiti ai margini del viver civile. Così la pensa il manager padovano di coop, che aggiunge: “Tutti i migranti sono sottoposti a visita di controllo all’arrivo in Italia da parte dell’autorità pubblica. Nei periodi di caos (arrivi massicci, ndr) li si visita nei presidi degli hub di accoglienza per capire come stanno, visto che sono destinati a strutture d’ospitalità collettive”. Secondo aspetto: chi, prima dei giudici, arriva a contatto coi venuti da altri Paesi teme per la salute? Tuninetti, chiaramente, risponde per gli operatori di cooperativa d’accoglienza: “No, il timore se lo possono far venire solo i giudici del tribunale. Le uniche vere problematiche sono quelle che rileviamo per le donne, spesso violentate durante il viaggio verso l’Italia. Molte vengono massacrate e hanno bisogno di supporto psicologico”. Lettura opposta, in primis del filtro sanitario all’ingresso, da parte di Arcangelo Durante, segretario regionale del sindacato di polizia Coisp: “I magistrati si svegliano perché, tutto d’un tratto, hanno paura di contrarre qualche malattia? E prima? Quando questi (migranti e profughi, ndr) arrivano, dovrebbero essere visitati. In realtà gli fanno quattro domande: come stai? Hai la febbre? Hai nausea? Questi vogliono solo entrare e secondo lei cosa rispondono? Che stanno bene. Noi forze di polizia abbiamo avuto casi di scabbia e Tbc, perché siamo in prima linea, ma attenzione: in seconda linea ci sono tutti i cittadini. Qui si creano cittadini di super serie A (i giudici, ndr) e di serie B”. Dal Coisp al Siulp, altro sindacato di polizia, segretario regionale Silvano Filippi: “Mi pare un caso di eugenetica giudiziaria poco corrispondente all’ordine delle cose. Prima di arrivare in Appello queste persone si presentano alle commissioni territoriali, stanze di solito più piccole delle aule di giustizia. Ci sono passaggi in questura, in prefettura”. Niente certificati per contatti antecedenti e, se valesse la logica della pericolosità, con meno filtri medici? Questo il controsenso evidenziato da Filippi, che però aggiunge: “Il migrante che fa appello come richiedente asilo è gestito nel perimetro delle coop. È un ambiente protetto. Se, invece, arresto un profugo per spaccio ai bastioni di Verona, allora il protocollo non mi riguarda?”. Controsenso in cui non cadono gli infermieri: “L’unica cosa che può contagiare un giudice è qualcosa che si trasmette per via aerea (la Tbc, ndr) ma ha la stessa probabilità di contrarla da un avvocato o un funzionario”, dice Andrea Bottega, vicentino, segretario nazionale del Nursind, sindacato infermieristico. Infermieri che “curano tutti, non si tirano indietro con nessuno e, con le dovute attenzioni, si sentono di operare sicuri con tutti”. Francia. Fondi illegali da Gheddafi: arrestato Sarkozy di Valerio Sofia Il Dubbio, 21 marzo 2018 Sotto la lente dei giudici la campagna elettorale del 2007. Ieri mattina l’ex presidente francese Nicolas Sarkozy è stato fermato dalla polizia per essere interrogato a Nanterre presso Parigi in merito a finanziamenti illeciti ricevuti da parte della Libia di Gheddafi. Un gesto clamoroso che riguarda non solo la politica e le istituzioni francesi ed europee degli ultimi tempi, ma addirittura un pezzo importante della storia contemporanea, cioè la guerra in Libia del 2011. Sarkozy viene ascoltato dalla polizia dell’Ufficio centrale per la lotta alla corruzione e ai reati finanziari e fiscali. Il fermo dell’ex presidente può durare fino a 48 ore, dopodiché Sarkozy dovrà essere rilasciato o portato davanti al magistrato che potrebbe incriminarlo. I finanziamenti riguardano la campagna presidenziale del 2007, ed è la prima volta che Sarkozy viene ascoltato su questo tema da quando è stata aperta l’inchiesta nell’aprile 2013, dopo che nel maggio 2012 il sito Mediapart aveva pubblicato documenti libici che parlavano di finanziamenti del leader di Tripoli Muammar Gheddafi alla corsa all’Eliseo di Sarkozy. Un’accusa da lui sempre smentita. L’ultima novità nell’inchiesta riguarda l’arresto a gennaio all’aeroporto londinese di Heathrow del 58enne uomo d’affari francese Alexandre Djouhri per un mandato di arresto internazionale emesso dalla Francia: sarebbe stato lui a fare da tramite per il denaro con cui l’ex leader libico Muammar Gheddafi avrebbe finanziato la campagna elettorale di Sarkozy del 2007. In aprile ci sarà l’udienza per l’estradizione in Francia del fermato. In precedenza erano stati numerosi soggetti libici a parlare di questi soldi. Choukri Ghanem, ex ministro del petrolio di Tripoli morto nel 2012 in circostanze ancora dubbie, in un libro aveva menzionato l’esistenza di pagamenti di Gheddafi a Sarkozy. Affermazioni che confermavano quanto espresso il 20 settembre 2012 davanti al procuratore generale del Consiglio nazionale transitorio libico da Abdallah Senoussi, ex direttore dell’intelligence militare libica. L’intermediario Ziad Takieddine nel novembre 2016 (mentre in Francia erano in corso le primarie dei Repubblicani) aveva affermato di aver portato 5 milioni di euro in contanti da Tripoli a Parigi tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007, consegnandoli a Claude Gueant (ex segretario generale dell’Eliseo) e allo stesso Sarkozy, all’epoca ministro dell’Interno. Aveva già destato sospetti il versamento nel 2008 di circa 500mila euro sul conto di Gueant, che sarebbero partiti dal conto corrente di uno studio di avvocati della Malesia. Gueant è già stato indagato per falso, riciclaggio e frode fiscale. Bechir Saleh, il personaggio incaricato da Gheddafi di tenere i rapporti con la Francia ha a sua volta affermato: ‘ Gheddafi ha detto di aver finanziato Sarkozy, Sarkozy ha negato. Io credo più a Gheddafi che a Sarkozy’. Ora diversi ex dignitari libici dell’era Gheddafi avrebbero cominciato a collaborare all’inchiesta in maniera più attiva, portando nuove prove sui sospetti finanziamenti illeciti. Ieri nell’ambito dell’inchiesta è stato ascoltato anche l’ex ministro dell’Interno Brice Hortefeux, già braccio destro dell’ex presidente. Secondo l’accusa in questa complessa vicenda starebbe emergendo un “sistema Sarkozy “una rete di personalità francesi e libiche coinvolte direttamente e indirettamente nei finanziamenti. Un caso complesso che racchiude interessi politici, diplomatici ed economici, con numerose zone d’ombra. Il fatto è che si tratterebbe solo di una “normale” storia di finanziamenti illeciti o al massimo di tangenti, se non ci fosse di mezzo una guerra. Già sarebbe abbastanza pesante scoprire che un dittatore straniero abbia inciso sulla scelta del presidente francese (ovviamente creando dei rapporti che in teoria avrebbero condizionato le scelte future di politica estera di Parigi). Ma poi è arrivata la Primavera araba e quando essa ha raggiunto la Libia con l’insurrezione della Cirenaica contro il regime di Gheddafi la Francia di Sarkozy è stata il Paese che a livello internazionale ha spinto più d tutti per l’intervento militare occidentale a difesa dei ribelli. Si ricorderanno d’altro canto le reticenze italiane e persino il ruolo relativamente marginale degli Stati Uniti. Già da tempo c’è chi parla di “una guerra per coprire le tangenti”. Ora lo stabilirà la Procura. Francia. Sarkozy e il fantasma di Gheddafi di Bernardo Valli La Repubblica, 21 marzo 2018 I protagonisti della vicenda sono un dittatore morto ammazzato e un ex capo dello Stato scaduto a conferenziere, ma sempre sulla cresta della cronaca mondano-politica. Lui, Gheddafi, il fantasma, e Sarkozy, l’attore sopravvissuto, sono avvolti da un vortice di denaro. Una pioggia di milioni. È la storia di un illecito connubio tra i soldi del petrolio e la democrazia. I primi li elargiva il rais defunto, la seconda era rappresentata dall’ex presidente. Un abbraccio degradante, innaturale ma vantaggioso per entrambi. Gheddafi pagava la riabilitazione e gli onori annessi, Sarkozy otteneva il denaro necessario alla sua campagna elettorale. La giustizia, partendo da una coraggiosa inchiesta giornalistica di Mediapart, un sito di informazione specializzato in inchieste politiche e giudiziarie, sta conducendo da cinque anni indagini su questo accoppiamento che raggiunge i vertici della corruzione. Non tanto per le somme in gioco, quanto per la sua natura. Ed è avendo acquisito indizi importanti - i denari in contanti e in nero distribuiti ai collaboratori di Sarkozy durante la campagna elettorale - che ha deciso di dichiarare in stato di fermo l’ex presidente, e di interrogarlo sulle origini di quel denaro, al fine di decidere se mandarlo davanti a un tribunale. Lui nega tutto. Nega di essere al corrente di quanto accadde nei mesi che precedettero il suo ingresso all’Eliseo. Lui era impegnato a conquistare la massima carica dello Stato. Non si occupava della sussistenza. Nel caso di un rinvio a giudizio le imputazioni sarebbero le più gravi, in campo politico finanziario, formulate durante la Quinta Repubblica, che compie sessant’anni. Alcuni dicono che dai tempi del maresciallo Pétain, che tradì la Francia collaborando con l’invasore nazista, non accade nulla del genere. C’è un po’ di esagerazione in questo paragone storico, ma la notizia del fermo, e forse del processo, di un ex presidente della Repubblica accende le fantasie. Tutto comincia quando Muhammar Gheddafi, a lungo considerato ispiratore del terrorismo anti-occidentale, diventa uno degli uomini più adulati da chi voleva distruggere ma che è attirato dai suoi petrodollari. Abdallah Senoussi, capo dei servizi segreti interni libici, era stato condannato nel 1999 dalla giustizia francese all’ergastolo come il principale organizzatore dell’attentato contro l’aereo di linea, un Dc-10 dell’Uta (170 morti, dei quali 54 francesi nel 1989), eppure egli è ricomparso molto presto come intermediario tra Parigi e Tripoli. Collaborerà ai rapporti che culmineranno con la visita di Gheddafi sulle rive della Senna. Dove monta la sua tenda beduina, come ha fatto del resto a Roma, dove Silvio Berlusconi, pure lui affascinato dai petrodollari, arriverà a organizzare in suo onore qualcosa di simile a un concorso di bellezza. Una lotteria di ragazze. A stabilire il commercio canagliesco tra Tripoli e le capitali europee, naturale all’epoca in cui pochi resistono al fascino dei petrodollari e dei rais che li posseggono ed elargiscono, è il franco-libanese, Ziad Takieddine. È lui, grande mediatore, che mette in contatto Parigi e Tripoli. E sarà poi sempre lui, Takieddine, a raccontare davanti alle telecamere delle valigie gonfie di denaro che partivano dalla Libia dirette sulle rive della Senna. Ma le sue non erano denunce dettate dal pentimento, né dal desiderio di collaborare con la giustizia. Lo animava la voglia di vendetta per gli sgarbi subiti. E non fu creduto. Le sue testimonianze richiedevano conferme. Si è cercato invano per anni un collegamento tra il traffico di denaro e il finanziamento della campagna elettorale di Sarkozy. Fino al momento in cui il personale che vi aveva lavorato ha cominciato a dichiarare di avere ricevuto denaro in contanti, che non risultava nelle contabilità ufficiali. Ma Nicolas Sarkozy ha continuato a negare tutto. Lui non si interessava ai particolari. I giudici vogliono trasformare gli indizi in prove. La guerra civile, all’inizio tra la Tripolitania e la Cirenaica, è iniziata dopo la rottura tra la Francia di Sarkozy e la Libia di Gheddafi. Sarkozy, colto all’improvviso da scrupoli umanitari e democratici, mise la sua aviazione al servizio dei ribelli della Cirenaica. Al suo fianco gli inglesi. Vista a distanza la decisione del presidente francese appare come un tentativo non solo di appoggiare i ribelli in lotta contro il dittatore, ma anche come l’intenzione di eliminarlo, in quanto suo finanziatore, quindi imbarazzante per il presidente di un Paese democratico come la Francia. Ero a Bengasi la sera del primo bombardamento anglo-francese. I carri armati di Gheddafi avanzavano appoggiati dall’aviazione e gli abitanti di Bengasi lasciarono in massa la città, convinti che i soldati arrivati dalla Tripolitania li avrebbero puniti per essersi ribellati al rais. Per sfuggire alla temuta repressione si rifugiarono nel deserto. Io con loro. Soltanto la mattina seguente scoprimmo che i carri armati di Gheddafi erano stati distrutti dall’aviazione anglo-francese proprio alle porte della città. Gheddafi si rifugiò a Sirte, ed è fuggendo da quella città che fu raggiunto dagli aerei francesi. Qualcuno, a terra, l’ha ucciso. Così non ha potuto testimoniare. L’Onu alla Turchia: basta stato d’emergenza di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 21 marzo 2018 L’Onu chiede alla Turchia di chiudere lo stato d’emergenza che va avanti senza interruzioni dal tentato golpe del 15 luglio 2016. In un comunicato le Nazioni Unite parlano di “profonde violazioni dei diritti umani contro centinaia di migliaia di persone”. “I numeri sono sconcertanti: quasi 160.000 persone arrestate in 18 mesi di stato di emergenza, 152.000 impiegati statali licenziati, molti in modo totalmente arbitrario”, ha affermato l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Zeid Ra’ad Al Hussein. L’occasione è la presentazione oggi a Ginevra di un rapporto sull’impatto dello stato d’emergenza in Turchia. “Insegnanti, giudici e avvocati sono stati licenziati o perseguiti; giornalisti sono stati arrestati, media e siti Web bloccati. È chiaro che i successivi stati di emergenza dichiarati in Turchia sono stati usati per limitare severamente e arbitrariamente i diritti umani di un numero molto elevato di persone”, ha aggiunto l’Alto commissario. Il rapporto è stato redatto sulla base di interviste con 104 persone colpite dalle misure delle autorità e copre il periodo tra l’1 gennaio e il 31 dicembre 2017. Benché l’Ufficio per i diritti umani dell’Onu riconosca le complesse sfide che la Turchia ha affrontato dopo il tentativo di colpo di Stato del 15 luglio 2016 e una serie di attacchi terroristici, il rapporto ritiene che molti elementi sembrano indicare un uso dello stato di emergenza “per soffocare qualsiasi forma di critica o di dissenso nei confronti del governo”. Le autorità turche avrebbero anche detenuto circa 100 donne in stato di gravidanza o puerpere accusandole di essere complici dei mariti, a loro volta sospettati di essere collegati a organizzazioni terroristiche. Alcune sono state detenute con i loro figli e altre violentemente separate da loro. “Questo è semplicemente oltraggioso, assolutamente crudele, e sicuramente non può avere nulla a che fare con il fatto di rendere il Paese più sicuro”, ha osservato Zeid. Immediata la reazione della Turchia cha ha giudicato il rapporto “parziale” e “inaccettabile”. Il testo Onu, ha dichiarato il ministero degli Esteri in una nota, “contiene informazioni deformate, distorte e false”. Turchia. Prigione di Imrali e giornalisti in cella: doppia condanna della Ue ad Ankara di Dimitri Bettoni Il Manifesto, 21 marzo 2018 Nel mirino della Corte Europea per i diritti dell’uomo i casi dei reporter Altan e Alpay: violato il giusto processo. Rapporto del Cpt del Consiglio d’Europa: i quattro detenuti nell’isola, tra cui Ocalan, isolati dal resto del mondo. La Corte europea per i diritti dell’uomo (Cedu) ha condannato ieri la Turchia per aver violato i diritti di giusto processo, sicurezza e libertà di espressione nei giornalisti Mehmet Altan e Sahin Alpay. Erano stati arrestati nella prima ondata di repressione seguita al tentato golpe del 2016. Altan è in carcere con una condanna all’ergastolo comminata lo scorso 16 febbraio, sebbene una sentenza della Corte costituzionale turca ne avesse chiesto la scarcerazione l’11 gennaio, decisione rigettata dalle corti penali inferiori che avevano così innescato una crisi giudiziaria senza precedenti. Sahin Alpay è invece stato rilasciato pochi giorni fa in un tentativo in extremis di evitare la decisione dell’organismo europeo, dopo 20 mesi di carcere preventivo e solo in seguito a due sentenze della Corte costituzionale. La Cedu ha quindi, per la prima volta, espresso il dubbio che la Corte costituzionale turca possa ancora essere considerata un rimedio legale efficace nel paese, riservandosi di esaminare da vicino il lavoro della Corte e il rispetto delle sue decisioni. La parlamentare europea Rebecca Harms, che da tempo segue i casi giudiziari turchi, ha dichiarato: “La normalizzazione delle relazioni tra Turchia ed Unione Europea può avvenire solo con il ritorno della Turchia allo stato di diritto e alla protezione dei diritti umani. L’implementazione della sentenza della Cedu sarebbe un primo passo nella giusta direzione”. Un’ulteriore condanna a carico della Turchia è giunta da un’altra istituzione, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (Cpt) del Consiglio d’Europa, che ha inviato una delegazione in visita al carcere di massima sicurezza di Imrali, dove sono detenuti il leader del Pkk Abdullah Ocalan e altri tre prigionieri. Se da un lato il Cpt riconosce il miglioramento delle condizioni materiali di detenzione e dei servizi sanitari ricevuti dai condannati, ha anche condannato duramente le autorità turche per quanto riguarda i contatti con l’esterno. Nessuno dei prigionieri ha potuto vedere un avvocato negli ultimi 5 anni, né i propri parenti negli ultimi 18 mesi (ma le autorità turche sostengono che Ocalan abbia ricevuto una visita del fratello nel 2016). Sono tenuti in isolamento per 159 ore su 168 settimanali, mentre la direzione carceraria ha disposto un divieto totale di telefonare e anche la corrispondenza scritta è limitata e censurata. Il Cpt dichiara non esserci stato “alcun progresso rispetto alle raccomandazioni del 2013”, anno della precedente ispezione dell’organismo, e di non accettare le giustificazione di causa di forza maggiore (avaria dei natanti che conducono all’isola, cattive condizioni climatiche) che le autorità carcerarie hanno addotto per giustificare l’isolamento dei detenuti dal mondo esterno. Nell’ottica del Cpt “non ci sono legittime considerazioni di sicurezza che giustifichino l’imposizione di simili restrizioni” e ha chiesto al governo di intervenire anche “emendando le leggi” pertinenti. Leggendo la risposta del governo, l’invito non pare essere stato recepito. Le autorità considerano le prigioni turche “rispettose della piena dignità umana” e perciò “non è attualmente prevedibile alcuna alterazione del regime carcerario”. A questo punto la palla torna al Consiglio d’Europa, che deve trovare il modo di imporre il rispetto dei diritti fondamentali che spettano a qualunque carcerato e delle convenzioni che la Turchia stessa ha sottoscritto. Siria. “I civili di Afrin costretti a scegliere: carcere o l’uniforme degli occupanti” di Chiara Cruciati Il Manifesto, 21 marzo 2018 I racconti dal cantone curdo-siriano: l’opposizione ad Assad sta creando istituzioni parallele per giustificare l’occupazione. Decine di morti a Ghouta: raid governativi su una scuola, dicono attivisti locali; missili jihadisti su un mercato, ribatte Damasco. E torna l’Isis. Afrin è distrutta, le macerie dei palazzi sventrati occupano il cantone curdo-siriano. E ora incendi mangiano le strutture ancora in piedi, appiccati dopo i saccheggi dai miliziani dell’Esercito Libero Siriano (Els). Ieri il ministro degli Esteri turco Cavusoglu lanciava promesse: “Non glielo permetteremo”, ha detto a saccheggi ormai perpetrati. E da Afrin parla l’Els che annuncia all’agenzia turca Anadolu la creazione di un “Congresso della liberazione”, una sorta di parlamento locale composto da 30 membri dell’opposizione che gestisca ricostruzione, rientro degli sfollati e passaggio dell’amministrazione a funzionari locali. Eppure gli amministratori locali sono stati cacciati, la loro sede occupata dalle bandiere della Turchia e dell’Els. Sarà formato, aggiunge l’intervistato Hasan Sindi, anche un corpo di polizia con il compito “accessorio” di “eliminare completamente le Ypg”. “L’esercito turco e l’Els - dice al manifesto l’Information Center di Afrin - hanno portato dei collaboratori, arabi e curdi, ad Afrin per dare vita a false istituzioni che legittimino l’occupazione”. Per chi non collabora l’unica opzione pare essere la prigione: con ogni via di uscita ormai chiusa, i residenti rimasti - qualche migliaio - devono scegliere tra carcere e uniforme dell’Els. “Stiamo ricevendo informazioni su gruppi di persone arrestate nel centro della città e nei villaggi vicini - aggiunge l’Information Center - Almeno 300 sono prigionieri in una scuola. E si riporta di sparizioni di persone denunciate per sostegno alle Ypg”. Fuori dalla città, intanto, centinaia di migliaia di sfollati hanno raggiunto aree sotto il controllo governativo o delle unità di difesa Ypg/Ypj. Come Tal Rifat, divisa a metà tra le due forze: ieri la Mezzaluna è arrivata con la Croce Rossa per consegnare indispensabili aiuti umanitari a circa 25mila famiglia, 14 camion con 25 tonnellate tra coperte, cibo, acqua. E mentre il presidente Erdogan difende l’operazione spacciandola per protezione dei confini della Nato e i locali (riporta Agenzia Nova) denunciano la presenza di carri armati tedeschi Leonard nella città occupata, 400 km a sud si consuma un altro dramma. Dopo la fuga di 45mila civili, ieri l’Onu ha chiesto accesso immediato a Ghouta est dove ne restano intrappolati almeno 200mila. Per ora gli aiuti sono stati portati agli sfollati che, dice l’Unhcr, arrivano “esausti, affamati, assetati, malati, senza effetti personali”: i centri di assistenza sono affollati, con neonati da registrare e persone senza documenti da identificare. Ma raggiungere il centro dell’enclave è quasi impossibile per gli scontri ininterrotti. Dal cielo, con i raid governativi, e da terra con i missili delle opposizioni jihadiste. Ieri attivisti locali hanno denunciato la distruzione da parte governativa di una scuola nella cittadina di Arbin, usata come rifugio. Sedici morti, di cui molti bambini, che si aggiungono a 16 vittime all’alba e 35 nel pomeriggio: missili jihadisti hanno centrato un mercato, tra i morti donne e bambini. Le violenze si intensificano: Jaysh al-Islam, gruppo salafita leader nella Ghouta, ha lanciato una controffensiva lunedì smentendo così le voci di un concreto negoziato in corso, mentre l’esercito di Damasco avanza e riprende l’80% del sobborgo. Il presidente Assad (ripreso domenica mentre guidava dentro Ghouta a dimostrare la presunta sicurezza della zona e dimenticando i civili intrappolati) vuole una resa completa, le opposizioni puntano all’evacuazione. E come accaduto in questi anni, nel caos si infila l’Isis, dato per morto ma ancora presente in sacche di territorio siriano. A partire dal dimenticato campo profughi di Yarmouk, tuttora occupato, e da cui i miliziani del “califfo” si sono allargati a zone vicine: nelle ultime 24 ore l’Isis ha ucciso 36 soldati siriani e occupato il distretto di al-Qadam, sud della capitale, dopo l’uscita dei qaedisti di al-Nusra a seguito di un accordo con il governo. Un’altra controffensiva, dunque, che preoccupa e riaccende l’attenzione sul campo palestinese: dentro restano 4.500 civili sui 150-180mila di prima della guerra. Tutti fuggiti, chi resta è ridotto letteralmente alla fame. Giappone. Gli anziani che si fanno arrestare perché si sentono soli di Filippo Santelli La Repubblica, 21 marzo 2018 La carcerazione volontaria nel Paese sta crescendo, al punto da preoccupare anche il governo. Nella nazione più vecchia del mondo, un detenuto su cinque ha più di 65 anni e le carceri faticano a ospitarli. “Mi piace di più la vita in prigione. Ci sono sempre delle persone intorno”, dice una signora 80enne. “Quando sono uscita la seconda volta mi sono promessa di non cascarci più. Ma poi là fuori sentivo troppa nostalgia”. Così N. è entrata in un negozio e lo ha fatto di nuovo. Ha rubato un ventaglio, il terzo taccheggio della sua vita, una recidiva che le è costata una condanna a tre anni. Costata, o forse valsa: “Mi piace di più la vita in prigione. Ci sono sempre delle persone intorno, non mi sento sola qui”, racconta a Bloomberg questa signora 80enne. Già, anche con un marito, due figli e sei nipoti, in Giappone gli anziani possono sentirsi tremendamente soli. Specie le donne, spesso recluse in casa da una società tra le più maschiliste al mondo. Per questo per molte di loro la prigione è una necessità, se non addirittura una scelta. La carcerazione volontaria nel Paese sta crescendo, al punto da preoccupare anche il governo. Nella nazione più vecchia del mondo, un detenuto su cinque ha più di 65 anni. E per molti di loro, nove su dieci nel caso delle donne, i reati sono minori, soprattutto piccoli furtarelli nei negozi. “Mio marito è morto lo scorso anno”, racconta una detenuta. “Non avevamo figli ed ero sola. Ho visto un pacco di carne al supermercato e lo volevo, ma pensavo che sarebbe stato un fardello economico. Così l’ho preso”. Il risultato è che le carceri ora faticano a ospitare tanti anziani. Il costo delle spese mediche nei penitenziari è salito dell’80% negli ultimi dieci anni. Di giorno molti detenuti senior ricevono assistenza da parte di personale specializzato, ma di notte sono i secondini che devono occuparsi di tutto. Il governo ora assicura ai recidivi dai capelli bianchi una forma di assistenza pubblica. E indagando sul fenomeno, ha scoperto che il 40% di loro viveva da solo prima di commettere un reato. Una condizione sempre più frequente in Giappone, dove il tradizionale welfare familiare si sta velocemente sgretolando e quello statale fatica a tenere il passo. Provocando sofferenze economiche, ma anche sentimentali. “Mio marito ha avuto un ictus sei anni fa, e da quel momento è paralizzato a letto”, racconta a Bloomberg T., 80 anni e due figli, ora alla quarta condanna tutte per furtarelli. “Era durissima prendersi cura di lui, non potevo parlarne con nessuno perché me ne vergognavo. Quando ho rubato avevo soldi in tasca, ma non volevo tornare a casa e chiedere aiuto in prigione era l’unico modo”. In questa reclusione pubblica questi anziani ritrovano, con le compagne di cella ma anche con il personale delle prigioni, delle relazioni umane che nella reclusione domestica avevano perso. “Non posso dire quanto mi piaccia lavorare nel laboratorio della prigione”, racconta N., 79 anni. “L’altro giorno mi hanno fatto i complimenti per la mia efficienza e ho capito la gioia del lavoro. Mi dispiace di non aver mai lavorato. La mia vita sarebbe stata differente”.