Riforma penitenziaria, perché non sarà una svuota-carceri. Con buona pace della Lega di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 20 marzo 2018 La riforma penitenziaria, che nello scorso Consiglio dei ministri ha fatto un ulteriore importante passo avanti, sarebbe uno svuota-carceri per le solite retoriche della paura di massa sempre incapaci di leggere la realtà attraverso dati effettivi, quelle leghiste in testa. Eppure quella riforma, per chiunque l’abbia letta, non svuoterà proprio nulla e si limiterà a fare piccoli passi verso un modello di pena più in linea con il dettato costituzionale. Bisogna invece costruire nuove carceri, è il mantra di Matteo Salvini e di tutti coloro che lo hanno preceduto ai vertici del suo partito e delle sue alleanze. Nuove carceri per metterci dentro nuove persone, le quali oggi se ne starebbero libere. È questa davvero un’esigenza dell’Italia? Decidere così, a tavolino, che una quota della gente che oggi è immersa nel normale contesto sociale è invece bene che se ne vada in galera? E su quale base? Aspirare a che il tasso di detenzione di Paesi europei quali il nostro divenga incontrollabile come quello statunitense appare folle da molti punti di vista, mentre ridurre l’ambito delle misure extracarcerarie a favore della detenzione lo è quantomeno da quello della recidiva, che il carcere aumenta rispetto alle misure alternative. La storia ci insegna, e tutti gli organismi internazionali sono concordi nel ricordarcelo, che la costruzione di nuove carceri non ha mai contribuito a risolvere il problema della sicurezza. Forse, dunque, costruire nuove carceri potrebbe non essere la priorità per i cittadini. Perché, si badi bene, nuove carceri e nuove detenzioni costano assai. E le paghiamo con le nostre tasche. Quindi, prima di innamorarci del progetto, assicuriamoci che sia davvero pensato per noi e non per qualcun altro che possa guadagnarci privatamente, come già accaduto in passato. Mi riferisco all’epoca delle carceri d’oro? Certo. Ma non solo. Quando, all’inizio del millennio, il Ministero della Giustizia era governato dalla Lega, l’allora ministro Roberto Castelli cantò a gran voce il solito refrain: vanno costruite nuove prigioni. Lancia in resta, annunciò un corposo piano di edilizia penitenziaria. A capo del governo c’era Silvio Berlusconi. Nel luglio del 2003 Castelli presentò pubblicamente una sua creazione che doveva servire allo scopo: la società Dike Aedifica s.p.a. Anche questa, naturalmente costituita con i soldi delle nostre tasche. Era questa società che, nei piani del ministro leghista, doveva costruire l’impero di mattoni per rinchiudere quelle troppe persone ancora, a suo parere, ingiustamente libere. Il piano di edilizia avrebbe fatto paura a qualsiasi bravo padre di famiglia. Per costruire un nuovo carcere a Varese stanziava 43 milioni di euro, per costruirne uno a Pordenone stanziava 32 milioni, per ristrutturazioni e ampliamenti altre cifre non indifferenti. Ma, state tranquilli, nulla di tutto questo avvenne. I soldi pubblici della Dike Aedifica finirono distribuiti tra i vari amministratori che costituivano la struttura e non fu posato mai neanche un mattone. La Dike Aedifica era una società fantasma. Nel 2006 il consiglio di amministrazione si era riunito un’unica volta. Lungo la sua breve vita, i vari collaboratori hanno intascato, per non fare niente, 1.094.435 euro, pari all’87% delle perdite complessive della s.p.a. La Corte dei Conti non rimase indifferente all’operazione e agli sprechi. La società fu liquidata nel giugno del 2007 (e perfino liquidarla costò 30.000 euro di compenso al liquidatore). Nel 2010 fu Silvio Berlusconi a riproporre un faraonico piano carceri. Anche qui, costi stratosferici sulle nostre spalle, nella speranza di farci credere che fosse una nostra sentitissima esigenza quella di mandare più gente in prigione. Anche qui, fortunatamente, nulla di fatto. Quindi, ricapitolando: vogliamo convincerci che le misure alternative al carcere - che costano tanto ma tanto di meno e che pagano tanto ma tanto di più in termini di abbattimento della recidiva e dunque di sicurezza per i cittadini - sono quelle che convengono a noi, mentre i vari piani di edilizia penitenziaria convengono solo ai costruttori e ai traffichini? E vogliamo convincerci che, quando la Lega scrive nel suo programma elettorale che serve la “completa e piena attuazione di un piano straordinario per le carceri con investimenti straordinari sull’edilizia penitenziaria (sia nuove strutture che ampliamento padiglioni esistenti)”, si tratta di un dejà vu finito talmente male che il medesimo partito di allora dovrebbe avere un minimo di pudore nel riproporlo? *Coordinatrice associazione Antigone Cosa cambia con la riforma dell’ordinamento penitenziario di Maria Rosaria Mandiello Il Denaro, 20 marzo 2018 Più misure alternative al carcere esclusi i reati più gravi. Questo il cardine della riforma dell’ordinamento penitenziario, approvata in Consiglio dei Ministri. Il sovraffollamento è il senso delle nuove misure, aumenta il rischio che la pena non sia rieducativa, da qui il potenziamento della rieducazione come del reinserimento sociale. Stabilite poi maggiori tutele per i diritti dei detenuti in termini di salute, identità di genere, incolumità personale, oltre ad una nuova disciplina per i colloqui con i familiari e per l’uso delle tecnologie informatiche all’interno del carcere. Il testo dovrà ora tornare alle Commissioni parlamentari per l’ultimo vaglio, ma, intanto non è esente dalla polemica politica. All’attacco il centro destra: da Fratelli d’Italia, alla Lega, che promettono battaglia. “Non è un salva ladri, né uno svuota carceri” ha precisato il guardasigilli Orlando, che ha spiegato che si dovrà valutare il comportamento del detenuto e ammetterlo a misure alternative al carcere, che prevedono percorsi di lavoro e di servizio sociale, che gli consentono di restituire qualcosa di quello che ha tolto alla società e di non essere recidivo. Misure che mirano ad abbattere il muro delle recidive, che resta il più alto in Europa, seppur in Italia si spende quasi 3 miliardi l’anno per il trattamento dei detenuti, così come confermato da Orlando. L’obiettivo principale della riforma è rendere attuale l’ordinamento penitenziario previsto dalla legge di riforma penitenziaria 354/1975, per adeguarlo ai successivi orientamenti della giurisprudenza della Corte Costituzionale, Corte di Cassazione e delle Corti europee. Quindi con soluzioni che non indeboliscano la sicurezza della collettività, infatti, non si estende la possibilità ai detenuti in regime di 41bis per reati di mafia e per i reati di terrorismo, ma si riporti al centro del sistema la finalità rieducativa della pena indicata anche dall’articolo 27 della Costituzione, ma anche facilitare la gestione del settore penitenziario e a diminuire il sovraffollamento. Un passo legislativo sui temi delicati come la salute psichica, l’accesso alle misure alternative, la vita interna alle carceri, i rapporti con l’esterno ed il sistema disciplinare. Carceri e condizioni disumane, da anni il dibattito infuoca il mondo politico e si pone al centro dell’attenzione. Dopo una flessione nel numero dei detenuti seguita dalla sentenza Torreggiani, con la quale la Corte europea dei diritti umani condannò l’Italia per trattamenti inumani e degradanti, negli ultimi tre anni si è assistito ad un aumento costante delle presenze in carcere. La riforma dell’ordinamento penitenziario, dovrebbe dare l’opportunità di tornare a far calare gli attuali numeri con ripercussioni positive sulla vita in carcere. Le questioni attualmente aperte, che riguardano le carceri italiane, che proprio a causa del sovraffollamento, non riescono a trovare soluzioni. Tra questi ad esempio la necessità di ampie ristrutturazioni degli istituti. In più della metà delle strutture ci sono celle senza doccia ed in molte celle manca l’ acqua calda, in violazione di quanto prevede la legge. Sovraffollamento e aumento dei suicidi si presentano così, oggi, gli istituti di pena italiani, destinati ad accogliere soggetti che trasgredendo le prescrizioni di legge, sono sanzionati con la pena. Condizioni disumane e poche opportunità di recupero, così come è nell’intento della riforma del 1975: la pena deve avere caratteri di rieducazione e reinserimento educativo e sociale. Una realtà, quella del sistema penitenziario rinnegata ed oscura per troppi anni, sino ad oggi, in questo colpo di coda del governo, che propone misure alternative che reinseriscano nella società con dignità e rispetto del detenuto e della comunità stessa, restando fermo nell’intento che spetta al magistrato di sorveglianza, così come detta anche il diritto penitenziario, ogni decisione in merito, valutando ogni singolo caso. La proposta di modifica dell’ordinamento penitenziario dalla sua ha un’apertura umana, dignitosa, ma restano ancora diritti come i minori e la sessualità da affrontare. L’auspicio è che la grossa maggioranza, fresca di vincitori, guardi anche al sistema carcerario, perché ci sono luoghi come le celle, dai quali ci si aspetta il loro regno con l’orecchio al suolo e le braccia intorno alla testa, cercando di emergere da quel braccio carcerario che oggi li tieni lì. Riforma dell’ordinamento penitenziario: in cosa consiste di Maurizio Tortorella Panorama, 20 marzo 2018 Si ampliano le possibilità di accedere a misure alternative al carcere per i detenuti. I timori e i dubbi. Il Consiglio dei ministri ha approvato la riforma dell’ordinamento penitenziario che allargherà la possibilità di accedere alla misure alternative al carcere per i detenuti. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha spiegato che il testo ora dovrà tornare alle commissioni parlamentari per l’ultimo vaglio, visto che sono state apportate alcune modifiche, ma non sostanziali. “Questo non è un provvedimento salva-ladri, uno svuota-carceri” assicura Orlando. “E da domani non ci sarà nessun ladro in più in giro”. Cosa prevede - Il testo prevede l’estensione delle misure alternative, una maggiore tutela del diritto all’assistenza sanitaria dei detenuti, con l’equiparazione tra infermità fisica e psichica. È prevista anche un’apertura alla messaggistica e all’utilizzo di internet per i colloqui tra detenuti e familiari. “Non ci sarà nessun automatismo” assicurano dal ministero, che esclude con forza l’ipotesi che il provvedimento possa garantire l’accesso ai benefici per i detenuti in regime di 41bis e per i boss mafiosi reclusi. Ma anche per gli altri detenuti sarà comunque sempre un giudice a valutare la possibilità di concedere misure alternative al carcere, e questo sarà possibile solo per detenuti con un residuo di pena inferiore ai quattro anni. Le reazioni - Pareri contrastanti sulla riforma sono arrivati da magistrati. E dubbi esprimono i sindacati degli agenti, come la Uil-Pa, che teme si alterino gli equilibri del mondo carcerario e chiede al governo un rinvio in attesa di un intervento più complessivo, anche a tutela della polizia penitenziaria. Ecco la riforma del carcere, spiegata a Travaglio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 marzo 2018 Il ruolo del Giudice di Sorveglianza diventa fondamentale. È stata battezzata “svuota-carceri”: in realtà la riforma dell’ordinamento penitenziario non fa uscire automaticamente nessuno, a piede libero, dalle patrie galere. C’è chi parla di favori a mafiosi e terroristi, ma le modifiche apportate ad alcuni articoli non toccano minimamente le due tipologie criminali: i reati in questione, infatti, restano “ostativi”, ovvero esclusi dalla possibilità di accedere a pene alternative. In un editoriale del Fatto, a firma di Marco Travaglio, viene giudicata negativamente la previsione, inserita nella riforma, di portare da 3 a 4 anni il limite di pena entro il quale è possibile ottenere l’affidamento in prova. Però sempre nello stesso editoriale, Travaglio ricorda come la Consulta si fosse pronunciata nello stesso senso. Quindi - forse inconsapevolmente - lo stesso direttore del Fatto riconosce che la riforma si è adeguata all’evoluzione normativa. Ergo, si tratta di un aggiornamento necessario. Ma l’affidamento ai servizi sociali corrisponde alla mancata applicazione di una sentenza di condanna? Le persone saranno a piede libero? No, parliamo di una delle tante forme di esecuzione penale che non prevedono necessariamente il carcere: a decidere caso per caso sarà sempre il magistrato di sorveglianza. La riforma, però, non solo implementa questa misura alternativa, ma stabilisce che il condannato deve responsabilizzarsi. Altro che riforma morbida nei confronti di chi ha commesso un reato. All’atto dell’affidamento ci sarà un piano di trattamento individuale in cui entrano in gioco i rapporti con l’Uepe (Uffici per l’esecuzione penale esterna) e con altri soggetti pubblici o privati con finalità di cure e sostegno. Chi ha commesso il delitto (ricordiamo per reati di massimo 4 anni, quindi non parliamo di persone pericolose socialmente) dovrà assumersi specifici impegni per attenuare le conseguenze del reato e, cosa molto importante, adoperarsi anche a favore della vittima. Poi Travaglio fa un po’ di confusione, forse dovuta alla scarsa conoscenza dell’ordinamento, quando testualmente scrive: “Chiunque sia condannato a meno di 4 anni resta libero e fa domanda per i domiciliari (o, sotto i 2, per i servizi sociali)”. La riforma ha semplicemente parificato i soggetti liberi con quelli detenuti prevedendo che l’articolo 656, comma quinto, del codice di procedura penale introducesse una soglia più alta, in modo da poter presentare l’istanza di affidamento in prova ai servizi sociali fino a 4 anni. Peraltro il limite dei 2 anni che il direttore cita nell’editoriale è per l’istanza di accesso alla detenzione domiciliare, non per l’affidamento. “Si sbandierano statistiche sui tassi di recidiva di nessun valore scientifico - scrive sempre Travaglio -, per dimostrare che chi sconta la pena in carcere torna a delinquere più spesso di chi sta a casa o ai servizi sociali”. In realtà esistono due studi ben precisi sulla recidiva e l’effettività dell’affidamento in prova. Sono studi statistici che hanno ovviamente un valore scientifico, visto che hanno lo scopo - attraverso dati reali e non meramente “percepiti” - di descrivere e comprendere il fenomeno della carcerizzazione. Il primo risale al 2007 venne elaborato dall’Osservatorio delle misure alternative del Dipartimento dell’amministrazione della polizia penitenziaria. Segnala che nel 1998 furono scarcerate 5.772 persone e che 3.951 di queste si trovavano di nuovo dentro nel 2005: quasi il 70 per cento era tornato a delinquere. Sempre dai dati elaborati dal ministero emerge che la percentuale dei recidivi scende invece al 19 per cento se il rilevamento si restringe a chi è stato destinatario di misure alternative. A quest’ultimo dato va associato un altro rilevamento secondo il quale, a ogni punto percentuale in meno di recidivi, corrisponde un risparmio di circa 51 milioni di euro all’anno. Cosa significa? Assegnando un detenuto a una pena alternativa, non solo c’è più sicurezza, ma si ottiene anche un notevole risparmio per i contribuenti. Il secondo riscontro statistico, con un approccio scientifico ancora più rigoroso, viene da un lavoro elaborato nel 2012 e condotto dall’Einaudi Institute for Economics Finance (Eief), dal Crime Research Economic Group (Creg) e dal Sole 24Ore: anche in questo caso viene dimostrato come la recidiva si abbassi notevolmente quando i detenuti possono accedere alle misure alternative e al lavoro. Travaglio scrive che per combattere la recidiva ci vorrebbero più carceri, magari dignitose, e meno alternative fuori le mura. Sostenere la tesi contraria non equivale a farsi alfieri di quella che il direttore del Fatto definisce “pseudo cultura della sinistra”. I dati contano più delle opinioni: come ha rilevato il Consiglio d’Europa, lì dove sono stati costruiti nuovi penitenziari si è spesso registrato un incremento della popolazione carceraria, senza alcun vantaggio in termini di sicurezza sociale. Non è una questione ideologica, ma puramente scientifica. Travaglio, ancora, cita la modifica del 4bis, scrivendo che le Procure antimafia non potranno più trasmettere ai Tribunali di Sorveglianza le notizie relative ai legami con i clan dei detenuti aspiranti ai benefici. Non è esattamente così. Nella riforma c’è una novità che può tranquillizzarlo: è previsto il parere del Procuratore della Repubblica competente per distretto di pronuncia della sentenza. Chi meglio di lui conosce la mafia che agisce nel territorio di competenza? Per quanto riguarda lo scioglimento del cumulo di pena, anche in questo caso il direttore del Fatto può rasserenarsi. Il 41 bis è rimasto fuori della riforma e non viene modificato. Pertanto non sarà possibile uno scioglimento del cumulo che escluda l’applicazione del regime duro: lo vieta l’inequivoca formulazione dell’articolo 41 bis comma 2, che blinda la possibilità, per il detenuto in 41 bis, di trarre vantaggio dallo scioglimento del cumulo, con una legge non derogabile. Sulla riforma dell’ordinamento penitenziario, come per tutto ciò che riguarda il nostro Paese, sarebbe opportuno dividere i fatti dalle legittime opinioni. Caro Travaglio, io esponente di destra dico: nella vita non esiste solo la galera... di Renata Polverini Il Dubbio, 20 marzo 2018 Con un ardito sillogismo a scoppio ritardato Marco Travaglio - su Il Fatto di domenica - stravolge il senso e gli “effetti” (assai improbabili) della riforma carceraria, per attribuire la sconfitta (?) del centrodestra nelle urne ai presunti effetti “svuota carceri” (sic!) del decreto appena varato dal governo. Basterebbe leggere l’appello a Gentiloni affinché varasse il provvedimento - predisposto dal Parlamento dopo cinque anni di lavoro - sottoscritto da eminenti giuristi, magistrati, avvocati, addetti ai lavori, per capire che le tragicomiche affermazioni del giornalista sono completamente destituite di fondamento. Nella modalità “Gennaro di Sapio”, indimenticabile Commissario di Polizia della “QdN” (Questura di Napoli) nel film di Totò, “I Ladri” - tanto per adeguarci ai consueti riferimenti culturali del direttore de Il Fatto - Travaglio lamenta la fuoriuscita a breve dalle patrie galere di spacciatori, mafiosi e terroristi, l’insensibilità della politica rispetto alle vittime dei reati più odiosi, la riduzione occulta delle pene anzi, praticamente la scomparsa delle stesse visto che il novanta per cento dei condannati - secondo il nostro - eviterebbe “statisticamente” di finire in galera, la vittoria della “pseudocultura di sinistra” sulla “diseducatività del carcere” e via delirando, in un crescendo rossiniano che se davvero funzionasse il progetto “Red Button” della Polizia Postale sulle fakenews, Il Fatto rischierebbe quantomeno un’indagine. Ma dicevamo dell’appello; in esso è contenuto il motivo principale per cui l’esecuzione della pena non può e non deve mai intaccare la dignità della persona umana e, soprattutto, deve essere sempre rivolta al recupero di chi ha sbagliato senza afflittività accessorie, così come recita la nostra Costituzione. “La riforma rappresenta niente più che il rifiuto, ideale prima ancora che giuridico, di presunzioni legali di irrecuperabilità sociale, dal momento che nessuna pena deve rimanere per sempre indifferente all’evoluzione personale del condannato, ed affida alla magistratura, cui per legge è assegnata istituzionalmente la realizzazione del finalismo rieducativo dell’art. 27 della Costituzione - la magistratura di sorveglianza - la piena valutazione sulla meritevolezza delle misure alternative e il bilanciamento degli interessi in gioco”. Ma c’è di più: gli “automatismi” che Travaglio attribuisce alla riforma dell’ordinamento penitenziario vengono aboliti - non incentivati! - dal provvedimento varato, tanto che oggi spetta al Giudice di Sorveglianza stabilire, caso per caso, se il percorso seguito dal detenuto merita o meno di essere giudicato positivamente dando seguito alle misure alternative alla pena. Dopodiché mi sembra assurdo contestare, come fa il direttore de Il Fatto, la statistica sulla recidiva che dimostra, invece, l’importanza fondamentale della rieducazione e della messa in prova al punto che, a fronte di un sessanta per cento di recidiva tra i detenuti che non accedono a questi “benefici” (ma dovremmo parlare di opportunità), si registra una percentuale del diciannove per cento per coloro che hanno usufruito di misure alternative e addirittura dell’uno per cento soltanto per quanti hanno avuto la fortuna di rientrare in un circuito produttivo. Questi sono i “risultati” che interessano agli italiani e in particolare all’elettorato del centrodestra che invoca, e non ci voleva Travaglio a ricordarlo, più sicurezza senza pensare al carcere come ad una discarica sociale. A quanti - pure da “destra” - reclamano misure forcaiole e manettare, vorrei in conclusione rammentare che dalle nostre parti ha dignità di cittadinanza una solida e onorata tradizione “garantista” che, senza andare con la memoria a grandi avvocati e giuristi del passato, ha trovato validi interpreti in colleghi parlamentari come Alberto Simeone e Enzo Fragalà; due persone straordinarie che dovremmo ricordare più spesso e della cui improvvisa e traumatica mancanza soffriamo politicamente e umanamente. “Più sicurezza e più Diritto: ecco la riforma”. Intervista a Andrea Mascherin (Cnf) di Lorena D’urso Il Dubbio, 20 marzo 2018 “Questa riforma del carcere non è probabilmente la soluzione definitiva, ma sicuramente è un passo in avanti verso una applicazione del principio costituzionale che salvaguardia la dignità della persona in ogni occasione, e che vede nella pena - oltre al suo aspetto afflittivo - anche l’aspetto di recupero del reo”. Lo sostiene il presidente del Cnf Andrea Mascherin in una intervista concessa a Radio radicale. “La pena - ha detto Mascherin - è sempre di per sé afflittiva. Chi trascorre un periodo in carcere oppure in misure alternative si trova comunque in una condizione di perdita totale o parziale della libertà. E sappiamo tutti che la recidiva di chi ha goduto di misure alternative al carcere è di gran lunga inferiore rispetto a quella di coloro che restano in carcere. Anche a voler fare una valutazione non costituzionale, il recupero del reo è un grande vantaggio per la sicurezza del Paese”. Più misure alternative, carceri meno affollate, riduzione del tasso di recidiva. Presidente, come commenta l’approvazione della riforma penitenziaria? È indubbio che il timore o il sospetto era che questa riforma non andasse in porto non perché non meritevole ma perché fatta oggetto di pressioni di segno contrario. Queste pressioni venivano da una visione della pena e del carcere sicuramente non in linea con la Costituzione, ma in linea con un sentimento comune di stampo giustizialista. Il timore era che la politica fosse rimasta ostaggio di queste pressioni, e invece questa volta - ma non è la prima volta - si è dimostrato che la buona politica esiste, e che questa ha saputo fare quanto toccava fare a un Parlamento rispettoso della Carta Costituzionale: attuare la riforma. Si tratta di un passo in avanti, non è ancora probabilmente la soluzione definitiva, ma sicuramente un passo deciso verso una applicazione del principio costituzionale che salvaguardia la dignità della persona in ogni occasione, e che vede nella pena - oltre al suo aspetto afflittivo - anche l’aspetto di recupero del reo. Va ricordato sempre che la pena è sempre di per sé afflittiva. Chi trascorre un periodo in carcere oppure di misure alternative si trova comunque in una condizione di perdita totale o parziale della libertà. Ma sappiamo tutti benissimo - e questo è un dato non contestabile - che la recidiva di chi ha goduto di misure alternative al carcere è di gran lunga inferiore rispetto a quella di coloro che restano in carcere, ambiente criminogeno e non di recupero. Anche a voler fare una valutazione non costituzionale ma di mero opportunismo, tutti sappiano che il recupero, la reintroduzione del reo nella società, sono un grande vantaggio per la comunità e per la sicurezza del Paese. Questo provvedimento ha avuto un iter lungo e travagliato. Orlando ha precisato che non si tratta di un provvedimento salva-ladri... Tali espressioni, come salva- ladri, sono demagogiche. Tendono a trasmettere una sorta di panico, di sfiducia nelle istituzioni e un senso di allarme. Non sono espressioni responsabili. Oggi invece occorrerebbe che tutti assumessero posizioni concrete e responsabili, senza farsi trascinare dalle emozioni e dalle esagerazioni della campagna elettorale, ma restando alla realtà. La realtà è che questa riforma riconosce tra le altre cose quello che deve essere riconosciuto ad un giudice, almeno secondo la nostra Costituzione, che è l’esercizio della discrezionalità. Nei casi concreti il valore di questa riforma sta proprio anche in questo: il giudice non mette automaticamente fuori qualcuno. Ha la possibilità ampliata di valutare caso per caso se un soggetto merita una misura alternativa. Ovviamente il giudice farà il suo lavoro secondo quella che è la normativa, secondo quelli che sono gli approfondimenti. Si tratta di una garanzia per tutti. Questo decreto di certo non rappresenta una rivoluzione copernicana. Ma quanto ha contato per il risultato ottenuto l’iniziativa del Partito radicale, in particolare di Rita Bernardini? Al primo posto vi è sempre la volontà politica e in questo caso dobbiamo dare atto soprattutto al ministro Orlando di avere voluto fortemente la riforma. Sono convinto che la politica italiana sia soprattutto buona politica. Certo, non tutta. Ma in gran parte è buona politica. La buona politica poi trae determinazione dal sostegno che può venire da determinate forze culturali. Quindi, quando c’è la buona politica, il sostegno dato da Rita Bernardini, dai radicali e dall’avvocatura è sicuramente stato importante. Ma ci vuole la cultura politica che in questo caso è garantista, di equilibrio, di rispetto dei principi costituzionali, non di rassegnazione a una carenza di sicurezza o a una volontà di aprire le carceri per far uscire pericolosi delinquenti. Il problema è che i media normalmente esaltano, danno grande rilievo al singolo episodio di chi si sottrae magari a una misura alternativa o a un permesso, approfittandone per fuggire, ma non danno assolutamente conto dei grandissimi numeri di segno contrario di quelli che proprio grazie alle misure alternative si reinseriscono, non delinquono di nuovo, e diventano parte attiva della società. Basterebbe a volte semplicemente informare sui contenuti di un provvedimento come questo per far capire meglio ai cittadini di cosa di tratti... Ciò però non conviene a certi giornali e a certa politica. Oggi in Italia essere garantisti è impopolare. Poi però accanto al ministro Orlando si sono schierate alcune realtà come l’avvocatura, una certa élite culturale, il Partito radicale, che per consuetudine non solo non sono abituate a cercare il consenso: sono abituate piuttosto, in nome di un sistema garantista democratico, a fare esattamente il contrario, a fare battaglie anche impopolari. E poi la storia ci dà ragione: dove si buttano via le chiavi abbiamo sempre situazioni di mancanza di democrazia. Inviterei chi si oppone a questa riforma ad andarsene un po’ in Turchia o altrove - le alternative non sono poche - e verificare qual è il modello di processi veloci, senza garanzie, di carcere a tempo indeterminato, di prescrizioni infinite e così via. Forse tornerebbero in Italia di corsa. Un’ultima domanda: la sua presidenza si sta caratterizzando in maniera netta per una collaborazione, per una forma di dialogo che forse prima è mancata o non era evidente, con il Consiglio superiore della magistratura. Di pochi giorni fa è un nuovo protocollo tra il Cnf e il Csm. La giurisdizione è fatta da magistrati e da avvocati. E l’autonomia e l’indipendenza degli uni dipende da quelle degli altri, e la missione è assolutamente comune, ossia quella di garantire uno Stato di diritto con ruoli evidentemente diversi. Il dialogo deve essere assolutamente scontato, l’importante è che nessuno pensi di essere migliore dell’altro. Con questo Csm il dialogo si fonda su queste basi e insieme si cresce. Certo, si possono contrastare alcune opinioni, ma sempre in maniera dialettica. Questo aspetto manca purtroppo nel nostro attuale sistema sociale e politico: a prevalere sono il linguaggio d’odio, l’aggressione verbale; si sacrificano i contenuti a una forma, in genere violenta, di sopraffazione dell’uno sull’altro. Noi avvocati siamo per la dialettica dentro e fuori il processo, per la fiducia nel cittadino e per la negazione di uno Stato basato sul sospetto. Questo, quando condiviso dalla magistratura, serve per uscire da momenti emergenziali e per costruire probabilmente anche un sistema politico più equilibrato. Siamo a 70 anni dalla nascita della nostra Costituzione: settanta anni fa tre culture diverse - quella socialista comunista, quella liberale e quella cattolica - hanno scritto la Costituzione a partire da ideologie molto lontane tra di loro. I governi a guida Pd hanno davvero ridotto il sovraffollamento nelle carceri? agi.it, 20 marzo 2018 Abbiamo verificato. Il deputato uscente del Partito Democratico Edoardo Patriarca, già presidente del Centro nazionale per il volontariato e rieletto al Senato alle ultime legislative, lo scorso 18 marzo ha dichiarato: “In questi anni abbiamo puntato molto sulle pene alternative e siamo riusciti a ridurre il sovraffollamento nelle carceri”. Si tratta di un’affermazione corretta. I provvedimenti del governo - I principali provvedimenti dei governi della scorsa legislatura in materia carceraria sono il decreto legge 78/2013, contenente “Disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena” e votato sia da Forza Italia che da Pd e Sel, e il successivo dl 146/2013, contenente “Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria”, votato dal solo centrosinistra. Adesso è attesa la riforma dell’ordinamento penitenziario, approvata lo scorso 16 marzo dal Consiglio dei ministri, ma che prima di diventare legge dello Stato dev’essere ancora votata in via definitiva dal Parlamento. In questi provvedimenti si è in effetti ampliata la possibilità per i detenuti di accedere alle pene alternative al carcere - quali detenzione domiciliare, liberazione anticipata, affidamento ai servizi sociali eccetera - per contrastare il sovraffollamento delle carceri, un problema che aveva portato l’Italia, a inizio 2013, ad essere condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Qualche esempio: sono stati aumentati i termini al di sotto dei quali si può chiedere una misura alternativa, come abbiamo verificato di recente, la riforma dell’ordinamento penitenziario in via di approvazione vorrebbe insistere su questo approccio; si è stabilizzato un provvedimento temporaneo del 2012, secondo cui, a 18 mesi di pena residua da scontare, si può uscire dal carcere e terminare la condanna ai domiciliari; infine, ma solo per un periodo limitato di tempo tra 2014 e 2015, è stato innalzato da 45 a 75 giorni lo sconto di pena per ogni semestre di buona condotta del detenuto. Gli effetti dei provvedimenti - Ma vediamo in concreto che effetto hanno avuto questi provvedimenti in materia di sovraffollamento carcerario. Bisogna tenere conto, allo stesso tempo, del generalizzato e sostanziale calo dei reati denunciati gli ultimi anni, di cui ci siamo già occupati in passato, ha visto. Ad ogni modo, la capienza delle prigioni italiane è attualmente di 50.589 posti, mentre nel 2013 era di 47.709 posti. Nel 2013 il totale dei detenuti ammontava a 62.536, in leggero calo rispetto al picco del 2010 di 67.961 persone presenti in carcere: allora si trattava di più di 20 mila detenuti in eccesso rispetto alla capienza del sistema. Nel 2014 si è registrata un’importante diminuzione, di quasi 10 mila unità, col totale dei detenuti sceso a 53.623. Un ulteriore calo è avvenuto nel 2015, portando il totale a 52.164 detenuti. Ma i dati degli ultimi due anni hanno avuto il segno opposto. Nel 2016 e 2017 i detenuti sono tornati a crescere, arrivando prima a 54.653 e poi a 57.608. Siamo ancora al di sotto dei valori preoccupanti registrati tra il 2008 e il 2013, ma un’inversione di tendenza c’è stata. Attualmente ci sono circa 7 mila detenuti in eccesso rispetto alla capienza delle prigioni, e la riforma dell’ordinamento penitenziario - come si legge anche in una nota del Consiglio dei ministri - vorrebbe, tra le altre cose, a risolvere questo problema. Conclusione - È vero, come afferma, Patriarca che il governo negli ultimi provvedimenti - i due decreti approvati e la riforma dell’ordinamento penitenziario in via di approvazione - abbia privilegiato un approccio volto a ridurre il ricorso alla carcerazione in favore di misure alternative (domiciliari, servizi sociali, eccetera). È poi vero che, rispetto ai dati del 2013 e degli anni precedenti, il sovraffollamento carcerario si sia ridotto, anche se è tutt’ora presente e negli ultimi due anni è tornato a crescere dopo un biennio di forte calo. Avanti tutta sulla riforma della magistratura onoraria di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 20 marzo 2018 Il ministero della Giustizia tira dritto sulla riforma della magistratura onoraria. Mentre le associazioni di categoria hanno proclamato un nuovo mese di astensione dalle udienze, ad aprile, è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il decreto ministeriale del 22 febbraio 2018 con il quale si è proceduto alla determinazione dell’organico. A fare da limite il numero complessivo dei magistrati togati, sia con funzioni giudicanti sia con funzioni requirenti. E allora, la dotazione organica dei giudici di pace è fissata in 6.000 unità, mentre quella dei viceprocuratori onorari in 2.000. Dell’organico, osserva il decreto, entreranno a fare parte tutti i magistrati onorari attualmente in servizio, mentre, a partire dal 2021, il numero dei magistrati onorari cui spetterà l’indennità di 16.000 euro circa annuali prevista dalla riforma comprensiva sia degli oneri prevdienzali8 sia degli oneri assistenziali non potrà essere superiore al 60% della dotazione organica complessiva. Intanto è stato proclamato lo sciopero di quattro settimane consecutive a partire dal 9 aprile 2018 e sino al 6 maggio 2018. Lo sciopero consisterà nell’astensione dalle udienze e da tutte le altre attività giudiziarie (emissione di decreti, ordinanza e sentenze) Saranno garantite solo la tenuta di un’udienza a settimana e gli atti indifferibili e urgenti. I giudici di pace contestano “l’incostituzionale riforma della magistratura di pace ed onoraria voluta dal Ministro Orlando, che precarizza ulteriormente la categoria, limitando l’impiego dei giudici a 2 giorni la settimana, abbattendone gli emolumenti, ponendo i contributi previdenziali integralmente a loro carico, non riconoscendo tutela alcuna pe r maternità, paternità, malattia”. Gli unici reati che aumentano hanno le donne come vittime di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 20 marzo 2018 Mentre gli altri reati sono in calo, i femminicidi non mostrano segni di diminuzione: nel 2017 è stata uccisa in media una donna ogni 60 ore. E la prevenzione è limitata. L’ultimo omicidio è stata una vera e propria esecuzione: un colpo di pistola alla testa sparato davanti alla scuola dove Immacolata Villani aveva appena accompagnato la sua bambina. Colpisce la capacità di questi uomini di essere tanto spietati, colpisce la premeditazione nell’agire. E anche l’efferatezza. Nessuno potrà mai dimostrarlo ma forse la vera punizione che il carabiniere Luigi Capasso ha voluto infliggere alla moglie Antonietta Gargiulo è stata quella di lasciarla in vita, sopravvissuta alle due figlie. Le ha sparato a distanza ravvicinata ma non ha colpito organi vitali, come ha fatto invece con Alessia e Martina. I dati del Viminale registrano un calo di tutti i reati, i femminicidi sono gli unici in aumento, nel 2017 è stata uccisa in media una donna ogni 60 ore. A rimanere sostanzialmente invariato è il numero degli “ammonimenti” dei questori a chi minaccia o compie atti persecutori. È questa la tendenza che si deve invertire: sono ancora molte, troppe le donne che non sanno di avere diritto a ottenere protezione quando chiedono aiuto. Troppo pochi sono invece i fondi concessi per far funzionare i centri antiviolenza e così garantire a chi è in pericolo di essere informata e assistita su tutto quello che la legge prevede per difendersi da chi, sempre più spesso, confonde il possesso con l’amore. E ritiene che una fidanzata o una moglie siano proprietà privata. L’omicidio della civiltà di Candida Morvillo Corriere del Mezzogiorno, 20 marzo 2018 In un Paese dove ogni tre giorni viene uccisa una donna, se può esserci qualcosa di più terribile, è una donna uccisa davanti alla scuola dove ha appena lasciato sua figlia. Ogni scuola dovrebbe essere sacra al cuore degli uomini come e più di una chiesa, perché tutto quello che siamo e diventeremo lo impariamo negli anni passati sui banchi. Ieri mattina, a Terzigno, Immacolata Villani aveva appena accompagnato in classe la sua bimba di nove anni quando è stata avvicinata e colpita a morte con un colpo di pistola, sparato forse proprio dal marito. Il 4 marzo, aveva denunciato lui e la suocera per botte, lesioni e per quell’ordinario campionario del male che riempie i registri dei carabinieri e troppo spesso le cronache, con la conta di donne e madri che dovevano essere salvate e invece sono tornate polvere e terra, dalla quale non nasce più nulla. Questo è uno di quei casi in cui, davanti al sangue, non si può ignorare il simbolo, a maggior ragione se involontario, perché all’uomo che ha premuto il grilletto certo non importava di essere davanti a una scuola, dove poteva essere visto da alunni di sette o otto anni o dalla sua stessa figlia. Un uomo che uccide la madre di una bambina davanti alla scuola della bambina è un uomo che non è mai stato toccato dalle parole di Edoardo De Amicis quando scriveva “i tuoi libri sono le tue armi, la tua classe è la tua squadra, il campo di battaglia è la terra intera e la vittoria è la civiltà umana”. Chi non rispetta una scuola, non può rispettare una vita. Pasquale Vitiello, dal quale Immacolata si stava separando, ha lasciato varie lettere. Due in particolare, una in cui minaccia di farsi giustizia da solo e una a sua figlia, da leggere quando sarà grande. Ma se davvero è lui l’assassino, non c’è nulla che possa aver scritto a sua discolpa. Non possono esserci ragioni che abbiano un senso laddove non c’è qualcuno che, da bambino, ha imparato a sognare che si può diventare migliore. Se si potesse riassumere in poche righe l’intera tetralogia dell’Amica Geniale di Elena Ferrante, si potrebbe dire che è la storia di due amiche cresciute nei vicoli di Napoli, dove quella che scrive, Lenù, sconta per tutta la vita il senso di colpa di essersi lasciata indietro la compagna di banco più brillante, quella Lila, che a differenza sua, lascia la scuola troppo presto e perciò si perde, incapace di amare gli altri e se stessa. Quando parliamo di degrado e povertà in un Paese come il nostro che dovrebbe essere civile, dovremmo sempre ricordarci che non stiamo parlando solo di fame, ma di una lotta per stare al mondo che può inaridire gli animi fino a far sentire ognuno così solo, spaventato e arrabbiato da perdere ogni umanità e ridursi a pura aggressività. L’antidoto lo si apprende da piccoli e forse mai più. Che l’amore sia dare e non possedere, che l’amore sia lasciare andare lo s’impara in classe dalle brave maestre e dai bravi maestri e, in casa, dalle madri e dai padri. In questa vicenda, se le prime ricostruzioni saranno confermate, colpisce il ruolo della suocera, denunciata anche lei da Immacolata e protagonista a sua volta di una controquerela alla nuora. Ogni uomo che uccide una compagna, una moglie, una ex, ha imparato ad amare da una madre, è figlio di una donna, e a volte, di una catena nera basata sull’idea che non siamo nessuno se non possediamo qualcuno. Da oggi, fuori e dentro quella scuola elementare di Terzigno, ogni maestra e ogni mamma deve trovare le parole per raccontare l’orrore, per evitare che si ripeta, per insegnare un modo d’amore che è amare l’altro al punto da saperlo lasciare libero. L’impegno dei ragazzi contro la corruzione che ruba loro il futuro di Raffaele Cantone e Francesco Caringella Quotidiano di Puglia, 20 marzo 2018 Perché un libro sulla corruzione dedicato ai ragazzi, alle scuole, alle nuove generazioni, al futuro, alla speranza? Le ragioni sono numerose, almeno quattro. La prima è la più importante. Gli uomini del domani sono le principali vittime del fenomeno corruttivo, che li priva di opportunità, di speranze, di lavoro, di occasioni di crescita e di affermazione. Se è vero che “la corruzione non solo è un male, ma fa anche male”, è chiaro che essa danneggia soprattutto chi deve vedere la vita come una serie imprevedibile di porte da aprire e rischia, invece, di trovarsi davanti un numero inaccettabile di cancelli chiusi. La corruzione è un “furto di futuro”, per riprendere una felice definizione giornalistica. La sottrazione agli interessi generali del denaro pubblico che finisce nelle tasche del potente corrotto, produce un mondo peggiore perché, con i suo effetti, danneggia l’esistenza quotidiana di tutti noi e incide sui diritti fondamentali delle persone. Bisogna allora discutere della corruzione soprattutto con i giovani, perché sono loro le vittime principali di una robbery che spezza i legami tra gli uomini, espellendo dall’orizzonte i diritti degli altri, negando il patto sociale che genera un corpo morale collettivo e sostituendo il bene comune con un interesse particolare che contamina ogni prospettiva generale. La seconda ragione è la considerazione che i nostri ragazzi, oltre che le vittime dirette, sono anche i soldati che con più efficacia possono lottare contro la piaga del millennio. La corruzione è il frutto di un individualismo spinto che ci spinge ad anteporre i nostri interessi personali e familiari al senso di legalità, ai common goods e all’etica collettiva. La parola “corrotto”, ci ricorda Papa Francesco, richiama il cuore rotto, “infranto, macchiato da qualcosa, rovinato come un corpo che in natura entra in un processo di decomposizione, emanando un cattivo odore”. Se questa è la radice etica di una malattia sociale, è evidente che potranno salvarci solo i nostri ragazzi, uomini in erba che hanno un “cuore sano e pulito”, non ancora contaminato dagli interessi, dalle abitudini, dall’aridità. A loro bisogna parlare spiegando il significato, le manifestazioni, le cause e gli effetti della corruzione, ma soprattutto i rimedi che, con il loro aiuto, debbono essere messi in campo nel breve periodo e in una prospettiva di sistema. Abbiamo voluto scrivere un libro attento al pianeta scolastico anche perché la scuola può e deve avere un ruolo centrale nell’affermazione di un’etica che spazzi via le sirene del particolarismo, del familismo e dell’illegalità. Tutti i giapponesi si inchinano di fronte all’Imperatore, in segno di rispetto e di devozione nei confronti di un uomo Dio. Lo fanno anche dignitari, nobili, capi di governo, ministri e alti magistrati. Non si inchinano solo i maestri, perché loro più importanti dell’imperatore: l’imperatore è tale solo perché un maestro gli ha insegnato a essere uomo e, quindi, Dio. Nel Paese del Sol Levante, si dice che i genitori procreano, la scuola crea un uomo. Se la corruzione è una “malattia culturale più che un problema criminale”, le scuola, insieme alle altre agenzie formative (famiglia, chiesa, informazione, associazionismo, letteratura, cinema, televisione), deve creare gli uomini del domani, promuovendo i valori della legalità, dell’etica, del bene comune. Sogniamo una scuola che, come ricordava Don Milani, non si limiti a insegnare solo nozioni per formare sapienti, ma anche esempi e valori per creare cittadini. Una scuola pronta a forgiare uomini del nuovo millennio, che considerino la società come “la grande catena che tiene uniti gli uomini nella società” e l’onestà come “la virtù perfetta che unisce l’etica e l’interesse”. Ricordiamo sempre le parole di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino secondo cui “la mafia e la corruzione non si combattono nelle aule di giustizia, ma tra i banchi di scuola”; e quelle di Gesualdo Bufalino: “per combattere mafia e corruzione c’è bisogno di un esercito… di insegnanti”. Il volume è, allora, un atto d’amore nei confronti dei nostri figli, che hanno, come tutti i giovani proiettati verso il domani, il diritto di cercare in Italia la via alla felicità. Le parole malate su Biagi di Michele Serra La Repubblica, 20 marzo 2018 C’è un sadico anonimo che ha scritto su un muro di Modena: “Marco Biagi non pedala più”. Importa relativamente poco definirlo politicamente. Importa definirlo umanamente: uno che gode della morte violenta di un inerme e trova spiritoso sottolineare con sarcasmo che l’inerme andava a lavorare in bicicletta è indiscutibilmente un sadico. Non è un giudizio politico. Basta una valutazione medica. Ammazzare a revolverate un ciclista è quasi più facile che ammazzare un pedone: il ciclista è impicciato dai pedali, e sotto i portici di Bologna dove spararono a Biagi, per quelle vie strette, tra quelle colonne tozze e quelle volte basse che restringono gli spazi, braccare un uomo è facile, quell’uomo non ha scampo. A volte basterebbe guardare all’umano - ai corpi, ai volti, ai gesti - per capire ciò che la politica non basta neppure a intuire. L’essere umano che, nottetempo, ha tracciato quella scritta, come quasi tutti i sadici, non ha avuto il tempo e il modo di lavorare sulla propria patologia, sulla propria menomazione. Magari è un pover’uomo, o un povero ragazzo, poco padrone della propria vita, e servo degli eventi. La psicanalisi da un lato è costosa, dall’altro è possibile che prima o poi, come sta accadendo per tante altre cose, sia relegata nel novero dei vizi borghesi (Freud era un borghese, proprio come Marx). Ma ove esistesse ancora un varco autentico, nel trattamento dei violenti e nella loro sperabile guarigione, sarebbe decisivo che l’autore di quelle parole sapesse che dileggiare la vittima e celebrare il suo aguzzino come un eroe non è un atto politico: è materiale clinico. Dell’Utri si è aggravato ancora, adesso è vera persecuzione di Piero Sansonetti Il Dubbio, 20 marzo 2018 Le condizioni di salute di Marcello Dell’Utri si sono aggravate. Il tumore alla prostata, che a luglio era stato classificato come “a basso rischio” è peggiorato e ora è classificato come “ad alto rischio”. Il motivo dell’aggravamento è piuttosto semplice: Dell’Utri, per mesi, non è stato curato. La direzione sanitaria di Rebibbia aveva in varie occasioni richiesto che gli fosse concessa la detenzione domiciliare, per curarsi adeguatamente, ma il tribunale di sorveglianza ha sempre risposto no. Risulta che negli ultimi mesi Rebibbia si sia rivolta al tribunale di sorveglianza per più di cinquanta volte per chiedere che fosse sospesa la pena in carcere. Ma ha trovato un muro. Addirittura qualcuno sostiene che la Presidente del Tribunale di sorveglianza abbia in diverse occasioni fatto pressione sulla direzione del carcere affinché si prendessero provvedimenti per evitare la scarcerazione. E che persino si sia recata personalmente in visita dalla direttrice di Rebibbia. Mi pare impossibile che queste informazioni siano esatte, perché altrimenti ci troveremmo di fronte a una situazione davvero inedita. Di sicuro c’è che il tribunale di sorveglianza continua a respingere le richieste di scarcerazione che appaiono assolutamente ragionevoli a chiunque abbia voglia di esaminare il caso senza pregiudizi e senza ideologie. E c’è anche un’altra cosa sicura: che il “metodo dell’Utri” rischia di diventare una specie di protocollo, e dunque di sbarrare la possibilità dei domiciliari per decine di detenuti che ne avrebbero diritto. In questo modo si mettono a rischio molte vite, e si calpestano i principi della Costituzione e della dichiarazione dei diritti dell’uomo. Dell’Utri attualmente si trova ricoverato in un ospedale alla periferia di Roma, Il “Campus Biomedico”. In quali condizioni? Le descrive nella sua relazione, inviata alla direzione del carcere e al tribunale di sorveglianza, il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma. In una stanza singola, guardato a vista da due agenti che vivono nella stanza con lui, giorno e notte, alternandosi in turni di sei ore. Gli agenti stanno in una specie di ingresso, che è separato da una parte e divisoria scorrevole, trasparente, dalla stanza dove c’è il letto di Dell’Utri. La parete però è sempre aperta. E la luce sempre accesa. Dell’Utri viene sorvegliato a vista, anche quando va in bagno. Dorme con difficoltà per via della luce e dei rumori prodotti dagli agenti di custodia. L’ora d’aria alla quale ha diritto era stata ridotta a mezz’ora (poi da qualche giorno riportata ad un’ora dopo le proteste degli avvocati) e Dell’Utri trascorre questo breve tempo in un terrazzo di pochi metri quadrati dove sono sistemati i motori dell’impianto di areazione di tutto l’ospedale. Praticamente può passeggiare un pochino in questa specie di sala macchine, con un rumore assordante. Per le altre 23 ore sta fermo in stanza, non può uscire in corridoio, non può neanche aprire la finestra e dunque non respira mai l’aria di fuori. Negli ultimi giorni sono state effettuate su Dell’Utri varie perizie: urologiche, radiologiche, cardiache e psichiatriche. Tutte hanno detto che la sua situazione si sta aggravando. Non solo il tumore: tutto lo stato generale di salute è in deterioramento. La radioterapia che dovrebbe contrastare il cancro ha poche possibilità di successo, perché il modo nel quale viene detenuto in ospedale è causa di un fortissimo aumento dello stress e lo stress agisce direttamente sull’aggravamento della malattia. È peggiorata anche la sua situazione cardiaca e la perizia psichiatrica è davvero allarmante. L’ha effettuata il professor Claudio Mencacci, che non è uno sconosciuto, è il presidente della Società italiana di psichiatria. Dice che Dell’Utri vive in uno stato d’ansia, che ha disturbi del sonno, che nonostante la sua personalità robusta rischia un veloce aggravamento sia dell’ansia sia della depressione, e spiega come ansia e depressione possono avere effetti devastanti sull’aggravamento sia del tumore sia dei disturbi cardiaci, sia del diabete. Il professor Mencacci, nella sua relazione, ci informa che la comunità scientifica usa, per indurre la depressione nella cavie (topi), sistemi molto simili a quelli usati nella detenzione di Dell’Utri. Ho messo poco di mio, in questa descrizione. Mi sono limitato a riportare fatti oggettivi. E questi fatti dicono che la detenzione di Dell’Utri avviene in contrasto con la Costituzione e con le leggi. Mi chiedo solo se esiste una autorità in grado di intervenire, per ristabilire la legalità e l’umanità. Io non so se questa situazione dipenda da una precisa volontà di qualcuno, o se è solo l’effetto di una serie di coincidenze e di distrazioni. Però è evidente che ora Dell’Utri si trova oggettivamente nelle condizioni di un perseguitato. E che sono abbastanza grandi le possibilità che questa persecuzione lo spinga verso la morte. Cioè, verso la morte in carcere. A quali interessi superiori della nazione sarebbe utile la morte in carcere di Marcello Dell’Utri dopo un lungo periodo di persecuzione, feroce e illegale? Non riesco a credere che esista un interesse superiore, né della nazione ma neppure di qualche gruppo politico o di qualche ideologia. L’obiezione che per Dell’Utri si muovono gruppi giornalistici o politici (per altro molto molto piccoli) che non sono abituati ad esercitare la stessa pressione per altri detenuti non sta in piedi. certamente non riguarda noi di questo giornale, ma chiunque riguardi è una obiezione molto fiacca: i diritti inalienabili di ogni detenuto sono gli interessi di tutti i detenuti. Se si riesce a porre fine alla situazione di illegalità nella quale si realizza la detenzione di dell’Utri si ottiene qualcosa che poi riguarderà tutti i detenuti. L’affermazione della legalità e dei principi costituzionali, non è mai la vittoria di una persona sola, non è mai un favoritismo. È l’affermazione di valori universali. Esiste una istituzione che è in grado di intervenire in tempi molto rapidi) ogni giorno che passa le malattie di Dell’Utri rischiano di diventare irreversibili)? Se non esiste questa istituzione torno a rivolgermi sommessamente al capo dello Stato, che è l’unico, forse, che è in grado di intervenire. Concedendo la grazia. Non solo sarebbe un gesto di umanità, ma un atto di rafforzamento della credibilità della giustizia italiana. Delitto di violenza privata non configurabile se la condotta è causa diretta del pati della vittima Il Sole 24 Ore, 20 marzo 2018 Reato - Delitti contro la persona - Delitti contro la libertà individuale - Libertà morale - Violenza privata - Elemento oggettivo - Condotta violenta integrante l’evento del reato - Configurabilità - Esclusione. L’elemento oggettivo del delitto di violenza privata è costituito da una violenza o da una minaccia che abbiano l’effetto di costringere taluno a fare, tollerare od omettere una condotta determinata; in assenza di tale determinatezza, possono integrarsi i singoli reati di minaccia, molestia, ingiuria, percosse, ma non quello di violenza privata; ne deriva che il delitto di cui all’art. 610 c.p. non è configurabile qualora gli atti di violenza e di natura intimidatoria integrino, essi stessi, l’evento naturalistico del reato, vale a dire il pati cui la persona offesa sia costretta. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 6 marzo 2018 n. 10132. Reati contro la persona - Delitti contro la libertà individuale - Violenza privata - Configurabilità. L’elemento della violenza nel reato di cui all’articolo 610 c.p. si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione, potendo consistere anche in una violenza “impropria”, che si attua attraverso l’uso di mezzi anomali diretti a esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 6 marzo 2018 n. 10133. Reati contro la persona - Delitti contro la libertà individuale - Violenza privata - Coercizione a condotte commissive od omissive. Ai fini del delitto di violenza privata non è richiesta una minaccia verbale o esplicita, essendo sufficiente un qualsiasi comportamento o atteggiamento, sia verso il soggetto passivo, sia verso altri, idoneo a incutere timore e a suscitare la preoccupazione di subire un danno ingiusto, onde ottenere che, mediante tale intimidazione, il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare od omettere qualcosa. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 13 giugno 2017 n. 29261. Violenza privata - Condizionamento del soggetto passivo - Coercizione comportamentale della vittima - Determinazione della consumazione del reato - Ipotesi di azione idonea - Mancata verificazione dell’evento - Delitto restante allo stadio di tentativo. L’articolo 610 c.p. punisce chiunque, con violenza o minaccia costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa. Oggetto giuridico del reato è la tutela della libertà psichica del soggetto, intesa come salvaguardia della libertà dei comportamenti, attivi o omissivi, che ciascun soggetto intende realizzare. In tale ipotesi di reato il condizionamento del soggetto passivo si manifesta con l’attuazione da parte dello stesso di un contegno (commissivo od omissivo) che egli non avrebbe assunto ovvero la coartata sopportazione di una altrui condotta che egli non avrebbe tollerato. Per effetto, quindi, della condotta criminosa di intimidazione si produce una coercizione comportamentale della vittima, che determina la consumazione del reato: se l’azione è idonea, ma l’evento non si verifica, il delitto rimane allo stadio del tentativo. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 1° dicembre 2014 n. 50127. Reati contro la persona - Delitti contro la libertà individuale - Violenza privata - Criteri distintivi rispetto al sequestro di persona - Individuazione - Fattispecie. Il delitto di violenza privata, preordinato a reprimere fatti di coercizione non espressamente contemplati da specifiche disposizioni di legge, ha in comune con il delitto di sequestro di persona l’elemento materiale della costrizione, ma se ne differenzia perché in esso viene lesa la libertà psichica di autodeterminazione del soggetto passivo, mentre nel sequestro di persona viene lesa la libertà di movimento. (In applicazione del principio di cui in massima la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione del giudice cautelare che ha ritenuto configurabile nei confronti dell’indagato il concorso nel delitto di sequestro di persona per avere costretto la vittima a salire, dopo una colluttazione, a bordo di un’autovettura). • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 27 novembre 2014 n. 49610. Art. 610 c.p. - Violenza privata - Condotta violenta o minacciosa - Strumento destinato a realizzare un altro evento - Necessità. Il delitto di violenza privata non è configurabile qualora gli atti di violenza e di natura intimidatoria integrino, esse stessi, l’evento naturalistico del reato, vale a dire il pati cui la persona offesa sia costretta: l’evento del reato, nell’ipotesi del ricorso alla violenza, non può coincidere con il mero attentato all’integrità fisica della vittima o anche solo con la compressione della sua libertà di movimento conseguente e connaturata all’aggressione fisica subita. La condotta violenta o minacciosa deve atteggiarsi alla stregua di mezzo destinato a realizzare un evento ulteriore: vale a dire la costrizione della vittima a fare, tollerare od omettere qualche cosa. In altre parole deve trattarsi di “qualcosa” di diverso dal “fatto” in cui si esprime la violenza, sicché la coincidenza tra violenza e l’evento di “costrizione a tollerare” rende tecnicamente impossibile la configurabilità del delitto di cui all’art. 610 c.p. • Corte di cassazione, sezioni Unite penali, sentenza 21 gennaio 2009 n. 2437. Reggio Calabria: muore in carcere detenuto di 31 anni di Francesco Chindemi reggiotv.it, 20 marzo 2018 È morto nel pomeriggio di ieri, a soli 31 anni, nel Penitenziario di Arghillà, dove si trovava detenuto dal 27 aprile dello scorso anno, Antonino Saladino. Il giovane, secondo quanto si è avuto modo di apprendere, pare non soffrisse di particolari problemi di salute. La sua morte sarebbe tuttavia sopraggiunta per cause naturali. Sul suo corpo, infatti, non sarebbero stati accertati segni di violenza. Tuttavia, il pm di turno della Procura di Reggio Calabria che ha disposto le indagini come da prassi affidate agli agenti della Polizia Penitenziaria, non si è sbilanciato in attesa degli esami del caso. Era stato coinvolto nei mesi scorsi nell’operazione “Eracle” con cui Carabinieri e Dda avevano fatto luce su una serie di reiterate aggressioni, risse ed intimidazioni che hanno funestato le recenti estati reggine, e per questo finito in carcere assieme ad altre 14 persone. Parma: il carcere non doveva censurare la posta di Marcello Dell’Utri Ansa, 20 marzo 2018 La posta di Marcello Dell’Utri fu illegittimamente sottoposta a censura per alcuni mesi, quando era in carcere Parma. Lo ribadisce il tribunale di Sorveglianza di Bologna, che ha accolto un nuovo reclamo dei difensori dell’ex senatore di Forza Italia, avvocati Gian Luca Malavasi e Adelmo Helmut Bartolini. La corrispondenza di Dell’Utri, ora detenuto a Roma, fu sottoposta a visto di controllo da aprile 2015, per carte da gioco che riportavano date in una lettera, ritenuta sospetta. A luglio e a novembre 2015 la censura fu prorogata dal magistrato di Sorveglianza, ma la difesa ha impugnato i provvedimenti, perché non sufficientemente motivati. Per il primo il tribunale aveva già accolto un reclamo, mentre per il secondo, dopo un ricorso in Cassazione, è arrivata la decisione del tribunale: il 3 novembre 2015, nel disporre la proroga, il magistrato si limitò effettivamente a evidenziare la scadenza “senza aggiungere alcun tipo di valutazione” in merito all’opportunità di prolungare il controllo. Sulmona (Aq): nell’ospedale cittadino è quasi pronto il reparto per i detenuti corrierepeligno.it, 20 marzo 2018 Quasi ultimati i lavori per il reparto destinato ad ospitare i detenuti nell’Ospedale di Sulmona. “Sarà a breve consegnato il tanto sospirato reparto riservato al ricovero dei detenuti”. A darne la notizia è il segretario regionale Uil-Pa penitenziari Mauro Nardella. “La struttura, dotata di tutti i comfort e dei previsti standard di sicurezza, entro Giugno sarà sottoposta al previsto collaudo e, quindi, se tutto andrà bene, entro luglio messa a disposizione dell’amministrazione penitenziaria”. “Una bellissima notizia - aggiunge il sindacalista - della quale la Uil, che da sempre ne ha caldeggiato l’avvento, ne va fiera. Dopo anni di denunce (correva l’anno 2007 attivai la vertenza) e di continue richieste dalla Uil avanzate ai vari direttori sanitari succedutosi nel tempo, la polizia penitenziaria di Sulmona avrà a disposizione un reparto dignitoso e ben dotato dal punto di vista della sicurezza”. “Ringrazio di cuore il Direttore generale della Asl Rinaldo Tordera per avere accolto il nostro grido d’aiuto traducendolo in un’opera avveniristica. A lui vanno i meriti per aver saputo recepire le nostre doglianze e ad incastonarle diligentemente nel costruendo nuovo presidio ospedaliero”. “Questa è la dimostrazione che se si lavora con costanza e lo si fa con gentiluomini, e Tordera ha dimostrato di esserlo, i risultati arrivano - aggiunge - il segretario generale regionale della Uil Pubblica Amministrazione Franco Migliarini. Un plauso va a chi ha permesso tutto questo convinto che, più che un punto di arrivo, quello appena conquistato è sicuramente una bella partenza verso traguardi ancor più ragguardevoli. Prato: scuola alberghiera nel carcere, crowdfunding per realizzare laboratorio di cucina tvprato.it, 20 marzo 2018 Lo scorso mese di settembre l’istituto Datini di Prato ha aperto due classi con indirizzo alberghiero all’interno del carcere della Dogaia. Grazie a questa possibilità sessanta detenuti stanno studiando per ottenere un diploma e diventare così cuochi, camerieri e direttori di sala. Per riuscirci hanno bisogno di un luogo attrezzato dove poter sperimentare quanto appreso a lezione, ovvero di una cucina, di un angolo bar e di una sala ristorante. Si tratta di un progetto, chiamato “cucine aperte”, che si sta concretizzando proprio in questi giorni e che dovrebbe vedere la luce subito dopo Pasqua. I lavori per la realizzazione di questo laboratorio sono dunque iniziati e già a buon punto ma per portare a termine l’opera occorrono dei finanziamenti. Nasce così l’idea di lanciare una campagna di crowdfunding per sostenere il compimento degli interventi e pagare le attrezzature necessarie ad allestire sala e cucina. I promotori di questa iniziativa solidale sono la Fondazione “Il cuore si scioglie Onlus”, nata per volontà delle sezioni soci di Unicoop Firenze, e la Caritas diocesana di Prato, attenta ai bisogni dei detenuti attraverso il progetto “Non solo carcere”. Ma la rete dei soggetti coinvolti nel progetto è ampia e vede la presenza di Comune e Provincia di Prato e il sostegno dell’Associazione Cuochi Prato e della Fipe Confcommercio. Hanno detto. “L’obiettivo di questo progetto - spiega Idalia Venco, direttrice della Caritas diocesana - è quello di dare una possibilità di lavoro ai ragazzi che frequentano la scuola alberghiera all’interno del carcere. Una volta usciti potranno spendere le conoscenza acquisite durante la reclusione per ottenere una occupazione. Inoltre - aggiunge Venco - con questo nuovo spazio che sarà realizzato si potranno organizzare cene che daranno modo alla città di conoscere la realtà del carcere”. Il preside del Datini, Daniele Santagati, ha lanciato un appello alla città: “I lavori per la realizzazione del laboratorio sono dirittura d’arrivo, poi serviranno le attrezzature per allestirlo. Chiediamo, in particolare agli imprenditori, di darci una mano nel reperire piatti, posate e pentole. Ogni contributo è ben accetto”. “La campagna Pensati con il Cuore - spiega Giulio Caravella, consigliere della Fondazione Il Cuore si scioglie - ha l’obiettivo di sostenere le numerose realtà che ogni giorno in Toscana si impegnano per il bene comune, cercando di creare rete e senso di comunità. Una modalità partecipativa che sta generando risultati importanti: con i 5 progetti andati online a gennaio siamo riusciti a mettere a disposizione oltre 80 mila Euro per affrontare sul territorio problematiche importanti, come la povertà, la disabilità e la violenza di genere”. Come partecipare. La raccolta fondi prevede la possibilità di fare donazioni online, sulla piattaforma Eppela (info: eppela.com/progettipensaticonilcuore) e di contribuire partecipando alle iniziative che verranno organizzate dalla sezione soci Coop di Prato nei giorni della campagna che durerà dal 19 marzo al 27 aprile. Se verrà raggiunto se verrà raggiunto almeno il 50% dell’obiettivo previsto, la Fondazione Il Cuore si scioglie raddoppierà la cifra raccolta, fino a un massimo di 15mila euro. Negli scorsi 12 mesi tutti questi progetti hanno raggiunto l’obiettivo prefissato. Complessivamente la campagna di crowdfunding ha raccolto oltre 230mila euro messi a sostegno della solidarietà in Toscana, grazie al contributo di oltre 6mila persone che hanno partecipato ai numerosi eventi organizzati dalle sezioni soci Coop. L’importanza di una formazione per i detenuti. Dare una opportunità di lavoro, sia all’interno che all’esterno del carcere, è fondamentale affinché un detenuto possa far ritorno nella società con un rischio di recidiva molto basso. Per questo sono fondamentali percorsi individuali di orientamento e tirocini formativi che puntino ad un effettivo reinserimento sociale. Tali obiettivi fanno parte del progetto “Non solo carcere” promosso dalla Caritas diocesana di Prato grazie al contributo di Caritas Italiana. I promotori sono certi che un detenuto con un diploma di cuoco o direttore di sala avrà sicuramente una carta in più da spendere nel mondo del lavoro una volta uscito dalla Dogaia. A questo proposito Fipe - Confcommercio si è detta disponibile all’attivazione di tirocini presso i propri affiliati. Eventi aperti alla città. Una volta terminato il laboratorio sarà utilizzato per la preparazione di eventi aperti alla cittadinanza. Si tratta della seconda fase del progetto “Cucine aperte”, che prevede l’organizzazione di serate a tema ideate e curate dagli stessi detenuti, sul modello delle “Cene galeotte”, esperienza nata all’interno del carcere di Volterra dove esiste una classe ad indirizzo alberghiero come quella di Prato. Qui faranno la loro parte i ristoratori dell’Associazione Cuochi Prato che affiancheranno i novelli chef nella preparazione dei piatti. Padova: ergastolano filosofo si laurea con lode. “Ero analfabeta” di Alberta Pierobon Il Mattino di Padova, 20 marzo 2018 Ciro Ferrara ha discusso la tesi su S. Agostino al Due Palazzi. “Studiare mi ha cambiato, non posso farne più a meno”. “La commissione, considerato il curriculum degli studi da lei compiuto e valutata la tesi di laurea, attribuisce alla prova finale la votazione di 110 su 110 con la lode. Per l’autorità conferitami dal magnifico rettore la proclamo dottore magistrale in Scienze filosofiche”. Applausi. Il relatore, Giovanni Catapano, docente di Storia della filosofia medioevale, stringe la mano al laureato e così gli altri quattro della commissione. Normale. Ma nemmeno poi tanto considerando che il neo dottore in questione, Ciro Ferrara, 58 anni, campano di Casoria, un ergastolo sulle spalle, in carcere da sei lustri, i suoi studi li ha iniziati 15 anni fa, da semianalfabeta, e li ha terminati ieri con una tesi su Sant’Agostino. “Fino a 42 anni firmavo con una croce”, racconta Ferrara “A me non piaceva studiare. Al Due Palazzi ho incontrato insegnanti che mi hanno aiutato, e che non smetto di ringraziare. Ricordo che dopo la maturità non volevo più fare nulla. Basta libri. Poi una prof mi guarda e mi fa: “Vuoi veramente restare un somaro?”. Me la sono legata al dito, quella frase, in senso buono, mi ha punto sull’orgoglio, e mi sono iscritto a Filosofia”. Prima la triennale, sempre con il massimo dei voti, e ieri la magistrale cum laude. La cella di Ciro, gran mattatore con la sua parlata napoletana svelta e colorita ma di indole molto solitaria, è stipata da pile di libri. Lui, nello studio ha trovato un’àncora: “Adesso la mia vita passa per lo studio, non so stare senza libri. Studiare mi ha modificato dentro”. Ore 11 e passa. L’auditorium della sezione scolastica della casa di pena Due Palazzi, quello con i manifesti di vecchi film dipinti sui muri da detenuti, è in versione aula universitaria: i gradoni sono a metà occupati dai volontari dell’associazione Piccoli Passi che hanno fatto rete attorno allo speciale studente, rinfresco finale, corona di lauro e regalo compresi; c’è Lorena Orazi, responsabile dell’area educativa ed è arrivato Ottavio Casarano, che dell’istituto era direttore prima di Claudio Mazzeo, e che ha sostenuto il percorso di studi di Ferrara; c’erano l’emozionatissima educatrice Annamaria Morandin e Nunzio, Lorenzo e Filippo, i tre universitari che hanno fatto da tutor al collega, detenuto senza possibilità di permessi: gli hanno fatto avere i programmi, gli appunti, svolto la parte burocratica, reperito i libri e via. È consolidata (dal 2003) la presenza del Bo al Due Palazzi, con tanto di inaugurazione dell’anno accademico, un paio di settimane fa, alla presenza del rettore Rosario Rizzuto; l’ateneo segue, con tutor e docenti, 42 studenti: finora si sono laureati in 30. La discussione sulla tesi entra nel vivo: dopo un avvio a voce impercettibile e parole aggrovigliate, la trattazione decolla: l’argomento è più che specifico, da veri topi-filosofi di biblioteca. Non direttamente Sant’Agostino, che ormai ne disquisiscono anche al bar, ma una tesi su padre Agostino Trapè, teologo, morto nel 1987, eccelso agostinologo. E giù un profluvio di platonismo, aristotelismo, San Tommaso e Sant’Agostino, il principio della mutabilità e dell’immutabilità, l’essere partecipante e l’essere partecipato e via elucubrando. Seduto sui gradoni, ad anticipare a bassa voce parole e concetti, c’è Attilio Favero, docente di inglese in pensione, volontario, che ha seguito il “suo” studente negli studi universitari, due volte alla settimana a leggere, ripassare, ascoltare, ragionare. “Mi ha dato la possibilità di creare un rapporto affettivo attraverso il canale culturale. Quello che ho fatto tutta la vita”, spiega. Ormai Ciro Ferrara (“di certo il mio laureando più motivato e studioso” confessa il professor Catapano) ha preso l’abbrivio e tra mimica, eloquio, verve napoletana e motti di spirito strappa anche qualche risata alla commissione. Il che, parlando di Sant’Agostino, non è propriamente scontato. È passata un’ora, la discussione volge al termine: la correlatrice, Maria Grazia Crepaldi, docente di storia della filosofia tardo antica, si congratula anche perché trattasi del primo studio in assoluto su Trapè. Proclamazione, strette di mano, corona e poi il neo dottore si rivolge ai convenuti per ringraziare, “con il cuore e la testa”. Un grazie ad ognuno ché assieme hanno contribuito a un’impresa che va oltre la laurea: parla di condizione umana, di quando cambiare se stessi diventa l’unica chance di vita. E arrivano le parole della gratitudine: agli agenti di custodia, in particolare al responsabile del settore scuola, che gli hanno facilitato la vita; a don Pozza, il cappellano, che gli ha permesso di mettersi in chiesa a studiare (“che effetto, ci entravo in punta di piedi”); al professor Tucciardone della scuola interna del Cpia; a Paolo Piva suo ex prof del Gramsci sempre al Due Palazzi; al direttore Mazzei, a Giorgio Ronconi, ex docente e volontario. Ma l’elenco continua. E adesso, dottor Ferrara? “A me piace stare solo e studiare, sto pensando di scrivere un libro e stabilire contatti con la Cattedra Agostiniana a Roma. E magari un’altra laurea”. Verrebbe da immaginare un incarico di tutoraggio per gli altri studenti del carcere, magari di promotore interno della scuola onde coinvolgere di più la popolazione carceraria. Un ruolo inedito per la verità, ma chissà. Venezia: libertà nonostante tutto, Jaselli canta con le detenute di Laura Berlinghieri La Nuova Venezia, 20 marzo 2018 Il cantautore protagonista di un progetto con 76 donne in carcere alla Giudecca. Il pezzo già in radio e domani, su Real Time, il documentario di questa avventura. È nato tutto da una telefonata avvenuta nell’ottobre 2016. Era Giulia Ribaudo di Closer, associazione veneziana che promuove attività culturali in situazioni difficili. Mi proponeva di suonare per le donne del carcere della Giudecca a Venezia. Voleva che fosse un concerto ma, allo stesso tempo, un laboratorio: un’occasione di ascolto e dialogo”. Un incontro nato come un unicum e che invece si è trasformato in qualcosa di molto più ampio: una canzone scritta “a settantasei mani” dalle detenute del carcere della Giudecca, a Venezia, insieme al cantautore Jack Jaselli. “Durante l’incontro, una ragazza ha alzato la mano e ha detto che scrivere una canzone è una cosa che sanno fare in pochi. Io, un po’ per scherzo, le ho risposto che ero sicuro che saremmo riusciti a scrivere un pezzo tutti insieme. Lo scherzo, però, è durato poco, perché l’educatrice ha accettato entusiasta. Il tema lo hanno scelto loro, praticamente all’unanimità: la libertà. È stato difficile. Ho fatto circolare un foglio, chiedendo alle ragazze di scrivere la prima parola che venisse loro in mente pensando a questo concetto. Mi sono trovato di fronte a trentasette parole con registro, contesto e significato completamente diversi: i figli, una festa, la riconciliazione con la famiglia e l’addormentarsi con qualcuno senza aver paura di svegliarsi col suono del campanello. Altre, con un significato agli antipodi rispetto a quello di libertà: la tristezza della cella, la sfiga. Ho promesso che tutte queste parole avrebbero fatto parte della nostra canzone e così è stato”. Da questi incontri è nata “Nonostante tutto”, scritta e cantata da Jack Jaselli e dalle settantasei donne del carcere della Giudecca. Donne, non detenute: “Volevamo che a emergere fosse la loro condizione di donne costrette a lottare ogni giorno per mantenere la loro femminilità, nonostante il contesto carcerario”. Il testo del brano è custodito nel Museo dei Diari di Pieve Santo Stefano, che Jack ha casualmente scoperto durante un viaggio a piedi. Produzione di Max Casacci e musica di Jaselli: “Io solitamente scrivo in inglese. Ho cantato per la prima volta in italiano di fronte a un pubblico davanti a loro. Quando ho portato la chitarra in carcere, facendo ascoltare la canzone che avevo scritto, ci siamo emozionati. C’è chi si è commosso. Io sono stato solo il tramite di qualcosa che già viveva dentro quelle mura e che doveva solo essere tirato fuori: ho ascoltato le ragazze, sono stato custode delle loro parole e da queste ho ricavato ciò che potesse essere veicolato con una canzone. Non sapevo nulla di loro, non ne conoscevo la storia e non ho chiesto loro di raccontarmele. Pensavo al carcere come a un luogo di recupero e non di reclusione. Col tempo, mi sono guadagnato la fiducia di queste ragazze e sono state alcune di loro a farsi avanti raccontandomi il loro trascorso”. La canzone è in rotazione radiofonica e su tutte le piattaforme digitali dal 16 marzo. Domani alle 23.10 andrà in onda su Real Time il documentario che racconta la genesi del pezzo, il cui video sarà disponibile dal 22 marzo. Un’esperienza, questa, che Jaselli non vuole che rimanga isolata: “Le ragazze, purtroppo, non potranno vedere il documentario in diretta. Credo che tornerò a trovarle quando lo guarderanno per la prima volta, anche se per ottenere un permesso per entrare in carcere ci vogliono circa tre settimane. Poi ho in programma di suonare per loro e di invitare a un mio concerto a Venezia le donne che possano uscire con più facilità”. Bologna: progetto “Leporello”, la musica entra in carcere di Giulia Cella Avvenire, 20 marzo 2018 Chissà se è proprio vero, che la musica ti cambia la vita. Lo credeva il grande direttore d’orchestra Claudio Abbado e lo credono anche i giovani detenuti del carcere del Pratello impegnati nel laboratorio di musicoterapia e song-writing “Leporello”, condotto dal 2015 dall’Associazione Mozart14. Un progetto che ha visto nascere tre canzoni (“Andiamo avanti”, “Diamanti” e “Horea”) e che ha permesso ai ragazzi di esprimere il proprio vissuto problematico e rielaborarlo in forma creativa. “La musica - spiega Alessandra Abbado, presidente dell’Associazione Mozart14, nata allo scopo di continuare le iniziative avviate in ambito sociale ed educativo da Claudio Abbado - ha il grande potere di rendere sopportabili il disagio fisico e quello interiore. Per questo lavoriamo con i degenti dei reparti pediatrici, con i bambini e gli adolescenti con disabilità fisiche e cognitive, con i detenuti e le detenute, adulti e minorenni. Seguendo lo spirito di mio padre, noi utilizziamo la musica “tutta”, non solo quella classica. Magari un giorno arriveremo anche ad ascoltare Mozart con ì ragazzi del carcere minorile, non escludiamo nulla a priori, ma la cosa davvero importante è portare avanti il messaggio: fare musica e cantare insieme significa educare all’ascolto e al rispetto reciproco. Così un’esperienza espressiva musicale, come la scrittura delle canzoni realizzata al Pratello, diventa una grande occasione di crescita personale”. Le canzoni i videoclip e il reportage fotografico di Leporello sono stati presentati alla città mercoledì scorso, nell’ambito dell’iniziativa “Leporello @ Pratello”, che le ha viste protagoniste della serata in alcuni locali di via del Pratello, che ospita l’Istituto penale minorile. “Per i ragazzi è molto importante che il proprio lavoro abbia risonanza anche al di fuori delle mura del carcere - spiega Paola Ziccone, direttore del Servizio tecnico del Cgm di Bologna. Questo progetto ha un fortissimo impatto educativo sui giovani detenuti e siamo orgogliosi di ospitarlo e di istituirne i risultati alla città. La musica, come tutta l’arte in genere, si segnala per la sua “gratuità” e questo la rende estremamente potente: mentre fai musica, la musica si prende cura di te senza che tu glielo chieda, in modo gratuito appunto. Così inizi a fidarti di lei e a non poterne fare più a meno. Si tratta di una prospettiva importante all’interno di un carcere minorile, dove le storie di vita dei ragazzi sono essenzialmente storie di deprivazione”. Non solo scuola e lavoro, insomma. “La rieducazione del detenuto passa per occasioni formative che vengono percepite come dei doveri, ma non solo - prosegue Ziccone, Ricordo che nei primi anni Duemila ospitammo nel carcere del Pratello il concerto di una violinista molto famosa. Al termine dell’esibizione, uno dei ragazzi le chiese di poter provare il suo preziosissimo strumento e lei glielo passò senza alcuna esitazione Nel gesto di quell’artista era presente un potente messaggio educativo, che non e rimasto inascoltato; questa è la grande forza della gratuità”. I tre videoclip delle canzoni di Leporello sono presenti sul canale Youtube dell’Associazione Mozart14. Chiedono un po’ di attenzione, trasudano rabbia, paura, speranza. In fondo, recita uno dei ritornelli, “sono poche le cose davvero importanti, apprezzare la vita trattarla con i guanti, un pensiero va agli amici che ora sono distanti. Andiamo avanti, andiamo avanti”. Milano: “Lo Strappo”, ai confini del dolore dentro il carcere di Opera di Max Rigano glistatigenerali.com, 20 marzo 2018 “Quando uccidi qualcuno, muore anche una parte di te: sebbene, sentendoti Dio, ti è difficile ammetterlo. Ma è cosi”. Alessandro Crisafulli è stato un uomo della criminalità organizzata del quartiere della “Comasina” a Milano. Ha una condanna: fine pena mai. Ergastolo. Al carcere di Opera c’è ormai da un decennio, e in galera da oltre 24 anni. “Cosa direi al me stesso che 25 anni fa uccideva e spacciava? Più che altro lo ascolterei. Lo accompagnerei a vedere cosa si è perso della vita, per farsi ascoltare da una famiglia che era sempre rimasta in silenzio”. Alessandro ha fatto un lungo percorso di psicoterapia. Ha guardato dentro il suo abisso “da cui non si riemerge mai completamente perché quando uccidi, una parte di te muore”. Rivendica tuttavia il diritto a riabilitarsi attraverso il carcere, di riscoprire la vita proprio in un penitenziario. Visto che per lui la strada ha rappresentato le tenebre della sua esistenza. “Mi sono sentito libero per la prima volta in vita mia il giorno in cui mi hanno arrestato”. Al carcere di Opera questa volta il Prof. Angelo Aparo, psicoterapeuta che lavora nelle carceri da 38 anni, ha proposto un incontro dal titolo: “Lo Strappo, quattro chiacchiere sul crimine”. Un evento cui hanno preso parte detenuti, condannati di Alta Sicurezza appartenenti al Gruppo della trasgressione, nato grazie al lavoro del professore per far emergere il dolore profondo di coloro che si sono macchiati di reati gravissimi; magistrati, società civile, giornalisti, che si sono confrontati sul come agire per trasformare la pena non in uno strumento di vendetta ma di riabilitazione del reo. Ciò che la riflessione comune ha fatto emergere è che le categorie di bene e di male sono inficiate dal personale passato di ogni singola persona. L’aula teatro del Carcere di Opera, dove si tiene la serata aperta al pubblico, propone una parte di un lungometraggio curato dal giornalista Carlo Casoli, dal PM Francesco Cajani, dal sociologo Walter Vannini e dallo stesso Aparo sul ruolo del carcere nella psicologia del detenuto. Riflessioni fatte ad alta voce sulle esigenze che il singolo ha di vedere riabilitata la propria esistenza, acquisendo quello spessore morale di cui è di fatto stato privato in giovane età. “Sono stato anch’io un uomo di mafia; ho ucciso” - dice ad un certo punto Roberto Cannavò, catanese ed ex appartenente a Cosa Nostra. “Tuttavia nel sentire di dovere scontare questo male profondo, ho preso atto che io stesso sono stato vittima della mafia: quando avevo 12 anni mio padre fu ucciso per sbaglio dall’imboscata di una cellula mafiosa. Prima di diventare carnefice, sono stato anzitutto una vittima”. Nessuno di questi ragazzi si atteggia. Ognuno di loro è consapevole di aver inflitto dolore al suo prossimo. Tuttavia è nella coscienza di ciascuno, di aver compiuto atti tremendi. Da lì si dispiega la possibilità oggi di poter andare nelle scuole e individuare “potenziali nuovi delinquenti” che potrebbero reiterare le istanze del male, rinnovando il proposito di uccidere. “Quando riesco a riconoscere uno di loro so che sto impedendo che il gioco della morte torni a mietere le sue vittime. Solo così sento di stare ripagando il mio debito. Evitando che altri facciano i miei stessi errori e provochino ulteriore dolore”. Sul palco insieme a Roberto e Alessandro, ci sono Umberto Ambrosoli, figlio di Giorgio, assassinato dalla mafia, Il neo direttore del Carcere di Opera Silvio Di Gregorio, l’ex direttore Giacinto Siciliano adesso a San Vittore, Franco Roberti, già Procuratore Nazionale anti mafia, Paolo Colonnello caporedattore de La Stampa di Torino e appunto Alessandro Crisafulli, Roberto Cannavò e Adriano Sannino, tutti e tre appartenenti al Gruppo della trasgressione del Prof. Aparo. Come sempre in questi casi, tra i detenuti presenti “iscritti” alla serata, ci sono anche gli ultimi arrivati. Coloro cioè che non sono ancora ammessi al percorso del gruppo della trasgressione, ma autorizzati ad assistere al loro lavoro. Al tentativo quindi di reintegrazione nella società civile che passa anche attraverso incontri aperti al pubblico, di questo tenore. Nelle ultime file, dove sono schierati in fila i detenuti con “minore anzianità” oppure non ancora considerati “pronti”, c’è fermento. Alcuni di loro hanno un atteggiamento di sfida verso le guardie penitenziarie. Che a loro volta non guardano sempre con comprensione il lavoro svolto dai ragazzi del gruppo. Questione di pelle. Alcuni dei detenuti il loro odio verso le guardie se lo sono tatutato: Acab (All cops are bastards) recita più d’uno sulle braccia o sul collo. Dentro serate come queste allora c’è anche l’intento di dare voce a quanto resta sopito nelle giornate interne al penitenziario tra il personale e i carcerati. La volontà cioè di creare un ponte attraverso l’ascolto. È una delle cose che mi colpisce di più: per un paradosso, vedo volti più distesi tra i carcerati che non tra i le guardie penitenziarie che sembrano più stressate. È l’effetto del processo di responsabilità. La guardia risponde di quanto accade dentro il penitenziario. Il carcerato invece finendo dentro, ha cominciato a scontare subito il suo debito. E dopo anni, è come se questo debito venisse “scontato” poco alla volta attraverso un cammino di coscienza. Come se lo stare dentro desse modo loro di pensare a quanto commesso. Mentre una guardia penitenziaria deve rispondere ogni giorno della responsabilità che ha di seguire i detenuti. Ma senza poter “pensare”. Eseguono degli ordini, delle direttive. La serata è stato uno sguardo lucido sul dolore. Sulla consapevolezza del suo linguaggio che si esprime non solo in capo alle vittime della violenza criminale ma anche in capo ai suoi carnefici. Una serata umanamente toccante. Dove bene e male si sfiorano. E dove se ne esce tutti più arricchiti. “Sia chi se torna a casa a dormire, sia chi se ne torna in branda in cella”. La vita continua, anche se non è più la stessa. Lecce: l’Arte e la Bellezza entrano in carcere, Kalòs Arte & Scienza in Poet’Art leccesette.it, 20 marzo 2018 L’arte entra in carcere grazie al progetto dell’associazione di Promozione Sociale e Culturale Kalòs Arte & Scienza. Dopo la firma del protocollo d’intesa di martedì 13 marzo, siglato dalla direttrice della Casa Circondariale, Rita Russo, e dalla presidente dell’ Associazione, la scrittrice Giovanna Politi, la Sezione Intramuraria della Casa Circondariale di Lecce, il 21 marzo alle ore 15.30, diventerà un palcoscenico. L’Associazione di Promozione Sociale e Culturale Kalòs Arte & Scienza presenterà difatti Poet’s Art, una full immersion di performance artistiche, per regalare ai detenuti emozioni e sentimenti positivi. Il programma prevede una introduzione a cura di Graziella Lupo Pendinelli (consulente filosofica), e gli interventi di Wojtek Pankiewicz, docente di diritto pubblico, Università del Salento, “La Costituzione della bellezza. La bellezza della Costituzione”. Luigi De Luca, direttore del Polo biblio-museale di Lecce, donerà libri alla Biblioteca del Carcere. Maria Agostinacchio, storica dell’Arte Liceo Artistico “Ciardo - Pellegrino” di Lecce, interverrà sul tema “La Bellezza dell’Arte”; Brizia Minerva, storica dell’Arte del Museo “Sigismondo Castromediano” di Lecce presenterà il dipinto di Vincenzo Ciardo, “Plenilunio”, 1968, Olio su tela. Franco Contini, in rappresentanza dell’Accademia di Belle Arti, di cui è docente di pittura, presenterà il dipinto di Giuseppe Casciaro, “Capri”, primo ‘900, pastello su cartoncino, opera inedita. Presenti all’iniziativa anche diversi artisti: Giuseppe Tafuro, tenore; Vera Longo, violinista; Gianluca Milanese, flautista; Carla Petrachi, pianista; Manon Capozza, attrice teatrale; Marco Ferulli, violinista. Installazione a cura di Annalisa Tommaso. Conclusioni di Salvatore Cosentino, Sostituto Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Lecce e autore teatrale. Partecipa Carla Petrachi, pianista. Saluti di Rita Russo, Direttore Casa Circondariale di Lecce; Silvia Dominioni, presidente Tribunale di Sorveglianza Lecce; Giovanna Politi, presidente Associazione Kalòs Arte&Scienza. Aversa (Ce): quando lo spettacolo “apre” le porte del carcere Il Mattino, 20 marzo 2018 È stato un grandissimo successo lo spettacolo promosso da Campania plus e dalla compagnia teatrale dei “Tiempe belle ‘e ‘na vota” svoltosi sabato sera nella sala teatro della Casa di Reclusione di Aversa “Filippo Saporito”. Un gruppo di artisti amatoriale quella che si muove sul palco sotto la regia di Gennaro Cicala, che non ha nulla da invidiare a compagnie di professionisti. I detenuti si sono sentiti spettatori di un teatro cittadino e sono stati entusiasti dello spettacolo, come evidente dai tanti applausi fragorosi. Ma analogo entusiasmo hanno mostrato gli ospiti e il personale dell’istituto, primi tra tutti la direttrice Carlotta Giaquinto e il Comandante Antonio Villano, presenti all’iniziativa. Numerosi gli ospiti intervenuti, tra cui il sindaco della città di Aversa De Cristofaro, il vicario del Vescovo di Aversa Don Massimo e il direttore della Caritas aversana Don Carmine Schiavone. L’occasione è stata utilizzata anche per comunicare ai detenuti che la Curia di Napoli nella persona del cardinale Crescenzo Sepe, il vescovo di Aversa Monsignor Angelo Spinillo e Don Car- mine Schiavone della Caritas di Aversa hanno deciso di regalare ai detenuti della Casa di Reclusione di Aversa l’impegnativa installazione dell’impianto per vedere Sky e il successivo abbonamento. La gioia dei ristretti è stata incontenibile. Sia per la spettacolo nel luogo di reclusione sia per la possibilità di seguire gli avvenimenti in tv con Sky. Dati rubati, una horror story della politica (e della democrazia) di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 20 marzo 2018 È sempre più evidente la necessità di un intervento per proteggere i nostri dati essenziali. La caduta in Borsa di Facebook è solo un effetto - oggi il più evidente ma, tutto sommato, non il più rilevante - di quella che ogni giorno di più si conferma una horror story della politica di incredibile gravità: certo, c’è anche il Russiagate, ma, man mano che si susseguono le rivelazioni, diventa chiaro che i russi, nell’interferire nelle elezioni americane del 2016, si sono limitati a cavalcare, e in modo parziale, una macchina già ben oliata. Un meccanismo sapientemente costruito da società informatiche che lavorano nel mercato della politica (ora per Trump ma prima per altri) per spiare ogni singolo utente di Internet - nel caso in questione di Facebook - penetrando nella sua anima. Non basta più collezionare dati sui consumi o le letture dell’individuo per cercare di dedurre tenore di vita e orientamento politico (anche attraverso libri e giornali acquistati): ora si vuole capire da come ciascuno si comporta nei social network, soprattutto con l’analisi dei like, qual è non solo il suo orientamento, ma anche il suo temperamento, quanto è psicologicamente vulnerabile. Colta per l’ennesima volta alla sprovvista, Facebook si dice raggirata dall’accademico russo-americano al quale ha concesso i suoi dati e da Cambridge Analytica, al quale il professore, Aleksandr Kogan, li ha trasferiti impropriamente. Cambridge Analytica, a sua volta, nega di aver violato leggi. Lo accerterà il procuratore Mueller che sta indagando, ma qui il punto non è stabilire se sono stati commessi reati. Forse è anche più grave se non ce ne sono stati perché questo vorrebbe dire che raccogliere le informazioni private di 50 milioni di elettori, filtrarle attraverso le analisi di psicologi appositamente reclutati per analizzarli, costruire il profilo delle vulnerabilità di ognuno per poi sussurrare messaggi diversi, ma con un unico obiettivo finale a ogni singolo elettore, fa ormai parte della fisiologia, non della patologia delle nostre società aperte. Ci saranno molte altre puntate della horror story, Facebook dovrà rispondere a molte domande (l’ultima: perché, rotto con Kogan, ha assunto il suo socio?). Ma qui è sempre più evidente la necessità di un intervento politico per proteggere dati essenziali per la nostra democrazia. “Per Facebook si delineano problemi sistemici” dicono gli analisti di Wall Street. E la Borsa reagisce. Orlando: serve un’alleanza di più paesi contro l’antisemitismo sul web di Fabiana Magrì La Stampa, 20 marzo 2018 Il ministro della Giustizia a Gerusalemme per il Forum internazionale per combattere l’antisemitismo. “La mia presenza ha una valenza particolarmente forte nell’anniversario delle leggi razziali nel nostro paese. L’Italia vuol essere qui anche per non rimuovere le responsabilità storiche che purtroppo il nostro paese si porta dietro”. Il Ministro della Giustizia Andrea Orlando si trova a Gerusalemme per il Forum internazionale per combattere l’antisemitismo che inaugura questa sera. Domani interverrà in un panel con gli omologhi di Israele, Grecia e Malta. “Il tema su cui collaborare, anche al di là dell’evoluzione del quadro normativo, è un’azione comune per contrastare i reati d’odio nella loro diffusione sulla rete. Con la Ministra israeliana ho avuto un incontro a Parigi a latere di un vertice Ocse e abbiamo già valutato la possibilità di creare forme di cooperazione e l’Unione Europea ha firmato un protocollo con le piattaforme della rete per chiedere la rimozione dei contenuti d’odio. Credo che un’alleanza di più paesi sia una delle condizioni per battere questa vera e propria escalation attraverso i nuovi mezzi d’informazione. Fenomeno fatto sia di contenuti espliciti ma talvolta - ed è anche più insidioso - di vere e proprie leggende nere, diffuse come presupposto a un clima che genera l’odio razziale, religioso o di genere”. A latere del convegno, in corso fino a mercoledì, il Ministro Orlando ha incontrato a Ramallah il vice primo ministro dell’Autorità Palestinese, Ziad Abu Amr. “Abbiamo riscontrato una situazione di stallo nel processo di conciliazione”, riferisce commentando le conseguenze dell’attentato al primo ministro Rami Hamdallah. “Senza nessun eufemismo: c’è vuoto di prospettive. Il tema principale in questo momento è ritrovare un elemento di unità del fronte palestinese come condizione per la ripresa di un processo negoziale nel quale la parte palestinese possa avere un peso e un ruolo”. A Gerusalemme il Ministro ha incontrato anche Padre Francesco Patton, Custode di Terrasanta, e la conversazione ha toccato il tema della recente disputa tra le chiese cristiane e il Comune di Gerusalemme su una questione di tasse comunali sulle proprietà ecclesiastiche che poche settimane fa portò alla temporanea chiusura al pubblico del Santo Sepolcro. “È una partita che apparentemente può avere un aspetto solo economico ma in verità ha anche un elemento di garanzia delle diverse presenze nella città di Gerusalemme. C’è stata sollecitata un’attenzione che comunque era già stata assicurata dalla nostra rete diplomatica”. Nell’incontro odierno con la stampa a Orlando è stato richiesto un commento sulla dichiarazione di Grillo della fine dell’epoca dei “vaffa”. “Se l’intenzione è seria non può che fare bene alla democrazia italiana”, si augura il ministro, “perché al di là della collaborazione o no in un’esperienza di governo, cosa che abbiamo escluso, il fatto che una forza politica riconosca l’interlocuzione con gli altri soggetti politici è un fatto assolutamente positivo. È un po’ presto per dire se è vero. Al momento abbiamo elementi abbastanza in controtendenza rispetto a questa affermazione. Credo che per passare dalle parole ai fatti ci voglia un po’ di tempo.” E sul presunto movimento dei “collisti” all’interno del Pd, cioè coloro che resterebbero in attesa di sapere quali saranno le proposte del Presidente Mattarella, risponde che “nel rispetto dell’autonomia del nostro partito, non ci si può né deve dividere tra chi guarda con attenzione al capo dello stato e ai suoi passi e chi non lo fa. Credo che tutto il Pd sia impegnato in questo senso.” E se dal Colle arrivasse la richiesta o l’invito a considerare posizioni fin qui scartate? “Abbiamo risposto sul perché è impercorribile un accordo politico con il centro destra e anche con il Movimento 5 Stelle”, ribadisce Orlando “Non possiamo che guardare con attenzione le valutazioni e le proposte che il capo dello stato metterà in campo.” Migranti. Il soccorso in mare non è un reato di Luigi Manconi e Federica Graziani Il Manifesto, 20 marzo 2018 È forse in vigore in Italia, come ha detto l’avvocatessa catanese Rosa Emanuela Lo Faro, il “reato di solidarietà”? Noi, per la verità, preferiamo parlare di “reato di soccorso”, in quanto ciò che l’inchiesta della Procura di Catania tende a mettere sotto accusa non è soltanto un’attitudine virtuosa. È, piuttosto, un’attività che costituisce un fondamentale diritto umano, giuridicamente fondato e internazionalmente riconosciuto, da cui discendono obblighi e garanzie. Ma comunque lo si voglia chiamare, quanto accaduto suscita stupore. Tanto più se si considerano i precedenti. Il procuratore capo di Catania, Carmelo Zuccaro, un anno fa, intendeva “aprire un’inchiesta per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nei confronti delle Ong” perché alcune di queste “potrebbero essere finanziate dai trafficanti”; e perché le loro attività mirerebbero a “destabilizzare l’economia italiana” e la stessa sicurezza nazionale. Ma, poi, lo stesso Zuccaro dovette riconoscere di non disporre di “alcun fondamento probatorio” in grado di suffragare le proprie ipotesi accusatorie e “motivare l’apertura di un fascicolo”. Ora, la Direzione distrettuale antimafia, che fa capo alla Procura di Catania, ritiene di aver trovato la pistola fumante. E, così, la campagna di delegittimazione delle Ong può riprendere vigore. Ma come si è arrivati a questo? La scintilla nuova delle passioni antiche di chi vuole squalificare un’azione tanto sacrosanta quanto legittima, trova il suo primo pretesto giovedì scorso. La nave Open Arms, dell’organizzazione spagnola Proactiva, una delle tre Ong ad aver firmato il Codice di condotta voluto dal Ministero dell’Interno, la mattina di quel giorno risponde a un Sos lanciato da un gommone carico di persone (in gran parte eritree) e segnalato dal Centro Nazionale di Coordinamento della Guardia Costiera. Ma, poi, quest’ultima, contraddittoriamente, dirà che il controllo delle operazioni doveva passare ai libici. Ma il barcone si trova a oltre 70 miglia dalla costa libica - attenzione: in acque internazionali - e la Open Arms inizia le operazioni di soccorso, recuperando per primi bambini e donne. Mentre i volontari stanno distribuendo i giubbetti salvagente, un pattugliatore della marina libica si interpone tra loro e la Open Arms, impedendo di portare a termine il recupero. Con le armi in pugno, gli uomini della Guardia costiera libica minacciano l’equipaggio delle lance. I toni forti e le parole concitate dello scambio intercorso in quei minuti sono raccolti in un video: “Tre minuti. Vi do un ultimatum di tre minuti per venire qui. Se non ci consegnate i negri li ammazzo”, così un ufficiale della marina libica al megafono. I soccorritori si interrogano su quelle parole urlate in varie lingue: “Ha detto che se non ce ne andiamo in tre minuti, li ammazza”; “Abbiamo un problema, abbiamo tre minuti per consegnare i migranti”. L’ufficiale minaccia di aprire il fuoco: “Avete tre minuti per consegnarceli e stanno diventando tre secondi”. A questo punto, alcuni militari libici salgono sulle lance: la situazione di grande tensione va avanti per quasi due ore, poi i libici consentono alla Open Arms di completare le operazioni. Dopo quella tragedia sfiorata, per 36 ore, l’imbarcazione naviga lentamente verso nord nell’attesa di disposizioni della Guardia costiera italiana su dove attraccare, con 218 profughi a bordo, tra i quali molti bisognosi di cure urgenti. In quelle ore, che precedono il via libera da Roma per l’attracco in Sicilia, l’equipaggio della Open Arms attua il trasbordo verso Malta di una madre con la propria figlia neonata, in gravissime condizioni di salute. Finalmente, intorno alle 18 di venerdì, arriva da parte delle autorità italiane l’assegnazione del porto di Pozzallo, dove l’imbarcazione giunge il sabato mattina. Il capitano, Marc Reig Creus, e la capo-missione, Ana Isabel Montes Mier, vengono interrogati per diverse ore da agenti della squadra mobile di Ragusa e dello Sco di Roma, fino a che, domenica sera, arriva il provvedimento di sequestro della nave e gli avvisi di garanzia per i tre, considerati responsabili di quell’intervento di soccorso in mare. L’avvocato Alessandro Gamberini, legale della capo-missione, ritiene che il reato di associazione a delinquere sia palesemente insussistente. D’altra parte, un comunicato dell’Asgi (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione) ricorda che: “Nessun rifugiato può ottenere protezione in Libia non sussistendo alcuna norma di diritto interno che lo preveda e tutti i rifugiati, comunque presenti sul territorio libico, sono oggetto di detenzione arbitraria nelle carceri, in condizioni disumane e in generale sono oggetto di violenze sistematiche”. È a questo destino, che l’Ong Proactiva avrebbe dovuto indirizzare i profughi dopo averli sottratti alla morte in mare? Migranti. Nessuno tocchi chi soccorre i bambini di Fabrizio Gatti La Repubblica, 20 marzo 2018 Sia la guida alpina del Monviso, sia l’equipaggio di una nave dell’ong Proactiva avevano soccorso persone in difficoltà. Un gesto che non pertiene soltanto alla legge, ma è la condizione minima dell’essere umano. Fuori da questa condizione rimane la barbarie. Questa volta si è andati oltre l’osceno. Il soccorso di persone in difficoltà e il dovere che lo impone non è soltanto un obbligo di legge: è anche la condizione essenziale, minima, fondamentale dell’essere umano. Fuori da questa condizione, rimane la barbarie. Due fatti avvenuti ai nostri confini dimostrano che in Europa abbiamo già superato il “saremo cattivi”, promesso nel 2009 dall’allora ministro dell’Interno leghista, Roberto Maroni. Il primo fatto: una guida alpina è stata denunciata dall’autorità francese per favoreggiamento dell’immigrazione illegale, per aver trovato in mezzo alla neve del Monginevro, a oltre 1.800 metri al confine con l’Italia, e portato a valle due bambini nigeriani di due e quattro anni, il loro papà e la loro mamma incinta in preda alle doglie. Il secondo: i ministeri dell’Interno e dei Trasporti italiani, grazie ai rimpalli di responsabilità diramati attraverso la Guardia costiera, hanno messo l’organizzazione umanitaria spagnola Proactiva Open Arms nelle condizioni di essere accusata dalla Procura di Catania di associazione a delinquere, con l’aggravante di avere messo in pericolo delle vite. Sia la guida alpina, sia l’equipaggio di una nave dell’ong di Barcellona avevano appena soccorso persone in difficoltà, in montagna e in mare aperto. E per questo si trovano ora sotto inchiesta. L’anno scorso Proactiva aveva firmato il protocollo del ministro dell’Interno Marco Minniti, ma a nulla è servito. Le due vicende non toccano questioni sociali o economiche come il controllo dell’immigrazione, la pianificazione demografica, la pubblica assistenza. Riguardano semplicemente l’obbligo di soccorso. E la sua criminalizzazione, decisa dall’autorità di due Stati membri fondatori dell’Unione Europea. Anche se guardiamo il mondo soltanto attraverso le lenti della legalità, la guida alpina e i marinai dell’ong hanno rispettato la legge. In Italia l’omissione di soccorso è punita dall’articolo 593 del Codice penale e, tra gli altri, dagli articoli 69 e 1158 del Codice della navigazione. La Libia, che rimane un inferno umanitario, non ha invece firmato e nemmeno applica le convenzioni necessarie per essere dichiarata un porto sicuro. Il fatto che i governi di Roma e Tripoli abbiano siglato un accordo politico bilaterale non colma le lacune in merito alle norme di valore internazionale. La conseguenza di quanto sta accadendo dalle Alpi alla Sicilia non è semplicemente la criminalizzazione della solidarietà. È anche l’intimidazione giudiziaria verso quanti si dovessero trovare nelle circostanze di dover salvare un bambino straniero tra le montagne o gli occupanti di un gommone alla deriva. Per quanto ci riguarda, la questione arriva da molto lontano. Da una parte ecco la Francia che nel 2011 ha esportato la guerra in Libia e, con le sue conseguenze, ha indirettamente destabilizzato le economie del Sahara. Dall’altra c’è l’Italia, che per diciassette anni, da Berlusconi a Gentiloni, non è stata in grado di mettere in campo una politica estera capace di prevenire e gestire i fenomeni. Perfino la missione italiana in Niger, contro i trafficanti che portano migranti in Libia, non partirà nei tempi previsti: si scopre ora che è stata approvata senza il minimo, necessario via libera del governo africano (che, guarda caso, risponde direttamente a Parigi). Una beffa. Se proprio vogliamo fare un processo al nostro tempo, cominciamo dai nostri fallimenti. E che nessuno tocchi chi soccorre i bambini. Stati Uniti. Ucciso un disabile mentale, sospesa l’esecuzione di un altro detenuto La Repubblica, 20 marzo 2018 Il periodico report di “Nessuno Tocchi Caino”. A Singapore mandato a morte un ghanese. In India un disegno di legge per la pena di morte a chi stupra in gruppo e ragazzini sotto i 12 anni. Due prigionieri sono stati giustiziati negli Stati dell’Alabama e della Georgia, portando a 5 le esecuzioni praticate da inizio anno negli Usa e a 1.471 i detenuti messi a morte da quando gli Usa hanno ripreso le esecuzioni nel 1977. Il 22 febbraio scorso l’esecuzione di un altro detenuto nel braccio della morte - Doyle Hamm - è stata sospesa dopo oltre 2 ore di tentativi di trovare una vena. Un calvario cui spesso i condannati soggetti all’iniezione letale devono subire. È quanto si apprende dal report periodico di Nessuno Tocchi Caino, l’ONG italiana, attiva in tutto il mondo, affiliata alla “galassia” radicale, il cui obiettivo è l’attuazione della moratoria universale della pena di morte e più in generale la lotta contro la tortura. A morte un disabile mentale, ancora una volta. Michael Wayne Eggers, 50 anni, bianco, è stato giustiziato in Alabama. Era accusato di aver ucciso, il 30 dicembre 2000, Bennie Francis Murray, 67 anni, una donna che lo stava aiutando a trovare un lavoro. Una giuria popolare della Walker County votò 11-1 nell’agosto 2002 per la condanna a morte. Sia i difensori all’epoca del processo, sia i nuovi difensori subentrati negli ultimi, anni hanno insistito sulle compromesse condizioni mentali di Eggers, che presentava molti sintomi tipici della paranoia, compreso licenziare continuamente i suoi avvocati ritenendoli coinvolti in un complotto contro di lui da parte del Governo. Eggers diventa il 1° giustiziato di quest’anno in Alabama, il 62° da quando l’Alabama ha ripreso le esecuzioni nel 1983. Il secondo ucciso con il Pentobarbital di un laboratorio artigianale. Carlton Gary, 67 anni, nero, è stato giustiziato in Georgia con una dose di Pentobarbital proveniente da un laboratorio artigianale. Era considerato un serial killer, soprannominato dalla stampa “lo strangolatore della calza”. Era stato condannato a morte per lo stupro e omicidio, tra il 1977 e il 1978, di 3 donne, Florence Scheible, 89 anni, Martha Thurmond, 69 anni, e Kathleen Woodruff, 74 anni. Per questi omicidi era stato condannato a morte il 27 agosto 1987. Era sospettato di almeno altri 4 omicidi, e 2 stupri in cui le vittime erano sopravvissute. Venne arrestato nel maggio 1984, e ricollegato a ritroso attraverso il DNA ed altri elementi. Gary diventa il 1° giustiziato di quest’anno in Georgia, il 71° da quando lo stato ha ripreso le esecuzioni nel 1983. Singapore - Ghanese giustiziato per traffico di droga. A Singapore è stato giustiziato un cittadino ghanese, il 39enne Billy Agbozo, per traffico di droga, respingendo la sua richiesta di clemenza. Agbozo aveva viaggiato in aereo da Accra a Dubai il 4 aprile 2013, prima di imbarcarsi su un aereo diretto a Singapore. Arrivò all’aeroporto Changi di Singapore il giorno dopo, con l’intenzione di trascorrere cinque giorni nel paese asiatico. Fu fermato dagli ispettori del posto di controllo che esaminarono il suo bagaglio trovando nascosta una sostanza bianca cristallina in una sacca e in una valigia. La sostanza conteneva 1,63 kg di metanfetamina con un valore stimato di circa $ 135,600. Agbozo venne arrestato e dichiarato colpevole di aver importato illegalmente droghe a Singapore, ai sensi della Legge sull’abuso di Droghe del Paese. Non è ancora noto l’accordo esistente tra Ghana e Singapore e se Accra abbia presentato un appello. L’appello di Agbozo contro la condanna capitale è stato respinto dalla Corte d’Appello nel febbraio scorso. Anche la sua richiesta di clemenza rivolta al Presidente è stata respinta. Pakistan - Sono 186 i condannati dai tribunali militari dal 2015. Un totale di 486 casi sono arrivati davanti ai tribunali militari dall’inizio della loro attività nel 2015. I tribunali dell’esercito, istituiti dopo l’approvazione di un emendamento costituzionale, hanno concluso 333 casi e hanno condannato alla pena capitale 186 persone, secondo una risposta scritta del Ministero della Difesa, fornita durante il question time all’Assemblea Nazionale. Il deputato Abdul Qahar Khan Wadan aveva chiesto al Ministero della Difesa il numero totale di cause attualmente pendenti nei tribunali militari, insieme ad altri dettagli. In risposta a questa domanda, il Ministero ha dichiarato che 101 casi sono nei tribunali militari e che 52 casi sono stati archiviati. Secondo i dettagli forniti ai parlamentari, 79 persone sono state condannate all’ergastolo da questi tribunali e 47 a 20 anni di detenzione. I tribunali militari hanno anche incarcerato una persona per 18 anni, un altro detenuto per 16 anni, 13 imputati per 14 anni, tre persone per 10 anni e due detenuti per sette anni, ha reso noto la risposta. India - Rajasthan: pena capitale solo per stupri a ragazze sotto i 12 anni. Il Rajasthan ha approvato un disegno di legge che prevede la pena di morte per chi stupra ragazze sotto i 12 anni di età. Il Madhya Pradesh ha già approvato una legge con disposizioni simili nel dicembre scorso, mentre il gabinetto dell’Haryana questo febbraio ha accennato a una proposta per introdurre una legislazione di questo tipo. Anche il Maharashtra e il Karnataka stanno prendendo in considerazione la pena di morte per gli stupratori di bambini. Il Ministro degli Interni del Rajasthan, Gulab Chand Kataria, ha presentato in Assemblea il Progetto di Legge sulle Leggi Penali (Emendamento Rajasthan), che è stato approvato dall’aula con un voto vocale a seguito di un dibattito. Il disegno di legge. Il provvedimento mira ad aggiungere la sezione 376-AA nel Codice penale indiano, che recita: “Punizione per lo stupro di una donna fino a dodici anni di età. Chiunque commetta uno stupro su una donna di età inferiore ai dodici anni deve essere punito con la morte o con una dura reclusione per un periodo che non può essere inferiore a quattordici anni ma che può estendersi fino alla reclusione per tutta la vita, il che significa imprigionamento per il resto della vita naturale della persona, e sarà anche passibile di ammenda”. Due emendamenti sono stati introdotti nel disegno di legge, incluso il divieto per il detenuto di lasciare il carcere a vita anche dopo aver fatto 14 anni di reclusione. “Abbiamo fatto due emendamenti. Aggiunto l’ergastolo per reati contro le ragazze al di sotto dei 12 anni d’età, inoltre c’è una disposizione per cui il condannato all’ergastolo non può lasciare la prigione anche dopo aver completato 14 anni di condanna”, ha detto GC Kataria. Stessa pena per stupro di gruppo. Una disposizione simile, 376-DD, verrà aggiunta per lo stupro di gruppo. Nella “Dichiarazione degli Oggetti e dei Motivi” per presentare la proposta di legge, il governo ha detto: “Il governo dello Stato è venuto a conoscenza del fatto che il reato di stupro di minore e di stupro di gruppo di minori avviene di tanto in tanto. Tali crimini sono odiosi e trasformano la vita della vittima in un inferno”. All’inizio di febbraio, il primo ministro Vasundhara Raje, in una risposta nel dibattito sul bilancio in Assemblea, aveva annunciato che il governo dello Stato avrebbe introdotto una punizione più severa, “compresa la pena capitale”, per lo stupro di ragazze sotto i 12 anni. In aumento i crimini contro i minori. Secondo il rapporto 2016 del National Crime Record Bureau (NCRB), i casi di crimini contro i minori hanno mostrato un costante aumento nel Rajasthan. Lo stato ha registrato 4.034 casi simili nel 2016, pari al 3,8% dei reati contro i minori (98.344) registrati in tutto il Paese. Si trova al quarto posto nel crimine contro il genere femminile. Nel 2015 lo Stato ha registrato 3.689 casi di reati contro i minori, che sono aumentati di 345 nell’anno in esame. Secondo i dati NCRB, la polizia di Stato ha registrato 728 casi di stupro sui minori nel 2015, che sono aumentati a 858 nel 2016. Stati Uniti. La proposta di Trump: “pena di morte contro lo spaccio di droga” Corriere della Sera, 20 marzo 2018 L’idea del presidente, annunciata in un comizio, è di adottare la linea dura contro ic asi più gravi di narcotraffico e di abbassare la quantità minima concessa ai consumatori. Negli Usa in un anno 64morti per consumo di oppiacei. Pene più dure per i trafficanti di droga, compresa la pena di morte ma senza ricorrere a nuove leggi, e riduzione della quantità minima di droga (o di farmaci che contengano oppiacei) necessaria per finire in carcere: sono due degli elementi del piano per combattere la piaga degli oppiacei che Donald Trump ha presentato in un comizio a Manchester, New Hampshire, uno degli stati Usa più colpiti da un fenomeno che nel 2017 ha mietuto almeno 64 mila vittime in tutto il Paese. L’attacco alle case farmaceutiche - Il presidente ha invocato il muro al confine col Messico come un modo per tenere lontano i trafficanti di stupefacenti e si è scagliato contro le città “santuari” che tutelano gli immigrati illegali. Ma ha puntato il dito anche contro le società farmaceutiche per il loro ruolo nella crisi degli oppiacei, ventilando eventuali controversie legali. Nel suo complesso il piano prevede anche di aumentare l’educazione scolastica e la sensibilizzazione al problema, allargare l’accesso ai trattamenti per le cure e il recupero, nonché la riduzione del numero di prescrizioni di farmaci oppiacei di almeno un terzo in tre anni. Il modello Filippine - Trump, che era accompagnato dalla first lady Melania, aveva già auspicato la pena di morte per gli spacciatori, indicando come stati modello la Cina, Singapore, le Filippine di Rodrigo Duterte. Lo scorso ottobre il presidente aveva dichiarato la crisi degli oppiacei una emergenza sanitaria pubblica ma non una emergenza nazionale, come aveva suggerito una commissione ad hoc da lui creata per consentire finanziamenti federali più consistenti. Gran Bretagna. Londra multietnica non fa sconti agli estremisti xenofobi di Luigi Ippolito Corriere della Sera, 20 marzo 2018 Non è un caso che le autorità britanniche considerino l’estrema destra una minaccia pari al terrorismo jihadista e come tale la affrontino: ci vedono un attacco ai valori fondanti della nazione. Non c’è soltanto la Brexit a marcare la distanza fra la Gran Bretagna e l’Europa. Londra ha steso un cordone sanitario per isolarsi dal contagio xenofobo che arriva dal Continente: e ormai rifiuta l’ingresso a chi è considerato sostenitore di idee inaccettabili. L’ultimo episodio è di questo weekend: sabato il fondatore di Pegida, il movimento tedesco anti-Islam, è stato bloccato all’aeroporto di Stansted ed espulso il giorno dopo. Luz Bachmann aveva intenzione di pronunciare un discorso allo Speakers’ Corner di Hyde Park, il luogo dove anche le opinioni più bizzarre hanno diritto di parola: ma le autorità britanniche hanno ritenuto l’iniziativa “non nell’interesse del bene pubblico” e hanno messo alla porta l’estremista. La stessa cosa era successa qualche giorno prima, quando l’attivista di destra canadese Lauren Southern era stata bloccata a Calais, dove era in procinto di recarsi in Gran Bretagna; e così anche un esponente xenofobo austriaco, Martin Sellner, si era visto arrestare all’aeroporto di Luton ed espellere il giorno dopo, sempre con la motivazione dell’interesse pubblico. Si potrebbe obiettare che Londra ha paura della libera circolazione delle idee, per quanto controverse possano essere. Ma il cuore del problema è la natura della società britannica: che è multietnica e multiculturale. Qui i neri o gli islamici non sono “gli altri”, ma parte costitutiva del tessuto sociale: discorsi razzisti o islamofobi vanno dunque a minare le stesse basi della convivenza civile. E dunque non è un caso che le autorità britanniche considerino l’estrema destra una minaccia pari al terrorismo jihadista e come tale la affrontino: ci vedono un attacco ai valori fondanti della nazione. Anche il razzismo spicciolo viene represso con durezza: due studenti che avevano lanciato slogan contro i neri nella residenza universitaria sono stati sbattuti in cella senza tanti complimenti. Altrove avrebbero parlato di goliardata. A Londra non fanno sconti. Siria. Ad Afrin il dramma dei civili curdi, in 200mila senza cibo né acqua di Marco Ansaldo La Repubblica, 20 marzo 2018 L’enclave curda conquistata dai ribelli siriani appoggiati da Ankara. Grazie alla propaganda martellante, la politica aggressiva del presidente turco non conosce opposizione. Damasco: “È un’invasione, devono ritirarsi”. I curdi: “Ora sarà guerriglia”. Esplosioni e saccheggi si susseguono ora ad Afrin conquistata dalle truppe turche con i loro alleati, i ribelli dell’Esercito libero siriano (Els). Adesso la situazione nell’enclave curda della Siria al confine con la Turchia si fa ancora più drammatica: secondo le autorità civili locali, più di 200 mila persone si trovano senza rifugio né accesso a cibo e acqua. “La gente che ha un’automobile dorme in macchina - dice Hevi Mustafa, dirigente dell’amministrazione curda nell’area - quelli invece privi dormono sotto gli alberi assieme ai loro figli”. Molti, nuovamente, i civili uccisi nell’ultima fase della battaglia. Tanti gli atti predatori, come spesso avviene quando una città viene conquistata “manu militari”. Gli attivisti dell’Osservatorio libero siriano segnalano che a essere presi di mira sono vetture, case e negozi. I civili in fuga sono migliaia. La bandiera turca e quella dell’Els vengono issate sui palazzi. In corso ci sono ancora combattimenti sporadici, perché sacche di militanti dello Ypg, le Unità di protezione popolare, continuano a resistere all’avanzata turca. Ma gli stessi curdi ammettono la sconfitta, mentre reagiscono promettendo che la guerra “contro l’occupazione della Turchia entra ora in una nuova fase”. Si passerà dallo scontro diretto alla guerriglia. La nuova parola d’ordine è: “Colpire e scappare”. Le milizie dello Ypg “si trasformeranno in un incubo continuo” per i turchi e i loro alleati. Da Ankara il vice premier turco Bekir Bozdag sostiene che la Turchia non rimarrà ad Afrin, ma lascerà la regione ai suoi “veri proprietari”: “Come abbiamo detto, non resteremo qui in modo permanente. Non siamo degli occupanti. Faremo tutto il necessario per riportare la vita alla normalità e per ricostruire le infrastrutture”. Accuse, invece, arrivano dal regime di Assad. La Siria condanna quella che definisce “l’occupazione turca di Afrin e i crimini che essa vi sta commettendo” e chiede - in una nota del ministero degli Esteri di Damasco - che “le forze d’invasione si ritirino immediatamente dal territorio siriano che hanno occupato”. La prima fase dell’operazione “Ramoscello d’ulivo”, lanciata dalla Turchia lo scorso 20 gennaio, si conclude così con un successo militare per Recep Tayyip Erdogan, pronto adesso a trasformarlo in un risultato politico. La battaglia per la conquista dell’enclave curda, condotta in modo spregiudicato dal Capo dello Stato turco nonostante le molte critiche provenienti da Europa e Stati Uniti, è stata appoggiata da una buona parte della sua opinione pubblica. Non solo i seguaci del Partito della giustizia e dello sviluppo, la formazione conservatrice ispirata a valori religiosi fondata dal leader, hanno sostenuto la campagna. Ma anche l’opposizione, e non solo quella del Partito di azione nazionalista, formato dagli ex Lupi grigi, ma pure i socialdemocratici del Partito repubblicano del popolo. A Istanbul tanti semplici cittadini, persuasi da una battaglia martellante sui media, si dichiarano convinti della “lotta contro i terroristi che minacciano la Turchia”. Lo dicono a dispetto dei colloqui condotti dalla diplomazia americana, che in tutti i modi ha tentato di convincere Ankara che i curdi rappresentano il migliore deterrente nei confronti del sedicente Stato Islamico, come già dimostrato nella liberazione di Kobane e di altre città siriane sgombrate dal pericolo jihadista. Solo il partito filo curdo Hdp, presente in Parlamento però falcidiato dagli arresti d’opinione persino ai suoi vertici, resta a difendere l’entità del Rojava, “il Kurdistan dell’Ovest”, come esperimento sociale, politico e territoriale alternativo nel nord della Siria ora penetrato dalle Forze armate turche. Ankara perciò non si ferma, e punta adesso su Manbij, l’altra città a maggioranza curda, per assicurarsi una continuità nella fascia siriana, tanto che Erdogan oggi dichiara che la Turchia “è pronta ad agire militarmente per cacciare i curdi del Pyd dal resto del nord della Siria e il Pkk dal nord dell’Irak”. Il problema è trovare un’intesa con gli Usa, che nella zona mantengono una base militare. La Turchia conta sul fatto di avere mostrato di saper approfittare, con abilità e spregiudicatezza, della debolezza diplomatica della presidenza di Donald Trump. E alternando minacce di rottura con gli Stati Uniti, cerca di indebolire l’alleanza fra Washington e i gruppi curdi, finendo per battere i secondi sul piano militare. Così, dopo la Siria, arriverà l’Iraq. Nel Medio Oriente già sconvolto dai molti conflitti, Ankara intende infatti andare alla resa totale dei conti con i curdi. Erdogan ha fissato il prossimo obiettivo: proseguire l’offensiva nel nord della Siria entro maggio, per poi dedicarsi a un attacco in nord Iraq sulle roccaforti del Pkk, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan. È una nuova guerra all’orizzonte, mentre il sangue continua a scorrere a Damasco nel distretto ribelle della Ghouta bombardato dall’esercito di Bashar el Assad. La nuova mossa annunciata da Ankara è stata concordata direttamente con Bagdad, dice il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu. Un asse rafforzato lo scorso autunno dal fallimento del referendum per l’indipendenza del Kurdistan iracheno. La possibile operazione in nord Iraq, già bombardato periodicamente dagli F-16 turchi, non avverrà prima delle elezioni parlamentari irachene del 12 maggio. L’obiettivo però è chiaro: distruggere le basi del Pkk annidate tra le montagne di Qandil e dintorni. Libia. Sette anni di sventura Nato di Manlio Dinucci Il Manifesto, 20 marzo 2018 Sette anni fa, il 19 marzo 2011, iniziava la guerra contro la Libia, diretta dagli Stati uniti prima tramite il Comando Africa, quindi tramite la Nato sotto comando Usa. In sette mesi, venivano effettuate circa 10.000 missioni di attacco aereo con decine di migliaia di bombe e missili. A questa guerra partecipava l’Italia con cacciabombardieri e basi aeree, stracciando il Trattato di amicizia e cooperazione tra i due paesi. Già prima dell’attacco aeronavale, erano stati finanziati e armati in Libia settori tribali e gruppi islamici ostili al governo, e infiltrate forze speciali, in particolare qatariane. Veniva così demolito quello Stato che, sulla sponda sud del Mediterraneo, registrava “alti livelli di crescita economica e alti indicatori di sviluppo umano” (come documentava nel 2010 la stessa Banca Mondiale). Vi trovavano lavoro circa due milioni di immigrati, per lo più africani. Allo stesso tempo la Libia rendeva possibile con i suoi fondi sovrani la nascita di organismi economici indipendenti dell’Unione africana: il Fondo monetario africano, la Banca centrale africana, la Banca africana di investimento. Usa e Francia - provano le mail della segretaria di stato Hillary Clinton - si accordarono per bloccare anzitutto il piano di Gheddafi di creare una moneta africana, in alternativa al dollaro e al franco Cfa imposto dalla Francia a 14 ex colonie africane. Demolito lo Stato e assassinato Gheddafi, il bottino da spartire in Libia è enorme: le riserve petrolifere, le maggiori dell’Africa, e di gas naturale; l’immensa falda nubiana di acqua fossile, l’oro bianco in prospettiva più prezioso dell’oro nero; lo stesso territorio libico di primaria importanza geostrategica; i fondi sovrani, circa 150 miliardi di dollari investiti all’estero dallo Stato libico, “congelati” nel 2011 su mandato del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Dei 16 miliardi di euro di fondi libici, bloccati nella Euroclear Bank in Belgio, ne sono già spariti 10 senza alcuna autorizzazione di prelievo. La stessa grande rapina avviene nelle altre banche europee e statunitensi. In Libia gli introiti dell’export energetico, scesi da 47 miliardi di dollari nel 2010 a 14 nel 2017, vengono oggi spartiti tra gruppi di potere e multinazionali; il dinaro, che prima valeva 3 dollari, viene oggi scambiato a un tasso di 9 dinari per dollaro, mentre i beni di consumo devono essere importati pagandoli in dollari, con una conseguente inflazione annua del 30%. Il livello di vita della maggioranza della popolazione è crollato, per mancanza di denaro e servizi essenziali. Non esiste più sicurezza né un reale sistema giudiziario. La condizione peggiore è quella degli immigrati africani: con la falsa accusa (alimentata dai media occidentali) di essere “mercenari di Gheddafi”, sono stati imprigionati dalle milizie islamiche perfino in gabbie di zoo, torturati e assassinati. La Libia è divenuta la principale via di transito, in mano a trafficanti di esseri umani, di un caotico flusso migratorio verso l’Europa che, nella traversata del Mediterraneo, provoca ogni anno più vittime dei bombardamenti Nato del 2011. Perseguitati sono anche i libici accusati di aver sostenuto Gheddafi. Nella città di Tawergha le milizie islamiche di Misurata sostenute dalla Nato (quelle che hanno assassinato Gheddafi) hanno compiuto una vera e propria pulizia etnica, sterminando, torturando e violentando. I superstiti, terrorizzati, hanno dovuto abbandonare la città. Oggi circa 40.000 vivono in condizioni disumane non potendo ritornare a Tawergha. Perché tacciono quegli esponenti della sinistra che sette anni fa chiedevano a gran voce l’intervento italiano in Libia in nome dei diritti umani violati?