Risarcire i detenuti con il sì alla riforma: la “giustizia riparativa” che spetta allo Stato di Riccardo Polidoro* Il Dubbio, 1 marzo 2018 Il 30 gennaio 2013 l’Italia viene convocata a Strasburgo innanzi alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, a seguito della sentenza di condanna emessa nei suoi confronti, nella procedura “Torreggiani”. I giudici vogliono verificare la disponibilità di una “riparazione” per quanto è stato accertato nel provvedimento. Invitato anche il rappresentante dei detenuti, ritenuti persone offese. Ha inizio l’udienza e il giudice, nella sua relazione, fa presente che l’Ordinamento penitenziario adottato dall’Italia nel 1975 è stato costantemente tradito, unitamente ai principi costituzionali a cui si è ispirato. I detenuti, seppur colpevoli di orribili e tremendi reati, sono persone che stanno scontando la condanna per quanto hanno commesso, con la privazione del bene / diritto più importante, la libertà. Ogni altro diritto negato rappresenta una violazione di legge. L’Italia, pertanto, è tenuta ad intervenire per porre riparo a tale permanente illegalità. Dopo la relazione, interviene il rappresentante dei detenuti che descrive le sofferenze e le umiliazioni che le persone subiscono negli istituti di pena. Mancanza assoluta di mobilità per essere rinchiusi in celle anguste per 20/22 ore al giorno; servizi igienici, water e lavandino a vista, vicino ai quali si è costretti anche a cucinare; assenza di doccia e di acqua calda; illuminazione carente e ricambio d’aria pressoché nullo, condizioni queste che provocano gravi malattie per le quali non vi è alcun intervento terapeutico; istruzione, lavoro e socialità solo per pochi, in percentuale irrisoria rispetto alle presenze; sovrappopolazione con cifre tali che qualsiasi intervento è reso impossibile; colloqui con i familiari in ambienti comuni e chiassosi, dove qualsiasi affettuosità è resa impossibile, numero di suicidi… Il giudice lo interrompe, sottolineando che le inadempienze sono chiare e che piuttosto, occorre conoscere in merito le intenzioni dell’Italia. Il ministro prende la parola e dà assicurazioni d’interventi immediati, a medio e a lungo termine, per modificare una situazione effettivamente vergognosa che si trascina da oltre 40 anni. Il giudice lo invita a fare esempi concreti e il rappresentante del governo indica rimedi risarcitori economici e sconti di pena per chi ha subito una carcerazione illegale e, soprattutto, una grande mobilitazione di giuristi che possa riformare l’esecuzione penale, garantendo il rispetto dei principi costituzionali e dei trattati internazionali. Il giudice chiede al rappresentante delle persone offese se tale programma possa essere considerato un’adeguata forma riparatrice per quanto hanno subito. Questi risponde che, pur considerando impossibile quantificare un risarcimento per le offese alla dignità, certamente l’offerta fatta in tal senso è un segnale importante. Ciò che, però, sarà davvero fondamentale è il programma futuro, descritto dal ministro, che deve mirare ad un effettivo mutamento dell’approccio culturale verso la detenzione. Il giudice, prendendo atto della posizione delle parti, chiede al ministro quanto tempo è necessario per adempiere alla riparazione indicata. Direi cinque anni, è la risposta. Occorrerà del tempo perché si tratta di una vera e propria rivoluzione culturale. L’udienza si chiude con tale accordo, con il rinvio al 26 febbraio 2018. 26 Febbraio 2018: L’udienza ha inizio: le parti si alzano in piedi all’ingresso del giudice che chiede loro di dare conto di quanto è accaduto. Il ministro espone le riforme adottate. Un giorno in meno ogni dieci di detenzione illegale e, per chi non è più in carcere, un risarcimento di otto euro al giorno. Gli Stati generali dell’esecuzione penale, la legge delega al governo per la riforma dell’Ordinamento penitenziario, le commissioni ministeriali per dare seguito alla delega. Bene afferma il giudice, invitando il rappresentante dei detenuti ad intervenire. Questi ribadisce che non vi è prezzo per la perdita di dignità, ma che comunque quanto stabilito poteva anche essere un parametro accettabile, seppur veramente esiguo. Rappresenta comunque che, allo stato, sono pochissimi coloro che effettivamente hanno usufruito di tale risarcimento. Il problema più rilevante è la mancata riforma dell’Ordinamento penitenziario, che dopo anni di promesse e rassicurazioni si è improvvisamente arenata, nonostante le sollecitazioni provenienti da più parti. Non è stata attuata la rivoluzione culturale promessa che non si fa con le leggi, ma con una corretta informazione, con l’educare l’opinione pubblica sul senso della pena, sulle ragioni dell’esistenza di alcuni principi costituzionali. Il giudice chiede al ministro di replicare. Non tutto è perduto - è la risposta - ci sono i tempi tecnici per approvare i decreti; solo le norme sull’affettività sono state messe da parte. Nella seduta del 22 febbraio, il Consiglio dei ministri ha approvato, tra gli altri, anche lo schema di decreto sulla giustizia riparativa, che è stato inviato alle commissioni parlamentari per i pareri. Il giudice replica, chiedendo conferma che il 4 marzo ci saranno le elezioni politiche e, alla risposta affermativa, rinvia nuovamente l’udienza al 21 marzo 2018, primo giorno di primavera, invitando il ministro a far sbocciare la riforma e a sollecitare i politici italiani ad approfondire il concetto di giustizia riparativa. *Responsabile Osservatorio Carcere U.C.P.I. Carcere e sicurezza: il questionario di Antigone per i candidati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 marzo 2018 L’associazione Antigone ha inviato a tutti i candidati un documento in cinque punti per avere una panoramica su carcere e sicurezza. Tra coloro che lo hanno fatto, ad oggi - fa sapere Antigone, si contano quattro candidati del Partito Democratico (Gennaro Migliore, Giulia Narduolo, Anna Rossomando, Silvana Cremaschi), Riccardo Magi di Più Europa con Emma Bonino, dieci candidati di Liberi e Uguali (Loredana De Petris, Celeste Costantino, Giulio Marcon, Daniele Farina, Costantino Sacchetto, Antonio Rotelli, Nicola Fratoianni, Filippo Fossati, Erasmo Palazzolo, Giorgio Airaudo) e tutti i candidati di Potere al Popolo. A parte ci sono cinque candidati del M5S (Alfonso Bonafede, Donatella Agostinelli, Francesca Businarolo, Andrea Colletti, Vittorio Ferraresi) che però hanno deciso di aderire solo ai punti relativi alla legalizzazione della cannabis, all’abrogazione del reato di immigrazione irregolare e ai numeri identificativi per le forze dell’ordine. Ma quali sono i punti del programma elaborato da Antigone? “Da quasi trent’anni - si legge nel documento - Antigone propone una riflessione sul diritto penale improntata al paradigma di una sua minimizzazione, a quel diritto penale minimo capace di limitare il potere punitivo dell’istituzione al più basso livello necessario”. Antigone sottolinea che l’elenco dei reati andrebbe oggi ripensato sulla base di un serio principio di offensività e andrebbero previste pene non detentive, togliendo al carcere la sua attuale centralità e riservandolo alla sola prevenzione e punizione di quei comportamenti capaci davvero di arrecare gravi danni ai diritti fondamentali della persona e alla convivenza sociale. Alcuni punti più specifici e di immediata possibile attuazione devono, secondo Antigone, costituire una priorità della prossima legislatura. Ecco, quindi, i punti programmatici sottoposti da Antigone ai candidati alle elezioni. Legalizzazione della cannabis e decriminalizzazione dei consumatori La normativa sulle sostanze stupefacenti, di impostazione fortemente repressiva, si pone in netto contrasto rispetto alla prospettiva di un diritto penale minimo, configurando troppo spesso reati senza vittime. Tale normativa produce inutili e rilevanti costi sociali ed economici e va ad ingrassare le attività del crimine organizzato. La war on drugs è stata riconosciuta fallimentare tanto dalla comunità scientifica quanto da quella politica internazionale. In molti Paesi del mondo - tra cui alcuni Stati americani, un tempo tra i maggiori sostenitori della linea dura - la cannabis è oggi legale (in particolare la California, lo Stato più popoloso, dal 1 gennaio 2018 a seguito di referendum è passata dall’uso terapeutico alla piena legalizzazione). Deve divenirlo anche in Italia. Bisogna inoltre decriminalizzare completamente la vita dei consumatori di sostanze stupefacenti. Va infine garantito il pieno diritto alle cure con derivati della cannabis. Abrogazione del reato di immigrazione irregolare Il reato di immigrazione irregolare, per quanto non abbia una diretta influenza sull’aumento della popolazione detenuta, è un delitto di status che punisce le persone per quello che sono e non per quello che fanno. Tale reato va immediatamente cancellato, dopo che il governo ha lasciato cadere la delega parlamentare votata nell’aprile del 2014 a questo proposito. Numeri identificativi per le forze dell’ordine Se lo Stato ha il monopolio della violenza legittima, ogni forma di violenza illegittima da parte delle forze dell’ordine deve essere perseguita con determinazione, così come imposto dalla normativa sovranazionale. La nuova legge di criminalizzazione della tortura votata nel luglio 2017 - oltre a presentare una definizione di tortura non in linea con quella delle Nazioni Unite, come notato dagli organismi internazionali - ha perso l’occasione di introdurre uno strumento di identificazione dei componenti delle forze dell’ordine che, oltre a rappresentare un segnale importante nella direzione della lotta all’impunità, avrebbe costituito uno strumento concreto di protezione dei poliziotti onesti a fronte di quelli violenti. Isolamento penitenziario - L’isolamento è una pena nella pena. È a forte rischio di violazione della dignità umana, di difficile sopportazione e capace di produrre squilibri nella persona. Va utilizzato il minimo indispensabile e sotto regole e controlli estremamente rigidi. L’isolamento non deve mai essere applicato a detenuti minorenni o giovani adulti. Va abolito l’ergastolo con isolamento diurno. Nessuna forma di isolamento deve mai superare il limite temporale di una settimana, neanche quella giudiziaria oggi non regolamentata nel massimo. Pene accessorie e diritto di voto - Le pene accessorie vanno ad agire su diritti costituzionalmente protetti, limitandoli eccessivamente. La pena principale va considerata di per sé sufficiente e proporzionata al reato commesso. In particolare, privare del diritto di voto significa escludere coloro che si vorrebbe reintegrare in società dalla massima forma di partecipazione pubblica. Va cancellata totalmente la possibilità di interdizione dal diritto di elettorato attivo nel caso di condanna penale e vanno limitate le altre pene accessorie al solo tempo massimo della carcerazione. Dobbiamo un “grazie” al magistrato di Sorveglianza di Sassari di Piero Sansonetti Il Dubbio, 1 marzo 2018 Ha sfidato giornali, i suoi colleghi e l’opinione pubblica e ha concesso, per ragioni di umanità, a un detenuto al 41bis di andare a trovare la mamma di 92 anni. Il tribunale di sorveglianza di Sassari ha concesso a un detenuto al 41bis il permesso di visitare la mamma, molto anziana e in cattive condizioni di salute. La decisione del tribunale di sorveglianza ha sollevato uno scandalo. Guidato da molti giornali, anche dai più diffusi quotidiani nazionali. Perché questo scandalo? Perché il detenuto in questione è stato condannato per reati di mafia molto gravi, anche omicidi, e attualmente è in regime di carcere duro. Il detenuto si chiama Domenico Gallico ed è considerato uno dei principali boss della ‘ndrangheta a Palmi. È stato condannato 7 volte all’ergastolo. La mamma ha 92 anni, e anche lei è stata condannata per mafia, ha preso un ergastolo. Ma ora per ragioni di salute e di età le è stato permesso di tornare a casa ai domiciliari. Il giudice del tribunale di sorveglianza di Sassari ha motivato in modo assai semplice la sua decisione. Negare il permesso - ha detto - avrebbe reso inumana la pena, e dunque sarebbe stata una decisione in contrasto con le leggi e con la Costituzione. Cioè sarebbe stata una decisione illegale. Un detenuto, a prescindere dai delitti che ha commesso, ha il diritto di visitare la mamma morente. L’ordinamento penitenziario consente la concessione di questi permessi anche per i detenuti al 41bis (l’avvocata Teresa Pintus, difensore di Domenico Gallico, precisa che esiste un articolo preciso del regolamento, il numero 30, che prevede la concessione del permesso). Il tribunale di sorveglianza di Sassari - cosa non consueta - ha messo il principio costituzionale davanti alle ragioni - diciamo così - di ascolto dell’opinione pubblica. È chiaro che concedere un permesso a un ergastolano al 41bis (cioè a una persona che nel senso comune ormai prevalente è considerato come un individuo quasi al di fuori del genere umano) non incontra il favore di gran parte dell’opinione pubblica e va a cozzare contro lo spirito dei giornali e di ampi settori della magistratura. E infatti è stato in realtà proprio un pezzo della magistratura ad aprire la polemica e dare il là ai giornali (la notizia, oltretutto, anche per ragioni di sicurezza, avrebbe dovuto restare segreta, ma, al solito, ha prevalso la filosofia della fuga di notizie, che era stata proprio ieri criticata severamente dal dottor Albamonte, presidente dell’Anm). Dalla Dda di Reggio Calabria (la Dda è la direzione distrettuale antimafia) si è osservato che il detenuto è pericoloso, per i suoi precedenti (una volta, qualche anno fa, si avventò contro un sostituto procuratore) e potrebbe tentare l’evasione. E per queste ragioni si è chiesto al magistrato di Sassari di lasciarlo in cella. Il magistrato di Sassari si è limitato, più saggiamente, a disporre misure di sicurezza. Gallico sarà scortato a Palmi, avrà solo un’ora di tempo per incontrare la madre, non potrà incontrare nessun altro, sarà controllato a vista, sempre, minuto dopo minuto, dalle guardie armate. Queste cautele non son servite a niente, e la stampa, col via libero della Dda di Reggio Calabria, si è scatenata contro il magistrato “buonista”. Dal punto di vista legale c’è poco da commentare. La decisione del magistrato di Sassari è ineccepibile. Dal punto di vista della giustizia-spettacolo c’è solo da osservare la nuova dimostrazione della sinergia stampa-magistratura, che non ha molto a che fare con l’applicazione della giustizia e che permette la trasformazione della giustizia in occasione di speculazione giornalistica. Dal punto di vista dell’umanità, invece, devo dire che la ferocia della campagna giornalistica stupisce persino chi, come me, è molto prevenuto nei confronti della saldezza morale e culturale della categoria. Possibile che degli individui pensanti davvero trovino scandaloso che a una persona umana sia concesso il permesso di rivedere la mamma morente? È normale che tanta ferocia, tanto cinismo, siano il carburante di quello che viene chiamato il giornalismo d’inchiesta? Davvero il grado della civiltà della nostra intellighenzia, in pochi anni, è sceso così vertiginosamente. Dal punto di vista della legalità, invece, c’è da riflettere sulla condizione difficilissima nella quale, spesso, lavorano - in silenzio - tanti magistrati. I quali cercano di applicare la legge con giustizia e umanità. Ma sanno che se davvero usano il metro dell’umanità nelle loro decisioni, rischiano di essere linciati dalla stampa. E devono essere molto forti, e avere molto coraggio, per fare con serietà il loro lavoro. Dobbiamo molto a questi magistrati. I costi dell’(in)giustizia in Italia di Valter Vecellio lindro.it, 1 marzo 2018 Non solo carcere. È il sistema che non funziona. E i candidati, muti guardano senza vedere. Non sarà sfuggito: in questa campagna elettorale, in generale priva di proposte concrete, dove la gara tra i candidati sembra sia chi la spara più grossa, è stranamente assente il tema della Giustizia. Quando si dice Giustizia non si dice solo carceri, anche se le condizioni di vita dell’intera comunità penitenziaria (i detenuti, ma anche gli agenti della polizia penitenziaria, i volontari e tutto il personale che lavora nelle carceri) sono quello che si può definire l’epifenomeno, la punta del più gigantesco iceberg. Si tratta, come vedremo, di una questione che riguarda tutti, nessuno escluso; ed è colpa grave che nessuno dei leader (tutte e tutti, nessuna e nessuno escluso) se ne sia voluto occupare. Per cominciare: nel 2017 i risarcimenti per ingiusta detenzione ammontano a 2,87 milioni di euro. Napoli è al terzo posto per errori giudiziari, dopo Catanzaro e Roma; nel 2017 gli errori giudiziari e le ingiuste detenzioni sono costati allo Stato quasi 37,7 milioni di euro, con 1.013 casi di persone arrestate per sbaglio. Sono 968 mila circa i processi che superano i limiti della ragionevole durata (tre anni per il primo grado, altri due per l’appello, e un anno in Cassazione): oltre 345 mila nel penale e quasi 623 mila nel civile, secondo i dati del ministero della Giustizia. Da quando è in vigore la legge Pinto, che sanziona la durata eccessiva, lo Stato ha avuto condanne per quasi un miliardo di euro. La legge fissa la tempistica delle indagini preliminari (non oltre due anni per i reati gravi) ma bastano nuovi elementi, in astratto, per continuarle all’infinito. Se il magistrato si trasferisce il fascicolo viene riassegnato, e si riparte da zero. In media un processo penale davanti al tribunale dura 707 giorni (534 per rito monocratico), 901 per quello d’appello, un anno per la Cassazione. Per una causa civile il primo grado è di 935 giorni in media, 709 per l’appello, 365 per essere giudicati in via definitiva. Il carico di arretrato è di 3 milioni i processi da smaltire nel civile, oltre 1,5 milioni nel penale. Le imprese spendono 3 miliardi ogni anno solo per i contenziosi lavorativi. Un caso per licenziamento si chiude mediamente in 2-3 anni per il primo grado. Per il Tribunale delle imprese, il tempo per la sentenza è di 970 giorni nel 2016, contro gli 870 giorni del 2015. La lentezza costa al Paese almeno 40 miliardi di euro. Secondo uno studio Cer-Eures, se i tempi della nostra giustizia fossero pari a quelli tedeschi, si registrerebbe un aumento aggiuntivo di quasi 2,5 punti del PIL e di 1.000 euro di reddito pro-capite, ma anche la riduzione del tasso di disoccupazione di mezzo punto, per un recupero di circa 130mila occupati. Questa la parziale fotografia dello stato della (in)giustizia in Italia. Ogni commento è superfluo. Dal terrorismo alla cannabis: tutto quello di cui non si è parlato in campagna elettorale di Marco Sarti linkiesta.it, 1 marzo 2018 La legalizzazione della cannabis e le carceri sono finiti nel dimenticatoio. Lo Ius soli sembrava la madre di tutte le battaglie politiche, ma non se ne parla più. I grandi temi di politica estera non scaldano i comizi. E poi ci si stupisce se la gente non vota più. Che fine ha fatto la politica estera? E le riforme costituzionali? Nella lunga campagna elettorale si sono perse le tracce persino dello Ius Soli. Fino a pochi mesi fa la legge sulla cittadinanza ai bambini nati in Italia sembrava la madre di tutte le battaglie parlamentari. Per approvare la norma si sono lanciati appelli e avviati scioperi della fame. Finita la legislatura, il tema è scomparso dalla scena. Lo Ius Soli sposta pochi consensi, dicono gli esperti. E così l’impegno è uscito completamente dal dibattito. Ne rimane giusto un tiepido riferimento nel programma elettorale di qualche partito. È l’ennesimo paradosso di questa deludente campagna elettorale. Molti degli argomenti che davvero interessano la vita degli italiani sono stati messi da parte. Ormai sappiamo tutto della dieta di Silvio Berlusconi. Conosciamo gli esercizi ginnici a cui il Cavaliere si sottopone e quante volte va in piscina per rimanere in forma. Ma quasi nessuno si occupa di geopolitica. I grandi scenari internazionali sono rimasti ai margini del confronto politico. Quali sono i programmi dei nostri leader politici per stabilizzare la situazione in Libia? Invece di affrontare il complesso fenomeno migratorio si preferisce alimentare il timore degli italiani. Molto meglio sparare cifre - più o meno a caso - sul numero di clandestini da rimpatriare. Lo slogan vince sempre sull’argomentazione. L’elenco dei capitoli dimenticati è lungo. Qual è il rapporto che il nuovo governo intende instaurare con gli Stati Uniti di Donald Trump e la Russia di Vladimir Putin? Se si eccettuano poco realistici richiami all’istituzione di nuovi dazi, anche sul commercio internazionale si è detto poco e niente. Il terrorismo internazionale è una delle principali sfide della nostra epoca. La sconfitta militare dello Stato Islamico è recente, ma non ci mette al riparo da pericolosi colpi di coda. Eppure in campagna elettorale è raro che qualcuno approfondisca l’argomento. “Nel 2018 il contesto è quello dell’imprevedibilità geopolitica - ha spiegato pochi giorni fa il premier Gentiloni presentando la relazione dei nostri Servizi - La minaccia terroristica è tutt’altro che esaurita”. Insomma, il tema non è proprio secondario. Intanto lo scacchiere siriano è uscito completamente dai confronti tv di questi giorni. I leader preferiscono promettere impegni che non manterranno mai. E così la lista dei sogni elettorali cresce ogni giorno. Bonus, aumenti in busta paga, pensioni più ricche per tutti. Non c’è partito, o quasi, che non abbia promesso l’impossibile. E sono tutte iniziative senza copertura economica, come ormai sanno anche gli elettori. I temi etici? Ci sono argomenti che interessano da vicino la vita di ognuno di noi. Eppure, chissà perché, nei comizi di questi giorni non se ne parla mai. L’ultima legislatura ha visto approvare le leggi sul biotestamento e le unioni civili. Quale sarà il destino di questi provvedimenti? Se il centrodestra tornerà al governo è pronto a mettere mano alle riforme? Il centrosinistra proseguirà il cammino già intrapreso? Mistero. A spulciare i programmi le indicazioni si trovano, per carità. Ma nel confronto politico certi argomenti proprio non entrano. In compenso chi legge i giornali è rimasto per giorni con il fiato sospeso sul destino di Romano Prodi. Il professore sta per tornare in campo? E con lui c’è anche Walter Veltroni? Il tono da telenovela è sempre dietro l’angolo. In caso di sconfitta Renzi è pronto a dimettersi? E quale sarà la percentuale minima del Partito democratico per costringere il segretario a fare un passo indietro? La questione delle carceri è un argomento evidentemente centrale. “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione”. Così scriveva Voltaire. Eppure in campagna elettorale, salvo poche eccezioni, si è preferito evitare l’argomento La campagna elettorale scorre tra mille interrogativi inutili. Da un paio di giorni la nomina di un ipotetico governo Cinque Stelle ha riempito le pagine dei quotidiani. Una scena surreale. A pochi giorni dal voto il Movimento di Di Maio ha già presentato un elenco dei nuovi ministri, inviando per conoscenza una mail al Quirinale. Poi magari si scoprirà che i grillini non hanno neppure vinto le elezioni, ma per il momento questo resta un dettaglio. Dei possibili protagonisti del nuovo esecutivo ormai conosciamo nomi e curriculum. Ma degli impegni del prossimo governo - qualunque sarà - in tema di giustizia sappiamo molto meno. La questione delle carceri è un argomento evidentemente centrale. “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione”. Così scriveva Voltaire. Eppure in campagna elettorale, salvo poche eccezioni, si è preferito evitare l’argomento. La condizione delle galere e le misure per contenere il sovraffollamento restano un’inutile appendice per addetti ai lavori. E dire che gli elettori ci provano. Nella scorsa legislatura sono state raccolte decine di migliaia di firme per presentare in Parlamento una legge popolare sulla legalizzazione delle droghe leggere. Attorno al tema della cannabis è nato il più ampio gruppo interparlamentare che la storia ricordi. Eppure in queste settimane il tema è sparito. Si può essere a favore o contrari, per carità. Ma non si può fare finta di niente. I temi rimasti nell’ombra sono numerosi: solo ieri il Sole 24 Ore denunciava la scomparsa dalla contesa elettorale di 5 milioni di lavoratori autonomi. Al netto di specifiche previsioni nei programmi dei partiti, i comizi di questi giorni sembrano aver dimenticato partite Iva e collaboratori. Intanto l’astensione continua a crescere e sempre più italiani preferiscono disertare le urne. E il bello è che qualcuno si stupisce pure. La deriva ingovernabile del rancore che avanza di Massimo Adinolfi Il Mattino, 1 marzo 2018 I commenti sulla peggior I campagna elettorale di sempre si sono sprecati. Di sicuro, c’è che questa è la prima campagna elettorale che viene così intensamente commentata mentre è ancora in corso. E anche questo è un segno del distacco che si è prodotto fra la rappresentazione che la politica offre di sé, e il modo in cui viene vissuta dal Paese. Ieri Le Monde faceva l’elenco dei sintomi della crisi della democrazia: indebolimento dei partiti politici tradizionali; disaffezione e forti livelli di astensione, crescita di forze politiche estreme. In Italia li abbiamo tutti. Possiamo solo aggiungervi gli episodi di cronaca di queste settimane. E anzi di queste ultime ore: le buste di spazzatura sventolate all’indirizzo del governatore della Campania, De Luca, e gli annunci mortuari dei Cobas, a Pomigliano, che danno notizia della dipartita di Matteo Renzi, dopo che già avevano affisso manifesti con la testa di Sgarbi sanguinante, e lanciato rotoli di carta igienica contro Gennaro Migliore, sottosegretario alla Giustizia del Pd. In realtà, i toni accesi, le invettive e gli insulti non sono mai mancati. Né si può dire che il tratto distintivo di questa campagna elettorale sia stata la violenza politica: ne abbiamo viste di peggiori, anche se è bene tenere alta la guardia di fronte ad episodi di intolleranza nuovi, che sembrano segnalare un deterioramento del clima. C’è però dell’altro. C’è una stanchezza del linguaggio e una perdita di senso. C’è il segnale d’allarme lanciato lo scorso autunno dal Censis, nel suo rapporto annuale: cresce il rancore, crescono i motivi di risentimento, c’è un’Italia che coltiva rabbia e che non prova più ad articolarla nel linguaggio della politica, o nelle forme consuete del conflitto sociale. Un’Italia a cui riesce più facile irridere o sbeffeggiare, che continua a non credere nei partiti e a non riconoscersi nei loro uomini. Da questo punto di vista, la legislatura si conclude con un netto fallimento: non sono andate a buon fine i propositi di riforma delle istituzioni, ma non è stata neppure ricostruita la fiducia nel “sistema”. Il giudizio degli italiani è ancora improntato a una profonda disistima nei confronti della classe dirigente del Paese. Gli stessi uomini politici sono d’altronde abituati a parlare della politica in termini spregiativi, come di un insulso “teatrino”: chiamandosi fuori, naturalmente, e imputando sempre agli altri di recitarvi un ruolo. Non sorprende dunque che sia ormai divenuta routine la rinuncia al tradizionale confronto televisivo tra i principali leader. Che c’è stato nel ‘94, tra Occhetto e Berlusconi, e poi anche le volte successive, con i duelli tra Romano Prodi e il Cavaliere. Nel 2008, però, un Berlusconi in largo vantaggio nei sondaggi rifiutò di incontrarsi in tv con Veltroni, e la stessa cosa accadde nel 2013, quando saltò il faccia a faccia con Bersani. Questa volta, tuttavia, la differenza sta in ciò, che la sfida non salta per ragioni tattiche, di strategia elettorale, ma per il disinteresse che la circonda, senza che da una parte o dall’altra si monti su la polemica o si avanzino particolari recriminazioni, forse nella generale convinzione che mancherebbe persino il pubblico per un’appassionante messa in scena. Cinque anni fa c’era già chi aveva deciso di chiamarsi fuori da tutto: Grillo, che rifiutava qualunque titolo di legittimità non solo alle altre, a suo giudizio corrottissime formazioni politiche, ma anche ai media tradizionali, giornali e tv, in favore di un rapporto diretto con l’opinione pubblica attraverso il canale della Rete. Dopo cinque anni, i grillini partecipano invece alle trasmissioni televisive: Di Maio frequenta i talk show e porta con sé anche i ministri in pectore che viene estraendo dal cilindro giorno dopo giorno, fino alla rivelazione finale. Ma non ne è affatto venuto un effetto tonificante sulla vita pubblica. Il dibattito pre-elettorale si è anzi ulteriormente impoverito. Il disincanto rimane la cifra di tutto. Si dice che queste elezioni siano da paragonare a quelle del ‘48, per il carattere assolutamente cruciale della posta in gioco. Resteremo in Europa? Ci sono i barbari alle porte? Le forme parlamentari della democrazia saranno spazzate via? Rischiamo il default? Di fatto, nessuno di questi interrogativi riesce a suscitare forti investimenti collettivi, in termini di passioni ed emozioni. Il paragone è allora, sotto il profilo della temperatura emotiva, assolutamente improponibile. Tutto si stinge in una generale mediocrità, in una rassegnazione cinica o in una sterile indignazione. L’ingovernabilità rischia di essere un pericolo più grave di quel che si crede, perché, ben lungi dall’essere solo una conseguenza della frammentazione del quadro politico, sembra esprimere ciò che la maggioranza degli italiani pensa della politica: di avercene cioè abbastanza. Ora, al primo male si può immaginare che possa venire comunque una risposta, dopo il 4 marzo, nei termini di una corretta, per quanto difficile, prassi politico-istituzionale. Al secondo male, che è più profondo e più duraturo, purtroppo molto meno. Progettare i diritti delle donne di Linda Laura Sabbadini La Stampa, 1 marzo 2018 Una brutta campagna elettorale. Avremmo avuto bisogno di un sereno confronto sui programmi, di capire le differenti soluzioni proposte per rilanciare il nostro Paese, ed invece il dibattito è esasperato da toni e clima incandescenti, con gli imprenditori dell’odio scatenati a deviare l’attenzione dai problemi veri, quelli che se risolti, possono eliminare alla radice la causa della paura dell’altro e della sfiducia nel futuro: l’aumento delle disuguaglianze. Abbiamo bisogno di un’agenda dei diritti. La crisi è stata lunga. 10 anni sono passati, la crescita del Pil non si è tradotta in riduzione delle disuguaglianze, e così, nonostante gli avanzamenti nell’ occupazione, non possiamo certo dire di essere usciti dalla crisi sociale. Ci sono tre problemi impellenti da risolvere nell’ambito dei diritti sociali: la povertà, il futuro dei giovani, l’occupazione femminile. La povertà è raddoppiata nel 2012 e triplicata per bambini e giovani. E poi non è mai diminuita, e sono passati sei anni. E bisogna agire su due piani. Il primo riguarda l’attuazione della misura del reddito di inserimento. Non sarà facile e già lo si vede. I Comuni non hanno risorse umane sufficienti per gestire un processo assai complesso che prevede la selezione delle famiglie da supportare, la loro presa in carico con un progetto personalizzato e l’affiancamento nel percorso. Il secondo è il potenziamento della misura anti-povertà con un maggiore stanziamento e l’estensione del numero di beneficiari, ancora insufficiente, se non vogliamo che la situazione si incancrenisca per bambini e giovani che se permangono in povertà per troppo tempo difficilmente riusciranno ad uscirne. Che dire poi del grave problema dell’occupazione giovanile? Sono 2 milioni 700 mila i non occupati tra i giovani da 25 a 34 anni, quelli di cui si parla meno. Sono tanti. Stanno molto peggio di 10 anni fa. 10 punti di tasso di occupazione in meno. Hanno perso occupazione fino al 2013, passando dal 70,1 al 59,4. Poi recuperano un punto nel 2014 e da allora un punto in tre anni. Una goccia nel mare! Sono peggiorati di più quelli senza diploma, 15 punti in meno e anche quelli del Sud e i maschi. Ma sono comunque 600 mila i laureati di questa età a spasso, e 484 mila i giovani del Sud di 30-34 anni che non hanno mai lavorato e che quindi avranno grandi difficoltà a trovare lavoro, data l’età raggiunta senza esperienze. Hanno perso molta occupazione nell’industria e nelle costruzioni, ma hanno pagato il prezzo anche di un settore di ricerca e sviluppo arretrato e di una Pa che non assume. Una Pa che tra i suoi dipendenti ha solo il 5% di giovani fino a 34 anni e il 55% di ultracinquantenni. E che non potrà vincere la sfida della modernizzazione senza giovani. Oltre ad essere diminuita l’occupazione tra i giovani, è aumentato il peso di lavori a tempo determinato e al tempo stesso part-time. Un part-time per l’80% involontario, e che comporta redditi più bassi. C’è bisogno di un piano straordinario, e non bastano gli incentivi. Si tratta di individuare i settori chiave dove può crescere l’occupazione giovanile, primo fra tutti ricerca e sviluppo, e su questi investire decisamente, operare attraverso misure strutturali. E un investimento per la Ricerca, anche con l’aiuto dell’Europa, dovrebbe vertere prioritariamente sul Sud. Ultimo, ma non per importanza, il problema storico del basso livello di occupazione femminile. Siamo ancora al 49%. Le donne hanno retto meglio all’impatto della crisi, ma la qualità del loro lavoro è diminuita, è aumentata la sovra-istruzione, il part-time involontario, la precarietà, soprattutto delle giovani. Sono aumentate le professioni non qualificate e diminuite quelle tecniche. La conciliazione dei tempi di vita è peggiorata. La mancata valorizzazione delle donne fa perdere al nostro Paese tanti punti di Pil come stimato dalla Banca d’Italia e dal Fondo Monetario Internazionale e chiama in causa la rifondazione del sistema di welfare anche per liberarle dal sovraccarico di cura. Qualsiasi governo si formerà dovrà essere capace di dotarsi di un’agenda dei diritti e rispondere anche su questi tre punti, pena il declino del Paese. Se lo si farà si porranno le basi anche per una ripresa della fecondità, perché ritornerà la luce della fiducia nel futuro. Uomini che uccidono le donne: più delitti, meno denunce di Alessandra Ziniti La Repubblica, 1 marzo 2018 Il “raptus” non esiste, il femminicidio all’improvviso neanche. Ogni volta che un uomo uccide una donna (soprattutto dentro le mura di casa) gliel’aveva giurato. Dopo settimane, mesi, anni di fiato sul collo, minacce, stalking, violenze morali e fisiche. Delitti annunciati il cui numero continua a crescere, al ritmo di uno ogni tre giorni: 149 nel 2016 (il 5,6 per cento in più rispetto all’anno precedente), 114 nei primi mesi del 2017 (l’ultimo dato disponibile), ben 1870 negli ultimi dieci anni. Una strage di donne che fa dire a Mirella Agliastro, consigliere di Cassazione, una lunga esperienza in delitti contro le donne: “Ormai non è più una questione privata tra due soggetti, c’è un reale allarme sociale. Per questo anche le condanne devono essere adeguate”. E però quelle stesse donne vittime di violenza continuano a tacere. Tanto. Troppo. Nove su dieci non denunciano non gli episodi iniziali, gli atti di stalking, i primi maltrattamenti, ma neanche le violenze più gravi, il preludio al peggio. Come se neanche la paura riuscisse a dare consapevolezza o a vincere la vergogna. Perché spesso è proprio di vergogna che si tratta. Di donne così, sopravvissute per miracolo o raccontate da chi sapeva e non ha parlato, nelle aule di giustizia Mirella Agliastro ne ha viste tante: “Non denunciano perché si mortificano di ammettere di essere vittime. Sottovalutano i segnali e si illudono di poter ricondurre alla ragionevolezza gli uomini che hanno amato o che amano e che ora le minacciano. E hanno paura che denunciarli possa portare a conseguenze peggiori perché non si fidano della risposta delle autorità. E purtroppo spesso hanno ragione: non sempre le forze dell’ordine hanno la sensibilità necessaria e spesso in un processo le loro incertezze e ambiguità possono trasformarle da vittime a testimoni da attaccare”. Il numero delle donne che in Italia hanno subito violenza almeno una volta nella vita sfiora i sette milioni. Una cifra impressionante soprattutto se si considera la percentuale delle minorenni: l’11 per cento, dunque più di 700mila, ha addirittura meno di 16 anni. Violenza sessuale, violenza fisica, maltrattamenti quasi sempre all’interno della famiglia o comunque nell’ambito di rapporti sentimentali. Assassini quasi sempre italiani (il 92 per cento) come le vittime, anche se una donna su quattro è straniera. Uomini assassini più al nord che al sud: la Lombardia con 25 casi, seguita da Veneto, la regione con la lista più lunga di femminicidi. Dalla relazione della Commissione parlamentare sul femminicidio approvata tre settimane fa emerge che negli ultimi quattro anni l’uccisione di donne rappresenta oltre un quarto degli omicidi commessi. Quasi sempre da mariti o compagni o ex. “La famiglia nella sua fase patologica uccide più della malavita organizzata”, denuncia il presidente dei matrimonialisti italiani, Gian Ettore Gassani, che indica uno dei principali vulnus nella mancanza di interventi dell’autorità giudiziaria durante le separazioni. “Si tratta del momento più difficile per le coppie. Troppi gli interessi in gioco e il dolore da gestire - dice - Quando, nel caso di una separazione giudiziale già avviata, vengono segnalati fatti violenti, l’autorità giudiziaria dovrebbe intervenire immediatamente fissando udienze in tempi rapidissimi nonché prevedere fin da subito e monitorare la situazione. E quando il conflitto è particolarmente acceso, dovrebbe essere disposta la revoca del porto d’armi e il sequestro di armi in casa”. Certo è che quasi tutte le cronache di femminicidi e atti di violenza sulle donne raccontano di denunce mancate ma anche rimaste senza seguito, fogli di carta ingiallita in fascicoli che nessuno apre fino a quando non accade il peggio. È uno dei motivi che dissuade mogli, figlie, compagne a rivolgersi subito alle forze dell’ordine. Ordini di allontanamento dal tetto coniugale e divieti di avvicinamento alle case di ex mogli e figli sono adottati ancora con il contagocce: circa 200 nel 2017 a fronte di un considerevole aumento delle denunce per stalking, più di 13.000. “Purtroppo delle infinite molestie che subiscono le donne non importa niente a nessuno, non se ne parla. Viviamo in un clima di omertà - è l’amara analisi della psicoterapeuta Maria Rita Parsi. E a volte le donne sono le maggiori nemiche delle donne. Mi riferisco a tutte quelle che sono più fortunate ma non si indignano e non scendono in piazza”. La non punibilità non salva l’ente di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 1 marzo 2018 Corte di cassazione - Sentenza 9072/2018. La non punibilità degli amministratori per la particolare tenuità del fatto non esclude la responsabilità dell’ente e non lo salva dalle sanzioni. Spetta al giudice verificare in modo autonomo il coinvolgimento della persona giuridica, nel cui interesse il reato è stato commesso. La Cassazione (sentenza 9072) accoglie il ricorso del Pubblico ministero contro la decisione del Tribunale di escludere la responsabilità della società, per effetto dell’applicazione dell’articolo 131-bis del Codice penale alle persone fisiche alle quali era stata contestata una gestione di rifiuti non autorizzata(Dlgs 152/2006, articolo 256, comma 1). Secondo il Pm il riconoscimento dell’articolo 131-bis comporta la sussistenza del reato e la sua riconducibilità agli imputati, ed è dunque irrilevante ai fini delle sanzioni all’ente. Per la Cassazione il problema posto dalla pubblica accusa, la cui conclusione è corretta, riguarda una questione di puro diritto: la responsabilità dell’ente, in base al Dlgs 231/2001, nel caso all’imputato venga concessa la non punibilità per fatto particolarmente lieve. I giudici della terza sezione penale, chiariscono che la materia non è regolata dal punto di vista normativo, visto che, ovviamente, il Dlgs 231 non considera l’articolo 131-bis entrato in vigore solo nel 2015 (Dlgs 28/2015). L’articolo 8 della 231 si limita a precisare che la responsabilità dell’ente c’è anche se l’autore del reato non è stato identificato, non è imputabile o il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia. Per la Suprema corte le strade possibili sono due: una è quella imboccata dal tribunale, secondo il quale la responsabilità dell’ente a titolo di illecito amministrativo andrebbe esclusa in virtù dell’articolo 131-bis, perché l’articolo 8 non ricomprende espressamente le cause di non punibilità tra le ipotesi che lasciano in piedi la responsabilità della persona giuridica. Secondo un’altra soluzione, preferita dalla Cassazione, sarebbe invece irragionevole considerare l’ente responsabile quando il reato è estinto, come previsto dall’articolo 8, lettera b) della 231 e non in caso di reato accertato ma non punibile. La stessa giurisprudenza di legittimità, ricorda la Suprema corte, ritiene, necessario verificare la responsabilità dell’ente, anche in caso di prescrizione del reato (sentenza 21192/2013). La sentenza con la quale viene concessa la non punibilità per particolare tenuità del fatto, ha effetto dal punto di vista della sanzione, ma, anche se non con una condanna “conferma” il reato (per la dottrina cripto condanna). Siamo dunque lontani da una assoluzione, tanto che la sentenza di non punibilità finisce nel casellario giudiziale e vale come giudicato nel giudizio civile o amministrativo di danno (articolo 651 bis del Codice penale). Va dunque esclusa, in assenza di una previsione di legge, una diretta incidenza della sentenza di applicazione dell’articolo 131-bis nel giudizio di responsabilità della persona giuridica: pena una violazione irrimediabile del diritto di difesa della persona giuridica. Il giudice deve dunque procedere all’accertamento autonomo della responsabilità amministrativa dell’ente nel cui interesse e nel cui vantaggio il reato è stato commesso La prescrizione blocca la confisca del mezzo del reato di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 1 marzo 2018 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 28 febbraio 2018 n. 9070. In caso di prescrizione del reato non si può confiscare il furgone utilizzato e “modificato” proprio allo scopo di mettere in atto il traffico illecito di rifiuti contestato. La misura può scattare, infatti, solo in caso di condanna o nell’ipotesi di applicazione della pena su richiesta delle parti. La Cassazione precisa che la confisca del mezzo utilizzato per commettere il reato è cosa diversa dal prezzo e dal profitto del “crimine” la cui confisca può essere disposta anche quanto questo è estinto per prescrizione. Né si può applicare retroattivamente - pena la violazione del Codice penale e della Cedu - l’articolo 260, comma 4 bis del Dlgs 152/2016 sulla confisca obbligatoria dei mezzi, introdotto solo con la legge 68 del 2015 che ha riformato i reati ambientali, inasprendo le pene a rafforzando le misure di prevenzione. I giudici precisano che l’articolo 260 comma 4-bis del Dlgs 152/2006 che, in virtù della modifica, prevede la confisca obbligatoria dei mezzi utilizzati per commettere il reato salvo che appartengano a terzi, non si può applicare per il principio di irretroattività della legge penale e in virtù dell’articolo 7 della Cedu sul giusto processo e anche perché non disciplina espressamente l’ipotesi della prescrizione. La Cassazione accoglie così il ricorso e ordina la restituzione del furgone modificato per adibirlo a servizi di espurgo. Il deposito occasionale in spiaggia di rifiuti speciali integra la tenuità del fatto di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 1 marzo 2018 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 28 febbraio 2018 n. 9069. L’abbandono di rifiuti speciali derivanti da demolizione di abitazione su demanio marittimo non costituisce reato se la condotta - pur se continuata - non è abituale. La vicenda - La Cassazione (sentenza n. 9069/18) si è trovata alle prese con un soggetto condannato nella fase di merito alla pena di 4 mesi di reclusione, in quanto ritenuto responsabile del reato continuato di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a) del decreto legge 6 novembre 2009 n. 172, convertito dalla legge 30 dicembre 2008 n. 210, per avere abbandonato su area demaniale marittima in due occasioni, rifiuti speciali da demolizione edile per un volume totale di 3 metri cubi. I Supremi giudici hanno evidenziato come i giudici di merito non avessero preso in considerazione la richiesta dell’imputato per l’applicazione dell’articolo 131-bis del cp in funzione di un fatto concreto non particolarmente grave, commesso da imputato che il giudice di primo grado aveva qualificato come assolutamente incensurato. Secondo la Corte alla vicenda doveva essere fornita una diversa lettura. La condotta era stata ritenuta occasionale dallo stesso giudice di primo grado che proprio per questo aveva concesso le circostanze attenuanti generiche, valorizzando la circostanza che si trattava dei materiali di risulta di un piccolo lavoro di manutenzione straordinaria eseguito presso un’abitazione privata. La decisione della Cassazione - Il principio espresso dalla Cassazione consiste nel fatto che il beneficio può essere concesso in presenza di reato continuato ma non nell’ipotesi di delitto abituale. In particolare niente tenuità del fatto se, oltre al reato in questione, l’imputato ne abbia commessi altri due. Nel caso concreto si era trattato di due depositi di materiali avvenuti nello stesso giorno a distanza di circa due ore. I Supremi giudici, inoltre, hanno valorizzato la circostanza che il materiale era stato abbandonato sull’arenile ma non in modo da impedire ai cittadini il godimento dello stesso. I materiali abbandonati si trovavano, infatti, a circa 100 metri dalla battigia. La Corte d’appello quindi dovrà valutare con attenzione gli elementi evidenziati dalla Cassazione che depongono con tutta evidenza per il riconoscimento del beneficio. Anche il santone dichiara al Fisco: i redditi illeciti rientrano nei “diversi” di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 1 marzo 2018 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 28 febbraio 2018 n. 9091. Pienamente legittimo il sequestro finalizzato alla confisca delle polizze assicurative a carico del veggente che non abbia presentato alcuna dichiarazione dei redditi. La vicenda - La Cassazione con la sentenza n. 9091/18 ha puntualizzato che l’attività illecita svolta dall’imputato consisteva fondamentalmente nel raggirare diversi soggetti psicologicamente vulnerabili e a fargli versare ingenti somme in funzione di un progetto mistico-religioso. Ricorda la Corte come la polizia giudiziaria aveva verificato la situazione fiscale dell’indagata, la quale aveva presentato esclusivamente Certificazione unica relativa all’anno 2015. Il tutto ovviamente era del tutto insufficiente in quanto la veggente non aveva mai presentato dichiarazione dei redditi. Un’omissione con rilevanza penale dal momento che gli ulteriori introiti derivanti da attività illecite vanno comunque dichiarati ancorché percepiti nell’esercizio di un’attività ritenuta fraudolenta. E sul punto anche il gip aveva ritenuto l’assoggettabilità a tassazione dei redditi provenienti da attività illecita secondo l’interpretazione fornita dall’articolo 14, comma 4, della legge 537/1993 con riguardo al Testo unico sulle imposte sui redditi, inquadrabile nella categoria di “redditi diversi”. La mancata sottoposizione all’imposta sui redditi dei proventi diversi viene configurata come delitto punito dall’articolo 5 del Dlgs 74/2000, sul presupposto che qualsiasi provento, anche illecito, costituisce reddito tassabile. Nel caso concreto si trattava di sequestro finalizzato alla confisca ex articolo 321, comma 2, cpp, per il quale non è necessario provare il nesso strumentale tra la res e la perpetrazione del reato perché si tratta di sequestro per equivalente che ha per oggetto beni estranei al reato contestato sottoposti a vincolo cautelare perché di valore equivalente al profitto del reato. Conclusioni - La Cassazione, peraltro, ha evidenziato come già il gip avesse evidenziato l’esigenza di adottare (e anche in fretta) misure di natura cautelare sussistendo il pericolo concreto che l’indagato potesse occultare le somme costituenti il profitto del reato, smobilitando gli investimenti finanziari in cui aveva impiegato il denaro di provenienza illecita. Milano: “I detenuti domandano perché”, incontri con gli scrittori nelle carceri La Repubblica, 1 marzo 2018 L’iniziativa promossa da L’Arte di vivere con Lentezza Onlus e sostenuta da Mediobanca con la collaborazione di Tempo di Libri. Incontri a San Vittore, nelle Case circondariali di Piacenza, Pavia, a Bollate e nell’Istituto Penale per Minorenni Beccaria. Il progetto metterà a confronto alcune delle firme più autorevoli della narrativa italiana con i “perché” raccolti tra le persone detenute. La Casa Circondariale San Vittore, di Piacenza, di Pavia, la Casa di Reclusione di Bollate e l’Istituto Penale per Minorenni Beccaria: saranno questi i cinque istituti penitenziari che parteciperanno a “I Detenuti Domandano Perché”, l’iniziativa promossa da L’Arte di vivere con Lentezza Onlus e sostenuta da Mediobanca con la collaborazione di Tempo di Libri, l’annuale manifestazione dedicata alla lettura che si terrà a Milano dall’8 al 12 marzo prossimi. Siamo tutti in cerca di risposte. In continuità con Il Gioco dei Perché, il programma per le scuole promosso da Tempo di Libri e ispirato alla rubrica che lo scrittore Dino Buzzati teneva sul Corriere dei Piccoli, denominata - appunto - “I perché”, il progetto “I detenuti domandano perché” metterà a confronto alcune delle firme più autorevoli della narrativa italiana con i “perché” raccolti tra le persone detenute all’interno dei cinque carceri. “Siamo tutti in cerca di risposte. Lo sono ancor più le persone detenute. Proprio per questo scrivono spesso delle lettere per raccontarsi, ma soprattutto per avere risposte che non riescono a darsi - dice Bruno Contigiani de L’Arte di vivere con Lentezza Onlus. Alcune risposte arrivano dai libri, altre dalle persone, consentendo di avviare un percorso interiore. La difficoltà di formulare chiaramente le proprie domande nel tempo vuoto, merita una risposta alla pari. Il progetto I Detenuti Domandano Perché fornisce l’occasione per rispondere ad alcune di queste domande, di questi perché”, conclude Contigiani. Il programma degli incontri. Le domande raccolte verranno veicolate verso gli autori prescelti, in occasione di un calendario di incontri organizzati in collaborazione con Tempo di Libri, proprio all’interno delle cinque strutture carcerarie aderenti al programma. Il primo appuntamento si è tenuto il 13 febbraio, presso la biblioteca della Casa Circondariale Torre del Gallo di Pavia, con la partecipazione dell’autore Andrea Kerbaker. Il prossimo è in programma il 21 marzo con Gianni Biondillo, che risponderà ai detenuti del carcere di Bollate, mentre il 22 marzo sarà la volta di Gianfelice Facchetti, al Beccaria. Seguiranno altri incontri presso gli Istituti di Piacenza e Milano. L’obiettivo dell’inclusione sociale. “Con questo progetto Mediobanca rinnova il proprio impegno per la promozione dell’inclusione sociale - commenta Giovanna Giusti del Giardino, Sustainability Manager di Mediobanca. Dopo il successo del camp multisport per i ragazzi del carcere minorile Beccaria di Milano, I Detenuti Domandano Perché offre una nuova opportunità ad altri detenuti: avere una finestra sul mondo esterno attraverso le risposte degli autori ai loro interrogativi più profondi”. Oristano: seminario sul carcere e il ruolo dell’informazione di Mario Virdis sardegnareporter.it, 1 marzo 2018 Oristano, seminario su Il carcere e il ruolo dell’informazione. Come è visto dal mondo dell’informazione il soggetto che sbaglia? Come viene riportata la notizia sui Media? La domanda, contenuta anche nel titolo di questo post è “Chi fa informazione quando riporta i fatti delittuosi che portano alla carcerazione, riesce a farlo in modo obiettivo? La domanda sostanzialmente è di grande complessità, ma altrettanto lo è la risposta. Ciascuno di noi operatori della comunicazione difficilmente riesce (quando si accinge a scrivere un pezzo) a farlo in modo asettico, privo di influenze, in quanto qualsiasi cosa che diciamo o scriviamo risulta viziata dal nostro sentimento, dalle nostre convinzioni, che, anche volendo, entrano subdole in quello che scriviamo, non riescono perciò a restarne fuori, contaminando i fatti, in particolare quelli particolarmente negativi. Per approfondire l’argomento l’Ordine dei giornalisti della Sardegna, l’Ucsi Sardegna e la Delegazione regionale Caritas Sardegna, hanno organizzato dei Seminari interessanti, dedicati in particolare alle giovani leve del giornalismo. Tema principale l’informazione corretta, ovvero: “È possibile raccontare il carcere senza pregiudizi, parlare con cognizione di causa delle condizioni di vita dei detenuti e dei familiari che li attendono fuori?”. Una domanda questa che ha contribuito a dare il titolo a questi incontri: “Informare dentro e fuori il carcere: la centralità della persona nel racconto dei media”. Gli incontri in calendario dei primi 2 Seminari previsti, si sono svolti Lunedì 26 Febbraio (dalle ore 14 alle 17) a Lanusei, nella sede della Caritas diocesana, e Martedì 27 Febbraio, (sempre dalle 14 alle 17) a Oristano, nella ex Chiesa di San Domenico, in via Lamarmora. Entrambi i seminari davano ai giovani partecipanti il diritto a 5 crediti formativi. Personalmente ho partecipato al Convegno di Oristano, e posso dirvi che ho ascoltato con grande attenzione e interesse, in considerazione anche della presenza di relatori qualificati, che hanno messo in luce due fattori importanti: lo stato attuale del sistema carcerario e quello dell’informazione, relativa a questo particolare settore. In apertura dei lavori, moderati da Francesco Birocchi, Presidente dell’Ordine dei Giornalisti Sardegna, hanno portato il loro saluto Mons. Tonino Zedda, cerimoniere vescovile e V. Direttore del settimanale l’Arborense, latore anche del saluto dell’Arcivescovo, assente da Oristano, Giovanna Lai, Direttrice della Caritas diocesana di Oristano e Andrea Pala, presidente UCSI Sardegna. Nel discorso d’apertura Birocchi è partito dal concetto che in un settore delicato come quello della carcerazione, fare un “giornalismo corretto” risulta essenziale. Scrivere, spesso con grande risalto, notizie sibilline e spesso fuorvianti, crea situazioni deprecabili che incitano l’opinione pubblica ad esprimere giudizi sommari, a condannare prima che lo abbiano fatto le strutture preposte a farlo. Dopo di Lui si sono alternati Gloria Sardara, educatrice in servizio al carcere di Massama, Daniele Pulino membro dell’Osservatorio dell’Associazione Antigone (che ha evidenziato il ruolo svolto dall’associazione nella verifica delle condizioni carcerarie e del rispetto dei diritti umani in carcere), Ornella Favero, Presidente della Conferenza nazionale volontariato e giustizia (Cnvg) e direttrice della rivista Ristretti Orizzonti. La Favero, nella sua relazione, ha affermato che la cattiva informazione ha contribuito non poco a creare nell’opinione pubblica il concetto che il carcere è qualcosa “che non ci riguarda”, che non interessa “noi cittadini per bene”. Concetti terribilmente errati, in quanto il carcere non è pieno di essere immondi, totalmente irrecuperabili dalla società civile, ma, spesso, al suo interno, contiene anche persone normalissime che per una serie di circostanze possono aver sbagliato. E, comunque, tutti hanno pieno diritto ad una giustizia non tanto solo ed esclusivamente retributiva (pagare il debito con la giustizia), ma soprattutto riparativa (ovvero rieducativa). La Costituzione italiana (art 27), non dimentichiamolo, dice chiaramente che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il carcere, però, nel nostro Paese continua a far discutere e a dividere. Non tutti conoscono veramente le problematiche dei carcerati e dei loro familiari. E proprio per questo che una cattiva informazione, spesso, riesce a “costruire” la paura sociale nei confronti di chi ha sbagliato, facendo riferimento solo alla condanna (ritenuta molto spesso inadeguata) e non alla possibile rieducazione del condannato. Birocchi nei suoi interventi, effettuati tra un relatore e l’altro, ha messo in evidenza che la privazione della libertà non dovrebbe mai significare la privazione dei diritti, che anche in carcere debbono essere sempre salvaguardati: diritto alla dignità, alla salute, al rispetto, agli affetti, etc. La Favero, riferendosi alla grande quantità di informazione scorretta che risulta circolante in abbondanza, ha detto che fare informazione spettacolo è deleterio, condannabile; chiunque faccia informazione dovrebbe uscire dalla superficialità per calarsi in profondità nella realtà concreta, non in quella apparente, spettacolare. Usando Pirandello ha detto che bisognerebbe “camminare nelle scarpe dell’altro”, per capire. Il discorso è poi scivolato sulle possibili pene alternative alla carcerazione, oggi assolutamente necessarie, visto che le strutture carcerarie sono diventate ormai una vera scuola di delinquenza; il condannato, dopo aver scontato la pena, esce dal carcere più criminale del giorno in cui vi era entrato. Adottare la nuova metodica delle pene alternative (ove possibile), migliorando, in particolare per i giovanissimi, l’istituto della “messa in prova”, potrebbe sicuramente migliorare la nostra situazione giudiziaria-carceraria, che al momento non brilla certo per iniziative concrete. L’interessante seminario, che ha messo a fuoco anche la reale situazione esistente nel nostro carcere di Massama, si è chiuso con un partecipato dibattito. Trento: in carcere a lezione su Costituzione e immigrazione di Valentina Stella Il Dubbio, 1 marzo 2018 Convenzione tra Apas, Facoltà di Giurisprudenza e l’Istituto di Spini di Gardolo. Instaurare un dialogo tra persone libere e non libere permette di cogliere e portare alla luce uno dei rapporti dolenti che da sempre caratterizza la società; consente di non dimenticare che esistono strutture, le carceri, occupate da persone che pensano, riflettono, parlano. Con questo spirito l’associazione Provinciale di Aiuto Sociale (Apas) e la Facoltà di Giurisprudenza di Trento hanno rinnovato la convenzione che permetterà ad alcuni professori e ricercatori della facoltà di svolgere un programma di lezioni presso la Casa Circondariale Spini di Gardolo. “Oltre i confini” è il titolo di questo nuovo progetto che “vorrebbe diventare - ci racconta Matilde Bellingeri, tra i coordinatori del progetto una consuetudine da ripetersi ogni anno, con l’obiettivo di contribuire al reinserimento attraverso la cultura. Non solo laboratori tecnici e attività, bensì dialogo e riflessione, a proposito delle questioni che riguardano la società tutta, per chi si trova in carcere e chi ne è fuori”. Entusiasti dell’esito ottenuto dalla prima edizione del progetto spiegano gli organizzatori - “per questo nuovo ciclo di incontri abbiamo organizzato due diversi gruppi di dialogo, i quali si confronteranno sul tema della Costituzione e su quello dell’immigrazione. Tema, quest’ultimo, molto caro alla classe di detenuti protagonisti della scorsa edizione. Essere riusciti a suscitare interesse su temi così attuali è motivo di grande soddisfazione e il merito va sicuramente ai docenti che con passione e dedizione hanno creduto nel progetto”. Il ciclo di incontri è iniziato l’ 8 febbraio e proseguirà sino al mese di maggio. Si affronterà e si parlerà del significato di Costituzione, cercando di rendere più concreti gli obiettivi di emancipazione, integrazione e rieducazione della pena, previsti dalla nostra Carta fondamentale, di principio di eguaglianza, di libertà personale, di lavoro e di libertà religiosa; ma anche di convenzioni internazionali, di religione, lavoro e salute, in riferimenti al più ampio tema dell’immigrazione. Per il professor Giuseppe Sciortino, docente di sociologia presso Università di Trento e autore del libro “Rebus immigrazione” “fare lezione all’interno del carcere non è sicuramente qualcosa che capita tutti i giorni. È inevitabile chiedersi se quello che si dice sarà di qualche interesse o di qualche utilità per un pubblico così diverso dagli studenti universitari. La mia (piccola) esperienza mi conferma che tutti gli esseri umani, non importa cosa abbiano fatto nella loro vita precedente, hanno sete di conoscenza e cose da dire”. Aaron Giazzon, direttore Apas ci racconta invece: “Oltre i confini” non solo nel titolo, il progetto è espressione infatti delle importanti sinergie del territorio trentino, soprattutto se si considera che è sostenuto interamente dal volontariato. Non solo per i detenuti, questo percorso di formazione è utile alla cittadinanza. Perché è importante essere consapevoli del fatto che anche i detenuti hanno diritto di avere spazi di riflessione, non solo scolastici. Perché il carcere non sia espressione di ozio e mancanza di stimoli”. Bergamo: scrivere in carcere, quando la scuola dietro le sbarre è il riscatto bergamonews.it, 1 marzo 2018 “Il laboratorio di scrittura è un modo per mettersi in gioco, per mettere nero su bianco le proprie emozioni, sensazioni, paure e attese mentre si sta scontando una pena - spiega Adriana Lorenzi. Adriana Lorenzi nel 2002 apre un laboratorio di scrittura in carcere. Un laboratorio di scrittura femminile, poi si apre ai detenuti. Infine nel 2009 la scelta di dare vita ad un rivista. Nel 2014 Adriana Lorenzi chiede all’amica Paola Suardi, che lavora nel mondo della comunicazione, di darle una mano. La rivista “Lo spazio” diventa un progetto triennale sostenuto da diversi enti capitanati dalla Fondazione Credito Bergamasco. “Il laboratorio di scrittura è un modo per mettersi in gioco, per mettere nero su bianco le proprie emozioni, sensazioni, paure e attese mentre si sta scontando una pena - spiega Adriana Lorenzi. Molti all’inizio partecipano per trascorrere il tempo, per non annoiarsi, ma poi la passione per la lettura e la scrittura prende il sopravvento. Ed è così che i detenuti dello spazio “Scrivere in carcere” sono anche giurati del Premio Narrativa Bergamo”. Una sfida quella della scuola in carcere che punta alla riabilitazione dei detenuti. “Spesso quando incontri queste persone in carcere comprendi quanto sia labile il confine tra chi sta dentro e chi sta fuori dal carcere - afferma Paola Suardi -. Tutti possono sbagliare e a tutti deve essere data la possibilità di pagare la loro pena ma anche di riabilitarsi”. Paola Suardi ha sempre profuso il suo impegno civile nel volontaria, oltre con i detenuti anche con le donne che hanno subito violenza. “Sono azioni concrete ispirate da valori, competenze al servizio di una visione di comunità precisa: inclusiva e laboriosa - conclude Paola Suardi. La collaborazione con Spazio è un esempio del mio modo di sentire e agire da “cittadina x passione”. È quello che ho trovato nel programma di Giorgio Gori - oltre che nei risultati di Gori sindaco a Bergamo - e mi ha spinto a candidarmi alle regionali nella lista civica Gori Presidente. La volontà di affrontare la complessità con metodo per trovare soluzioni differenziate a bisogni differenti. Questa è la chiave dell’inclusione - fatta di ascolto, studio, professionalità e decisioni - e di una buona politica che punta alla pace sociale. Valorizzare le differenze e applicare le competenze. Il resto sono banalizzazioni pericolose; invece la realtà è complessa e va colta e risolta in quanto tale. È il senso del mio fare in politica”. Eboli (Sa): le lacrime dei carcerati nell’incontro a scuola “ragazzi non vi fate ingannare” di Amalia De Simone Corriere del Mezzogiorno, 1 marzo 2018 L’incontro tra i detenuti del penitenziario di Eboli e gli studenti della scuola “Fresa-Pascoli” di Nocera Inferiore (Salerno): “Sentiamo una responsabilità incredibile perché vorremmo spiegare a questi ragazzi che noi abbiamo commesso degli errori, che abbiamo fatto del male a delle persone, che abbiamo rovinato vite e ci siamo rovinati la vita. “Mia figlia ha fatto diciott’anni senza di me. Mio figlio si è operato io non c’ero. Quante cose mi sono perso. Ragazzi la vita è una. Il tempo non si recupera, non sprecatelo”. Un velo di lacrime negli occhi di Giampaolo che, con tenerezza, cercano lo sguardo, pure quello commosso, di tanti ragazzini. Giampaolo è arrivato alla scuola “Fresa-Pascoli” di Nocera Inferiore (Salerno) insieme ai suoi tre compagni di carcere Francesco, Massimo e Bartolomeo. Per loro si sono aperti i cancelli del penitenziario di Eboli alle 8 del mattino e una cosa normalissima ma veramente speciale per chi non può farlo mai, come la colazione al bar, diventa uno scampolo di libertà da assaporare secondo per secondo. Non vedevano la strada da un po’ di tempo (non è facile avere permessi per uscire). “Sentiamo una responsabilità incredibile - spiegano sorseggiando il caffè - perché vorremmo spiegare a questi ragazzi che noi abbiamo commesso degli errori, che abbiamo fatto del male a delle persone, che abbiamo rovinato vite e ci siamo rovinati la vita. Noi siamo fortunati perché dopo aver scontato anni di carcere in istituti di pena che erano un inferno, oggi siamo all’Icatt di Eboli, un posto che ti cambia la vita, dove capisci che hai scelto la strada sbagliata e hai vicino persone come la direttrice e le guardie penitenziarie che restituiscono una dimensione umana anche alla detenzione. Abbiamo letto tante notizie di cronaca che parlano di un aumento della criminalità giovanile e forse è utile oggi andare a portare la nostra testimonianza a chi è in un’età fragile ed può essere a rischio”. L’alleanza di due donne ha permesso questo incontro insolito che ha portato il carcere in una scuola: la professoressa Marianna Giugliano e la direttrice del carcere Rita romano. Il preside della scuola “Fresa - Pascoli” Michele Cirino ha accettato la sfida, è in prima fila ad ascoltare le storie e si commuove. “Cosa vi manca di più della vita da liberi?”, chiede una ragazza. “Quando sono entrato in galera mia figlia era una bambina, ora è mamma e io sono nonno”, dice Massimo che nel frattempo All’Icatt ha studiato, scritto dei libri, sceneggiato opere teatrali. “Io mia figlia l’ho abbandonata che era piccolissima aveva due mesi. Lei ha cinque anni, Il maschio ne ha otto. E io sto ancora qui. Mi sto perdendo le cose più belle”, aggiunge Bartolomeo che è stato ammesso al lavoro fuori dal carcere e ora sente di avere una speranza. “Che avete fatto per finire in carcere?” Chiede un ragazzino con un ciuffo spavaldo. “Rispondo io che vengo da un quartiere dove da ragazzini ci toglievano della criminalità e ci mettevano nel “sistema”. Alla fine scansavano un fosso e finivamo in una voragine. - spiega Francesco, lo fa in dialetto napoletano per essere sicuro di spiegarsi bene - Parlo della camorra, della criminalità organizzata. Ho commesso tanti reati: dal traffico di droga, a quello di armi, dalle estorsioni alla banda armata. Il mio compito principale era quello di gestire una piazza di spaccio di rifornirla. Un bel giorno mi aspettarono 18 poliziotti. E finii in galera. Posso dire che più di metà della mia vita l’ho passata dietro le sbarre”. Mostra i tatuaggi che lo marchiano come affiliato ai clan della zona di Bagnoli-Fuorigrotta e lontano dalla platea mi racconta che la sua vita è cambiata quando da ragazzino, qualche giorno prima di partire per le vacanze fu testimone di un omicidio. “Quell’episodio mi segnò profondamente e cambiò in senso negativo tutta la mia vita”. Ai ragazzi racconta che entrò nel “sistema” perché vedeva i boss sfrecciare su belle auto mentre il macellaio o l’operaio avevano al massimo un’utilitaria: “Soldi, belle donne, auto di lusso... questo volevamo. Ma era solo un’illusione. Ci stavamo rovinando la vita. Ascoltatemi bene, non voglio fare il predicatore ma trasferirmi la verità della mia esperienza: non vi fate ingannare. All’inizio potrà sembrarvi anche che va tutto a gonfie vele ma poi quello sarà l’inizio di un lungo baratro. Io spacciavo anche le pasticche in discoteca: non prendetele mai. Sono schifezze chimiche e anche per averlo fatto una sola volta potreste rischiare la vita. Chi vive come ho vissuto io ha poche alternative: o il carcere o in un cimitero a farvi piangere dalla vostra famiglia. Tra 12 giorni torno ad essere un uomo libero (un applauso lo abbraccia ndr.) e ho paura”. Francesco spera in un’occasione, quella che nessuno gli ha mai dato e lui stesso non si è concesso. Chiede di poter avere un lavoro che lo tenga lontano dalla sua vecchia vita, un lavoro qualsiasi, ovunque, in qualsiasi parte d’Italia. “Noi che lavoriamo in carcere viviamo una grande frustrazione - spiega la direttrice del penitenziario di Eboli Rita Romano - quella di lavorare tanto insieme ai detenuti per fargli capire che c’è un’altra strada. Ma quando li lasciamo, quando escono cosa fanno? Quanto resisteranno senza lavoro prima che tornino a delinquere? Se dovessero tornare in prigione io non mi scandalizzerei come fanno tanti benpensanti. Siamo tutti coinvolti, come dice De Andrè, e sarà colpa anche nostra”. Suona la campanella. I ragazzi devono tornare in classe e anche per i detenuti finisce la giornata di libertà. In fila alcuni ragazzini vanno ad abbracciarli. “Grazie...” Mentre si avviano all’auto che li riporterà in carcere Francesco, Bartolomeo, Giampaolo e Massimo parlano tra loro: “Ne sarà valsa la pena se già solo uno di questi ragazzi, ripensando a questa giornata e alle nostre parole, sceglierà di non lasciarsi trascinare nel momento in cui la vita potrebbe portarlo a commettere un reato o a prendere la droga. Se sceglierà di non farlo e ripensando a tutto questo, dirà quello che non abbiamo detto noi alla loro età: io sono meglio di così, io valgo di più. In quel momento si salverà lui e ci salveremo anche noi. Almeno per un piccolissimo pezzo della nostra vita sbagliata”. Palermo: “Cotti in fragranza”, cresce il laboratorio nel carcere minorile legacoop.coop, 1 marzo 2018 La cooperativa si chiama Rigenerazioni ed è nata a Termini Imerese. Ma più che per il suo nome è conosciuta per il progetto “Cotti in fragranza” che ha avviato all’interno dell’Istituto penale per minorenni, il Malaspina, di Palermo. Un laboratorio di prodotti da forno, una startup innovativa a vocazione sociale che ora, grazie anche al sostegno di Coopfond, vuole crescere ancora. Al Malaspina si producono “prodotti da forno” legati alla tradizione siciliana, utilizzando preferibilmente materie prime biologiche locali e sviluppando la massima partecipazione, fin dalla fase di progettazione, di tutti i protagonisti. Ora, con un nuovo investimento, si vuole rafforzare ulteriormente questa esperienza, anche per dare maggiori prospettive ai ragazzi che escono dal carcere. In circa un anno di attività sono oltre 13.000 i pacchi di biscotti venduti, distribuiti in oltre 50 punti vendita della distribuzione cooperativa e non. La produzione attuale serve a soddisfare il bisogno locale in espansione. Per rafforzare la sostenibilità futura è necessario definire una distribuzione nazionale di spessore; aumentare la capacità produttiva mensile, ampliando il laboratorio e acquistando nuove attrezzature; rafforzare la formazione per i ragazzi. Napoli: blitz del sottosegretario Migliore al carcere di Secondigliano Il Roma, 1 marzo 2018 L’esponente del Governo visita la struttura detentiva di Napoli Nord. Visita del sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore nel carcere napoletano di Secondigliano (nella foto). Migliore, accompagnato da Giulia Russo, dirigente del centro penitenziario, si è andato nel padiglione Ionio, dove alloggiano 300 detenuti di “Alta Sicurezza”, oggetto, di recente, di una parziale ristrutturazione. Successivamente il sottosegretario si è recato in visita dagli agenti e incontrato anche i lavoratori del settore sanitario e rieducativo per un confronto sulle problematiche che affliggono i progetti di inserimento dei detenuti nel mondo del lavoro. Il sottosegretario ha ricordato, parlando con gli agenti e con il loro comandante Antimo Cicala, il recente rinnovo del contratto di lavoro. Cicala ha indicato al sottosegretario i possibili interventi futuri finalizzati al miglioramento della loro situazione lavorativa. Certo, la situazioni delle carceri campane resta quantomeno preoccupante. Pochi giorni fa il garante dei detenuti, Ciambriello, aveva affermato: “Quando aumenta il numero delle persone dentro il carcere, di 1.524 detenuti in più, il carcere peggiora sotto ogni punto di vista”. Sono stati presentati all’interno dell’ex carcere minorile Filangieri, oggi Scugnizzo Liberato, i dati raccolti in un dossier dall’associazione Antigone sulla condizione dei detenuti campani. Alla presentazione del tredicesimo rapporto di Antigone erano presenti diverse associazioni penitenziarie, il cappellano del carcere di Poggioreale e il garante dei detenuti campano Samuele Ciambriello. Il presidente di Antigone aveva invece precisato: “In Campania ci troviamo di fronte a un aumento di 1.524 detenuti nell’arco di sei mesi, una media del 34,6 per cento di detenuti in custodia cautelare, 68,45 per cento i recidivi tra coloro che scontano una pena in carcere. Accanto a questo dato enorme, si è registrato un aumento esponenziale di misure cautelari in carcere, il ricorso alla misura cautelare è un indice importante che supera i definiti”. Don Franco: “Sulla questione penitenziaria quello che può cambiare è la sensibilità dell’opinione pubblica del non carcere”. Il Garante dei detenuti Samuele Ciambriello: “Quando aumenta il numero delle persone dentro il carcere, il carcere peggiora sotto ogni punto di vista. A mio avviso, un dato allarmante è quello dei detenuti che escono dal carcere, più di 7.000 detenuti sono seguite dagli uffici Uepe, cosa si può fare per loro? Purtroppo si fa poco, perché l’80 per cento rientra in carcere e vive una recidiva. Il carcere non è una scelta immorale, alla persona che sbaglia va tolto il diritto alla libertà, ma, non alla dignità”, aveva concluso Ciambriello. Ascoli Piceno: la fragilità di “Pietra” entra in carcere Vita, 1 marzo 2018 Francesco Cicchi, fondatore e presidente della Cooperativa Sociale Ama Aquilone, ha voluto incontrare le persone detenute nella casa circondariale di Ascoli Piceno per dialogare attorno al suo libro “Pietra. L’anima e l’infinito da abitare”. Ha raccontato queste storie di fragilità “per aiutarci a capire chi siamo. Il diritto alla dignità umana va riaffermato con coraggio”. Le tracce delle storie narrate in “Pietra. L’anima e l’infinito da abitare”, spesso venivano dal carcere: lettere e piccoli fogli di carta sgualciti inviati da ragazzi o ragazze che erano passati dalla comunità Aquilone e che con essa avevano mantenuto un legame. Non poteva quindi mancare una presentazione in carcere del delicatissimo volume con cui Francesco Cicchi, fondatore e presidente della Cooperativa Sociale Ama Aquilone, una delle realtà più rappresentative delle Marche, ha voluto raccontare alcune delle storie delle tante persone forti perché fragili che hanno attraversato la sua vita abitando o solo sfiorando la comunità Aquilone. Il suo desiderio era quello di dar voce a “una narrazione che non si racconta”, restituendo storie “raccontate per aiutarci a capire chi siamo. La fragilità è qualcosa che, se viene censurata, ci rende meno umani. È questa la forza, la potenza, la bellezza del libro”, ha detto Cicchi. Eraldo Affinati nella sua introduzione ha definito “Pietra” come “un messale laico”, per la struttura narrativa ritmica scandita dalle ore del giorno, da un’alba all’altra, in cui le storie narrate sono tracce della misura universale della condizione umana. “Pietra è un libro che parla di noi. Ha l’ambizione di voler dire che paradossalmente siamo tutti diversi ma profondamente uguali, che non esiste il “tossico” o il “migrante”, ma esiste la razza umana, con le nostre fragilità con cui ogni giorno facciamo i conti o le ombre da cui ogni giorno scappiamo”, ha detto Cicchi. Questo libro, con questo messaggio dirompente, giovedì 22 febbraio - grazie alla disponibilità dell’istituzione carceraria nella persona della direttrice Lucia Di Feliciantonio - è stato presentato ai detenuti della Casa Circondariale di Ascoli Piceno, in un una conversazione con l’autore, Anna Casini, vicepresidente della Regione Marche e mons. Vinicio Albanesi, Presidente della Comunità di Capodarco. “Il carcere è un luogo da cui non si può rimanere lontani. È il luogo in cui è più necessario parlare di dignità umana, ma è un simbolo che evoca le prigioni interiori di ognuno di noi, e che ci interroga sulla responsabilità di esserne liberi”, ha affermato l’autore: “sono onorato di stare qui. Vedo tanti “volti”, ho fatto un pezzo di strada con loro e io li ricordo tutti. Voi siete in galera ed è difficile parlarne. Ma penso che ci siano dei diritti dell’uomo che non devono essere oggetto di trattativa. Il diritto alla dignità umana, il rispetto anche per chi ha fatto cose terribili. È sempre un essere umano. Bisogna combattere con coraggio per affermare questa verità quotidiana. Dovrebbero farlo tutti”. Quello con i detenuti del carcere di Ascoli Piceno è stato un “incontro” autentico. “Avevo timore di venire qui ad incontrare voi, che non avete la libertà, e di fare i conti con la vostra condizione. Ma ho accettato di “farmi sbattere in faccia la realtà” e adesso ne sono contenta”, ha affermato Anna Casini, Vice presidente della Regione Marche. Mentre mons. Vinicio Albanesi e ha ricordato a tutti che “se tu dai, in qualche modo almeno il dolore s’allenta. Uno potrebbe girarsi dall’altra parte e dire, “Io non posso far nulla”. No, anche nelle situazioni più disperate tu puoi fare”. Firenze: lo Squash entra nelle carceri, “benessere e rispetto delle regole” di Teresa Valiani Redattore Sociale, 1 marzo 2018 Firmato il protocollo d’intesa tra Dap e Figs per attivare programmi per diffondere la disciplina in tutte le sedi e implementare i percorsi di risocializzazione. Si inizia con Sollicciano (Firenze) per i detenuti, e con Casal del Marmo per il personale dell’amministrazione penitenziaria. Nasce all’inizio dell’800 proprio all’interno delle carceri, in Inghilterra, per consentire ai detenuti di tenersi in forma in ambienti chiusi, privi di finestre. E ora lo Squash, sport che deriva dal tennis e registra una forte crescita sul territorio nazionale, entra anche negli istituti penitenziari grazie a un protocollo firmato dal Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Santi Consolo e dal Presidente della Federazione Italiana Giuoco Squash, Piero Bartoletti. Il protocollo, firmato alla presenza del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri con deleghe alle Politiche e Affari Europei, Sandro Gozi, ha il fine di “attivare programmi di pratica della disciplina sportiva e di altre attività formative ed educative mirate al coinvolgimento delle persone detenute. L’accordo Dap- Figs - si legge in una nota - aggiunge un nuovo e importante tassello al decisivo impulso dato dall’Amministrazione penitenziaria e dalle Federazioni sportive per implementare la pratica dello sport nei percorsi risocializzanti delle persone detenute”. La prima esperienza pilota per la pratica dello Squash partirà dalla casa circondariale di Firenze Sollicciano, dove i tecnici della federazione hanno già individuato numerose aree idonee attraverso interventi di facile realizzazione. La Federazione Squash metterà a disposizione i propri istruttori qualificati per avviare le persone detenute alla pratica sportiva, mentre il secondo progetto interesserà l’impianto del Gruppo Sportivo della polizia penitenziaria Fiamme Azzurre, a Casal del Marmo, destinato alle attività Federali e al personale dell’amministrazione penitenziaria. “La connotazione ambientale, l’intensità dell’attività, la concentrazione che la disciplina sportiva richiede ai giocatori e l’innegabile componente ludica - spiegano i responsabili della federazione - rendono lo squash particolarmente adatto a chi è ristretto nella libertà personale, costituendo un’opportunità per allentare le tensioni tipiche della vita penitenziaria. Questo spot contribuisce allo sviluppo e alla realizzazione personale, insegna che perdere è un modo di apprendere e che ancor più della vittoria conta giocare nel rispetto delle regole e dell’avversario. Non ultimo, è innegabilmente un’attività sportiva particolarmente divertente”. È così che dopo il calcio e il rugby, anche lo squash entra nelle discipline tese a recuperare il benessere fisico e contribuire alla risocializzazione delle persone recluse. “Lo sport in carcere - prosegue la nota - offre alle persone detenute la possibilità di curare il benessere psico-fisico e di apprendere il rispetto per le regole e per l’avversario. La pratica sportiva coniuga l’aspetto della socializzazione e della tutela delle condizioni psico-fisiche dei detenuti con le altrettanto importanti esigenze educative, in un quadro di rigoroso rispetto delle regole”. (Teresa Valiani) Il “salto quantico” del cybercrime: danni per 500 mld nel 2017 di Andrea Frolla’ La Repubblica, 1 marzo 2018 Negli ultimi sette anni il numero di offensive informatiche è aumentato del 240%. Nel corso del 2017 sono stati registrati oltre 1.120 attacchi gravi, oltre 180 miliardi di dollari di costi per gli utenti. L’anticipazione del rapporto Clusit 2018. Il cybercrime ha compiuto un “salto quantico” nel 2017, colpendo oltre un miliardo di persone in tutto il mondo e generando danni complessivi per 500 miliardi di dollari con oltre 1.120 attacchi gravi. Dal 2011 a oggi, il volume delle offensive è cresciuto del 240% con un aumento del 7% nel corso degli ultimi 12 mesi. E a preoccupare è soprattutto il “cambiamento di fase” nel livello di cyber-insicurezza globale, con interferenze pesanti nella geopolitica, nella finanza e nella vita dei privati cittadini che sono stati vittime di crimini estorsivi su larghissima scala. Non ci vuole molto a definire allarmante come mai è stato prima il rapporto 2018 del Clusit, l’Associazione italiana per la sicurezza informatica che annovera tra i soci oltre 500 aziende e organizzazioni e che collabora a livello nazionale con ministeri, authority, istituzioni, Polizia Postale e altri organismi di controllo. L’avanzata qualitativa e quantitativa del crimine informatico non è certo una novità, ma siamo sempre più in presenza di un fenomeno dagli impatti devastanti. Lo scorso anno l’insieme di truffe, estorsioni, furti di denaro e di dati personali ha colpito circa un miliardo di persone sparse nel mondo, causando ai singoli utenti una perdita stimata in 180 miliardi di dollari (il 36% dei danni totali). “Il 2017 è stato l’anno del trionfo del malware, degli attacchi industrializzati realizzati su scala planetaria contro bersagli multipli e della definitiva discesa in campo degli Stati come attori di minaccia - sintetizza Andrea Zapparoli Manzoni, membro del Comitato Direttivo Clusit - La situazione che emerge dalla nostra analisi è molto preoccupante, perché questo scenario prefigura concretamente l’eventualità di attacchi con impatti sistemici molto gravi”. Il rapporto, che sarà presentato al pubblico il prossimo 13 marzo in apertura della decima edizione di Security Summit, piazza il cybercrime vero e proprio, cioè quello finalizzato a sottrarre informazioni, denaro, o entrambi, in cima alla classifica degli attacchi gravi a livello mondiale (76% degli attacchi complessivi, in crescita del 14% rispetto al 2016). Non va meglio sugli altri fronti. Sono infatti in netto aumento rispetto allo scorso anno gli attacchi sferrati con finalità di “information warfare”, la cosiddetta guerra delle informazioni che segna un aumento del 24%, e lo spionaggio cyber, con finalità geopolitiche o di tipo industriale a cui va tra l’altro ricondotto il furto di proprietà intellettuale, che cresce del 46%. Ed è qui che si nascondono i problemi maggiori in ottica futura. “Pur essendo ancora la prima causa di attacco a livello globale e rappresentando un problema enorme, il cybercrime è diventato ormai l’ultimo dei nostri problemi in ambito cibernetico dal punto di vista della sua pericolosità intrinseca - sottolinea Manzoni - Oggi ci troviamo infatti a fronteggiare problemi ben peggiori”. Una novità emersa dalla nuova edizione del rapporto riguarda la tipologia e la distribuzione delle vittime, con la categoria degli “obiettivi multipli” che risulta la più colpita: rispetto al 2016 si evidenzia un incremento a tre cifre, pari al 353%, a conferma del fatto che nessuno può ritenersi escluso dall’essere un obiettivo e che gli attaccanti sono sempre più aggressivi. Dal punto di vista strettamente settoriale, si segnala la crescita degli attacchi nei settori Research / Education (+29%), Software / Hardware Vendors (+21%), Banking & Finance (+11%) e Healthcare (+10%). Mentre scendendo nel dettaglio relativo al nostro Paese, si stimano in Italia danni da attività di cyber crimine per quasi 10 miliardi di euro. Un valore dieci volte superiore a quello degli attuali investimenti in sicurezza informatica, che arrivano oggi a sfiorare il miliardo di euro. “Gli investimenti in sicurezza informatica nel nostro Paese sono ancora largamente insufficienti e ciò rischia di erodere i benefici attesi dal processo di digitalizzazione della nostra società. Alla vigilia delle elezioni - mette in luce Manzoni - riscontriamo che il dibattito politico in Italia sta dando risposte inadeguate al tema della sicurezza cyber, fondamentale per lo sviluppo e il benessere dei suoi cittadini, nonché per la credibilità e la competitività del nostro Paese sul piano internazionale”. In questo scenario si inquadra il filo rosso dell’anno in corso: il nuovo regolamento europeo per la protezione dei dati personali (Gdpr). La compliance, concludono gli esperti, richiederà necessariamente un approccio multidisciplinare in tema di sicurezza delle informazioni, uno dei princìpi a cui il trattamento dei dati personali deve attenersi. Migranti. L’accordo Italia-Libia finisce davanti alla Corte costituzionale Left, 1 marzo 2018 Era il 2 febbraio 2017 quando - alla vigilia di un importante vertice europeo a Malta in cui si sarebbe discusso anche di emergenza immigrazione - il Primo ministro Paolo Gentiloni siglava a Roma l’accordo col presidente del Governo di unità nazionale libico Fayez al-Serraj: un memorandum in cui l’Italia si impegnava nei confronti della Libia a fornire strumentazioni e sostegno militare, strategico e tecnologico, oltre a fondi per lo sviluppo, per bloccare le partenze dei migranti in fuga. Un accordo con un Paese, è bene ricordarlo, che non ha ratificato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, e nelle cui carceri i migranti sono quotidianamente oggetto di violenze e soprusi. Un impegno preso, inoltre, senza che fosse stato consultato il Parlamento. Per questo un gruppo di politici, supportati da un team di giuristi della Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), ha deciso a distanza di un anno di usare gli strumenti della legge per fare annullare quel patto. “Non sottoponendo la legge di ratifica dell’accordo alla Camera e al Senato, il governo ha violato le prerogative parlamentari, tutelate dall’articolo 80 della Costituzione, che prevede che per i trattati internazionali che hanno contenuto politico e prevedono oneri finanziari sia obbligatorio il passaggio parlamentare”. Con queste parole Andrea Maestri, avvocato e deputato di Sinistra italiana-Possibile, annuncia a Left la presentazione alla Corte costituzionale del ricorso per sollevare un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato. A presentarlo, insieme a Maestri, i candidati con Liberi e uguali alle prossime elezioni Giuseppe Civati, Giulio Marcon e Beatrice Brignone. Secondo i ricorrenti, il governo avrebbe impedito il legittimo esercizio del potere costituzionalmente garantito dalla Costituzione al Parlamento stesso. “La lesione delle nostre prerogative - spiega Maestri - è facile da individuare, perché io in particolare nei confronti dei ministri Minniti e Alfano ho presentato diverse interrogazioni su questo tema, me ne sono occupato tantissimo, però di fatto non vi è stata possibilità di discutere uno degli atti più importanti di politica migratoria e politica estera di questo governo come appunto l’accordo con la Libia, perciò il vulnus rispetto alla Costituzione è evidentissimo. Direi che si tratta di una questione grave dal punto di vista politico, ma anche costituzionale e oserei dire democratico”. Una questione grave, insomma, che non è capitata per caso. “È evidente che c’è un filo rosso sangue che tiene legate le iniziative del governo italiano, sia in Libia che in Niger (il riferimento è alla missione italiana approvata a dicembre, ndr) che è la volontà di gestire i flussi migratori esternalizzando i confini, delegando il lavoro sporco ad esempio alle milizie libiche e alle tribù tripolitane e del sud del Paese che lo scorso aprile hanno stretto un patto con Minniti, quel “patto di sangue” così definito all’epoca dai capi tribù, come raccontato dal ministro stesso”. A votare la missione militare italiana in Libia di agosto, di supporto alla guardia costiera del Paese nordafricano, furono però anche esponenti di Mdp, ora all’interno di Leu, la stessa lista di Maestri: “La posizione di Liberi e uguali su politica estera, politiche della migrazione, diritti umani - ribadisce il deputato - è assolutamente univoca, al di là delle scelte che magari Mdp ha fatto in passato. Credo che oggi nessuno fra i colleghi di Mdp avrebbe difficoltà a condividere pienamente la linea che abbiamo tracciato attraverso questa azione di denuncia”. “Le torture ai migranti e il nostro disinteresse colpevole” di Marco Sarti linkiesta.it, 1 marzo 2018 Alcuni deputati di Liberi e Uguali ricorrono alla Corte Costituzionale contro il memorandum di intesa con Tripoli. “Il governo ha stretto un accordo internazionale mai ratificato dal Parlamento”. Parla Civati: “Purtroppo le violenze sui migranti sono fuori moda, non entrano in campagna elettorale”. Sono vicende terribili, di stupri e torture. “Eppure sono temi considerati fuori moda, lontani dalla campagna elettorale”. Storie di migranti detenuti in Libia, imprigionati per mesi, sfruttati, vittime di violenze e trattamenti disumani. “E in Italia si preferisce fare finta di niente”, racconta il leader di Possibile Pippo Civati. “In queste settimane la politica ha preferito parlare di immigrazione in modo strumentale, solo per conquistare qualche voto in più, senza offrire alcuna soluzione. Abbiamo sentito panzane di ogni tipo, spesso irrealizzabili. Probabilmente questo sarà ricordato come uno dei momenti più bassi della storia repubblicana”. Ma se gli sbarchi sulle nostre coste sono diminuiti, centinaia di migliaia di persone continuano morire dall’altra parte del Mediterraneo. Al centro dell’attenzione torna il trattato di cooperazione tra Italia e Libia per il contrasto dell’immigrazione illegale. Alcuni deputati di Liberi e Uguali hanno appena presentato un ricorso presso la Corte costituzionale, accusando il nostro esecutivo di aver stretto un’intesa con il governo di Tripoli senza coinvolgere il Parlamento. Anche se, come previsto dalla Costituzione, i trattati internazionali devono essere ratificati dalle Camere. Dalla firma del memorandum di intesa, nel febbraio dello scorso anno, il fenomeno migratorio non si è certo interrotto. Ci sono meno naufragi in mare, è vero. Ma la situazione continua a essere drammatica. Le inchieste giornalistiche degli ultimi mesi hanno fatto luce sui centri di detenzione libici, dove i migranti sono vittime di pestaggi e torture. Alcuni persino venduti come schiavi. Decine di migliaia di persone tenute prigioniere in condizioni inumane, senza acqua, cibo e servizi igienici. “Potevamo scegliere tra l’accoglienza e la tortura, abbiamo scelto la tortura”. Nel suo ultimo libro “Voi Sapete” Civati punta il dito contro la nostra indifferenza. Un viaggio virtuale tra il Sahel e la Sicilia che è anche un duro atto di accusa ai potenti del mondo. “Complici, perché tollerano e finanziano tutto questo”. La decisione di ricorrere alla Consulta nasce anche da qui. Un’iniziativa politica, raccontano i proponenti, ma anche un impegno morale. Il deputato Andrea Maestri è un avvocato immigrazionista, a Montecitorio spiega i dettagli del ricorso. “Subappaltare il lavoro sporco alla guardia costiera libica e alle milizie di Tripoli è un’operazione cinica, ma anche di barbarie politica e costituzionale”, racconta. “Nel 2017 è inammissibile stringere un accordo che consente, per interposto Stato, di violare la convenzione di Ginevra e il principio di non respingimento dei rifugiati”. “Subappaltare il lavoro sporco alla guardia costiera libica e alle milizie di Tripoli è un’operazione cinica, ma anche di barbarie politica e costituzionale. Nel 2017 è inammissibile stringere un accordo che consente, per interposto Stato, di violare la convenzione di Ginevra e il principio di non respingimento dei rifugiati” Eppure di fronte a quello che l’alto rappresentante Onu per i diritti umani ha definito “un oltraggio alla coscienza dell’umanità”, si preferisce chiudere gli occhi. A fermare i migranti adesso è il governo di Tripoli, la vicenda non ci riguarda più. I deputati di Liberi e Uguali chiamano in causa le responsabilità del nostro governo e delle istituzioni europee. Intanto il Parlamento italiano scopre i suoi limiti. Civati ricorda il voto che qualche settimana fa ha autorizzato l’ultima missione militare. Un intervento in Niger, “i cui contorni sono ancora oscuri”, velocemente approvato a Camere già sciolte. Inevitabilmente si torna al memorandum di intesa siglato tra il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e il rappresentante del governo di riconciliazione nazionale dello Stato di Libia Faye Mustafa Serraj. Un impegno anche economico, visto che il nostro Paese si è fatto carico di finanziare la formazione del personale e l’assistenza tecnica per la guardia costiera e la guardia di frontiera libica. Su cui però il Parlamento non è mai intervenuto. Ecco perché i deputati, assistiti da alcuni legali dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, ora presentano un ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato. Accusano Palazzo Chigi di aver stretto accordi con la Libia senza sentire il Parlamento. Senza sottoporre i trattati al vaglio di Camera e Senato. “Il governo - spiegano - non presentando il progetto di ratifica al Parlamento italiano ha impedito il legittimo esercizio del potere costituzionalmente garantito dalla Costituzione al Parlamento stesso”. Il ricorso alla Consulta è solo l’ultima tappa di una lunga battaglia. I deputati raccontano di aver presentato fin dall’inizio mozioni e interrogazioni per fare luce sulla vicenda. Cercando di chiarire i termini dell’intesa con Tripoli, ma anche le criticità legate alla gestione dei flussi migratori da parte delle autorità nordafricane. Non di rado in violazione dei diritti umani. “Purtroppo - racconta Maestri - su questo tema le risposte, in particolare del ministro Minniti, sono state molto evasive”. L’impegno non si esaurisce adesso. Il tema sarà portato avanti anche nella prossima legislatura, assicurano i parlamentari. “È un’iniziativa che dobbiamo a chi porta sulla propria pelle le conseguenze di atti politici che consideriamo molto lontani da noi, ma invece ci riguardano da vicino” insiste Maestri, che da avvocato ha seguito direttamente molte vicende. “Come quella di una ragazza nigeriana che dopo aver attraversato il deserto, ha trascorso un lungo periodo di prigionia in Libia, è stata sfruttata come lavoratrice agricola, vittima di violenze, pestaggi e quattro stupri”. Le bufale di Berlusconi e Salvini sugli immigrati secondo lavoce.info di Bruno Perini Il Manifesto, 1 marzo 2018 L’uso dell’immigrazione per far impaurire la pancia del paese e strappare voti alla parte più conservatrice dell’elettorato, come fa quotidianamente Matteo Salvini, è già di per sé demagogia di bassa lega. Se poi si scopre che sulle cifre dell’immigrazione si raccontano balle, come hanno fatto Silvio Berlusconi e Matteo Salvini di recente, si tratta di porcheria. Il sito online lavoce.info nei giorni scorsi ha messo a nudo le falsità dei due massimi esponenti del centro destra. Vale la pena dunque riprendere il chek fatto dalla Voce.info sulle dichiarazioni dei due alleati. Partiamo da Salvini. Il 15 gennaio scorso il capo della Lega ha scritto un simpatico tweet che potrebbe diventare il manifesto del neo razzismo. “Record di sbarchi di clandestini in gennaio: già 841 da inizio anno (+15% rispetto all’anno scorso). E negli alberghi ne stiamo mantenendo 183.681. Non vedo l’ora che mi diate la possibilità di fermare questa invasione, organizzata e finanziata per cancellare la nostra cultura”. Neanche la Le Pen utilizzava questo linguaggio. C’è soltanto da sperare di non averlo davvero nelle vesti di presidente del consiglio. Ma torniamo ai dati. Secondo gli analisti della Voce.info e secondo il Viminale, Matteo Salvini a questo proposito racconta balle: “In un anno gli sbarchi sono diminuiti del 34 per cento, da 181mila e 436 a 119mila e 310 migranti giunti sulle coste italiane. Una flessione cominciata a luglio, da quando Minniti ha cambiato le politiche migratorie stringendo accordi con le comunità e la guarda costiera libiche”. “Come vanno d’accordo dunque i due dati?”, si chiedono gli analisti che utilizzano la tecnica del fact-cheking. “Matteo Salvini riporta cifre poco significative, in quanto relative a soli 15 giorni su 365. La brevità della serie temporale, unita al fatto che gli sbarchi sono eventi imprevedibili e legati a una serie di variabili logistiche e meteorologiche non sistematiche, fa sì che il confronto sia quasi insignificante per l’individuazione di un trend annuale o quanto meno mensile. Per comprenderlo appieno è sufficiente osservare la dinamica degli arrivi. Oggi, una settimana dopo il tweet di Salvini, la variazione sul 2017 è ancora positiva per il 15 per cento (2.749 sbarchi versus 2.393): nel frattempo, però, ci sono state fluttuazioni positive e negative, fino al meno 58% dal 15 gennaio. Alle bugie di Matteo Salvini, che secondo la voce.info bara anche sugli ospiti in alberghi, seguono i trucchi aritmetici di Silvio Berlusconi che non vuole farsi rubare il mestiere di demagogo dal suo alleato. In un’intervista alla sua tv il leader di Forza Italia ha affermato che “oggi in Italia si contano almeno 630 mila migranti di cui solo il 5 per cento, e cioè 30 mila, ha diritto di restare da noi […]perché rifugiati e cioè fuggiti da guerra e morte. Sono sbarcati in Italia 170 mila clandestini nel 2014, 153 mila nel 2015, 181 mila nel 2016 e 119 mila l’anno scorso”. Numeri riscontrabili nei dati del Ministero dell’interno, e che se sommati raggiungono quota 623 mila (vicina ai 630 mila citati dal leader di Forza Italia). Berlusconi sembra supporre che la platea di immigrati irregolari-clandestini corrisponda, più o meno, al numero di arrivi degli ultimi anni. Un calcolo non così immediato, dal momento che della platea dei migranti sbarcati la maggior parte è stata negli anni integrata nei sistemi d’accoglienza e ha ricevuto il permesso di soggiorno, mentre altri possono aver espatriato o essere stati rimpatriati Non è quindi possibile associare a un stock fisso di stranieri clandestini e irregolari in Italia (secondo la Fondazione Ismu a fine 2016 erano 491 mila) i flussi annuali degli sbarchi. Ma è nel dato percentuale che si trova un altro errore. Nel rapporto di lavoce.info si legge che “nel 2017 l’accettazione di status di rifugiato con pieni diritti è stata attorno all’8,5 per cento, la protezione sussidiaria al 7,3 per cento, mentre la percentuale di accettazione per protezione umanitaria al 24,4 per cento. In sostanza, se sommiamo le percentuali, non si parla più di un 5, ma del circa 40 per cento di persone che hanno diritto a restare sul nostro territorio. Senza contare gli esiti dei ricorsi in Cassazione, i cui dati - dopo la modifica legislativa di aprile dell’anno scorso - non sono ancora disponibili”. Dunque, come il suo socio Salvini, Silvio Berlusconi ci racconta altre bugie. Come quella raccontata mercoledì sera da Lilli Gruber. “Durante i miei governi l’80 per cento dei miei impegni sono stati mantenuti”. Ma mi faccia il piacere! diceva Totò. Olanda. Le carceri chiudono perché è tutto troppo sicuro e ci sono pochi detenuti di Biagio Chiariello fanpage.it, 1 marzo 2018 Pochi detenuti e costi di gestione troppo alti. Il governo olandese decide di risolvere in modo concreto il “problema” delle carceri nel paese. Ma come è possibile che in una nazione europea vengano commessi così pochi crimini da arrivare a chiudere le prigioni? Come si è arrivati a questo punto? L’Olanda è notoriamente conosciuta come uno dei paesi più tolleranti e sereni al mondo, con un livello di crimini violenti ad impressionantemente basso. Ma potrebbe sorprendervi sapere che Amsterdam e le altre città dei Paesi Passi sono cose sicure che le carceri stanno chiudendo un po’ ovunque. Il motivo è semplice: non ci sono abbastanza prigionieri da rinchiudere. Dal 2009 almeno ventisette delle carceri del paese sono chiuse causa “spopolamento”, e altre cinque hanno già programmato la cessazione dell’attività. A riportare in anteprima la notizia è stato De Telegraaf, uno dei principali quotidiani dei Paesi Bassi, sulla base di documenti interni del governo locale. Pochi carcerati, pochi crimini in Olanda - Le carceri olandesi sono così scarsamente popolate che nel settembre 2016 il paese ha finito per importare 240 prigionieri norvegesi così da riempirne gli spazi, per poi affittare le sue celle ad altri paesi. Uno dei principali motivi di questa chiusura di massa è che l’Olanda ha uno dei tassi di incarcerazione tra i più bassi in Europa. Il paese ha una popolazione di 17 milioni, ma solo 11.600 persone sono state detenute: un tasso di 69 incarcerazioni per ogni 100.000 persone. Numeri che hanno spinto il parlamento olandese a concludere che spendere dei soldi per mantenere delle carceri vuote è semplicemente inutile. Come si è arrivato a chiudere le carceri - Ma non è sempre stato così. I crimini nei Paesi Bassi sono diminuiti costantemente dal 2004/5, quando il governo ha bloccato la diffusione delle droghe pesanti che arrivavano nel paese attraverso gli aeroporti internazionali, lasciando invece spazio libero alle droghe leggere “di casa”, secondo quanto riportato dall’Irish Times. Un mix tra leggi flessibili in materia di droga, un focus sulla riabilitazione piuttosto che sulle punizione e l’introduzione dell’etichettatura elettronica per i criminali sono i fattori che hanno contribuito ad abbassare il tasso di criminalità, si legge su The Independent. E il futuro? - Nel 2008, un rapporto del dipartimento di giustizia del paese ha rilevato che l’etichettatura elettronica, che permetteva ai criminali di restare liberi e di tornare in carcere dopo il lavoro, riduceva la recidività fino al 50% rispetto alla detenzione pura. Il risultato complessivo è che sono stati registrati sempre meno casi criminali: 167.100 nel 2011, il 13% in meno rispetto all’anno precedente, secondo il rapporto del Times. Tuttavia, la sicurezza dei Paesi Bassi ha avuto un impatto a catena: la chiusura delle carceri registrate lo scorso anno avrebbe significato la perdita di quasi 2.000 posti di lavoro. Per di più non tutti sono sicuri del fatto che nel periodo a lungo termine il governo non possa pentirsi delle proprie azioni: “Questo esperimento sociale si sta diffondendo attraverso i Paesi Bassi come una fuoriuscita di petrolio”, ha detto all’Irish Times Rob Minkes, presidente del consiglio comunale degli ufficiali carcerari olandesi. “La domanda è: questo è davvero un vantaggio per la nostra società? Dobbiamo essere sicuri che le vittime dei crimini si sentano al sicuro. E non so se questo avvenga con la chiusura delle prigioni”. Stati Uniti. Walmart e la catena sportiva Dick’s vietano la vendita delle armi agli under 21 La Repubblica, 1 marzo 2018 Svolta negli Usa: la catena di supermercati e il colosso delle attrezzature sportive americano hanno deciso alla luce delle ultimi stragi nelle scuole, come nell’ultima di Parkland, in Florida, di alzare a 21 anni l’età minima per acquistare armi. Svolta negli Stati Uniti sulla politica delle armi. Il gigante della vendita al dettaglio statunitense Walmart ha annunciato che aumenterà a 21 anni l’eta per la vendita delle armi nei suoi negozi anni dopo la sparatoria che ha ucciso 17 persone alla Parkland High School in Florida. “Alla luce dei recenti eventi, abbiamo rivisto la nostra politica sulle armi da fuoco, quindi stiamo aumentando l’età per comprare armi da fuoco e munizioni a 21 anni”, ha spiegato Walmart in una nota. Dal 2015, l’azienda, presente in tutti gli Stati, non vende più fucili d’assalto semi-automatici. Inoltre, non vende pistole, tranne che in Alaska. Dopo le riprese alla Marjory Stoneman Douglas High School il 14 febbraio, molte persone sono rimaste scioccate dal fatto che il tiratore diciannovenne sia stato in grado di acquistare un AR-15 quando non aveva ancora 21 anni, età che serve invece per consumare legalmente alcol negli Stati Uniti. La decisione di Walmart segue di poche ore quella del colosso delle attrezzature sportive Dick’s, che ha deciso di bloccare la vendita nei propri negozi di armi semiautomatiche e fucili d’assalto spesso usati nelle stragi negli Usa. Inoltre, la grande società americana ha anche deciso di alzare a 21 anni l’età minima per acquistare armi. “Abbiamo ritenuto necessario fare qualcosa” ha detto oggi al programma dell’Abc “Good Morning America” il presidente e amministratore delegato Edward Stack. Stack ha aggiunto di aver scoperto dopo la strage di aver venduto a novembre un’arma al killer di Parkland, Nicolas Cruz. Ma non l’arma o il tipo di arma poi usata nel massacro, ha puntualizzato: “Tuttavia, abbiamo capito che saremmo potuti essere parte di questa storia”, ha dichiarato Stack, “e ci siamo detti: non vogliamo più farne parte”. Secondo Stack, l’attuale sistema non è abbastanza efficace per impedire la vendita di armi a persone che possano costituire una minaccia, e l’imprenditore ha quindi chiesto al Congresso di agire con “una riforma di buonsenso sulle armi”. “Abbiamo visto quel che è accaduto a Parkland e siamo rimasti turbati e sconvolti”, ha aggiunto il dirigente della Dick’s, “amiamo questi ragazzi e il loro grido ‘Quando è troppo è troppo’ è arrivato fino a noi. Prenderemo posizione e ci alzeremo in piedi per dire alla gente la nostra visione e, speriamo, per portarle a parlare di questo tema”. Strage Florida, davanti alla Casa Bianca la protesta contro Trump e la lobby delle armi: “Sarò io il prossimo?” Varie compagnie, tra cui Hertz, le assicurazioni MetLife e Delta Air Lines, nei giorni scorso hanno tagliato le partnership con la National Rifle Association, l’associazione nazionale della lobby delle armi. Siria. I massacri di Ghouta e una tregua che nessuno vuole davvero di Franco Venturini Corriere della Sera, 1 marzo 2018 I troppi interessi in gioco nel conflitto siriano fanno sì che la pace non sia conveniente per gli attori in campo. E le violenze non si fermano. Quattro giorni dopo l’unanime indignazione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, è evidente che nessuna tregua è entrata in vigore tra Ghouta Est e Damasco. Non arrivano gli aiuti, non partono i civili sottoposti a bombardamenti feroci. E quel che è peggio è che c’è una logica ferrea, nel proseguimento del massacro. Assad vuole “ripulire” la regione della capitale, e non ha alcun interesse a sospendere i suoi attacchi. Tanto più che a Ghouta Est si nascondono piccoli gruppi di discendenza qaedista che colpendo Damasco con i mortai gli offrono una conveniente motivazione. Putin controlla Assad, e condivide, o ispira, la sua strategia. Oltretutto l’idea della tregua di cinque ore al giorno è farina del suo sacco, e il capo del Cremlino è parso così sensibile alle esigenze umanitarie. Utile, alla vigilia delle elezioni. Erdogan è felicissimo che i riflettori si siano accesi su Ghouta, allontanandosi dalla sua non travolgente offensiva contro i curdi siriani. Tanto più che Putin, annunciando ieri il salvataggio (non citato da altri) di un gruppo di civili, ha ringraziato proprio lui. Jaish al-Islam, Tahrir al-Sham e altri gruppi di opposizione jihadista trincerati a Ghouta Est non hanno interesse, nemmeno loro, al successo della tregua. Per ricevere armi e finanziamenti da fonti sunnite occorre essere protagonisti, e sparare contro Assad. È il cinismo della guerra. L’Iran, non coinvolto direttamente, appoggia Assad e condivide la spiegazione secondo cui al Palazzo di Vetro è stato fatto il possibile, e il Cremlino ha poi aggiunto una sua generosa proposta. Ma i combattimenti non potranno cessare se i “gruppi terroristi” continueranno a fare vittime nei quartieri centrali di Damasco. La colpa è loro. Nessuno sembra voler parlare di proporzioni, 500 morti a Ghouta Est in nove giorni contro 7 a Damasco, nessuno dice che a Ghouta Est sono stati bombardati anche gli ospedali, nessuno ha intenzione di fermarsi. È la solita storia siriana: se gli interessi dei protagonisti non coincidono, e mai come oggi essi sono stati diversi, gli sforzi dell’Onu diventano inutili balletti diplomatici. Slovacchia. Giornalista ucciso, si dimettono ministro e due assistenti del premier La Stampa, 1 marzo 2018 Il reporter Jan Kuciak e la sua compagna sono stati uccisi con dei colpi di pistola. Per gli inquirenti con l’omicidio qualcuno ha voluto fermare il suo lavoro investigativo. Cadono le prime teste dopo l’uccisione del giornalista slovacco Jan Kuciak in Slovacchia: l’assistente del premier Robert Fico, Maria Troskova, e il segretario del Consiglio di sicurezza, Viliam Jasan, si sono dimessi dalle loro cariche nell’ufficio del governo. I loro nomi erano finiti nell’inchiesta del reporter, pubblicata oggi da Aktuality.sk, per legami e affari con persone che orbitano attorno alla `ndrangheta in Slovacchia. L’annuncio arriva a poche ore dalle dimissioni del ministro della Cultura slovacco Marek Madaric (Smer, democratici sociali). “Il ministero della cultura è il dicastero più vicino ai media. Dopo quello che è successo, non riesco ad immaginare di rimanere in carica come ministro. La mia decisione è collegata all’assassinio del giornalista”, ha detto Madaric. L’opposizione slovacca sollecita le dimissioni del ministro dell’interno Robert Kalinak (Smer) e del presidente della polizia Tibor Gaspar. Il reporter Jan Kuciak e la sua compagna sono stati uccisi con dei colpi di pistola la settimana scorsa. Per gli inquirenti con l’omicidio qualcuno ha voluto fermare il lavoro investigativo del giornalista. È per questo che il sito Aktuality.sk per cui il 27enne lavorava, e altre testate slovacche, hanno pubblicato una versione non terminata dell’articolo del giornalista, concentrato sulle presunte relazioni politiche fra uomini d’affari italiani sospettati d’essere legati alla ‘ndrangheta e la politica locale. Kuciak indagava infatti sulla corruzione, fra cui nei possibili legami tra il mondo degli affari e il partito Smer-SD del premier, Robert Fico. “Due persone vicine a un uomo arrivato in Slovacchia mentre era accusato di un affare di mafia in Italia, hanno accesso quotidiano al primo ministro” slovacco, ha scritto nel suo articolo, intitolato “La mafia italiana in Slovacchia, i suoi elfi si allargano alla politica”. “Gli italiani legati alla mafia hanno trovato una seconda casa in Slovacchia: hanno cominciato a fare affari, ricevere sovvenzioni, raccogliere fondi europei, ma soprattutto stabilire relazioni con personalità politiche influenti, fino al governo slovacco”. Ora il premier slovacco Robert Fico ha offerto una taglia di un milione di euro a chiunque fornisca informazioni sull’assassinio. La polizia slovacca ha inoltre preso contatti con quella italiana e quella ceca, mentre l’Europol ha offerto la propria assistenza per le indagini. Turchia. 38 Nobel scrivono a Erdogan: “serve libertà di espressione” La Repubblica, 1 marzo 2018 Signor Presidente, intendiamo richiamare la sua attenzione sul danno che deriva alla reputazione della Repubblica di Turchia e alla dignità e al benessere dei suoi cittadini da azioni che a giudizio delle massime autorità mondiali sul tema della libertà di espressione si configurano come carcerazione illegittima e indebita condanna nei confronti di scrittori e pensatori colpevoli solo di esercitare il diritto universale alla libera espressione. Le ricordiamo il Memoriale sulla libertà di espressione in Turchia (2017), redatto da Nils Muižnieks, all’epoca Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa che osservava allarmato: “Lo spazio destinato al dibattito democratico in Turchia si è ridotto in misura preoccupante a seguito della più intensa persecuzione giudiziaria esercitata ai danni di ampi strati della società, che tocca giornalisti, parlamentari, accademici e cittadini comuni nonché all’azione del governo che ha ridotto il pluralismo e portato all’autocensura. Tale degrado è intervenuto in uno stato di cose molto difficile, ma ne il tentato golpe, né altre minacce terroristiche che la Turchia si trova ad affrontare possono giustificare misure che violano la libertà dei media e rinnegano lo stato di diritto fino a questo punto. È urgente un cambio di rotta da parte delle autorità, che porti alla revisione della normativa e della procedura penale, ripristinando l’indipendenza della magistratura e ribadendo l’impegno a tutelare la libertà di espressione”. Le preoccupazioni del Commissario sono esemplificate al meglio dalla carcerazione imposta nel settembre 2016 ad Ahmet Altan, romanziere di successo e giornalista, a Mehmet Altan, docente di economia e saggista e a Nazli Ilicak, esimia giornalista - nell’abito dell’ ondata di arresti seguita al fallito golpe del luglio 2016, con l’accusa di aver tentato di rovesciare l’ordine costituito con l’uso della violenza e della forza. I magistrati intendevano in origine muovere agli imputati l’accusa di aver trasmesso dal teleschermo “messaggi subliminali” ai fautori del golpe mentre partecipavano a una tavola rotonda. L’ondata di ridicolo suscitata nell’opinione pubblica li ha portati a cambiare l’accusa, imputandoli di aver usato un linguaggio “invocante il golpe”. In effetti l’agenzia di stampa ufficiale turca Anadolu ha definito il caso “Il processo per invocazione al golpe” Come osservato nel rapporto del Commissario, le prove prese in considerazione dal giudice nel processo contro Ahmet Altan si limitavano a un articolo datato 2010 del quotidiano Taraf, di cui Ahmet Altan è stato direttore fino al 2012, tre dei suoi editoriali e un’apparizione televisiva. Le prove contro gli altri imputati erano altrettanto inconsistenti. Tutti questi autori vantano una carriera tesa a contrastare i colpi di stato e ogni genere di militarismo eppure sono stati accusati di aver fiancheggiato un gruppo terroristico nell’organizzazione di un golpe. Il Commissario ha individuato nella detenzione e nella condanna dei fratelli Altan l’ esempio di un sistema più ampio di repressione, esercitata in Turchia contro chi esprima dissenso o critiche nei confronti delle autorità. A suo giudizio queste carcerazioni e questi processi si pongono in violazione dei diritti umani e minano lo stato di diritto, opinione condivisa da David Kaye, relatore speciale dell’Onu sulla libertà di espressione, che ha definito il procedimento un “processo spettacolo”. La stessa Corte costituzionale turca ha condiviso le critiche. L’11 gennaio di quest’anno ha dichiarato illegittima e lesiva dei diritti degli imputati la carcerazione preventiva inflitta a Mehmet Altan e al collega giornalista Sahin Alpay, ordinandone la scarcerazione, ma i magistrati competenti per il primo grado di giudizio si sono rifiutati di applicare la sentenza della Corte, in aperta violazione della costituzione. Signor Presidente, Lei non può trascurare il fatto che la ribellione degli organi di giudizio penale inferiori e questa sentenza illegale sono state appoggiate dal portavoce del suo governo. Il 16 febbraio 2018 i fratelli Altan e Nazli Ilicak sono stati condannati all’ergastolo aggravato ed esclusi da qualsiasi futura amnistia. Signor Presidente, noi sottoscritti condividiamo l’opinione di David Kaye: “La sentenza del tribunale che condanna i giornalisti all’ergastolo aggravato a causa della loro opera senza addurre prove sostanziali del loro coinvolgimento nel tentativo di golpe né garantire loro un giusto processo, rappresenta una grave minaccia al giornalismo e a ciò che resta della libertà di espressione e della libertà di stampa in Turchia.” Signor Presidente, nell’aprile 1998 in base al medesimo articolo 312 del Codice Penale, lei stesso fu privato dell’incarico di sindaco di Istanbul, interdetto all’attività politica e condannato a dieci mesi di carcere per dei versi citati durante un discorso pubblico nel dicembre 1997. Fu un atto ingiusto, illegale e crudele. Molte organizzazioni di tutela dei diritti umani che all’epoca presero le sue difese oggi inorridiscono di fronte alle violazioni di tali diritti perpetrate nel Suo paese. Contro la recente sentenza si sono schierati tra gli altri Amnesty International, il Pen Internazionale, il comitato di protezione dei giornalisti, Article 19, e Giornalisti senza frontiere. Nel corso di un cerimonia in onore di Çetin Altan, il 2 febbraio 2009, lei dichiarò pubblicamente che “questa non è più la vecchia Turchia che condannava al carcere i suoi grandi scrittori, quell’epoca è finita per sempre”. Tra il pubblico erano presenti i due figli di Çetin Altan: Ahmet and Mehmet. Nove anni dopo vengono condannati all’ergastolo, non siamo di fronte a una fondamentale contraddizione? Signor Presidente, date le circostanze esprimiamo la preoccupazione di molti all’interno della Turchia, dei suoi alleati e delle organizzazioni multilaterali di cui il paese è membro. Chiediamo l’abrogazione dello stato di emergenza, un rapido ritorno alla legalità e la piena libertà di parola e di espressione. Tutto questo condurrà a una rapida assoluzione in appello della signora Ilicak e dei fratelli Altan e all’immediata scarcerazione degli altri detenuti ingiustamente. Meglio ancora, porterà la Turchia a fare nuovamente parte con orgoglio del mondo libero. (Traduzione di Emilia Benghi) Sottoscrivono: Svetlana Alexievich (2015 Nobel Prize in Literature); J.M. Coetzee (2003 Nobel Prize in Literature); Claude Cohen-Tannoudji (1997 Nobel Prize in Physics); Albert Fert (2007 Nobel Prize in Physics); Serge Haroche (2012 Nobel Prize in Physics); Oliver Hart (2016 The Sveriges Riksbank Prize in Economic Sciences in Memory of Alfred Nobel); Kazuo Ishiguro (2017 Nobel Prize in Literature); Elfriede Jelinek (2004 Nobel Prize in Literature); Herta Müller (2009 Nobel Prize in Literature); V.S. Naipaul (2001 Nobel Prize in Literature); Richard J. Roberts (1993 Nobel Prize in Physiology or Medicine); Wole Soyinka (1986 Nobel Prize in Literature); Joseph Stiglitz (2001 The Sveriges Riksbank Prize in Economic Sciences in Memory of Alfred Nobel); Mario Vargas Llosa (2010 Nobel Prize in Literature). Lo scrittore turco condannato all’ergastolo: “In gabbia come nel mio romanzo” di Ahmet Altan* La Repubblica, 1 marzo 2018 Sono seduti su uno scanno alto due metri. Indossano toghe nere con il colletto rosso. Fra poche ore decideranno il mio destino. Li guardo. Non assomigliano alle Parche che recidono il filo della vita. Con le cravatte allentate per la noia, ricordano più i gretti funzionari pubblici di Gogol’. Il loro presidente, seduto al centro, tiene il braccio destro divaricato sullo scanno, come fosse biancheria stesa ad asciugare, giocherella con le dita e guarda le sue dita che giocherellano. Ogni tanto dà un’occhiata al cellulare per leggere i messaggi. Quando uno degli imputati che è sotto processo insieme a noi dice che sta per sottoporsi a un’operazione di bypass cardiaco, il presidente del tribunale avvicina a sé il microfono e dice con voce meccanica: “L’ospedale ci ha informati che non ci sono circostanze mediche che impediscano la sua permanenza in carcere”. È come se le frasi pronunciate dagli imputati e dai loro avvocati lo colpissero sulla fronte, si infrangessero e cadessero in frantumi sullo scanno. Ricordo quello che diceva Elias Canetti di gente del genere: “Sentirsi al sicuro, in pace e in gloria e poi sentire le richieste di una persona con la determinazione di non prestarvi ascolto... può esistere qualcosa di più ignobile?”. Ci hanno messi in una gabbia piastrellata con sbarre di ferro sul davanti. Siamo cinque uomini. Il sesto imputato è separato da noi e portato altrove perché “è una donna”. La Corte suprema, dietro appello di mio fratello, ha esaminato le prove contro di noi e ha stabilito che “nessuno può essere arrestato sulla base di prove simili”. Questo ha reso i giornalisti sotto processo insieme a noi ottimisti e speranzosi. Io non sono ottimista quanto loro. Proviamo un sentimento di impotenza, la sensazione di aver perso il diritto di stabilire il nostro futuro. I minuti si trascinano lentamente, mentre aspetti in una gabbia di sentire se la sentenza sarà o non sarà l’ergastolo. Da qualche parte, tre uomini stanno decidendo il mio destino. Forse hanno già preso la loro decisione. Ricordo un passaggio del mio romanzo L’amore è come la ferita di una spada. Questo è quello che scrivevo a proposito di un personaggio che sta seduto in una stanza aspettando il verdetto, dopo il suo arresto: “L’intervallo tra il momento in cui il destino di una persona è cambiato e il momento in cui quella persona se n’è resa conto gli sembrava l’aspetto più tragico e spaventoso della vita. Il futuro diventava chiaro, ma la persona continuava ad aspettare un altro futuro, con altre aspettative e sogni, senza rendersi conto che il futuro era stato già deciso. L’ignoranza durante quell’attesa era orribile, e per lui era la debolezza più grande dell’umanità”. Le frasi che ricordo mi fanno tremare. Ho scritto anni fa quello che sto vivendo in questo momento. Ora sto vivendo quello che avevo scritto nel mio romanzo. Un romanziere che vive il suo romanzo. Una frase echeggia dentro di me e mi fa fremere di orrore, come il coro di una messa vudù presenziata da stregoni mascherati: la mia vita imita il mio romanzo. Anni fa, mentre vagavo in quel territorio senza confini, enigmatico e indistinto dove la letteratura entra in contatto con la vita, avevo incontrato il mio destino ma non l’avevo riconosciuto; ne scrivevo pensando che appartenesse a qualcun altro. Il destino di cui scrivevo apparentemente era il mio. Ora sono agli arresti, esattamente come il protagonista che creai anni fa. Sto aspettando la decisione che deciderà il mio futuro, esattamente come lui aspettava la sua. Come un oracolo maledetto, ho previsto il mio futuro anni fa senza sapere che si trattava del mio. Le streghe di Macbeth, a quanto pare, scorrazzano dentro di me. La decisione è stata presa. I giudici vengono e indossano le toghe nere che avevano lasciato sulle sedie. Il presidente, quello con gli occhi morti, acquosi, legge la decisione: “Ergastolo senza sconto di pena”. Trascorreremo il resto della nostra vita soli in una cella lunga tre metri e larga altrettanto. Ci porteranno fuori a vedere la luce del sole solo un’ora al giorno. Non saremo mai graziati e moriremo in una cella di prigione. Questa è la decisione. Sono stato condannato come il protagonista del mio romanzo. Ho scritto il mio stesso futuro. Tendo le mani. Mi ammanettano. Non rivedrò mai più il mondo. Non rivedrò mai più un cielo che non sia delimitato dalle pareti di un cortile. Sto andando nell’Ade. Entro nell’oscurità come un dio che ha scritto il suo stesso destino. Io e il mio protagonista scompariamo nell’oscurità insieme. *Traduzione di Fabio Galimberti