Anche rinnovare gli spazi del carcere è lavorare a una cultura diversa della pena Il Mattino di Padova, 19 marzo 2018 Le persone detenute spiegano bene agli studenti la differenza tra lo scontare una pena rabbiosa e invece una pena riflessiva, che abbia un senso e una dignità. Nei decreti attuativi della riforma dell’Ordinamento penitenziario, che sono stati appena approvati, è importante che sia stato introdotto l’art. 1, comma 2, che finalmente riconosce che il trattamento delle persone detenute “tende, prioritariamente attraverso i contatti con l’ambiente esterno e l’accesso alle misure alternative alla detenzione, al reinserimento sociale”. Le carceri devono quindi aprirsi il più possibile al mondo libero, e devono anche assomigliare al mondo libero, devono diventare luoghi più umani, e pure più gradevoli. E il tempo e lo spazio devono ‘allargarsi’: a Padova si è allargato lo spazio, con il progetto “Abitare Ristretti” e si ‘allargheranno’ a breve i tempi vissuti in modo utile, visto che molte attività che coinvolgono le persone detenute, il volontariato, le cooperative chiuderanno ogni giorno più tardi. Gherardo Colombo, che è stato di recente ospite al ‘compleanno’ di Ristretti Orizzonti alla Casa di Reclusione, ha sottolineato quanto sia forte nel nostro Paese l’idea della pena ‘cattiva’, e quindi del carcere punitivo, brutto, chiuso: “Vado in giro molto a parlare, anche di questi argomenti, e quando parlo di come sono le Case di Reclusione in altri paesi, per esempio in Norvegia, sono tante le persone che saltano su e dicono: Ma quello non è un carcere, è un albergo a 5 stelle! È un’affermazione che mostra la convinzione intima e profonda che chi ha fatto il male deve essere retribuito con il male. Senza accorgersi che così il male si raddoppia anziché essere eliso. E allora secondo me è importante, importantissimo quello che fate voi qui a Ristretti, perché la prima cosa da fare e la più importante, la cosa decisiva è diffondere un senso della risposta alla devianza che non sia quello tradizionale, secondo cui al male si risponde con altrettanto male”. Lavorare a una cultura diversa della pena significa anche cambiare gli spazi, i colori, l’aria che si respira in un carcere. Alcune testimonianze sul progetto AbitareRistretti realizzato in modo partecipato dalla cooperativa AltraCittà nella Casa di Reclusione di Padova nel 2017 (abitareristretti.it). L’esperienza collettiva del cantiere condiviso Tra le diverse tematiche che hanno segnato questa esperienza nella Casa di Reclusione val la pena approfondire quella del cantiere condiviso. Quello del cantiere è un ambito di norma poco conosciuto ai non addetti ai lavori. Eppure la manutenzione della casa (e finanche la sua costruzione) è un’attività che riguarda l’uomo da sempre. Oggi, con l’avvento dell’economia basata sulla produzione di massa e sui servizi, in pochi hanno ancora il tempo, le energie (e a volte le capacità) per risolvere in autonomia i problemi dello spazio, dell’ambiente di vita e quindi anche della casa. Hassan Fathy, un architetto e urbanista egiziano i cui studi abbiamo conosciuto durante questo percorso, dopo aver osservato le comunità rurali in Africa negli anni Settanta scriveva: “un uomo che acquisisce la solida maestria di un mestiere cresce in autostima e struttura morale. Quando i contadini costruiscono da sé il proprio villaggio, la trasformazione che ciò produce nelle loro personalità è ancora più importante che la trasformazione delle loro condizioni materiali”. Inoltre, nel caso del carcere, dove si è soggetti alla privazione della libertà, abbattere muri scomodi e ricostruirli come più ci conviene, significa ritrovare un pezzetto di libertà. Può sembrare banale ma ne parlano in molti, e soprattutto Enzo Mari, un designer italiano che col suo lavoro ha lasciato un segno profondo, ci dice: “Sono convinto che il progettare corrisponda a una pulsione profonda dell’uomo, come l’istinto di sopravvivenza, la fame, il sesso. Siamo una specie che vuole modificare il suo ambiente” La comunità del carcere, nonostante la carenza di risorse materiali, è in realtà ricca di risorse immateriali. Queste risorse consistono soprattutto nelle capacità delle persone. Per questo la cooperativa Altracittà ha immaginato la riqualificazione dei suoi laboratori come un’esperienza corale, che oltre a vedere la partecipazione di tutti nel progetto, va oltre, e diventa un’esperienza di cantiere condiviso, dove tutti, ma proprio tutti, sono stati chiamati a dare un contributo. Valeria Bruni Architetto, ha diretto i lavori di AbitareRistretti dalla progettazione al cantiere partecipato I colori per liberare una nuova energia In carcere si soffre non solo per la restrizione della libertà ma spesso per l’impossibilità di esprimere la propria identità anche attraverso piccole cose come definire il proprio spazio con oggetti personali o arredare un luogo in sintonia con i nostri gusti… del resto gli spazi privati sono sostanzialmente inesistenti. Creando insieme questa realtà ci siamo accorti quanto sia importante pensare insieme, darsi suggerimenti, rendere più ‘nostro’ il luogo dove si trascorre tanto tempo. Le soluzioni architettoniche e strutturali adottate hanno nettamente rinnovato gli ambienti e dato qualità e funzionalità al viverci, allo starci. Un elemento che ha decisamente entusiasmato e favorito una nuova energia e dinamica è stato il colore. Scegliere i colori, pensarli per gli ambienti di lavoro, di lettura, di riflessione, di creatività, immaginarci immersi dentro… La generosità e il coinvolgimento dei titolari e dei tecnici del colorificio Ard-Fratelli Raccanello spa hanno permesso di avere tinture gratuite per tutti gli ambienti, ma anche di pensare insieme la scelta e l’uso dei colori riflettendo sul rapporto colore/spazio-tempo, psicologia del colore e tanti spunti stimolanti come l’idea (realizzata) di dipingere anche sbarre e infissi. Il colore è anche terapeutico nel senso che rispecchia ciò che sei e vuoi fare nel tuo spazio. Il colore va oltre… sfonda le pareti, crea un nuovo ambiente,...ritinteggiare spinge a togliere, pulire, ordinare, dà una nuova personalità ed energia all’ambiente. Ai colori si abbinano emozioni, sentire… i toni del blu/azzurro, scelti per i locali che accolgono gli ospiti esterni e dove si riunisce la redazione di Ristretti, inducono alla riflessione, al sentirsi immersi e protetti, all’interiorità. Il giallo si abbina al dinamismo positivo, all’energia e all’intelligenza necessaria per creare i prodotti della legatoria e confezionamento. L’arancione, colore pieno e vitale (il tuorlo dell’uovo, il centro della vita) per il laboratorio di assemblaggio dove talvolta il lavoro può essere pesante e rumoroso. Il bianco, utilizzato sia per lo studio tecnico della TG 2 palazzi che per Digit è il punto da cui si parte sempre per creare, per stare, per trasformare. Anche per questa ragione il corridoio è rimasto bianco. Viviana Ballini Facilitatore di processi di partecipazione sociale, ha seguito dall’inizio alla fine la progettazione e realizzazione di AbitareRistretti Il cambiamento racconta la primavera Con AltraCittà da alcuni anni abbiamo nella Casa di Reclusione come ‘Nonni del cuore’ il progetto “Sognando nuovi orizzonti”. Due dei nostri nonni, Italo e Dino, gestiscono nel laboratorio di legatoria della cooperativa con alcuni nonni detenuti un laboratorio di riciclo per creare giocattoli. Dentro il laboratorio ho sempre percepito energie positive. Non entravo da alcuni mesi e vedere il cambiamento dopo i lavori è stata una cosa meravigliosa, i nuovi colori alle pareti e alle sbarre raccontano la primavera. La primavera è il periodo dell’anno più bello, in cui incredibilmente dalla terra nascono fiori, che ci paiono un miracolo. Questi nuovi colori (giallo arancio azzurro), a coprire le pareti e soprattutto il cupo rosso delle sbarre, ti fanno pensare che anche in carcere le persone possono riappropriarsi della loro energia positiva e della loro vita; mi ricordo benissimo com’era prima: entrare in questo posto ora e pensare a tutta l’energia che ci hanno messo le persone per creare un luogo per loro è proprio qualcosa di magico. Donatella De Mori Responsabile del Museo Veneto del Giocattolo e dei ‘Nonni del cuore’ e coordinatrice della sede territoriale della Lega del Filo d’Oro. Intervista a Glauco Giostra: “nuove regole per le carceri, ma ai ladri nessuno sconto” di Liana Milella La Repubblica, 19 marzo 2018 “Fuori i delinquenti? Basta leggere il progetto per capire che non è così. Non c’è alcun automatismo nelle misure alternative”. “Non si esce mai dal carcere automaticamente”. E quindi “non c’è alcun salvacondotto per i ladri”. Non vuole essere definito il “padre” della riforma penitenziaria, ma solo colui che ha presieduto la commissione e seguito gli Stati generali sul carcere voluti dal Guardasigilli Andrea Orlando. Ma Glauco Giostra, docente di procedura penale alla Sapienza di Roma, sulla riforma è netto: “Una prigione senza speranza è solo una scuola del crimine”. Sta leggendo le polemiche? Fuori i ladri e i mafiosi? Ha riflettuto su queste possibili conseguenze? “Sto leggendo, sì: con amarezza, ma senza sorpresa. Basterebbe avere la pazienza di leggere il progetto di riforma per capire quanto simili preoccupazioni siano infondate”. Andiamo per ordine: la riforma conferma che per condanne sotto i 4 anni la pena non si sconta in carcere ma fuori. Lega e M5S sono scatenati. Che gli risponde? “È dal 2013 che il limite di pena per l’affidamento è stato portato a 4 anni; per la detenzione domiciliare “ordinaria” il limite è di 2 anni, tranne che per le ipotesi “umanitarie” (madri, malati, ultrasessantenni), che è fino a 4 anni, e per gli over 70, che è senza limiti”. Sta dicendo che non ci sono novità? “La riforma porta la possibilità di scontare in detenzione domiciliare la pena fino a 4 anni per eliminare l’attuale incongruenza che consente di beneficiare della misura più favorevole, cioè l’affidamento, e non di quella più restrittiva, cioè la detenzione domiciliare. Ma è importante chiarire che non c’è alcun diritto alle misure alternative”. Cioè non sono automatiche? “Perché sia concessa una misura alternativa è necessario, oltre alla presenza di specifici meriti, che non ci sia il pericolo di recidiva. Per la cronaca: in Italia, queste misure sono nettamente inferiori a tutti gli altri principali ordinamenti occidentali”. Da noi un furto è punito fino a 6 anni. E non sempre il giudice dà il massimo della pena. Quindi, con la legge Orlando, non c’è il rischio che tutti i ladri restino fuori? “Le pene per il furto sono in media abbastanza consistenti perché spesso ricorrono le aggravanti, e comunque già ora l’autore di un furto può ottenere, se è meritevole, l’affidamento in prova. Francamente non riesco a capire da cosa si desuma che la riforma Orlando abbia concesso particolari salvacondotti ai ladri. Forse si pensa alla circostanza che viene elevato da 3 a 4 anni il limite di pena (ma alcuni reati sono esclusi) che consente di attendere in libertà la decisione del giudice sulla possibilità di scontare la pena non in carcere. Nulla, credo, che debba suscitare allarme. Si consideri che, quand’anche non passasse la riforma, la Consulta si è già appena pronunciata nello stesso senso”. La legge elimina il blocco dei permessi per i recidivi passato nel 2005 con la legge Cirielli. Quindi, anche chi è tornato a delinquere più volte potrà uscire dal carcere e godere di permessi premio? “Oggi non vi è alcun blocco dei permessi, ma solo un più elevato limite di pena da espiare prima di poterne usufruire. La riforma elimina gli sbarramenti temporali imposti in modo da far dipendere il beneficio dai meriti del condannato. Le do, comunque, una dimensione statistica dell’allarmante problema dei permessi-premio: la percentuale di mancati rientri si aggira, nell’ultimo quinquennio, intorno all’1 per mille”. Il carcere duro, il 41bis. Il trattamento rigido sarà attenuato, come sostiene il procuratore aggiunto di Catania, ed ex Dap, Sebastiano Ardita? “Tutto questo resta disciplinato proprio come oggi. Né poteva essere altrimenti, dato che la legge delega aveva un incipit perentorio, “fermo restando quanto previsto dall’art.41bis”. Nessun vantaggio per i mafiosi? “Se davvero ci sono e qualcuno li individua, allora li denunci. Finora però non ho né letto, né ascoltato preoccupazioni di favori alla mafia che non fossero smentite dalle norme stesse”. La tesi di M5S - nessuna agevolazione prima di costruire nuove carceri - è realistica? “Quasi vent’anni fa il Consiglio d’Europa, affrontando il problema del sovraffollamento carcerario, ha suggerito di cercare i rimedi in un ampio ricorso alle misure alternative e alla depenalizzazione, nonché - in casi di emergenza - ai provvedimenti di amnistia e indulto. Sconsigliava fortemente di creare nuove strutture penitenziarie: un rimedio inappropriato e anzi controproducente poiché, dove sono stati costruiti nuovi penitenziari, si è spesso registrato un incremento della popolazione carceraria senza alcun vantaggio in termini di sicurezza sociale”. Un carcere duro elimina la delinquenza e ottiene vantaggi? O ne crea altra? “Guardi, le rispondo con le parole di un autorevolissimo studioso della psiche umana, Vittorino Andreoli: “Il carcere come camicia di forza, come immobilità per non far male è pura follia, è antieducativo. Non appena viene tolto il gesso, c’è subito voglia di correre, e di correre contro la legge. Senza considerare l’assurdo di un luogo dove si accumula la criminalità, che ha un potere endemico maggiore di un virus influenzale”. Statistiche internazionali e nazionali dimostrano che il carcere come cieca segregazione è criminogeno e spinge alla recidiva. Ricorda quella battuta del film Blow? “Non era una prigione. Era una scuola del crimine: entrai con una laurea in marijuana, ne uscii con un dottorato in cocaina”. Riforma dell’ordinamento penitenziario approvata: ora si termini il lavoro camerepenali.it, 19 marzo 2018 L’Unione delle Camere Penali Italiane esprime soddisfazione per la decisione del Consiglio dei Ministri di approvare la riforma dell’ordinamento penitenziario, auspica che l’iter per la formalizzazione dell’approvazione sia completato in tempi brevi; vigilerà attentamente a tal fine, e perché prosegua l’attività volta a migliorare la condizione nelle carceri, rammentando, tra l’altro, che più di un terzo della popolazione carceraria è costituita da persone in attesa di giudizio e, dunque, di presunti innocenti. L’Unione delle Camere Penali Italiane esprime soddisfazione per la decisione del Consiglio dei Ministri di approvare la riforma dell’ordinamento penitenziario, senza le modifiche indicate dalle Commissioni Giustizia di Camera e Senato che, di fatto, avrebbero svuotato di significato la riforma che, contrariamente a quanto sostenuto da taluno, garantisce maggiore sicurezza ai cittadini, attuando principi costituzionali. Chi è ammesso all’esecuzione di pene alternative, rispetto alla detenzione in carcere, una volta scontata la pena difficilmente delinque di nuovo, come riportato dai dati statistici ministeriali. Gli stessi dati statistici ricordano che circa 70 per cento di coloro che scontano la pena in carcere, una volta eseguita la pena commette altri reati, mentre la percentuale di recidiva è bassissima per chi svolge un lavoro e ottiene misure alternative al carcere. L’Ucpi osserva, inoltre, che le misure adottate non consentono automatismi e richiedono la valutazione del giudice per la proficuità del trattamento, caso per caso. Non è vero, dunque, che si tratti di un provvedimento svuota carceri, inoltre per taluni reati sono rimaste invariate talune preclusioni. L’Ucpi ringrazia tutti i penalisti italiani, il proprio Osservatorio Carcere, e tutti i numerosi firmatari dell’appello al Governo per l’approvazione della riforma, che insieme a Rita Bernardini, fino all’ultimo, hanno spinto il governo a mantenere, sia pure tardivamente, gli impegni presi e a tenere conto del lavoro svolto nel corso di tre anni da accademici, magistrati e avvocati con gli Stati Generali dell’esecuzione voluti dal ministro Orlando. L’Ucpi auspica, infine, che l’iter per la formalizzazione dell’approvazione sia completato in tempi brevi e vigilerà attentamente a tal fine, e perché prosegua l’attività volta a migliorare la condizione nelle carceri, rammentando, tra l’altro, che più di un terzo della popolazione carceraria è costituita da persone in attesa di giudizio e, dunque, di presunti innocenti. Riforma dell’ordinamento penitenziario: l’Anft giudica incongrua la proposta governativa scrivolibero.it, 19 marzo 2018 “Corre il dovere a questa Associazione, composta da Funzionari Giuridico-Pedagogici del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria che curano l’osservazione scientifica della personalità dei condannati e l’approntamento di percorsi trattamentali individualizzati finalizzati alla loro risocializzazione, di ribadire il proprio orientamento critico sul progetto di riforma dell’Ordinamento Penitenziario licenziato dal Consiglio dei Ministri in data 16.03.2018”. Lo afferma Stefano Graffagnino, presidente dell’Associazione Nazionale Funzionari del Trattamento, che aggiunge: “L’A.N.F.T. già in precedenza ha rilevato le negative ricadute della proposta riforma sullo svolgimento delle attività di osservazione e trattamento, pur apprezzandone, i principi ispiratori, rispetto ai quali la riforma stessa finisce per risultare incongrua per le ragioni che seguono. Non si può non rammentare che le attività di osservazione e trattamento dei condannati e le attività di valutazione dei percorsi trattamentali al fine dell’ammissione dei condannati stessi alle misure alternative già, da alcuni anni, vengono espletate tra grandi difficoltà a causa, sia della diminuita presenza dei Funzionari di Servizio Sociale negli Istituti Penitenziari, in conseguenza del loro quasi totale impiego nell’ambito dei procedimenti di messa alla prova, che del taglio delle piante organiche subito dal profilo del Funzionario Giuridico-Pedagogico”. “Completa il quadro delle ragioni dell’attuale condizione di sofferenza delle attività di osservazione e trattamento, il sempre crescente impiego dei Funzionari Giuridico-Pedagogici in compiti amministrativi che sottraggono tempo di lavoro alle attività istituzionali di tali Funzionari. Quale organismo rappresentativo di addetti ai lavori, questa Associazione ha il dovere di ribadire che la riforma proposta dall’Esecutivo uscente determinerebbe, a causa della dilatazione dei carichi di lavoro derivanti dall’abbattimento delle preclusioni di cui all’art. 4 bis O.P., una notevole dispersione di energie lavorative ad ulteriore danno dei percorsi trattamentali meritevoli di attenta verifica in ordine ai progressi necessari per la riammissione alla Società Libera”. “Ciò - scrive ancora Stefano Graffagnino - vale soprattutto per i condannati in condizione di svantaggio sociale che utilizzano la carcerazione come occasione di riflessione e che hanno i requisiti di merito per ottenere la concessione di una misura alternativa. Infatti l’ammissibilità delle istanze per benefici penitenziari anche per alcuni reati compresi in atto nel regime di cui al 4 bis O.P., comporterebbe un notevole aggravio per i Funzionari citati, anche a causa della probabile reiterazione di istanze ad opera dei condannati per tali più gravi reati. Pertanto la funzione rieducativa della pena, attraverso tale intervento riformatore, non trarrebbe di certo maggiore effettività. Non meno grave appare il rischio di sovraesposizione degli operatori penitenziari che dovrebbero anche fronteggiare in prima linea le nuove aspettative che la riforma ingenererà nei soggetti condannati per tali più gravi reati”. “Una riforma insomma che avrebbe pesanti ripercussioni sulle condizioni professionali e di vita dei nostri iscritti. Infatti il clima delle relazioni tra operatori penitenziari e detenuti non sarebbe di certo destinato a migliorare con questa riforma. Riempie di stupore apprendere che il principio ispiratore della riforma sia la restituzione di effettività alla funzione rieducativa della pena e non si tenga conto delle osservazioni degli addetti ai lavori, degli operatori chiamati al difficile compito della rieducazione dei soggetti che hanno violato il patto sociale. Disorienta ancor di più il dichiarato intendimento politico di rendere effettiva la funzione rieducativa della pena non supportato in alcun modo da un processo di potenziamento delle risorse del Personale che attende ai percorsi rieducativi ed alla rilevazione dei relativi esiti al fine di rappresentarli alla Magistratura di Sorveglianza e non supportato in alcun modo da un processo di valorizzazione di tali operatori”. “Non si registrano infatti azioni dirette a conferire agli operatori del trattamento strumenti che mirino ad accrescere l’effettività della funzione rieducativa della pena. Anzi, proprio a carico del Funzionario Giuridico-Pedagogico, perno centrale delle attività di osservazione e trattamento, si sono verificate le ricadute più gravose degli interventi politici ed amministrativi sull’esecuzione penale intramuraria degli ultimi anni. L’abbattimento delle preclusioni di cui all’art. 4 bis O.P., vogliamo ribadirlo, determinerebbe un aggravamento delle attuali condizioni di sofferenza delle Aree Educative degli Istituti Penitenziari e danneggerebbe per converso l’utenza che più necessita di aiuto. Questa Associazione ha prospettato presso la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati gli interventi necessari per conferire maggiore effettività alla funzione rieducativa della pena e per dare una decisa accelerazione al processo di umanizzazione della pena”. “Convinti che l’Ordinamento Penitenziario attuale rappresenti uno straordinario strumento normativo, peraltro mutuato da diversi sistemi penitenziari di altri Stati, i Funzionari Giuridico-Pedagogici ritengono che, per la sua piena applicazione, occorrano invece, oltre all’impiego di maggiori risorse nel sistema penitenziario, interventi che incidono sull’assetto organizzativo del Personale Penitenziario, eliminando l’attuale dicotomia tra operatori di Polizia Penitenziaria e Funzionari Giuridico-Pedagogici. L’assetto organizzativo dicotomico attuale infatti non ha favorito una osmosi culturale-professionale tra gli operatori ed un senso di comune appartenenza che favorirebbero la circolarità della comunicazione tra gli stessi e renderebbero più proficua l’attività di osservazione della personalità dei condannati e l’approntamento di programmi di trattamento effettivamente individualizzati. Si chiede quindi di creare un apposito status per i Funzionari Giuridico-Pedagogici, un apposito ruolo tecnico che agevolerebbe un processo di osmosi culturale-professionale e la maturazione di un senso di comune appartenenza tra i diversi Operatori Penitenziari che avrebbero di certo positive ricadute anche sul versante del processo di umanizzazione della pena. Tale ruolo tecnico farebbe salva l’autonomia professionale dei singoli Funzionari Giuridico-Pedagogici (Educatori), i quali sarebbero posti al di fuori dall’ordine gerarchico generale del Corpo di Polizia Penitenziaria. ù La proposta di questa Associazione insomma garantirebbe di certo il conseguimento degli scopi che l’Esecutivo persegue con la riforma licenziata dal Consiglio dei Ministri in data 16.03.2018?. “Considerato che quanto già espresso in precedenza da questa Associazione e da autorevolissimi conoscitori delle attività di osservazione e trattamento intramurario non ha prodotto gli effetti sperati, la scrivente Associazione valuterà, dopo attento monitoraggio degli sviluppi della situazione attuale, l’adozione di strumenti legittimi di protesta compreso lo sciopero di categoria”, conclude il presidente dell’Anft. Riforma ordinamento penitenziario: legge equilibrata, distorta da prassi e mancate opportunità di Evelina Cataldo* finestrasulterritorio.it, 19 marzo 2018 L’individualizzazione del trattamento è il focus intorno a cui ruota la specificità dell’ordinamento penitenziario ovvero dare atto a un’osservazione scientifica della personalità che abbia come finalità l’elaborazione di un rinnovato progetto di vita per il condannato, eventualmente fruibile anche in misura alternativa, considerato l’intervento del ravvedimento operoso. Un terreno fertile quello dell’esecuzione penale, svilito alla circostanza del regime detentivo, certamente abusato e non sempre utilizzato per lo scopo precipuo della difesa sociale. L’esecuzione penale, tuttavia, andrebbe rivalutata e arricchita di elementi attualmente deficitari posto che anche il regolamento di esecuzione, riformato circa 20 anni fa, appare desueto. Le questioni, per essere chiare, devono essere analizzate nella loro interezza valutando possibilità inesplorate, esaminando organicamente i diversi aspetti del diritto penale, anche processuale, che oggi appaiono deludenti sotto il profilo della costituzionalità e nella considerazione del diritto come materia vivente, mutevole e adattabile alle nuove esigenze del contesto sociale. Si possono rilevare molte incongruenze ma prima di affrontare le carenze dell’ordinamento penitenziario, mi piacerebbe sollevare delle questioni. Il sistema processuale penale applicato ai minori pare esser stato nel tempo quello più congruo, sia nella definizione delle responsabilità che nella idoneità delle misure attuate nei riguardi di tali soggetti. Applicare il rito penale minorile al sistema degli adulti risolverebbe la diade tra effetti penali di tipo garantista e conseguenze di penalità reazionaria. La mediazione penale sarebbe lo strumento in grado di risolvere e snellire ogni procedimento, anche per reati di allarme sociale, riconoscendo il potere o la facoltà alla vittima dell’azione antigiuridica di scegliere un percorso diverso, uscendo dal processo, e seguendo nuove vie per trovare rimedio alla sofferenza generata dal male ricevuto. Riconoscere tale possibilità alla vittima apre un varco inesplorato nell’ambito della giurisdizione perché obbligherebbe alla perdita di potere di molteplici figure, oggi riconosciute come indispensabili nell’ambito del rito processuale. Per motivi di equilibrio, si dovrebbe aggiungere una riformulazione del verbo, della nozione di testimonianza, del racconto-confessione intendendola come arma “impropria” e non dirimente dell’assunto a prova. Essa è considerata sempre lecita e incontrovertibile, finché altra prova “de relata” non subentri in alternativa o in sostituzione alla prima. Va sollevata una questione di metodo relativa ai tavoli generali dell’esecuzione penale visto che hanno rappresentato un incontro tra esperti, accademici e giuristi lasciando una falla aperta: residuali le voci degli operatori istituzionali, i contabili, i funzionari giuridico pedagogici, gli psicologi art.80 e gli agenti penitenziari, gli operatori della sanità, questi ultimi sempre più soli e inascoltati perché dal 2008 il loro datore di lavoro è divenuto la Regione. Mancano inoltre le soluzioni dettate dai detenuti, i rimedi alla non vivibilità delle carceri e alle criticità palesatesi nelle fasi processuali. Se essi si sono ravveduti, raggiungendo alti livelli di conoscenza del settore penale in quanto responsabili della loro detenzione, ascoltarli potrebbe rappresentare occasione per incontrare soluzioni innovative e ancora mai sperimentate. Se un ristretto ha trascorso 30 anni in carcere, forse, potrebbe indicare nodi di inefficienza o ostacoli nei meccanismi della penalità e gli operatori che seguono, osservano, controllano, custodiscono, rilevano, scrivono su di loro, potrebbero, di conseguenza, determinare le nuove esigenze dell’istituzione. Ritornando all’esecuzione penale, attuare una riforma senza riempire gli organici delle figure deputate all’osservazione intra muraria, dell’esecuzione penale esterna- minorata a servizio sociale “di comunità”- e in presenza delle lacune di progettualità, tali da non render eseguibile neppure istituti recenti come la messa alla prova, significa proporre un cambiamento in maniera irresponsabile, perché, lasciare il recluso dimittendo senza una soluzione abitativa, senza lavoro e, soprattutto, senza una rete sociale idonea, significa legittimare il pericolo della recidiva. La rieducazione, per essere propositiva e strumento pragmatico di educazione alla libertà, va rinforzato con elementi non solo di proposta, ma di certezza progettuale garantita dallo Stato. *Funzionario professionalità giuridico pedagogica Ministero Giustizia Cure fuori dal carcere per i detenuti con gravi problemi mentali Ansa, 19 marzo 2018 La malattia mentale va curata, quando necessario, fuori dal carcere e con il supporto dei servizi sanitari territoriali. E’ questa una delle novità previste dalla riforma dell’ordinamento penitenziario appena approvata dal Consiglio dei Ministri e che attende ora il parere non vincolante, e non scontato, del nuovo Parlamento. Attesa da tempo, potrebbe portare i detenuti con una grave patologia psichiatrica ad ottenere l’affidamento terapeutico presso i Dipartimenti Salute Mentale, “ma il fatto che sia a costo zero la rende difficilmente praticabile”, spiega all’Ansa Michele Miravalle, coordinatore dell’Osservatorio Antigone. “Le ricerche sulla salute mentale in carcere dimostrano che oltre il 50% delle circa 60mila persone private di libertà soffre di una qualche patologia mentale, dall’ansia alle psicosi gravi: un numero molto maggiore rispetto a chi è fuori dal carcere, dovuto anche alle attuali condizioni detentive e a cui corrisponde un numero di psicologi e psichiatri inadeguato”, sottolinea Miravalle. Per i detenuti con patologie psichiatriche gravi, dunque, la riforma dell’assistenza sanitaria penitenziaria porterà importanti novità. “Chi ha pene inferiori ai 6 anni e una grave patologia potrà chiedere al magistrato di sorveglianza - spiega Miravalle - di essere affidato a un programma terapeutico, concordato con il Dipartimento di Salute Mentale dell’Azienda Sanitaria Locale. Mentre per chi non sia possibile una misura alternativa verranno create sezioni speciali per infermità mentale all’interno degli stessi istituti penitenziari, ad esclusiva gestione sanitaria. Ma tutto ciò rischia di rimanere su carta perché manca l’investimento economico”. E’ “giusto il principio della presa in carico del detenuto che soffre di disturbi psichiatrici - commenta Massimo Cozza, psichiatra e coordinatore del Dipartimento di Salute Mentale dell’ASL Roma 2, in cui ricade anche il carcere di Rebibbia. Ma per farlo servirebbe in primo luogo il potenziamento dei Dipartimenti di Salute Mentale”. L’età della sicurezza è ormai finita per sempre di Giovanni Belardelli Corriere della Sera, 19 marzo 2018 Sarà vitale cambiare lessico e modalità della politica, anzitutto imparando ad ascoltare i timori destinati ad accompagnarci negli anni a venire. Nelle analisi del terremoto elettorale del 4 marzo sono state sottolineate soprattutto le ragioni nazionali del risultato uscito dalle urne, a cominciare dal profondo malessere sociale che si è manifestato con il voto alla Lega e ai Cinquestelle. Sarebbe bene invece ampliare lo sguardo oltre i nostri confini, senza limitarci all’usuale, ma alquanto generico, riferimento a una “ondata populista” in atto da tempo. Senza nulla voler togliere alle spiegazioni in chiave nazionale o anche regionale (la crisi delle regioni un tempo rosse o il Sud diventato pentastellato), queste andrebbero inserite in ciò che non è esagerato definire un mutamento storico-epocale: la crisi del modello - insieme economico, politico e culturale - affermatosi in Occidente negli ultimi due secoli. Ormai non si contano più i libri che ci mettono di fronte, fin dal titolo, alla crisi, alla fine, al fallimento, al naufragio di quel modello e dell’ordine mondiale che esso aveva plasmato. Un modello e un ordine che si erano affermati grazie alla crescita economica dei Paesi occidentali; una crescita che abbiamo a lungo pensato potesse essere continua, nonostante abbia rappresentato un fenomeno circoscritto nella storia dell’umanità: ha caratterizzato infatti il periodo che va all’incirca dal 1750 al 2000. Con la globalizzazione è aumentata sì la ricchezza globale, ma questo aumento non ha toccato che in piccola parte le democrazie occidentali. E per le grandi periferie sociali dell’Occidente - gli operai americani della Rust Belt come i lavoratori disoccupati dell’Emilia un tempo rossa - rappresenta una ben magra consolazione sapere che nei vent’anni successivi alla caduta del Muro di Berlino il reddito delle classi medie emergenti in Cina e in India è aumentato dell’80 per cento, come ricorda Edward Luce in un libro intitolato (neanche a dirlo) Il tramonto del liberalismo occidentale(Einaudi). Stefan Zweig chiamò l’epoca che precedette la Prima guerra mondiale “l’età d’oro della sicurezza”, ma in realtà si sbagliava. La vera età della sicurezza è stata quella iniziata a partire dal 1945 quando, dopo un ventennio che aveva visto affermarsi in Europa una diffusa disaffezione per le istituzioni democratiche, le democrazie liberali si sono stabilizzate anche grazie a decenni di grande sviluppo economico; uno sviluppo attraverso il quale il benessere - inteso come diritto a tutta una serie di beni, servizi e stili di vita - divenne un elemento essenziale del consenso politico. È la fine di questa prospettiva di benessere e di crescita illimitati e continui, e il connesso diverso dislocarsi del potere mondiale, che stanno dietro il senso di precarietà economica, sociale, esistenziale che colpisce anche il nostro Paese. Una precarietà che potevamo sperare si attenuasse al termine della grande crisi del 2008, ma così evidentemente non è stato e dobbiamo invece abituarci a una crescita con ritmi assai inferiori a quelli di qualche decennio fa. Dobbiamo dunque accettare che l’età della sicurezza sia finita per sempre. E che sempre più avrà importanza in politica la capacità di dare risposta a quei sentimenti di paura che hanno favorito il 4 marzo il successo di Lega e Cinquestelle. Certe loro proposte, si dirà, sono irrealizzabili. Come potrebbe Di Maio distribuire a tutti gli aspiranti un reddito di cittadinanza di 780 euro mensili? E come pensa di far fronte Salvini ai costi dell’eventuale abolizione della legge Fornero? Non credo che gli elettori, non la maggioranza almeno, abbiano creduto fino in fondo a queste promesse. Hanno però percepito in chi le formulava una disponibilità ad ascoltare certi sentimenti popolari - dalla paura di precipitare nella povertà al timore di fronte a un’immigrazione percepita come fuori controllo - che altri invece non avevano. Non la avevano, ad esempio, quegli storici che sulla Repubblica, nelle settimane precedenti le elezioni, si sono impegnati a denunciare tutt’altra minaccia, quella rappresentata da un pericolo fascista nel quale forse neppure loro credevano. E non aveva questa capacità di ascolto, temo, una presidente della Camera che più volte ha risposto alla domanda di sicurezza con dichiarazioni di antirazzismo che mostravano scarsa attenzione per sentimenti collettivi che andrebbero sempre ascoltati, anche quando si manifestano - come spesso avviene di fronte all’immigrazione - allo stato grezzo e in forme non condivisibili. Ma nella nuova età dell’insicurezza diventerà per tutti vitale cambiare lessico e modalità della politica, anzitutto imparando ad ascoltare le paure e i timori legati a quel senso di precarietà e incertezza che è destinato ad accompagnarci negli anni a venire. Quei furti depenalizzati di Gianluca Di Feo La Repubblica, 19 marzo 2018 Può uno Stato di diritto arrendersi all’impunità dei ladri? Perché l’inchiesta di Fabio Tonacci pubblicata sabato scorso mostra come il furto nel nostro Paese sia stato sostanzialmente depenalizzato: solo il 2,9 per cento dei responsabili viene identificato, una percentuale ancora più bassa sconta una pena. Questo mentre siamo di fronte a un numero enorme di reati: 192.681 furti nelle case, uno ogni tre minuti. Reati che provocano un danno psicologico pesante, ferendo la serenità della vita domestica. La rassegnazione delle istituzioni appare frutto di un circuito vizioso. Le forze dell’ordine trovano frustrante inseguire banditi che poi vengono quasi sempre scarcerati dopo poche ore. La magistratura cita la notoria scarsità di risorse, con la necessità di concentrarsi sui casi più importanti. L’effetto però è il senso di insicurezza dei cittadini, con una spinta verso la giustizia fai-da-te cavalcata da Lega e partiti di destra. Una paura che non trova giovamento nelle statistiche, che pure in questo caso mostrano un miglioramento della situazione, ma che richiede una risposta collettiva. Non servono slogan - nell’ultima campagna elettorale se ne sono sentiti fin troppi - ma iniziative concrete. Al primo posto c’è la razionalizzazione della mappa dei presìdi: quanto personale di polizia e carabinieri fa servizio nelle periferie e nelle zone residenziali isolate, dove è più alto il livello di furti? Quante pattuglie vengono schierate nelle pause pranzo, di notte e nei weekend, gli orari preferiti dai predatori? Spesso si evoca la “tolleranza zero” che permise a Rudolph Giuliani di rivoluzionare la vita di New York. Ma il segreto di quella strategia era la gestione dinamica degli agenti: si mandavano più uomini dove c’erano più reati. E venne invertito il rapporto tra personale negli uffici e nelle strade, potenziando e incentivando il servizio operativo. Non sono riforme impossibili. Anche in Italia esistono modelli che stanno dando risultati, come quello che a Milano ha permesso l’arresto in flagranza di 102 ladri. Sono protocolli che vanno incrementati e diffusi in tutto il Paese, considerando i furti non più come un peccato veniale ma come una priorità per la ricostruzione di un tessuto sociale sempre più diffidente verso le istituzioni. La stessa mobilitazione dovrebbe avvenire nei tribunali, con interventi organici per colmare i deficit che hanno ingolfato un sistema garantista fino a renderlo incapace di dare giustizia ai cittadini. Ma serve soprattutto un diverso atteggiamento della magistratura verso i furti, un cambiamento indispensabile per contenere il contagio dell’insicurezza. Il Partito Radicale raccoglie le firme per rivedere le misure antimafia di Enrico Salvatori Il Tempo, 19 marzo 2018 Il Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito ha organizzato una assemblea degli iscritti sabato 17 e domenica 18 marzo per pianificare una campagna di raccolta firme su proposte di legge di iniziativa popolare “contro il regime e per la transizione verso lo Stato di diritto”. Allo stato dei lavori le proposte di legge sulle quali stanno lavorando i pannelliani vertono come da tradizione sui temi della giustizia e dello Stato di diritto. La prima idea è proprio quella infatti di proporre una revisione del quorum costituzionale previsto per concedere l’amnistia. Seguono la revisione del sistema delle interdittive antimafia, la revisione del sistema delle misure di prevenzione antimafia, la revisione delle procedure di scioglimento dei comuni per mafia, l’abolizione dell’ergastolo ostativo, l’abolizione degli incarichi extragiudiziari per i magistrati, la riforma in senso uninominale della legge elettorale per l’elezione della Camera e del Senato, la riforma della legge elettorale per l’elezione del Parlamento europeo con un collegio unico nazionale e senza sbarramento, la legalizzazione delle droghe, la legalizzazione della prostituzione. Nel corso dell’assemblea, tra l’altro introdotta dal presidente emerito della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick, intenso è stato il dibattito su come affrontare la lotta mafia: “Se con la “terribilità” o con il Diritto, invocando a ogni piè sospinto stati e misure di emergenza o, al contrario, affermando i diritti umani e le garanzie costituzionali, come proponeva Leonardo Sciascia. Altro tema centrale nel corso dell’assemblea del partito di Pannella è stato quello delle informazioni interdittive e delle misure di prevenzione dette “antimafia”, della loro compatibilità con la Costituzione italiana e con la Convenzione Europea e dei loro effetti sulla vita delle persone e delle imprese sospettate di essere, “non si sa bene a che titolo”, dicono i radicali, “contigue al crimine organizzato”. Ma si è parlato anche della necessità di riuscire ad ottenere anche nel nostro Paese quella stabilità e certezza delle leggi elettorali che gli standard democratici internazionali raccomandano e in qualche misura esigono, approdando a una riforma elettorale effettiva, durevole e orientata nel senso del collegio uninominale indicato in modo nettissimo dagli italiani a grande maggioranza nel referendum del 1993, poi in larga parte disatteso dal legislatore, ispirato ai modelli sperimentati ormai da secoli in regimi civili - quali quelli anglosassoni - per dare agli elettori la piena libertà, l’effettivo pieno potere e la piena responsabilità di scegliere il Governo e gli eletti, assicurando un rapporto personale efficace dell’eletto con chi lo elegge. Alla assemblea hanno partecipato personalità politiche provenienti da diversi schieramenti, come l’onorevole Giuseppe Basini della Lega Nord, Giulio Terzi di Sant’Agata di Fratelli d’Italia, Renata Polverini di Forza Italia. Perché continua ad accadere che di volta in volta, al Partito radicale aderiscano e vi militino persone con alle spalle le più diverse esperienze e culture, ma con un comune denominatore: riconquistare lo Stato di diritto e la Costituzione. Questa per Pannella era infatti l’importanza dell’iscrizione al partito, il suo valore. Vale ancora infatti per i radicali quel che diceva Giovanni XXIII: “Poco importa da dove venite, conta dove vogliamo andare”. Più semplice intercettare nei reati di corruzione di Alessandro Diddi Il Sole 24 Ore, 19 marzo 2018 Più semplice usare le intercettazioni nei procedimenti per corruzione, concussione e peculato. È l’effetto dell’articolo 6 del decreto legislativo 216/2017, che ha previsto (richiamando l’articolo 13 del decreto legge 152/1991) l’estensione alle inchieste a carico di pubblici ufficiali indagati per i più gravi reati contro la pubblica amministrazione (puniti con la reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni) delle condizioni e dei presupposti già previsti per l’utilizzo di questo mezzo di ricerca della prova nei procedimenti relativi ai reati di criminalità organizzata. La medesima disposizione - specificando la portata dell’articolo 4 dello stesso decreto legislativo 216 - ha poi previsto la possibilità di applicare anche nei procedimenti relativi ai reati commessi dai pubblici ufficiali il captatore informatico, vale a dire il virus trojan horse che, inoculato dalla polizia giudiziaria nei dispositivi portatili (pc, tablet e telefonini), li trasforma in apparecchi audio-video-rice-trasmittenti di quanto avviene attorno a chi li possiede. Si tratta di norme già in vigore dallo scorso 26 gennaio, a differenza delle altre disposizioni della riforma delle intercettazioni, che saranno operative solo dopo il prossimo 25 luglio. La riforma penale (legge 103/2017) ha delegato il Governo ad adottare provvedimenti per riformare la disciplina delle intercettazioni telefoniche, disciplinare l’uso del captatore informatico (finora ammesso in base alle pronunce dei giudici, come la sentenza 26889/2016 della Cassazione a Sezioni unite) e semplificare le condizioni per l’impiego delle intercettazioni delle conversazioni e delle comunicazioni telefoniche e telematiche nei procedimenti per i più gravi reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. Nell’attuare la delega, il Governo, con il decreto legislativo 216/2017, ha selezionato i reati rispetto ai quali le nuove norme possono operare, individuandoli in quelli con pena non inferiore nel massimo a cinque anni: gli stessi per i quali, oggi, in base all’articolo 266, comma 1, lettera b, del Codice di procedura penale, sono ammissibili le intercettazioni. A questi reati il decreto legislativo 216 ha esteso lo speciale modello previsto per contrastare i reati di associazione per delinquere, semplice e di stampo mafioso. In pratica, per i reati di corruzione (nelle diverse declinazioni), concussione, induzione indebita e peculato, è ora sempre possibile impiegare le intercettazioni, telefoniche e ambientali, a condizione che siano presenti sufficienti (e non già gravi, come per gli altri casi) indizi di reato e a condizione che esse siano necessarie (e non già assolutamente indispensabili, come per gli altri casi) ai fini dello svolgimento (e non già della prosecuzione, come per gli altri casi) delle indagini. La durata delle operazioni, a differenza di quanto previsto per le ipotesi ordinarie (fissata sempre in 15 giorni salvo proroga), è di 40 giorni (sempre prorogabili dal Gip). Non meno significativa è, poi, la previsione che estende ai procedimenti per questi reati la possibilità di intercettare le conversazioni tra presenti che si svolgono nei luoghi di privata dimora attraverso il captatore informatico. Mentre, però, per le intercettazioni ambientali eseguite nei luoghi privati con gli strumenti tradizionali non è richiesto il fondato motivo che in essi si stia svolgendo attività criminosa, l’intercettazione con il captatore informatico, in base all’articolo 5, comma 2, del decreto legislativo 216/2017, non può essere disposta se non si abbia motivo di ritenere che in quei luoghi si stia svolgendo attività criminosa. Questo strumento - diffusamente impiegato per il contrasto dei reati di criminalità organizzata - potrebbe rappresentare un’arma potentissima a disposizione delle Procure della Repubblica impegnate nella lotta alla corruzione. Una fotocopia può essere oggetto di falsità penalmente rilevante di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 19 marzo 2018 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 6 febbraio 2018 n. 5452. Deve ritenersi integrare il reato di cui all’articolo 476 del Cp anche l’alterazione compiuta sulla fotocopia di un atto pubblico esistente, ovvero il fotomontaggio di più pezzi di atti veri, ovvero ancora la creazione artificiosa di una fotocopia di un atto inesistente. Lo dice la Cassazione con la sentenza 6 febbraio 2018 n. 5452. A tal fine, proseguono i giudici della quinta sezione penale, è del tutto indifferente che la copia sia autentica (nel qual caso vi sarebbe piuttosto un falso ideologico del soggetto certificante), tanto più quando la provenienza dell’atto e le circostanze del suo utilizzo ne facciano presumere la conformità all’originale e dunque inducano il privato a ritenere che tale atto pubblico originale sia esistente. La falsità, invero, è integrata non tanto e non solo dalla modificazione di una realtà probatoria preesistente (che nel caso di specie non c’è), ma anche dalla mendace e attuale rappresentazione di una siffatta realtà probatoria, creata appunto attraverso un simulacro o una immagine cartolare di essa (fotocopia o anche fotomontaggio), che è intrinsecamente idonea a ledere (e lede) il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, costituito dalla pubblica affidabilità di un atto, qualunque esso sia, proveniente dalla pubblica amministrazione. In termini, Sezione V, 25 maggio 2015, Barone, secondo cui è ravvisabile il reato di falso ex articolo 476 del codice penale quando la condotta abbia a oggetto una “fotocopia” che sia presentata come tratta da un documento originale in realtà inesistente, del quale sia in tal modo simulata la sussistenza in modo da indurre in inganno i terzi, trattandosi di condotta diversa da quella della falsificazione di una fotocopia in quanto tale che non realizza, invece, estremi di reato. In proposito, la Corte, nella sentenza qui massimata, ha affrontato precedenti decisioni della stessa Cassazione che avevano negato la sussistenza del reato nel caso di esibizione di falsa fotocopia di un provvedimento amministrativo inesistente, fotocopia priva di requisiti di forma e di sostanza capaci di farla sembrare un atto originale o la copia conforme di esso ovvero comunque documentativa dell’esistenza di un atto corrispondente (cfr., in particolare, sezione V, 9 ottobre 2014, Felline, relativa a fattispecie in cui è stata ritenuta penalmente irrilevante la trasmissione via telefax da parte di un geometra di un’autorizzazione ambientale inesistente al committente dei lavori di ristrutturazione di un immobile) per concludere nel senso della sussistenza di un contrasto interpretativo solo apparente, sul rilievo che l’attribuita irrilevanza della falsificazione della fotocopia si giustificava con il fatto che si trattava comunque di copia priva di per sé di capacità di produrre effetti giuridici. Ne consegue, in sostanza, che secondo la Cassazione una fotocopia può costituire oggetto di una falsità penalmente rilevante solo se e in quanto sia presentata con l’apparenza di un documento originale, atto a trarre in inganno i terzi in buona fede; non lo è nel caso in cui ci si avvalga di una semplice fotocopia che mostri palesemente la sua natura di mera fotocopia. Torino: Ispettore di Polizia penitenziaria ucciso dal collega, “Ministero colpevole” di Massimiliano Peggio La Stampa, 19 marzo 2018 Lo Stato dovrà risarcire ai familiari un milione di euro. Costretti a lavorare in un ambiente intossicato da veleni e rancori professionali. Per molti anni gli agenti della Polizia penitenziaria del carcere Lorusso e Cutugno sono stati costretti a lavorare in una situazione di grave malessere, spesso sottoposti a provvedimenti disciplinari ingiustificati, vittima talvolta anche dei detenuti, utilizzati per colpirli. In questo clima di malessere, colposamente sottovalutato “da chi aveva il potere e dovere di intervenire per assicurare un ambiente lavorativo il più possibile sereno”, è germogliata la collera omicida dell’assistente capo Giuseppe Capitano nei confronti dell’ispettore capo Giampaolo Melis. La mattina del 17 dicembre 2013, Capitano sparò due colpi di pistola al collega e poi si suicidò. Per questa tragedia il ministero della Giustizia dovrà risarcire complessivamente circa un milione di euro alla moglie, al figlio e ai familiari dell’ispettore Melis. Così ha deciso il giudice Anna Castellino, della IV sezione civile, nella sentenza depositata venerdì scorso. Il processo civile, promosso dai familiari assistiti dagli avvocati Paolo Romagnoli ed Eugenio Durando, nasce dai riscontri fatti dalla procura in seguito all’omicidio-suicidio. Nell’inchiesta, archiviata inevitabilmente per la morte dell’autore, era stato coinvolto anche il comandate del corpo Gianluca Colella, indagato per maltrattamenti. Anche le sue accuse, alla fine, erano state archiviate. Ma dagli atti dell’indagine erano emersi profili di responsabilità di una certa gravità, tanto da considerare Capitano, convinto a torto di essere al centro di un’azione disciplinare, a sua volta “vittima” di un clima di vessazioni instaurato dal comandate Colella. Clima implicitamente riconosciuto dall’amministrazione penitenziaria con la sua rimozione dopo la tragedia, trasferito per “incompatibilità ambientale”. Da questi elementi è scaturita l’azione civile. Il giudice, nel ripercorre il crescendo di tensione sfociato nell’omicidio-suicidio, ha ritenuto il ministero della Giustizia responsabile di quel dramma lavorativo, per la condotta di un proprio dipendente verso un altro collega, a causa del difficile contesto ambientale. “Nonostante le plurime reiterate ed accorate denunce in più sedi - scrive il giudice - la situazione di grave malessere è stata colposamente sottovalutata da chi aveva il potere e dovere di intervenire per assicurare un ambiente lavorativo il più possibile sereno nello svolgimento di importante e delicate funzioni degli agenti di polizia penitenziaria”. E la colpa del ministero sta nel fatto che fosse al corrente della situazione. Lo dimostrano le comunicazioni, quasi profetiche, inviate dal sindacato Osapp già nel 2010: “La tensione e il timore sono altissimi e devastanti: in istituto aleggia un clima di risentimento e rancore, tanto che si teme possa accadere qualcosa di davvero grave”. In un’altra lettera, sempre del 2010, il sindacato aveva evidenziato l’inadeguatezza del comandante, chiedendone la sostituzione. Richiesta mai presa in considerazione. La sentenza, però, poggia anche sulle conclusioni dell’attività ispettiva disposta dal ministero e depositata nel giugno 2014. Relazione che ha il peso di un macigno: indica il comandate responsabile del clima di terrore e di alta tensione generato in carcere. Nel 2015 Colella è stato sottoposto a procedimento disciplinare e condannato ad una pena pecuniaria per “incapacità di sovraintendere in modo urbano alle attività di comando e di assumere con equilibrio e buon senso le responsabilità connesse al ruolo”. Per questi motivi, osserva il giudice “sussistono i presupposti per la responsabilità del ministero per l’illecito commesso per mano del dipendente Capitano”. Napoli: “mio figlio è un assassino, non mi vedrà mai più” di Conchita Sannino La Repubblica, 19 marzo 2018 Parlano i genitori dei minorenni killer di Piscinola. “Repubblica” ha incontrato i familiari dei tre ragazzi arrestati per l’omicidio della guardia giurata. Un doloroso viaggio casa per casa tra familiari e amici. Storie agghiaccianti di vite bruciate nei rioni popolari della periferia di Napoli. Il figlio del vigilante: “I genitori sono complici”. Sesto piano di un edificio popolare a Piscinola. La signora si chiama E., ci accoglie in cucina con i sandali e una vestaglia rosa, sta cucinando, ha solo 45 anni. È la madre di uno dei tre ragazzi - un 15enne, due 16enni - che hanno ucciso a bastonate una guardia giurata, Francesco Della Corte, 51 anni, per rubargli la pistola mentre chiudeva il cancello della metropolitana di Piscinola-Scampia. La volevano vendere per ricavare 5-600 euro. Della Corte rantolava, dopo i colpi. “Pensavamo che russasse”. No, stava morendo. Gli assassini sono stati arrestati tutti e tre. E Repubblica - casa dopo casa, famiglia dopo famiglia - ha ricostruito le loro vite bruciate attraverso il racconto dei familiari. La signora E. è provata. “Ho detto a mio figlio che ora non mi vedrà più. Io non ci volevo credere che avevano fatto una cosa così assurda. Anche se lui ha guardato solamente, perché io non ci credo che lui ha colpito, ma deve pagare il suo reato. Non ha voluto studiare, lo stavo mandando in Germania a lavorare. Era l’unico modo per salvarsi”. Ma il dolore dei genitori comprensibilmente non basta per chi ha visto morire il proprio padre, massacrato senza alcuna ragione. “Per me sono complici degli assassini, sia chi esprime solidarietà sui social con i minorenni arrestati sia i loro genitori che li hanno lasciati alle 3 di notte andare in giro aggredendo un uomo buono che faceva il suo lavoro”. Così dice all’agenzia Ansa Giuseppe Della Corte, 25 anni, figlio del vigilante. “Vogliamo giustizia, fino in fondo. Gli assassini devono marcire in galera”, chiede Giuseppe Della Corte. La signora E. mostra dal pc un ticket: “Qui c’è il biglietto telematico: giovedì mio figlio doveva partire. Per pochi giorni si è distrutto la vita”. Il ragazzo indagato ha un fratello gemello, alto e sottile, che ora sembra sotto shock: “Non avevo capito niente, non si è confidato. Lui usciva con gli amici, io ormai stavo solo con la mia fidanzata”. Di giorno se ne stavano a letto. Di notte in strada. Fino alla più vicina “cornetteria”. Segni particolari: nessuno. Così L., K. e C. sarebbero diventati assassini per noia. Massacratori di un inerme vigilante solo per sete di soldi e potere. Storia di tre ragazzi nati e bruciati a Piscinola. Fino agli arresti di un dirigente vecchio sbirro, Bruno Mandato. Ecco le loro vite, viste dall’interno. Il più “piccolo”, per l’impianto accusatorio, è anche il più spietato e sicuro: L., 15 anni compiuti a dicembre. Sarebbe stato lui a ideare il piano, il primo a colpire. Genitori separati da quattro anni, ma è il padre, G., con la faccia a metà tra desolazione e assenza, a raccontare a Repubblica come si perde un figlio “senza poter far niente”, praticamente senza accorgersene. La madre di L., A., è invece ancora “in Germania, stava aiutando un altro figlio, oggi manovale all’esterno, a fare il trasloco”. “Che devo dire? - comincia suo padre - Mi dispiace tanto per quel pover’uomo morto. Lo vedo poco mio figlio, da quando la madre se ne andò con un altro, continuo a vivere nel mio scantinato, però mio figlio L. stava con la mia ex moglie a casa della zia materna, dove però stanno bene, non gli manca niente. In questi giorni, stava così normale e tranquillo che mi ha chiesto i soldi per comprare le fedine d’oro per lui e la fidanzata, e gli ho dato pure 300 euro, io che mi sono sempre arrangiato”. Occhi di un genitore impotente: “Un figlio viene come vuole lui, come le piante, crescono storte o dritte e tu non ci puoi fare niente”. L. ha una denuncia a 12 anni per un’aggressione, il fratello aveva precedenti per droga. A pochi metri, ecco l’edificio dove L. vive con la zia E. Lei, madre di 3 figli, apre la porta, ti mostra la stanza confortevole, con televisore a schermo piatto a muro, dove dormiva il ragazzo. “Mio nipote l’ho sempre visto come un bravo ragazzo. Gli ho comprato almeno un paio di iPhone, tutti distrutti. La mattina dormiva, la sera usciva. Io gli dissi: Uè basta, devi andare a lavorare. E pareva convinto, aveva deciso di fare il panettiere”. Anche K. ha genitori separati, quattro fratelli - due dei quali all’estero, operai in Germania anche loro. Suo padre fa il parcheggiatore abusivo, economicamente assente, la madre - in precarie condizioni di salute - sopravvive “facendo pulizie ovunque, dagli uffici ai ristoranti”. Sesto piano, stesso edificio popolare. La signora si chiama E. “Ho detto a mio figlio che ora non mi vedrà più”. Il ragazzo indagato ha un fratello gemello, alto e sottile, che ora sembra sotto shock: “Non avevo capito niente, non si è confidato. Lui usciva con gli amici, io ormai stavo solo con la mia fidanzata”. Il padre di C., imbianchino, alle 6 del mattino ha lasciato il cantiere per precipitarsi in Questura, quasi in lacrime, con gli abiti sporchi di lavoro. “Veramente mio figlio ha fatto questo?”. Eppure C. aveva un sogno e un talento: fare il calciatore. Giocava con l’associazione “Brothers” di Chiaiano, fucina di promettenti atleti. “Stava per avere un contratto con una squadra della B”, racconta la famiglia. Peccato che, a leggere il suo profilo Fb, non era mai stato un mite. In un post inneggia a Totò Riina: “Certe cose prima si fanno e poi si dicono... R.I.P Zio Totò”. E ancora, a dicembre: “Un leone non si preoccupa del parere delle pecore”. Più recentemente: “Se non giochi col fuoco morirai di freddo”. Eppure C. sarebbe stato, dei tre, il meno violento. Ha raccontato agli inquirenti che lui “guardava e basta”. Guardava mentre gli altri uccidevano, e bruciavano la vita di un innocente, insieme alla propria. Napoli: quegli orfani di famiglie troppo distratte di Antonio Mattone Il Mattino, 19 marzo 2018 “Mio padre mi è stato tolto da alcuni bambini”, ha detto il figlio di Francesco Della Corte, la guardia giurata uccisa a bastonate da tre minorenni nel tentativo di sottrargli la pistola. Il questore di Napoli De Iesu li ha invece definiti “branco di lupi”, autori di una violenza spietata ed efferata. Cos’è che ha trasformato questi adolescenti in belve senza pietà, capaci di un brutale agguato omicida? Eppure se si guarda il vissuto dei tre ragazzini, nulla lasciava presagire un’azione così violenta e crudele. Non avevano precedenti penali e non provengono da famiglie malavitose. Solo uno aveva avuto una segnalazione per un’aggressione all’età di 12 anni. Ma se andiamo a scavare un po’ più a fondo nella vita di questi giovani possiamo scorgere una realtà fatta di degrado familiare, assenza di riferimenti e di valori. Avevano smesso da tempo di andare a scuola e passavano tutto il giorno a letto. Di notte uscivano e insieme andavano girando per le strade del quartiere. Due di loro avevano i genitori separati e nessuno che si occupasse di loro, che si chiedesse cosa potessero fare durante le ore notturne lontani da casa. E’ qui che nasce il malessere di una generazione, che si sente orfana e si coalizza contro il mondo degli adulti con cui ha chiuso ogni comunicazione. Per rabbia, per noia o per sentirsi qualcuno ci si raggruppa in branco fino a diventare lupi feroci per assalire il primo che passa, mentre da soli si è come pecore. I tre balordi hanno deciso di portare avanti il loro agguato dopo essersi fatti uno spinello ed aver trovato chiusa la solita pasticceria dove andavano a comprare i cornetti. Sono passati così, dal desiderio di mangiare un dolce a compiere un omicidio con grande disinvoltura, in una frenesia senza senso, tanto che uno dei ragazzi ha detto di aver fatto una bravata, un gioco finito male. Una espressione che fa comprendere la mancanza della percezione della realtà, della gravità delle azioni commesse. E così, a Napoli, tra una bravata e l’altra, sono sempre più i giovanissimi a far scorrere il grande fiume di sangue che raggiunge ora i vicoli del centro storico, ora i quartieri degradati della periferia e, nessuna diga sembra in grado di prosciugarlo o di arginarlo. Seguirà l’ennesimo comitato per la sicurezza, i soliti annunci sulla installazione di videosorveglianza e i piani contro la dispersione scolastica. Ma sappiamo che non basta qualche telecamera o un pugno di maestri di strada a fermare questa violenza. Occorre molto di più. C’è bisogno di un’azione capillare e concreta che parta da un monitoraggio completo del fenomeno dell’abbandono scolastico, dati che non sono disponibili nella loro interezza. L’unica azione sistemica è quella prospettata da Maria Luisa Iavarone, la mamma di Arturo, riproposta con grande ostinazione ieri sulle pagine de “Il Mattino”. Mi ha colpito che durante la campagna elettorale quasi nessuno abbia parlato della violenza giovanile, mentre adesso i politici sono intenti a pensare alle poltrone da occupare(chi ha vinto) o a leccarsi le ferite del dopo voto (chi ha perso), continuando ad essere latitanti su questi temi. Un giovanissimo conosciuto nel carcere di Poggioreale, accusato attraverso una intercettazione di aver posseduto una pistola durante una stesa, mi ha detto: “ho fatto una sciocchezza, ho detto di avere la rivoltella per sentirmi forte con i miei compagni”. Poi sul suo braccio ho letto una frase tatuata: “Quelli che ci criticano sono quelli che ci vorrebbero diversi perché vedono in noi qualcosa che loro non saranno mai “. Una lunga citazione per cementare il legame con lo zio che si è preso cura di lui dopo che il padre tra galera e una vita da tossicodipendente se ne era disinteressato, fino a morire per overdose. Io non so se effettivamente possedesse quell’arma ma quello che è certo è che questo ragazzo, come tanti nella nostra città, è cresciuto come un orfano, e non è di animo cattivo. Mi ha telefonato l’altro giorno chiedendo di andarlo a trovare ora che sta scontando la pena in affidamento in una chiesa, “così vedi che sto facendo”, mi ha detto. Se Napoli continuerà ad essere matrigna con i suoi figli, ci ritroveremo bambini trasformati in lupi rapaci, ed è solo una magra consolazione vederli chiusi in gabbia dopo lo scempio che hanno consumato. Roma: alla Caritas distribuiti 400 mila pasti e garantiti 200 mila pernottamenti farodiroma.it, 19 marzo 2018 Domenica 18 marzo, in tutte le comunità parrocchiali, si è tenuta una giornata di animazione e preghiera per la carità: nelle chiese di Roma si è svolta la colletta a favore delle iniziative promosse dalla Caritas diocesana per sostenere l’attività dei 50 servizi di ascolto e accoglienza che, nel corso del 2017, hanno erogato servizi di prossimità a favore di 47mila famiglie: per loro sono stati erogati 400mila pasti, 200mila pernottamenti, 14mila prestazioni sanitarie, 52mila visite domiciliari. Si sono impegnati più di 6mila volontari per dare da mangiare a oltre 12mila persone, accogliere 2.400 senza dimora, curare 5mila malati indigenti, incontrare e sostenere 5mila detenuti. Il testo sottolinea anche l’impegno delle parrocchie per “dare ‘ascolto’ a 47mila famiglie”. Presentate anche le nuove forme di solidarietà che hanno visto protagoniste le parrocchie romane. Il riferimento è al progetto “Quartieri solidali” pensato per coinvolgere le comunità parrocchiali all’incontro con gli anziani fragili attraverso lo sviluppo di comunità. “Sono 8 le parrocchie che sperimentano l’iniziativa coinvolgendo 260 anziani e 210 volontari”. Per l’anno 2017 sono stati “5.667 gli utenti accolti da 139 Centri di ascolto parrocchiali. Di questi, il 40% sono nuovi utenti accolti per la prima volta. Gli italiani sono il 47%”. Giovedì 22 marzo, alle 19 nella basilica Lateranense, la veglia di preghiera che, presieduta dall’arcivescovo Angelo De Donatis, quest’anno è dedicata ai missionari martiri e organizzata dalla Caritas diocesana e dal Centro per la cooperazione missionaria tra le Chiese del Vicariato. “Nell’anno in cui, su invito di Papa Francesco, scegliamo di rinnovare l’impegno alla dimensione educativa dei giovani a fianco delle famiglie, la Caritas propone un itinerario per questo tempo liturgico che ha come obiettivo primario l’incontro con l’altro - in particolare il diverso, l’ultimo, l’emarginato - come esperienza per la scoperta di Dio attraverso il povero. Una serie di proposte di solidarietà che culmineranno con la Settimana della carità, ultima delle cinque di Quaresima”. Così l’arcivescovo Angelo De Donatis, vicario di Sua Santità per la diocesi di Roma, in una lettera inviata nei giorni scorsi a tutti gli organismi pastorali e parrocchie della Capitale, presenta i tradizionali appuntamenti di solidarietà proposti alla fine della Quaresima. Si inizierà domenica 18 marzo, Giornata della carità, con la colletta in tutte le chiese di Roma a sostegno dei 50 centri di accoglienza promossi dalla diocesi per rispondere ai bisogni della città, mentre giovedì 22 marzo, alle 19 nella basilica di San Giovanni in Laterano, l’arcivescovo De Donatis presiederà la veglia di preghiera “Carità fino al martirio”: la celebrazione di quest’anno, per la coincidenza della giornata, sarà dedicata ai Missionari Martiri ed è organizzata dalla Caritas diocesana in collaborazione con il Centro per la cooperazione missionaria tra le Chiese del Vicariato di Roma. La colletta di domenica contribuirà all’attività dei 50 centri diocesani - ostelli, comunità, case famiglia e mense sociali - che operano a supporto delle comunità parrocchiali coordinandosi con i centri di ascolto. Un’attività che, solo nel 2017, ha visto impegnati più di 6mila volontari per dare da mangiare a oltre 12mila persone, accogliere 2.400 senza dimora, curare 5mila malati indigenti, incontrare e sostenere 5mila detenuti. Grande l’impegno delle parrocchie per dare “ascolto” a 47mila famiglie. Oltre 400mila pasti distribuiti, 200mila pernottamenti, 14mila prestazioni sanitarie, 52mila visite domiciliari a famiglie e anziani. Il tutto è illustrato nel rapporto con statistiche e approfondimenti. Non mancano poi le nuove forme di solidarietà che hanno visto protagoniste le parrocchie romane: il progetto “Quartieri solidali” per coinvolgere le comunità parrocchiali all’incontro con gli anziani fragili attraverso lo sviluppo di comunità. Sono 8 le parrocchie che sperimentano l’iniziativa coinvolgendo 260 anziani e 210 volontari; “Casa Wanda” il centro diurno Alzheimer di assistenza ai malati e di sollievo per le famiglie, inaugurata a giugno a Villa Glori; gli Empori della solidarietà “territoriali”, a Spinaceto, al Trionfale e a Montesacro, gestiti dalle parrocchie in collaborazione con i municipi; il progetto “fattiDirete”, arrivato a coinvolgere 139 Centri di Ascolto parrocchiali che condividono iniziative e programmi. Infine, in preparazione al prossimo Sinodo dei vescovi che ha per tema “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”, la Caritas ha intensificato l’impegno nelle scuole secondarie superiori della Capitale, coinvolgendo complessivamente 6.106 studenti di 62 Istituti in progetti di alternanza scuola-lavoro, volontariato, campi di servizio e programmi di educazione alla pace e alla mondialità. “La realtà del volontariato - afferma monsignor Enrico Feroci - è un’opportunità preziosa per offrire alle nuove generazioni degli interrogativi sul senso dell’esistenza, un’esperienza importante di educazione ai valori della gratuità e dell’impegno. Questo perché si tratta di esperienze che non si esauriscono in un servizio, ma offrono uno stimolo ad uscire dall’indifferenza e dalla rassegnazione per vivere un senso nuovo dell’esistenza nella vicinanza ai più poveri. All’interno di tale contesto “educativo” il volontariato è anche autentica espressione di fede e di carità evangelica, che sente prioritario l’impegno per il bene del prossimo e la disponibilità a perdersi a favore dell’altro”. Vigevano (Pv): l’arte della legalità messa in scena da chi sta dietro le sbarre di Nando dalla Chiesa Il Fatto Quotidiano, 19 marzo 2018 È vero, è la seconda volta che racconto queste donne. Ma alla fine capirete perché. Carcere di Vigevano. Serata da lupi, piove come Dio la manda. Passaggio tra cancelli e posti di guardia e camminamenti allagati. Verso il teatro in cui un gruppo di detenute reciterà uno spettacolo scritto con loro da Mimmo Sorrentino. Il gruppo è diventato famoso negli ultimi due anni e attrae ormai i pubblici più sensibili nei grandi teatri cittadini e nelle aule magne delle università. Intanto ne è cambiata la composizione, alle detenute dell’alta sicurezza si sono aggiunte quelle comuni. La tecnica è di raccontarsi, strapparsi di dosso ogni maschera. Le storie vengono poi rielaborate e scambiate tra le protagoniste, in modo che il pubblico non le possa associare ad alcuna di loro. Tra le attrici, anche cognomi pesanti di camorra e di ‘ndrangheta, e capisci subito che il disvelarsi, il mettersi a nudo di ciascuna è una conquista senza prezzo. Lo spettacolo si chiama Sangue. Non richiama più, come nel precedente, la memoria dell’infanzia, dei Natali, dei padri. Stavolta, la memoria viene sollecitata a viaggiare, anziché tra i sogni e i miti innocenti, nella realtà terribile di una vita che ha messo in conto l’omicidio e il carcere. Che ricordo avete dei delitti che vi hanno segnato la vita? Le detenute-attrici portano sul palco l’eco della violenza di ‘ndrangheta o, più spesso, di camorra. La voce prende le tonalità che deve avere avuto nell’attimo o nell’ora più atroce. Quando il sangue è schizzato sul supplì, si è impastato con il cibo. Quando lo zio leggendario è stato trovato riverso con il viso a terra, inutile l’arma portata dietro la cintura, lo avevano ucciso alle spalle, da vigliacchi che sono. O quando la testa insanguinata del padre è stata portata, adagiata sul proprio grembo, nella corsa allucinata in taxi verso l’ospedale. Immagini di una vita che ha dimenticato l’innocenza, a volte precocemente, poiché ci si può sposare con un boss anche da bambine, basta una galanteria, una gentilezza che il padre non ha mai avuto. Segui i movimenti talora un po’ impacciati sul palco, interpreti una lingua disperata, e ti domandi perché si sia fatta largo in te una indubbia benevolenza verso quelle attrici. Hai ascoltato le sere prima sulla tv di Stato i racconti a raffica dei terroristi, e ti sono apparsi così poco “ex”. Ti sei scoperto come ferito da quella voglia di assurgere ancora a strateghi della rivoluzione, cavalieri sconfitti ma pur sempre cavalieri, non una parola di sofferenza - tra quelle andate in onda - per le sofferenze inflitte ad altri esseri umani. Uno spettacolo indicibile, magari il 23 di maggio dateci qualche mafioso che ci spieghi per bene perché uccisero Falcone. Ti senti a disagio. A te, in fondo, il momento atroce l’hanno inflitto i mafiosi, non i terroristi, che non ci riuscirono. Perché ora ascolti e magari applaudirai le loro donne? La risposta sta forse in quelle frasi lievi, recitate collettivamente, durante lo spettacolo. “Chiedo perdono al mare/ che mai ho osato respirare/ Alla terra per averla sotterrata/ Al sole per non averlo adorato/ Al fuoco per averlo spento/ Al vento per averlo imprigionato/ Alla pioggia per averla sperperata/ Alla notte per averla trascurata/ Alle stelle per non averle desiderate/ Alle albe per non aver ricominciato/ Ai tramonti per non aver terminato”. Sembra un’onda: “Chiedo perdono per non essere stata capace di guidare mio marito che è stato e sarà l’unico uomo della mia vita. / Chiedo perdono ai miei figli a cui ho dato tutta la ricchezza che avevo non sapendo che l’unica ricchezza che avevo era la povertà della mia infanzia. Quella non gliel’ho mai data”. Finché l’onda si abbatte sulla spiaggia: “Chiedo perdono a quella parte di me che tutti vedevano tranne me./ Chiedo perdono alla vita che ho vissuto come il destino ha voluto pur sapendo che io stessa sono stata il mio destino./ Chiedo perdono a voi che avete ascoltato queste storie/ Chiedo perdono ai morti. Tutti. Nessuno escluso/”. La richiesta di perdono, alle stelle come ai morti, a quelli innocenti e anche a quelli che non lo furono. Ecco il miracolo di cultura e di umanità che non si è affacciato sulla tivù di Stato. Arriva da lontano, passando con pudore tra le memorie terribili, per poi diventare litania leggera. Fino all’inchino finale davanti al pubblico che applaude. Ogni attrice una forma di inchino diverso. Poiché le vite sono diverse. Poi c’è qualcosa che le tiene insieme. Di qua o di là dell’intelligenza. Di qua o di là della pietas. Milano: ritratti da fine pena mai. “Così l’arte libera i volti” di Viviana Persiani Il Giornale, 19 marzo 2018 Esposte le foto di Margherita Lazzati ai carcerati di Opera. Progetto nato come omaggio al Papa. “Ho frequentato, tutti i sabati, per oltre cinque anni il laboratorio di scrittura creativa del carcere di massima sicurezza di Opera, cercando in tutti i modi di uscire dalla logica del reportage per entrare nell’idea del ritratto, una dimensione nella quale luce, spazio, sfondo, tempo, relazioni, appartengono a una realtà definita e non modificabile. Volevo non raccontare, ma fermare un’apparenza fisica, un aspetto, una figura, una sembianza, un atteggiamento, un portamento, senza retorica e senza l’ambizione di andare oltre o cercare di cogliere l’anima. Potrei dire che forse, quando si lavora stretti, anche questa è una forma di rispetto”. A parlare è la fotografa milanese Margherita Lazzati e dalla sua esperienza settimanale insieme ai detenuti del carcere di Opera ne è venuta fuori una mostra fotografica che, al di là del suo significato artistico, assume, dal punto di vista umano e morale, una valenza importante: fare da ponte tra i volti ritratti di chi è rinchiuso in carcere e gli sguardi delle persone “libere” che li vedranno esposti. Un modo per liberare i visi, portarli in giro per la città, strapparli anche se solo per qualche istante, a un “dietro le sbarre” di durata variabile sino al “fine pena mai”. Fino al 29 marzo, alla Fondazione Ambrosianeum, in collaborazione con Galleria l’Affiche, è possibile ammirare Ritratti in carcere, un viaggio del tutto particolare attraverso una trentina di ritratti fotografici, di persone recluse e volontari, realizzati dall’artista meneghina, tra l’estate del 2016 e gli inizi del 2017 (con l’autorizzazione del Ministero della Giustizia e grazie alla lungimiranza dell’allora direttore Giacinto Siciliano), scatti effettuati nei locali del Laboratorio di Lettura e Scrittura creativa di Opera, al quale la Lazzati collabora dal 2011. Con una peculiarità del tutto particolare. L’idea iniziale della fotografa era quella di fare un omaggio al Papa in occasione del Giubileo delle persone detenute. Un modo per illustrare come, anche all’interno di una prigione, ci possano essere degli spazi dove i detenuti diano espressione alla propria creatività. Vedendo lo scatto di un detenuto con alle spalle un volontario è nata l’idea di una sorta di gioco, il “chi è chi”. Lo stesso visitatore della mostra farà difficoltà a distinguere chi sia il recluso da chi sia il volontario. Una maniera interessante per trasmettere il suo messaggio, che è anche una provocazione: mostrare alla gente quanto sia difficile “etichettare” un volto. La Lazzati ha, per così dire, “mischiato le carte” e, con gli scatti della sua Leica, ha voluto inquadrare, nella stessa foto, chi ha subito una condanna, insieme a chi si impegna, come volontario, a renderla il più umana possibile. Senza pregiudizi, sarà impossibile individuare gli uni dagli altri. Anche se poi, non si può non rimanere colpiti anche dall’immagine di un uomo che nasconde il proprio volto mettendo davanti le sue mani protese verso l’obiettivo. Con Ritratti in carcere, la Lazzati continua così a dar conto di ciò che è nascosto, o perché precluso alla vista, come già accadde nel 2017 con la rassegna Sguardi dedicata agli ospiti della Sacra Famiglia di Cesano Boscone, e nel 2015 con la mostra Visibili. inVisibili. Reportage, entrambe presentate all’Ambrosianeum. (Fondazione Ambrosianeum, via delle Ore 3, Milano. Fino al 29 marzo). I ladri di dati al servizio dei politici di Juan Carlos De Martin La Repubblica, 19 marzo 2018 Si torna a parlare dell’utilizzo di Internet per creare messaggi politici altamente personalizzati. Cambridge Analytica, infatti, un’azienda britannica già molto discussa dopo l’elezione di Trump, è tornata alla ribalta perché avrebbe acquisito - grazie ad una app fintamente accademica - i dati di Facebook di circa 50 milioni di americani. La vicenda ha due aspetti principali. Il primo riguarda i nostri dati personali, mentre il secondo - connesso al primo - la rinnovata capacità di creare messaggi politici personalizzati. Relativamente ai dati personali, l’aspetto che più colpisce delle rivelazioni su Cambridge Analytica è che solo 270.000 persone abbiano volontariamente installato l’app, consentendo all’app di accedere ai propri dati. Le restanti 49.730.000 persone sono i contatti Facebook dei 270.000, persone del tutto ignare del fatto che i loro dati potessero finire a terzi. Uno dei cardini della tutela dei dati personali, il consenso informato, ne esce a pezzi. Riguardo alla personalizzazione dei messaggi, invece, è opportuno ricordare che i politici da sempre cercano di dire agli elettori quello che pensano che gli elettori vogliano sentirsi dire: sostegno all’istruzione se insegnanti, lotta al crimine se abitanti dei quartieri più insicuri e così via. L’hanno fatto e sempre lo faranno negli incontri di persona, e l’hanno anche fatto con lettere cartacee e chiamate telefoniche. I mass media, invece, obbligavano i politici ad articolare messaggi rivolti ad amplissimi settori dell’elettorato. I due tipi di messaggi - quelli particolari e quelli generalisti - convivevano, rafforzandosi e integrandosi a vicenda. Con la diffusione del digitale, però, i dati personali sono enormemente aumentati. Si rinnova allora l’interesse per la personalizzazione spinta dei messaggi politici, una personalizzazione che può utilizzare informazioni che nessun politico vecchia maniera ha mai avuto: informazioni su quali video guarda un elettore, quali libri dice di amare, quali blog legge con assiduità, se va a correre tutti i giorni o meno, e così via. La speranza - di per sé legittima - è che questi nuovi dati, così copiosi e così intimi, non solo offrano la chiave per arrivare al cuore di ogni singolo elettore, ma che la offrano automatizzata, ovvero, ad un costo contenuto. Quello che una volta si riusciva a realizzare con immensa fatica - ma altrettanto immensa legittimazione democratica - con la rete territoriale dei partiti di massa ora sembra realizzabile con una frazione di quelle risorse da un pugno di persone chiuse in una stanza piena di computer. Non sappiamo ancora con certezza quanto queste tecniche siano efficaci; tuttavia la personalizzazione dei messaggi politici è un diritto che non può essere invocato solo quando si è d’accordo col messaggio politico sottostante. Questo non vuol dire che tutto vada bene, anzi, è necessario agire con fermezza in due direzioni principali. Da una parte dobbiamo chiedere una sempre maggiore tutela dei dati personali, nella consapevolezza che ormai non esistono più dati innocui: ogni dato che ci riguarda, per quanto apparentemente irrilevante, infatti, può essere correlato con altri per estrarre informazioni potenzialmente molto intime su di noi. Dobbiamo quindi permettere ai singoli di controllare - in modo facile e intuitivo - i propri dati in modo molto più capillare e robusto di quanto non capiti oggi. Dall’altra parte abbiamo urgente bisogno che gli utenti delle reti sociali e dei motori di ricerca capiscano perché vedono quel che vedono sul loro schermo, con ampia facoltà di personalizzare la loro esperienza. In particolare di ogni messaggio politico si dovrebbe capire da chi è stato prodotto e sulla base di quali dati, dando all’utente la facoltà di decidere sia se vederne altri, sia se continuare o meno a concedere l’uso dei propri dati per finalità politiche. In altre parole, in questo momento tutte le armi stanno dalla parte di chi controlla lo schermo. È ora che su quello stesso schermo compaiano funzionalità che rafforzino il potere di chi lo schermo lo guarda, cioè, ciascuno di noi. Migranti. “Favorisce l’immigrazione illegale”, sequestrata la nave della Ong di Fabio Albanese La Stampa, 19 marzo 2018 La procura di Catania: associazione per delinquere. Dopo il braccio di ferro coi libici, aveva salvato 218 profughi. La nave “Open Arms” della Ong spagnola ProActiva è dalla tarda sera di ieri sotto sequestro nel porto di Pozzallo. Il provvedimento è stato firmato dal procuratore della Repubblica di Catania Carmelo Zuccaro ed è accompagnato da avvisi di garanzia con l’ipotesi di reato di associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, per il comandante della nave e per la capo missione a bordo per conto della Ong. I due sabato erano stati interrogati dalla Squadra mobile di Ragusa e da agenti dello Sco di Roma; cosa avvenuta subito dopo lo sbarco di 216 dei 218 migranti (due erano stati sbarcati a Malta) che giovedì scorso la Ong aveva recuperato a 70 miglia al largo della Libia, in acque internazionali, dopo una pericolosa contesa con la Guardia costiera libica. Un terzo avviso di garanzia dovrebbe riguardare il responsabile della Ong che, ufficialmente, è in corso di identificazione anche se è noto che il patron della Ong, che ha sede a Barcellona, è il catalano Oscar Camps. Il provvedimento arriva dalla procura di Catania, e non da quella di Ragusa nel cui comprensorio si trova Pozzallo, poiché è ipotizzato un reato associativo, di competenza di una Direzione distrettuale, nella fattispecie quella di Catania, la procura che da oltre un anno indaga sul traffico di migranti dalla Libia e sul ruolo delle Ong. Secondo l’accusa ci sarebbe la volontà di portare i migranti in Italia anche violando leggi e accordi internazionali, e non consegnandoli ai libici. Che giovedì scorso, a 70 miglia al largo della Libia fosse accaduto qualcosa di inedito nella lunga vicenda del soccorso ai migranti, si era intuito quando, il giorno dopo, tra i silenzi della Guardia costiera italiana e del ministero dell’Interno e le richieste a vuoto da parte della Ong di un “porto sicuro” dove portare i migranti, c’erano volute 36 ore per arrivare a una soluzione, pare anche con il coinvolgimento delle autorità spagnole visto che la “Open Arms” batte bandiera iberica. Solo venerdì sera, quando è stato dato il via libera alla nave della Ong per attraccare nel porto siciliano di Pozzallo, la Guardia costiera italiana aveva emesso un comunicato nel quale spiegava che “il coordinamento (dei due salvataggi di giovedì, ndr) veniva assunto dalla Guardia Costiera libica. Per entrambi gli eventi rispondeva l’Ong Open Arms, a conoscenza dell’assunzione del coordinamento da parte della Libia. La Open Arms traeva in salvo in totale 218 migranti”. E aggiungeva che “raggiunto il limite delle acque territoriali italiane, attese le precarie condizioni dei migranti a bordo e le previste condizioni meteomarine in peggioramento, veniva consentito alla Ong di dirigere verso il porto di Pozzallo”. Insomma, la Ong avrebbe operato ignorando la disposizione di consegnare i migranti ai libici che da mesi dicono di controllare una zona Sar (Search and rescue) nel Mediterraneo centrale, cosa che cambierebbe gli assetti nelle procedure di salvataggio. I libici, avrebbero riportato indietro i migranti ma le Ong non lo possono permettere. L’avvocato difensore di uno degli indagati: “Poiché il decreto legge 286 del 1998 dice che non commette reato chi soccorre persone, deduco che hanno istituito il reato di solidarietà”, dice l’avvocatessa Rosa Emanuela Lo Faro, che difende il comandante della nave. Riunito a Parigi il Tribunale dei Popoli per i crimini della Turchia contro i curdi Il Manifesto, 19 marzo 2018 Due giorni di udienze sui crimini commessi nel sud-est dell’Anatolia tra il 2015 e il 2016: omicidi e stragi, sparizioni forzate e il sabotaggio del processo di pace con il Pkk. È proprio in questi terribili giorni in cui l’esercito turco, penetrato sul territorio siriano dalla parte di Afrin, sta massacrando civili e combattenti curdi in prima linea nella battaglia contro gli ultimi reparti della jihad, che si è tenuta a Parigi la sessione del Tribunale Permanente dei Popoli (promosso da molti decenni dalla Fondazione Basso) sui curdi e la Turchia. Per documentare le violazioni del diritto internazionale da parte della Repubblica turca e segnatamente dal suo presidente Erdogan, nei confronti del popolo curdo e delle sue organizzazioni. Giurati: il presidente Philippe Texier (giudice onorario della Corte di cassazione francese, ex presidente della commissione diritti umani dell’Onu); Teresa Almida Cravo, Madjjid Benchikh, Luciana Castellina, Domenico Gallo, Denis Halliday (ex assistente della segreteria generale Onu e coordinatore per i diritti umani in Iraq, rassegnò le dimissioni nel ‘98 in protesta per le sanzioni che tagliarono i rifornimenti all’Iraq, compresi quelli alimentari), Norman Peach (docente di diritto pubblico all’Università di Amburgo). Il pubblico ministero, l’avvocato belga Jan Fermont, coadiuvato dall’avvocata italiana Sara Montinaro, ha chiarito che non spetta al Tribunale, ma al popolo curdo decidere quali forme dovrà assumere il suo diritto all’autodeterminazione. E che, nell’impossibilità di documentare decenni di arbitri e massacri, l’attuale verdetto si concentrerà solo su una frazione di accadimenti storici, solo alcuni fra i tantissimi crimini di guerra compiuti nel sud est dell’Anatolia fra il 2015 e il 2016, oltre che sui crimini extragiudiziali (assassini, sparizioni operate anche in territori stranieri) in un periodo in cui avrebbe dovuto prendere corpo il processo di pace promosso dal movimento di resistenza curdo Pkk e sanguinosamente sabotato dal regime di Ankara che pure l’aveva inizialmente accettato (terribile, fra gli altri, l’assassinio di tre giovani donne, militanti curde, uccise da un sicario a Parigi). Le decine di testimonianze portate a conoscenza della Corte (alcune via Skype) hanno mostrato un quadro drammatico della condizione cui il popolo curdo della Turchia è sottoposto. Presenti alle udienze centinaia di curdi e avvocati e giuristi di molti paesi europei (tante avvocate italiane) che si battono a fianco del popolo curdo, purtroppo dimenticato e ora abbandonato a se stesso, sia dagli Stati uniti che dalla Russia, i cui rispettivi governi si contendono i favori della Turchia impegnata a sabotare gli insediamenti curdi di Rojava, espugnati alle milizie jihadiste grazie a straordinario coraggio e al prezzo di così tante vite umane. A seguito delle due giornate di udienza il giudizio, elaborato nel corso delle prossime settimane, oltre a essere inoltrato alle istituzioni competenti, sarà presentato al parlamento europeo. Groenlandia. In costruzione la prigione “umana” che sembra un resort di lusso Corriere della Sera, 19 marzo 2018 Si chiama Ny Anstalt e aprirà il prossimo anno: un complesso di quasi ottomila metri quadrati composto da 40 prigioni con sbarre e 36 “aperte”. I carcerati potranno andare in città a lavorare, per poi tornare nell’edificio per il pernottamento. Viene definita prigione “umana”. Non un normale penitenziario, ma un carcere con una filosofia moderna e che punta alla riabilitazione di chi ha commesso un crimine. In Groenlandia è in costruzione il Ny Anstalt, un complesso architettonico che, grazie al design e all’ambiente confortevole, vuole imitare le condizioni di vita “normale” il più possibile. Per non far sentire i prigionieri dietro le sbarre, ma piuttosto in un centro accoglienza. Da lontano lo si può scambiare quasi per un resort di turisti che vogliono passare il proprio tempo libero tra una discesa sugli sci e una passeggiata nella neve. Il Ny Anstalt aprirà l’anno prossimo, nel 2019, vicino alla montagna Lille Malene, 265 chilometri a sud del Circolo Polare Artico, ed è composto da pannelli di acciaio temprato. Le celle misurano 12 metri quadrati e hanno vetrate da cui i prigionieri possono godersi il panorama. Ci sono poi spazi condivisi, come divani e tavolini pensati per la socializzazione e la creazione di un senso di comunità. Poi cucine, spazi di lavoro, classi per le lezioni e palestre per fare attività fisica. Nonché una libreria e una chiesa. Il complesso misura circa ottomila metri quadrati e si compone di 76 celle, 40 delle quali avranno le sbarre per i criminali considerati pericolosi. Mentre le restanti 36 saranno “aperte”. I prigionieri che “abitano” queste seconde soluzioni saranno liberi di uscire durante il giorno per poi rientrare la sera. I poliziotti non indosseranno armi così che “possano creare una relazione con i carcerati, essenziale per la riabilitazione”, spiegano gli architetti che hanno disegnato il progetto. Anche le mura che circondano la struttura sono pensati per sembrano meno minacciosi. Gli architetti hanno chiesto a un artista locale di riprodurre degli animali sulla superficie del perimetro. E se dal cortile è impossibile vedere le bellezze del panorama, basterà entrare nella struttura e salire ai piani superiori per ammirare l’orizzonte dalle grandi vetrate. Si trova vicino a Nuuk, la capitale della Groenlandia. Ny Anstalt è importante perché risponde a una lotta che il Paese sta conducendo per anni. Il cui obiettivo è migliorare le condizioni di vita di coloro che hanno sbagliato e violato la legge. Con 56mila cittadini, la Groenlandia è lo Stato meno densamente popolato al mondo, e quindi un buon posto per testare queste prigioni più “umane” perché sono pochi i criminali che deve gestire. Esistono sei penitenziari con una capacità di 154 persone (nel 2017 i carcerati erano 119). Qui si sta sperimentando questa nuova filosofia di sistema di prigioni “aperte”, dove coloro che vi risiedono possono uscire per lavorare o studiare. Con l’obbligo di ritorno solo per il pernottamento. Finora, la Groenlandia ha mandato in Danimarca - Paese di cui è una ex colonia - i criminali più pericoli. Un disagio, per i carcerati ma anche per le loro famiglie, con problemi linguistici nel comunicare così come geografici: per le visite bisogna prendere un aereo. Nel 2013 è partito il bando per la costruzione di un nuovo complesso penitenziario.