Carceri, ecco i punti della riforma di Bruno Pavone Il Roma, 18 marzo 2018 Via libera del Consiglio dei ministri al decreto di riforma dell’ordinamento penitenziario. Lo ha annunciato venerdì 16 il Guardasigilli Andrea Orlando. Ma cosa prevede questa riforma? Innanzitutto rafforzare le misure alternative al carcere, ponendo al centro il percorso riabilitativo del detenuto - tranne per chi si è macchiato di delitti di mafia e terrorismo - con il vaglio, caso per caso, della magistratura di sorveglianza, con l’obiettivo di abbattere il tasso di recidiva. È quello che possiamo considerare il punto centrale della riforma dell’ordinamento penitenziario, basata sui lavori degli Stati generali per l’esecuzione penale voluti dal Guardasigilli Andrea Orlando e conclusi nell’aprile 2016. Il testo del decreto, che attua una delega contenuta nella riforma del processo penale approvata la scorsa estate, era già stato varato dal Consiglio dei ministri a dicembre e poi sottoposto all’esame delle Commissioni Giustizia di Camera e Senato. I pareri giunti dal Parlamento, in particolare quello del Senato, contenevano alcune osservazioni critiche, che il Governo non ha accolto, modificando solo in dettagli non di rilievo lo schema di decreto già predisposto. Più misure alternative al carcere Rafforzamento e ampliamento delle misure alternative al carcere, superando automatismi e preclusioni, tranne che per i condannati per delitti di mafia e terrorismo. Una previsione importante riguarda poi il regime di semi-libertà, con la possibilità di accedere a tale istituto da parte dei condannati all’ergastolo (tranne che per mafia e terrorismo), dopo che abbiano correttamente fruito di permessi premio per almeno 5 anni consecutivi, nuovo presupposto alternativo a quello dell’espiazione di almeno 20 anni di pena. Possibile sospensione della pena, anche residua, fino a 4 anni, per accedere all’affidamento in prova, come avallato anche da una recente pronuncia della Corte Costituzionale. Socialità del detenuto e Skype Attenzione particolare viene data alla socialità del detenuto, con attività comuni, studio, lavoro e anche lo svago, nonché all’alimentazione per i reclusi, estendendo i requisiti del vitto, rispetto a quanto attualmente previsto, in modo da soddisfare le esigenze delle diverse “culture” e “abitudini” alimentari. I detenuti vengono tutelati anche da discriminazioni legate all’identità di genere e all’orientamento sessuale. In linea, inoltre, con le regole europee, si pone in risalto il diritto del detenuto a essere assegnato a un istituto prossimo alla residenza della famiglia “fatta salva l’esistenza di specifici motivi contrari”, come il mantenimento o la ripresa di rapporti con la criminalità comune o organizzata. Viene consentito l’uso delle tecnologie informatiche all’interno del carcere, anche per i contatti con la famiglia, ad esempio, attraverso l’utilizzo della posta elettronica e dei colloqui via Skype. La sanità penitenziaria Importanti anche le novità sulla sanità in carcere, con l’equiparazione tra infermità fisica e psichica, volta a garantire adeguati percorsi rieducativi compatibili con le esigenze di cura della persona. “La riforma dell’ordinamento penitenziario per diventare operativa dovrà fare un ulteriore passaggio che richiederà dei tempi, non fosse altro per la fase di transizione da una legislatura all’altra”. Lo ha detto Mauro Palma, Garante nazionale delle persone detenute o private della libertà personale, riferendosi alla riforma approvata dal Governo nel corso di una conferenza stampa, alla presenza di Nicola Irto, presidente del Consiglio regionale calabrese per presentare la nuova legge regionale che istituisce il Garante calabrese. “Una riforma - ha aggiunto Palma - che introduce due principi fondamentali. Il primo stabilisce che per le persone in detenzione va sempre organizzato un percorso per il ritorno alla società. Un percorso in cui le misure alternative non devono essere viste come diminuzione dell’afflizione detentiva, ma come tappe che permettano loro di reinserirsi meglio, ed anche alla società di avere elementi di conoscenza delle persone molto più chiare per garantire al meglio anche la sicurezza esterna. Il secondo principio si propone di abituare i detenuti e le persone prive della libertà personale ad assumersi le proprie responsabilità. Questa responsabilizzazione, considerare le persone non come oggetto di un trattamento deciso da altri aiuta anche ad elaborare cosa si è compiuto e cosa si è fatto. Altrimenti il rischio è quello di restituire persone identiche a come sono entrate, se non peggiorate, e questo non garantisce nessuno”. Il presidente del Consiglio regionale calabrese Nicola Irto, nell’incontro con i giornalisti, ha comunicato che il Governo ha dato il via libera, senza rilievi di valenza costituzionale, alla legge regionale di istituzione del Garante per la Calabria, approvata nel mese di gennaio, unificando due distinte proposte di legge, la prima dello stesso Irto e la seconda del consigliere Franco Sergio. Riforma carceri, le false notizie sono nocive di Andrea de Bertolini* Corriere del Trentino, 18 marzo 2018 La riforma delle carceri non è un regalo ai criminali. Il provvedimento mira a garantire la collettività. L’importante è non lasciarsi condizionare da false notizie che posso risultare nocive. “Un regalo ai criminali contro la volontà democratica”, “un provvedimento pericoloso”, “la certezza della pena diventa un miraggio, con buona pace dei cittadini onesti”, “l’ennesimo salva ladri”. All’indomani di un deciso importante passo di civiltà, giungono dichiarazioni non equivoche che - sapientemente speculando in modo cinico, strategico e consapevole, su un diffuso sentimento d’insicurezza sociale - nel gridare e incitare allo sdegno, annunciano scenari sciagurati e drammatici per il “popolo degli onesti”. Ormai siamo abituati, la comunicazione spesso funziona con un modo tipico: non si affronta il problema, non ci si informa, non si conosce prima di replicare (non interessa), si assume, rispetto all’antagonista, un’aprioristica posizione contraria - meglio se populista e fortemente suggestiva - quindi, caricata “l’arma della parola”, si spara a zero per raccogliere un consenso emotivo, incuranti dei danni collaterali. Nulla di nuovo. Ottimo esempio d’ingegneria sociale. Con riferimento alla riforma dell’ordinamento penitenziario, tuttavia, possiamo tutti rassicurarci con serenità. I giudizi spesi contro il provvedimento, teso autenticamente alla salute dell’intera collettività, sono oggettivamente errati. Nessun regalo a criminali; nessuna incertezza della pena; nessun pericolo; nessun ladro salvato. Punti di vista? No, evidenze obiettive. Il presupposto è però un’informazione corretta. Nel 2013 la Corte europea dei Diritti dell’uomo sentenzia come, nelle carceri italiane, detenute e detenuti vivano in condizioni inumane e degradanti. Ora, le parole, per alcuni (non molti per verità), sono ancora usate con precisione. Per inumano, quindi, intendiamo una condizione che travolge le norme della società e della convivenza calpestando i sentimenti e gli affetti corrispondenti; per degradante intendiamo una condizione avvilente, mortificante, che rende abietti, privando dell’onore e della dignità. Questo giudizio nel 2013 si abbatte sul nostro Paese, sulle nostre coscienze, ferendoci e umiliandoci in modo impietoso di fronte a quell’evidenza purtroppo ignota a molti “onesti cittadini”. Carceri inumane degradanti in uno Stato di diritto in cui circa 70 anni fa la Costituente con nitore esemplare e autentica consapevole responsabilità politica, nell’interesse della società, sanciva nella Carta Fondamentale il principio per il quale le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Nel 2018, ancora, la dimensione avvilente nella quale troppo spesso detenute e detenuti si trovano palesa come quella lacerante ferita si sia evoluta in una vera e propria piaga prossima alla cancrena. Il dato è impietoso, ormai condiviso da chi sia informato, conosca e sappia di cosa si tratta: il carcere, luogo di oblio, per chi “vi resta passando”, marchiato dallo stigma sociale dell’ex detenuto, è fattore di recidiva. Il carcere italiano è troppo spesso criminogeno: non solo non rieduca, ma è fattore rigenerante crimini per coloro che alla fine della pena rientrano nella società dei liberi. La riforma riprende parte dei lavori della commissione ministeriale di esperti (presieduta dal professor Glauco Giostra, fra i più autorevoli esponenti dell’Accademia italiana, composta da avvocati, magistrati, accademici, funzionari del Ministero e dell’amministrazione penitenziaria) e va nel solco delle sintesi poste dagli “Stati generali dell’esecuzione penale”, un gruppo composto da più di 200 tecnici periti che hanno lavorato per oltre un anno in 18 tavoli tematici. In aderenza alla delega parlamentare al governo, la riforma interviene dunque per riparare allo scempio quotidiano che in Italia si compie con frequenza nelle nostre prigioni. Un solo obiettivo non negoziabile e non fraintendibile, pertanto: garantire la salubrità dell’intera società dando attuazione al dettato costituzionale dell’umanità dei trattamenti e della rieducazione della pena. Il testo della riforma non si applica a rei di mafia, terrorismo e associazioni criminali. Da un lato valorizza le opportunità di lavoro esterno per i detenuti, dall’altro dà maggiore rilevanza a forme di esecuzione della pena che garantiscano un effettivo progetto di reinserimento sociale e rieducazione, anche con rinnovata tutela delle vittime dei reati. Il lavoro è presupposto del reinserimento sociale. L’accesso alle misure alternative alla detenzione abbatte la recidiva: chi sconta la pena in carcere è recidivante nel 70% dei casi, mentre chi fruisce delle misure alternative recidiva nel 19% dei casi. La riforma valorizza la funzione della magistratura di sorveglianza, la quale, in un dialogo responsabile e reciproco con l’avvocatura, ne garantirà una giusta applicazione. Questo il contenuto in sintesi. Un contenuto opposto a quello che si vuol far pensare. L’avvocatura, nell’interesse dei cittadini, da sempre si batte per una comune cultura della legalità, dei diritti e della pena. Urge però ora una priorità: per prima cosa, informare correttamente i cittadini rispetto a irresponsabili flussi di comunicazioni che, semplicemente, mistificano la realtà. La formula apposta sui bugiardini risuona come un mantra. Prima di utilizzare certi prodotti comunicativi, leggere bene le avvertenze e le modalità d’uso: prestar fede a notizie false è nocivo. Per la salute della società e per la salute stessa di ogni individuo che se ne nutra in buona fede in modo inconsapevole. *Presidente dell’Ordine degli avvocati di Trento Pene alternative al carcere. I Radicali esultano: “nostra vittoria” Il Mattino, 18 marzo 2018 Obiettivo sul carcere. Custodia cautelare, è stato approvato il decreto attuativo sulle pene alternative al carcere. La categoria penitenziaria registra, con questo decreto, “un’importante vittoria sottolinea l’Associazione Radicale salernitana “Maurizio Provenza”. La vittoria, di chi, nei lager delle carceri è costretto ad aggiungere pena ad altra pena, nel settore della detenzione e delle condizioni di vita dei detenuti in generale e del carcere di Fuorni in particolare”. “Se il governo Gentiloni-Orlando in extremis ha approvato il decreto portante della riforma dell’ordinamento penitenziario dice Donato Salzano, segretario dell’associazione radicale salernitana - lo deve soltanto alla tenacia della Lotta Nonviolenta di Rita Bernardini e di decine di migliaia di detenuti con le compresenze certo di Marco Pannella, ma anche dei nostri compagni salernitani Maurizio Provenza e Carmine Tepedino, per aver scelto poi anche se con enorme ritardo la linea del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito, che ha saputo rinunciare con la Lista Pannella alle lusinghe di ennesime elezioni illegali. Infine Salzano chiude citando Voltaire: “Non fatemi vedere i vostri palazzi, ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione”. E continua: “Le destre dei Cinque Stelle, leghiste e sovraniste senza civiltà e né cultura costituzionale per lo Stato di Diritto, preferiscono i trattamenti inumani e degradanti per diffondere le solite fobie giustizialiste, come untori di manzoniana memoria su inesistenti svuota carceri guidate da Salvini e da Cirielli. Con questa misura invece arriva l’umanità della pena e la dignità dei magistrati di sorveglianza”. Celle (e urne) vuote di Marco Travaglio Il Fatto Quotidiano, 18 marzo 2018 A chi volesse capire perché Pd e Fi hanno perso le elezioni, oltreché per le politiche antisociali che hanno impoverito i poveri e arricchito i ricchi, penalizzato gli onesti e premiato evasori e tangentari, suggeriamo due letture. La prima è una telefonata intercettata dalla Procura di Bergamo fra due albanesi che concordano rapine nelle stazioni di servizio: “Vieni in Italia a rubare, tanto qui non ti succede niente: se proprio ti va male, ti fai una notte in carcere e poi esci”. Il procuratore Walter Mapelli conferma: “All’estero sono ben informati sul nostro quadro normativo e vengono a delinquere in Italia. Se un ladro è sorpreso a rubare in un appartamento e non riesce a fare il colpo, l’arresto in flagranza per il tentato furto è obbligatorio, ma la custodia in carcere non è prevista. Dunque viene arrestato e subito scarcerato. E, se anche viene condannato in via definitiva, avrà la pena ridotta fino ai due terzi, cioè sotto i 4 anni, e non la sconterà in carcere”. Per scoprire il perché, ecco la seconda lettura: il decreto attuativo della “riforma penitenziaria” Orlando, appena varato dal fu governo Gentiloni, degno coronamento di 40 anni di decarcerazione, che si spera verrà stoppato dal nuovo Parlamento e riscritto dal nuovo governo. Oltre ad alcune buone norme sulla salute e l’affettività, a nuovi spazi per gay e madri detenute, la sostanza è micidiale: sarà ancor più difficile mettere o tenere dentro i delinquenti (cioè i condannati definitivi). Un gentile omaggio pure per mafiosi e terroristi. Il ministro Orlando nega: “Non ci sono automatismi, i benefìci saranno concessi dai giudici di sorveglianza caso per caso” (come se lo scarso personale di polizia e magistratura potesse esaminare le condotte dei singoli detenuti). Dunque “non uscirà nessuno” (e allora, se non cambia nulla, perché allargare un’altra volta le maglie?). In realtà questa è la quarta legge svuota carceri in 7 anni, dopo quelle dei governi B., Monti e Letta. Queste, per superare la solita emergenza del sovraffollamento, alzarono provvisoriamente da 3 a 4 anni il tetto di pena sotto cui si va ai domiciliari o ai servizi sociali anziché in galera o, se si è già lì per condanne superiori, si esce per scontare il resto a casa. Così scarcerarono migliaia di detenuti e ne lasciarono a spasso altrettanti. Ma i competentissimi legislatori non adeguarono il resto delle normative, creando un vuoto che ora la Consulta ha riempito, imponendo di sospendere l’ordine di carcerazione per tutti i condannati a pene totali o residue fino a 4 anni. E ora il governo ormai defunto, con un consenso intorno al 21 per cento, che fa? Invece di tornare almeno al limite dei 3 anni (già abnorme: le condanne sopra i 3 anni, con tutte le attenuanti e gli sconti dei nostri codici-colabrodo, sono rarissime), decide definitivamente che chiunque sia condannato a meno di 4 anni resta libero e fa domanda per i domiciliari (o, sotto i 2, per i servizi sociali). Che poi sono puramente teorici: se uno evade per commettere altri delitti (o resta a casa e di lì spaccia droga, molesta la figlia, picchia la moglie, incassa mazzette, organizza truffe o estorsioni, fa stalking telefonico), di solito non se ne accorge nessuno: ci vorrebbero decine di migliaia di agenti per controllare tutti i detenuti a domicilio. La norma si ispira a una teoria demenziale, dunque molto diffusa nella pseudocultura di sinistra: e cioè che, siccome il carcere è diseducativo perché trasforma i microcriminali in macrocriminali, sono molto più dissuasive le pene alternative. Si sbandierano statistiche sui tassi di recidiva di nessun valore scientifico, per dimostrare che chi sconta la pena in carcere torna a delinquere più spesso di chi sta a casa o ai servizi sociali: come se si potesse prevedere come si comporterebbero tutti i delinquenti liberi se fossero stati incarcerati; e come se le statistiche registrassero gli autori di tutti i reati, che invece restano per l’80-90% senza colpevoli. Per combattere la recidiva e la diseducatività delle carceri, basterebbe costruirne di nuove per separare i piccoli dai grandi, garantire ai detenuti una vita decorosa di studio e lavoro. Non lasciarli o metterli fuori perché dentro è peggio. Oltre all’impunità per i condannati fino a 4 anni, la “riforma” estende poi questa incredibile franchigia a terroristi e ai mafiosi, finora esclusi: basterà attendere che abbiano scontato la parte di pena per i reati di terrorismo e di mafia, e poi dal restante “cumulo” per i reati comuni (acquisto di armi, occultamento di cadaveri ecc.) potranno detrarre i fatidici 4 anni e uscire prima. Come i detenuti comuni. Non solo: i mafiosi con figli fino a 10 anni potranno uscire negli ultimi 4 anni di pena, anche se relativa a reati di mafia. E le Procure antimafia non potranno più trasmettere ai Tribunali di Sorveglianza le notizie sui legami dei detenuti aspiranti ai benefici con i clan, privando di notizie fondamentali sulla loro perdurante pericolosità i giudici che devono decidere se metterli fuori o meno. A questo punto non si vede perché buttare miliardi per indagare, arrestare e processare 3 milioni di persone all’anno, se già si sa che 9 su 10 verranno condannati a meno di 4 anni e non faranno un giorno di galera, ma resteranno a piede libero. Tanto vale, una volta presi, rilasciargli un foglietto con scritto: “Vai e casa e non farlo più”. Resta, è vero, un piccolo dettaglio: le vittime. Ma di quelle i politici si ricordano solo quando una brigatista in menopausa va in tv a delirare su via Fani. Perché la vittima, per i politici, è solo quella dei rarissimi reati che subiscono loro. Invece quelle dei delitti che commettono loro non sono vittime: sono pecore da tosare per cinque anni e poi da insultare (“giustizialisti!”, “populisti!”, “forcaioli!”) quando non li votano più. Arrivano le toghe gialle di Lirio Abbate L’Espresso, 18 marzo 2018 È un’incognita il futuro della politica giudiziaria, che rischia anch’essa di essere attraversata dal vento del populismo. Forti del consenso ottenuto, i vincitori potranno esercitare la loro influenza sul Csm - che a luglio rinnova i consiglieri togati e poi quelli laici - e riscrivere il rapporto tra politica e magistratura. Con il ritorno del controllo politico sull’attività giurisdizionale di pm e giudici. Per tentare di capire occorre procedere per gradi. Partiamo dai programmi. Il M5S sul Csm ha proposto che i componenti laici non debbano essere parlamentari. I grillini ritengono che sia giusto avere una componente laica nel Consiglio superiore, ma la vorrebbero slegata dalle dinamiche dei partiti. Lega e M5S hanno visioni diverse della magistratura e dell’organo di autogoverno. Nell’attuale Csm i componenti laici provengono tutti dal Parlamento, tranne il professor Alessio Zaccaria, espresso dal Movimento. Il gruppo dei laici ha votato compatto in molte occasioni, come le nomine dei vertici delle procure di Palermo, Napoli e Milano a differenza di esperienze precedenti del Consiglio in cui i laici venivano “pilotati” dalle appartenenze partitiche e dalle diverse correnti della magistratura. La proposta dei grillini è creare un’intercapedine istituzionale, tra le dinamiche politico-parlamentari e le scelte che riguardano la giurisdizione, con la creazione di un filtro. Per ora, è una idea isolata. La Lega prevede due Csm distinti per pm e giudici. E punta a rivedere i criteri per stabilire le priorità dell’azione penale. L’interferenza più concreta e dannosa che la politica può esercitare è il trasferimento dei magistrati sgraditi. L’allarme, anche tra diversi consiglieri del Csm, è stato acceso da recenti occasioni in cui il Consiglio ha di fatto sdoganato procedimenti “pericolosi” per l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati. Di che si tratta? Dell’uso, a volte disinvolto, delle denunce per presunta incompatibilità ambientale del magistrato ai fini del suo trasferimento. Perché è pericoloso? Perché in futuro questo strumento ordinamentale potrebbe essere usato per liberarsi di giudici che emettono provvedimenti impopolari. Un esempio arriva da una storia della scorsa estate quando un gip del tribunale di Reggio Emilia, a cui il pm aveva chiesto l’arresto di un cittadino extracomunitario accusato di aver stuprato un ragazzino, ha mandato l’indagato ai domiciliari, perché ne ha ottenuto la confessione e in base a una ricostruzione della vicenda leggermente diversa da come l’aveva descritta l’accusa. Scoppia il caso e tutti i sindaci, anche del Pd, firmano una petizione. E un esposto arriva al Csm in cui si chiede il trasferimento per incompatibilità ambientale del giudice. Il comitato di presidenza del Csm (Vice Presidente del Csm, Primo presidente della Corte di Cassazione e il Procuratore generale presso la Corte), si riunisce a fine agosto e stabilisce di acquisire il provvedimento del magistrato e manda il fascicolo alla prima commissione per la pratica di trasferimento. Tutto ciò cosa ci fa pensare? Lo strumento dell’allontanamento del magistrato con la procedura dell’incompatibilità ambientale da un posto ad un altro può essere esercitato in maniera impropria. Per contestare un provvedimento in modo giurisdizionalmente corretto esiste lo strumento dell’impugnazione. Non può essere un organo, anche se si tratta del Csm, a sbattere da un posto all’altro un giudice solo perché quella decisione non è politicamente “gradita’: Nel caso di Reggio nel Plenum del Csm è scoppiata una battaglia che ha rimesso le cose a posto. Ma il rischio esiste. Si pensi se al Nord qualche magistrato dovesse emettere sul tema della legittima difesa provvedimenti che non sono in sintonia con lo spirito dei tempi agitato dalla Lega. Potrebbe rischiare la petizione popolare e quindi il procedimento per trasferimento. Lo spirito dei tempi dettato dal populismo, può rapidamente attaccare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura . I magistrati temono dalla politica interventi che si possono prestare a operazioni demagogiche. “Il mio auspicio è che il nuovo Parlamento, la cui composizione come è noto è così complessa e inedita, si incarichi di preservare tutte le funzioni di garanzia e tra esse quelle che la Costituzione affida al Csm. E sono convinto che ciò accadrà”, dice il vice presidente del Csm Giovanni Legnini. I temi della giustizia sono molto delicati, e il populismo rischia di far saltare i meccanismi di controllo penale, con l’introduzione di manovre intimidatorie verso quei magistrati che toccano questioni ad alto contenuto politico. C’è poi l’aspetto retributivo dei magistrati con i Cinque stelle che guardano al passato. La progressione in carriera che hanno in mente i grillini è un passo indietro rispetto all’assetto attuale. Ritengono che per fare i passaggi di carriera il magistrato debba svolgere effettivamente la funzione che gli è riconosciuta con la retribuzione. Oggi la toga che ha la qualifica di magistrato di Cassazione, per anzianità e valutazioni professionali, che continua a fare il giudice di primo grado, riceve lo stesso stipendio di chi esercita in Cassazione. Con la proposta di M5S si ritornerebbe al meccanismo di qualche decennio fa in cui si guadagna in virtù del ruolo che si svolge. Si è parlato poco di giustizia in campagna elettorale ma se ne parlerà molto durante la legislatura. Il prossimo Csm avrà il compito di fare importanti nomine, come il procuratore di Roma, presidenti di Corte d’appello e procuratori generali e rinominare i vertici della Cassazione. Per il nuovo Consiglio sono già pronti i candidati: il giudice Piercamillo Davigo (Autonomia e Indipendenza); il pm romano dell’inchiesta “mafia Capitale” Giuseppe Cascini (Area) e il procuratore aggiunto di Catania Sebastiano Ardita (ancora Autonomia e Indipendenza). Sono i nomi più noti in pista per le votazioni di luglio. In tutto i consiglieri togati da eleggere sono 16: 2 della Cassazione, 4 pm e 10 giudici di merito. Rispetto a quattro anni fa il numero complessivo dei candidati si è ristretto (si è passati da 25 a 20), ma come nel 2014 restano poche le donne in campo: sono solo 6, meno della metà degli uomini in lista. L’attesa è per il risultato di Autonomia e Indipendenza, la corrente fondata da Davigo e da altri fuoriusciti da Magistratura Indipendente, sui quali puntano molti esponenti a 5 stelle. Perché è pericoloso? Perché in futuro questo strumento ordinamentale potrebbe essere usato per liberarsi di Balzerani, le frasi che indignano: offese choc alle vittime delle Br di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 18 marzo 2018 Giovanni, figlio di Domenico Ricci, carabiniere della scorta morto durante l’attentato: non si capacita: “Ricordare i morti un mestiere? Lei è un’assassina privilegiata”. Ora ci sono queste frasi, queste nuove frasi di Barbara Balzerani, che lo tormentano. Pronunciate giusto venerdì scorso, 16 marzo 2018, 40 anni dopo la strage di via Fani. “Davvero ha detto certe cose?”, non si capacita Giovanni Ricci, il figlio dell’autista di Aldo Moro, l’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci, uno dei cinque martiri della scorta. “C’è una figura, la vittima, che è diventato un mestiere - ha detto Balzerani. Questa figura stramba per cui la vittima ha il monopolio della parola... Io non dico che non abbiano diritto a dire la loro, figuriamoci. Ma non ce l’hai solo te il diritto, non è che la storia la puoi fare solo te”. Il paragone con l’incidente stradale - E poi, agghiacciante: “Non è che se vai a finire sotto un’auto, sei una vittima della strada per tutta la vita, lo sei nel tempo che ti aggiustano il femore...”. Un femore? Così adesso Giovanni Ricci riesce a stento a trattenere la rabbia: “A mio padre i brigatisti gli hanno sparato sette colpi alla testa”. Il suo è uno sfogo amarissimo: “Ma come fa la Balzerani a dire che quello della vittima sarebbe un mestiere! E lei, che è un’irriducibile, che non s’è mai pentita, che l’arrestarono nell’85 e dopo vent’anni di carcere, nel 2006, era già fuori con la libertà condizionale? Lei cos’è allora? Una privilegiata? Già, un’assassina privilegiata. Ecco cos’è. E tale rimarrà per sempre”. La presentazione del libro - Venerdì sera, l’ex Primula Rossa delle Brigate Rosse, 69 anni, mai pentita né dissociata - che in via Fani c’era e progettò tutto insieme agli altri, anche se non sparò - è andata a presentare il suo ultimo libro, “L’ho sempre saputo”, al centro sociale Cpa di Firenze, elogiando la resistenza di “valsusini” e “mapuche”. In sala, un bandierone rosso a fare da sfondo, con la falce e martello e la scritta Viva Lenin. Quando è finita la presentazione, durata un’ora e mezza e senza mai un riferimento a via Fani, la Balzerani è stata avvicinata dai cronisti e qualcuno ha accennato alle parole durissime del capo della polizia, Franco Gabrielli: “Riproporre oggi i brigatisti in televisione è un oltraggio ai morti...”. La reazione di Maria Fida Moro - Lei allora ha risposto in quel modo, scatenando così un nuovo putiferio dopo quello prodotto già due mesi fa con un post su Facebook: “Chi mi ospita oltre confine per i fasti del 40ennale?”. Maria Fida Moro, la figlia primogenita di Aldo Moro, le replicò subito con ira: “Che palle il quarantennale lo dico io! Che non l’ho provocato e che anzi l’ho subìto”. Ieri, poi, ha aggiunto: “Io sono quella del perdono nei vostri confronti, che mi è costato un baule di minacce. Ma se c’è qualcuno che ha trasformato in mestiere una morte totalmente ingiusta siete voi! Negli ultimi 40 anni mentre io mi arrampicavo sugli specchi per mantenere mio figlio, voi ve la siete “goduta” senza fatica, senza dolore e senza merito. È paradossale che viviate da allora a braccetto con il sistema che dicevate di voler combattere”. L’indignazione dei parenti - Anche Luca Moro, nipote dello statista, risponde alla Balzerani: “Noi non abbiamo scelto di essere vittime. Voi piuttosto avete scelto di fare i brigatisti e di piombare nelle nostre vite distruggendole. Negli ultimi 40 anni avete avuto lo spazio, la voce e la visibilità. Cose che a noi sono state negate”. Potito Perruggini Ciotta, nipote del brigadiere Giuseppe Ciotta, ucciso il 12 marzo 1977 a 29 anni a Torino da un commando di Prima Linea, è indignatissimo: “La Balzerani, se proprio vuol parlare, dovrebbe offrire a noi parenti un briciolo di verità in più”. E reagisce con rabbia pure Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime della strage mafiosa di via dei Georgofili a Firenze (26-27 maggio 1993): “Taccia la Balzerani. E a quelli come lei circoli e tv smettano di dare microfoni in mano. È l’ora di avere più rispetto”. “La vittima, un mestiere”. È bufera sull’ex brigatista Barbara Balzerani di Cristiana Mangani Il Messaggero, 18 marzo 2018 Non un giorno qualunque, ma quello dell’anniversario della strage di via Fani. Barbara Balzerani, che è stata dirigente della colonna romana delle Brigate rosse e componente del commando che ha organizzato il rapimento di Aldo Moro, è stata inviata a presentare il suo libro “L’ho sempre saputo”, proprio la sera in cui quei morti venivano celebrati a quarant’anni dall’attentato. E lei, dal palchetto del Centro sociale Cpa di Firenze Sud, con dietro le spalle il manifesto con su scritto viva Lenin, ha scelto la provocazione. “C’è una figura, la vittima - ha dichiarato - che è diventata un mestiere, questa figura stramba per cui la vittima ha il monopolio della parola. Io non dico che non abbiano diritto a dire la loro, figuriamoci. Ma non ce l’hai solo te il diritto, non è che la storia la puoi fare solo te”. Sono valse a poco le scuse del Centro sociale, il quale si è detto all’oscuro del fatto che la presentazione coincidesse con l’anniversario. Perché la polemica ormai era esplosa. Qualche settimana prima, infatti, la terrorista, che non si è mai ufficialmente pentita né dissociata dalle Br, aveva scritto un post su Facebook, che ha poi cancellato, nel quale si leggeva: “Chi mi ospita oltre confine per i fasti del 40ennale?”. Il riferimento all’anniversario della strage è apparso evidente, e qualche giorno fa è arrivata la replica di Maria Fida Moro, la figlia dello statista ucciso. Ha pubblicato un video su Youtube con il quale ha risposto: “Che palle il quarantennale lo dico io che non l’ho provocato e che l’ho subito e che ho il titolo per dirlo. Perché il quarantennale mi dà dolore. Ma la signora Balzerani non può dirlo perché lei è tra coloro che l’hanno provocato”. Lo scambio a distanza si è ripetuto dopo che, dalla “cattedra” dell’incontro organizzato dalla libreria Majakovskij, Balzerani ha insistito: “Non è che se vai a finire sotto un’auto sei una vittima della strada per tutta la vita, lo sei nel tempo che ti aggiustano il femore”. Il parallelo che è sembrato agghiacciante, è arrivato in risposta a chi le ricordava l’intervento del capo della polizia Franco Gabrielli, per il quale “vedere i brigatisti in tv era un oltraggio ai morti”. E lo è anche per Maria Fida Moro, che tanti sforzi ha fatto insieme con la madre, per cercare di trovare un po’ di pace. “Prendo atto della sua inconsulta dichiarazione - si è sfogata - Avrei immaginato che avrebbe risposto con il silenzio che è d’oro. Negli ultimi quaranta anni mentre io mi arrampicavo sugli specchi per mantenere mio figlio, voi ve la siete “goduta” senza fatica, senza dolore e senza merito. Io sono quella del perdono nei vostri confronti, che mi è costato un baule di parolacce e minacce di morte (compresa la carta igienica sporca inviata per posta). Altri hanno trasformato in mestiere e in una lucrosa fonte di reddito il nostro dolore. Detesto anche solo l’idea del mestiere di vittima, che ho sempre rifiutato. Sono andata in giro gratis attraverso l’Italia per portare un messaggio di pace amorevole”. E ha concluso: “Se c’è qualcuno che ha trasformato in mestiere una morte totalmente ingiusta siete voi, portati in palma di mano, da gente vile e meschina. È paradossale che viviate da allora a braccetto con il sistema che dicevate di voler combattere”. Sulla stessa linea Luca Moro, figlio di Maria Fida. “Noi - è intervenuto - non abbiamo scelto di essere vittime e non ne abbiamo fatto un mestiere. Negli ultimi quaranta anni avete avuto lo spazio, la voce e la visibilità. Cose che a noi sono state negate”. E l’Associazione vittime del terrorismo, il cui presidente Roberto Della Rocca, è stato gambizzato dalle Br nel 1980 a Genova, ha sottolineato: “La vittima non è mestiere ma una calamità che capita a persone e familiari. E dura tutta la vita, perché le ferite morali non si rimarginano. Questi signori se hanno da dire qualcosa si presentino davanti ai giudici e diano brandelli di verità, anche se la giustizia non la possiamo ormai più pretendere. Ci farebbe piacere che invece di esporsi, cercassero di farsi dimenticare”. Agromafie. Le mani del crimine sulle serre di Vittoria di Marco Omizzolo La Repubblica, 18 marzo 2018 La filiera agro-mafiosa italiana parte dai campi coltivati da lavoratori e lavoratrici sfruttati come schiavi e passa per i grandi mercati ortofrutticoli nazionali, dove ortaggi e frutta diventano un’ulteriore occasione per le mafie per fatturare milioni di euro, controllare settori nevralgici dell’economia nazionale e dare l’assalto ai mercati internazionali. Sono anni che il rapporto Agromafie di Eurispes analizza questo fenomeno con l’ausilio delle forze dell’ordine ma la situazione continua ad aggravarsi. Il magistrato di Cassazione Bruno Giordano, consulente della commissione del Senato contro gli infortuni sul lavoro presieduta dalla senatrice Camilla Fabbri e tra i maggiori esperti di mafie del ragusano, sostiene la necessità di occuparsi “di tutto il sistema commerciale della fascia serricola che rende sempre più deboli i produttori onesti e più forte la grande distribuzione. L’indotto dei trasporti, degli imballaggi, dell’intermediazione è il centro delle estorsioni che ormai quasi non hanno più bisogno di atti violenti. In questi settori tutti gli affari sono in poche mani, un oligopolio, altro che accordi di cartello, che esclude chiunque non faccia parte del giro. Una mafia silente che tutto si spartisce, e fa sparire senza sparare”. Si potrebbero scrivere trattati di sociologia su come le mafie siano riuscite a conquistare i grandi mercati ortofrutticoli, in alcuni casi governati da società partecipate da istituzioni pubbliche, come nel caso del mercato ortofrutticolo di Milano, gestito da una società partecipata dal Comune, o di Fondi, nel Lazio, nella cui gestione è rilevante il ruolo della Regione Lazio. Il mercato ortofrutticolo di Vittoria rappresenta un caso emblematico della capacità delle mafie di penetrazione e condizionamento che peraltro trova nell’omicidio di Giuseppe Cirasa del 1983 un momento di svolta fondamentale. Ancora il giudice Giordano afferma che “Peppe Cirasa, legato alla mafia catanese, dominava anche il mare di Scoglitti e le barche che da Malta facevano contrabbando di sigarette, da una casa all’ingresso della quale c’era scritto “Villa Paradiso”. Ero studente universitario, pensai che il nome della villa non gli avesse portato bene quando lo eliminarono con un’esecuzione spavalda per far capire che finiva un’epoca e ne iniziava un’altra. Dopo anni le indagini confermeranno il passaggio dalla vecchia mafia di campagna alle organizzazioni spietate disposte a uccidere chiunque: concorrenti, spacciatori disubbidienti, commercianti ribelli, giovani ladruncoli emergenti e piccoli rapinatori che attiravano l’attività degli investigatori. Tutto per assicurarsi estorsioni, droga, riciclaggio”. Il crimine a Vittoria ha sempre ruotato intorno all’agricoltura e alla ricchezza che ne derivava. Il giornalista Giuseppe Fava parlava di Vittoria come la città in cui un contadino guadagna più di un primario o di un alto magistrato. Negli anni 80 più la citta si arricchiva con le serre, più si ingrassavano tutti gli affari. La ricchezza agricola produceva benessere, il benessere riscuoteva appetiti estorsivi, le estorsioni producevano denaro che diventava droga e armi. Così si è alimenta una spirale che ha dissanguato le imprese e insanguinato le strade di Vittoria. Dopo la strage di San Basilio - cinque morti voluti dai mafiosi della cosca Emmanuello il 2 gennaio 1999 - la città reagisce ma ormai il virus degli appetiti criminosi sembra aver permeato varie articolazioni, compreso il mercato ortofrutticolo. La vicenda dei clan Gallo, Carbonaro-Dominante, e soprattutto D’Agosta è emblematica. L’ombra di Peppe Cirasa si insinua tra i vuoti di potere creati della guerra di mafia degli anni 90. E il mercato di Vittoria diventa operatore economico a Milano, ai mercati generali, in galleria Vittorio Emanuele. Nessuno voleva capire che Vittoria stava esportando pomodori e criminali. Sui clan dei vittoriesi si sono svolte più indagini a Milano (per vari omicidi commessi nell’hinterland milanese) che a Ragusa. La reazione della Stato si è presentata negli anni 90 con la procura antimafia di Catania: una serie indagini colpiscono circa mille persone, ricostruiscono storie, decimano i clan. Fanno letteralmente piazza pulita, che non a caso fu anche il nome di un’importante indagine giudiziaria, avviata anche grazie ad alcuni collaboratori. Ma i pentiti vanno e vengono. E qualcuno, scontata la pena, è già tornato nel territorio. Oggi tutto il comprensorio, da Gela a Scicli, comune già sciolto per infiltrazioni mafiose, è economicamente in ginocchio, strozzato dai prezzi dei prodotti agricoli. I produttori truffano l’Inps con la falsa disoccupazione agricola e sfruttano la manodopera rumena, ghanese e tunisina che sopravvive lavorando in serra per due euro l’ora. Ci racconta ancora il giudice Giordano: “Mi colpisce che questi piccoli imprenditori agricoli sono i figli dei braccianti che fino a trent’ anni fa votavano in massa PCI e con intelligenza e sudore si riscattavano dal bisogno grazie alla più grande cooperativa agricola meridionale, ora fallita, si chiamava Rinascita. Una parola che oggi nessuno più usa. I danni del passato e del presente li pagano tutte le famiglie, svendono le doppie case al mare prima ostentate ma ora a rischio pignoramento. E soprattutto i giovani che emigrano. Vittoria ha fatto andare via circa 7.000 giovani, la media di uno per famiglia, e ha accolto circa 7.000 persone tra rumeni, tunisini, esportiamo laureati e diplomati e importiamo braccianti e badanti, i nuovi deboli. E questo la mafia l’ha capito. Al posto di Villa Paradiso c’è una discoteca per rumeni”. Il sito “La Spia” del giornalista Paolo Borrometi, da anni sotto scorta per le sue inchieste sulle mafie del ragusano e, in particolare, nel mercato ortofrutticolo di Vittoria, riporta le parole del collaboratore di giustizia Rosario Avila, per anni compagno di Maria Concetta Ventura, figlia del boss del clan: “Tutti i commercianti si rivolgevano a Ventura Giambattista. Per qualsiasi cosa che succedeva i commercianti andavano da mio suocero e da Angelo Ventura”. E poi: “Andavano da Giambattista Ventura perché lui era il capo, il boss di Vittoria. Si rivolgevano a lui per qualsiasi cosa, non solo per un recupero, oppure per un mancato pagamento, oppure perché gli avevano rubato un trattore, o perché gli avevano fatto dei danni alle serre ma anche per cose personali e private”. Ora a Vittoria, Stidda e Cosa Nostra si spartiscono gli affari, la ‘Ndrangheta gestisce la cocaina e la camorra, invece, la logistica. Per Borrometi, “proprio parlando di clan e di trasporti è giusto citare Matteo Di Martino (detto Salvatore) e Pietro Di Pietro. I due gestivano i trasporti mettendo insieme Stidda, Cosa Nostra e anche i Casalesi. La violenza e la minaccia con cui gli autotrasportatori venivano costretti a pagare ingenti somme di denaro per potere caricare/scaricare la merce non aveva luogo in modo esplicito, ma con riferimento alla criminalità organizzata che stava dietro la Sud Express di Di Martino Matteo. Questi criminali agivano nell’importante mercato ortofrutticolo attraverso la minaccia della forza propria dell’associazioni mafiosa”. Ovviamente non c’è solo il mercato ortofrutticolo di Vittoria. A Palermo le cose non vanno meglio. A settembre del 2017 sono stati sequestrati dalla Direzione Investigativa Antimafia oltre 9,5 milioni di euro, ossia l’intero capitale sociale della Motoroil S.r.l., intestata a Elisa Di Girolamo, coniuge dell’imprenditore palermitano Antonio Crocco. Già tra il 2014 e il 2015, al termine di due indagini disposte dal direttore della Dia Nunzio Ferla, era stata sequestrata una prima parte di questo capitale sociale agli altri soci Giuseppe Ingrassia e Giuseppe Acanto. Le investigazioni nei confronti di Ingrassia, del nipote Angelo, di Carmelo e Giuseppe Vallecchia e di Pietro La Fata, titolari di punti vendita nel mercato palermitano, avevano consentito al Tribunale di Palermo di sequestrare un patrimonio di oltre 250 milioni di euro e, nei confronti del solo Acanto, di intervenire su oltre 800 milioni di euro. A seguito di ulteriori accertamenti, il Tribunale di Palermo ha disposto il sequestro della rimanente parte del capitale sociale della Motoroil S.r.L. e degli 8 impianti di distribuzione di carburante per autotrazione, tra le provincie di Palermo, Catania, Caltanissetta, Messina e Trapani. Le mafie dunque entrano nei mercati ortofrutticoli di Vittoria e Palermo ma allargano sempre più il loro perimetro. Fanno affari, stringono accordi, conquistano nuovi mercati, uccidono e corrompono a discapito della giustizia e della legalità. Calabria: la Regione istituisce il Garante per i diritti dei detenuti di Biagio La Rizza ilmeridio.it, 18 marzo 2018 “La legge che ha istituito il Garante regionale per i diritti dei detenuti è un atto di civiltà. E oggi, in occasione della visita del garante nazionale Mauro Palma - ha affermato il presidente del Consiglio regionale Nicola Irto nel corso della conferenza stampa sui diritti dei detenuti e la nuova legge regionale sul Garante - salutiamo due favorevoli coincidenze: il passo avanti a livello nazionale sulla riforma dell’ordinamento penitenziario e il via libera del Consiglio dei ministri alla nostra legge regionale. La normativa calabrese, che colma un vulnus ordinamentale e nasce dalla mia proposta di legge del 2015 e da quella successiva del collega Franco Sergio, crea - ha aggiunto il presidente Irto - una figura di garanzia, indipendente e di alto profilo istituzionale, che avrà il compito di tutelare i principi costituzionali della finalità rieducativa della sanzione penale, nonché del rispetto della dignità umana. La gestazione del provvedimento è stata lunga - ha concluso Irto - ma era di fondamentale importanza istituire la figura del Garante anche in Calabria, una regione nella quale l’impegno assoluto e incondizionato per la legalità va coniugato con l’attenzione alle condizioni delle carceri, specie in un momento storico in cui sta tornando di attualità la questione del sovraffollamento”. Irto ha pertanto annunciato che “la Regione Calabria avrà presto la figura del Garante regionale per i diritti dei detenuti” e che “verrà pubblicato un bando di interesse per l’individuazione di una figura da nominare per tale carica. Non una poltrona per la politica - ha sottolineato - ma una figura di altissimo profilo e particolarmente strategica per il nostro territorio”. La notizia è stata salutata positivamente dal garante nazionale Mauro Palma che, nella sala Levato di Palazzo Campanella, ha partecipato all’incontro insieme con il consigliere Franco Sergio (presidente della I Commissione consiliare) ed il garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Reggio Agostino Siviglia. Mauro Palma, richiamando la sua precedente visita in Calabria, ha ricordato il rispetto dell’impegno preso dal Consiglio regionale di dotarsi di questa fondamentale figura sul territorio e nel dialogo con il garante nazionale. “Non dobbiamo mai dimenticare - ha specificato - che uno dei nostri obiettivi fondamentali è organizzare percorsi per il ritorno alla società dei detenuti e che le misure alternative sono spesso una risposta salutare”. Il presidente Sergio ha ricordato il lavoro fatto in Commissione con l’unificazione di due testi di legge in una unica proposta finale che ha ottenuto il voto dell’Aula ed è stata il frutto di un percorso partecipato e condiviso con i soggetti interessati. “Il Garante regionale - ha rilanciato Sergio- dovrà essere una figura ‘terza’, capace di guardare non solo al contesto ambientale, ma anche e soprattutto alla sfera più ampia dei diritti e della tutela dei detenuti”. Infine, Siviglia definendo “buona” la legge regionale in materia, ha sottolineato come il “carcere non sia una società a parte, ma ne faccia parte a tutti gli effetti”. Campania: il Garante dei detenuti Ciambriello “il decreto Orlando è passo in avanti” Nova, 18 marzo 2018 “È un passo in avanti su temi importanti come l’accesso alle misure alternative al carcere, la salute psichica, il sistema disciplinare e rieducativo in carcere, i permessi premi, i benefici bloccati dalla legge Cirielli, la detenzione domiciliare per chi deve scontare una pena sotto i quattro anni, l’accesso facilitato per i volontari ad entrare in carcere”. È quanto ha affermato il Garante dei Detenuti della Regione Campania, Samuele Ciambriello, commentando la riforma dell’ordinamento penitenziario. “Peccato che il provvedimento giunga a fine Legislatura, quasi di nascosto, come una Riforma morta in culla - ha aggiunto Ciambriello per il quale “è in cattiva fede chi dice che è una norma svuota carcere e una salva ladri. È un grande passo in avanti di civiltà perché la giustizia non è uno strumento di vendetta. Uno Stato che si vendica su un detenuto è uno Stato che educa alla cattiveria e alla recidiva. Il carcere duro e puro è fallito oltre che essere anticostituzionale. Entro dieci giorni le commissioni di Camera e Senato devono dare un parere”. “Mancando quelle sulla Giustizia se ne occuperà una speciale - ha concluso Ciambriello - occorre non allentare la tensione perché in questa fase post elettorale i tempi potrebbero dilatarsi e la delega decadere. C’è infatti tempo fino ad inizio di luglio per approvarla”. Ancona: il Garante dei detenuti “preoccupazione per sovraffollamento a Montacuto” anconatoday.it, 18 marzo 2018 Situazione di oggettiva difficoltà segnalata dal Garante dei diritti, Andrea Nobili, al Capodipartimento del Dap, Santi Consolo, ed al Provveditore del Prap di Veneto, Emilia Romagna e Marche, Enrico Sbriglia. Desta in preoccupazione il sovraffollamento a Montacuto. In graduale aumento, sta creando situazioni di oggettivo disagio all’interno dell’istituto penitenziario anconetano, tanto da indurre il Garante dei diritti, Andrea Nobili, a inviare una segnalazione sia al Capodipartimento del Dap, Santi Consolo, sia al Provveditore del Prap di Emilia Romagna e Marche, Enrico Sbriglia. Attualmente sono 311 i detenuti presenti su una capienza regolamentare di 257 e con 14 posti dichiarati inagibili. “La situazione - sottolinea Andrea Nobili - presenta diverse criticità. La quinta branda è ormai stata posizionata in tutte le camere di pernottamento e si sta già predisponendo l’introduzione della sesta. Abbiamo avuto modo di verificare la difficoltà di inserire il mobilio considerato il restringimento degli spazi dopo l’introduzione delle stesse brande. Questo stato di cose determina inevitabilmente un aumento della mole di lavoro per la polizia penitenziaria e per gli operatori, già in sofferenza per quanto riguarda l’organico”. Problemi che vanno ad assommarsi a quelli più volte segnalati dal Garante, che la scorsa estate aveva evidenziato, oltre al progressivo sovraffollamento, la presenza di diversi detenuti con patologie di carattere psichiatrico, nonché legate alle tossicodipendenze, e la inadeguatezza degli organici nei diversi settori di competenza, comunque al di sotto di quanto previsto dalle indicazioni ministeriali. Secondo Nobili “il rischio concreto è che nel prossimo futuro non si riesca a rispettare i parametri di vivibilità sanciti dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo”. È per questo motivo che nelle prossime settimane il Garante ha intenzione di organizzare alcuni sopralluoghi con i nuovi parlamentari delle Marche perché si facciano carico del problema e sia possibile fornire risposte coerenti con la situazione. Livorno: la “Casa Incontro” della Caritas per accogliere i familiari dei detenuti costaovest.info, 18 marzo 2018 Martedì prossimo la “Casa Incontro”, dedicata a Don Giovanni Maria Quilici, sarà disponibile all’accoglienza, dopo i lavori di ristrutturazione e rinnovo dei locali terminati a inizio anno. Alle 17,30 il vescovo Simone Giusti celebrerà la messa nella Chiesa dei Santissimi Apostoli Pietro e Paolo e successivamente benedirà la struttura di via della Maddalena, 8. La vocazione di Casa Incontro è offrire - sottolinea suor Raffaella Spiezio, presidente della Fondazione Caritas Livorno - alle persone detenute un luogo accogliente e dignitoso dove riunire i familiari in occasione di permessi e, nei giorni di colloquio, dare ospitalità ai parenti dei detenuti, che stanno scontando una pena lontani da casa. In particolare il progetto guarda alle persone e alle famiglie con minori risorse economiche, affinché la loro condizione non determini uno svantaggio nell’accesso ai diritti sanciti dal nostro ordinamento e affinché la convalescenza sociale lontano dai propri cari non significhi per i detenuti un isolamento afflittivo e alienante. Offrire ai carcerati la possibilità di coltivare gli affetti non è solo una questione di umanità, ma anche un modo di contribuire al successo del loro futuro ritorno nella comunità dei liberi. La data è stata scelta essendo giorno di avvicinamento alla Pasqua perché sia una giornata di festa, d’incontro e di scambio d’auguri”. All’inaugurazione sarà presente anche suor Agnese Didu, madre generale delle Congregazione delle Fuglie del Crocifisso che hanno rinnovato alla Caritas di Livorno la disponibilità dell’appartamento della Casa Incontro per il proseguimento dell’attività. Milano: il Comune con Consorzio Vialedeimille, per regali di Pasqua fatti in carcere La Repubblica, 18 marzo 2018 Quest’anno i regali per la festa del papà e i sapori di Pasqua arrivano direttamente dalle case circondariali milanesi. Colombe, uova di cioccolato, biscotti, pane fresco, vino, marmellate, grappa, birra, grembiuli gourmet, borse, winebag, runner, cartoline d’auguri, porta ipad, abbigliamento e accessori che coniugano qualità e maestria artigianale tutti acquistabili presso il Consorzio Vialedeimille di Milano. Lo fa sapere Palazzo Marino. Produzioni e idee regalo che raccontano storie di vita vera, a volte inimmaginabili, pronte al cambiamento e al riscatto sociale. La prima a fare acquisti per le prossime festività sarà l’assessore alle Politiche per il Lavoro, Attività produttive e Commercio Cristina Tajani: “La collaborazione tra imprese ristrette e imprenditori che scelgono di produrre all’interno delle carceri consente di ampliare i percorsi di riqualificazione professionale per i detenuti aumentandone le competenze tecniche e favorendo il loro rientro nel mercato del lavoro. Invito quindi i cittadini a considerare questa opportunità per regali e prodotti alimentari che oltre ad essere buoni fanno anche del bene. Oggetti originali e di qualità che coniugano maestria artigianale con il riscatto sociale per chi li realizza”, afferma. ù L’obiettivo del Consorzio Vialedeimille di Milano è quello di promuovere percorsi concreti di reinserimento sociale delle persone private della libertà e prevenire la recidiva attraverso il lavoro. Il Consorzio Vialedeimille è stato fondato da cooperative sociali che lavorano nelle carceri lombarde di San Vittore, Milano-Opera, Bollate, Monza e nasce da un’intuizione del Comune di Milano-Assessorato alle politiche del Lavoro. Le cooperative sociali che costituiscono il Consorzio impiegano ad oggi oltre 100 persone detenute in carcere e altrettante fuori. Mercoledì 21 marzo sono in programma degustazioni di cioccolata e colomba per scoprire come coniugare qualità e riscatto sociale. Treviso: “spegnete la tivù” e al carcere minorile scoppia la protesta in cella di Alberto Beltrame Il Gazzettino, 18 marzo 2018 Agente del carcere minorile abbassa l’interruttore due detenuti danno fuoco a carta, lenzuola e coperte. Sezione invasa dal fumo: tutti i ragazzi trasferiti in palestra. Il sindacato: “Tragedia sfiorata per una rivolta senza senso”. Si sono infuriati perché volevano guardare la televisione. Quando l’agente di polizia penitenziaria ha staccato l’interruttore generale, prima l’hanno insultato, poi hanno appiccato un incendio all’interno della cella, dando fuoco a carta, lenzuola e coperte. L’aria si è fatta subito irrespirabile all’interno del carcere minorile di Treviso, tanto da rendere il reparto inagibile e costringere gli agenti a far uscire dalle celle tutti i giovani detenuti, fatti dormire nella palestra. “Si è sfiorata la tragedia per colpa di una protesta sconsiderata e incomprensibile da parte di due stranieri” denuncia Giovanni Vona, segretario nazionale per il Triveneto del Sappe, il sindacato autonomo polizia penitenziaria. È stato il sindacalista a rendere pubblico l’episodio, accaduto giovedì sera nella casa circondariale di Treviso, nella sezione in cui sono detenuti una ventina di ragazzi minorenni. “Solo il tempestivo intervento dei poliziotti, con grande senso di responsabilità coraggio e professionalità, ha permesso di evitare più gravi e tragiche conseguenze”. Gli animi hanno cominciato a scaldarsi verso mezzanotte, quando l’agente di servizio stava per spegnere luci e televisori, come da regolamento. “Uno dei detenuti di una cella occupata da quattro persone - ha raccontato il segretario del Sappe - ha iniziato a inveire e a insultare il collega tra le risate degli altri. Il poliziotto ha mantenuto la calma e con professionalità ha cercato di trovare una soluzione al problema, ma il detenuto, seguito poi dagli altri, ha iniziato a dare fuoco a carta, lenzuola e coperte. Il fumo denso ha invaso la sezione, tanto che si è reso necessario far uscire tutti i detenuti dalle celle e farli dormire in palestra, visto che era il reparto detentivo era inagibile. Un grazie di cuore a tutto il personale di polizia penitenziaria del carcere minorile di Treviso che con professionalità e abnegazione hanno evitato che tutte queste situazioni diventassero ancora più drammatiche”. Sull’episodio è intervenuto anche Donato Capece, segretario generale del Sappe, che ha voluto esprimere solidarietà e gratitudine ai poliziotti della penitenziaria trevigiana. “Se le carceri reggono alle costanti criticità penitenziarie è solamente grazie a loro, agli eroi silenziosi del quotidiano con il basco azzurro. Ora bisogna che il Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità invii immediatamente almeno 20 unità di Polizia Penitenziaria per fronteggiare la grave carenza di organico del reparto, ma una riflessione deve essere fatta sulla precaria sicurezza del carcere minorile di Treviso”. “La situazione delle carceri si è notevolmente aggravata - aggiunge Capece. Basterebbe avere l’onesta di esaminare i dati sugli eventi critici accaduti in carcere nell’anno 2017: nel 2017 vi sono stati 9.510 atti di autolesionismo, 1.135 tentati suicidi, 7.446 colluttazioni e 1.175 ferimenti (949 nel 2016). E la cosa grave è che questi numeri si sono concretizzati proprio quando sempre più carceri hanno introdotto la vigilanza dinamica ed il regime penitenziario aperto’, ossia con i detenuti più ore al giorno liberi di girare per le sezioni detentive con controlli sporadici ed occasionali della polizia penitenziaria”. Torino: “Liberi di imparare”, progetto di collaborazione tra carcere e Museo Egizio di Monica Cristina Gallo* notizieinunclick.it, 18 marzo 2018 Un progetto di collaborazione tra la Casa Circondariale Lorusso Cotugno e il Museo Egizio. L’Ufficio Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Città di Torino, nell’ambito dei programmi di formazione per garantire ai detenuti il diritto alla fruizione del patrimonio culturale della città, inaugura la collaborazione con il Museo Egizio, da anni impegnato in progetti di inclusione sociale. Nell’ambito del programma “Il museo fuori dal museo” con cui l’Egizio si impegna a rendere accessibili i contenuti delle collezioni anche a coloro che non possono visitare il Museo di Via Accademia delle Scienze, è stato sviluppato un percorso didattico strutturato in due fasi a cura delle egittologhe Federica Facchetti e Alessia Fassone: dapprima, lezioni introduttive sulla storia e le tecniche costruttive e artistiche di alcuni manufatti in legno dell’antico Egitto, seguite poi da un’attività laboratoriale che coinvolgerà il corso di falegnameria dell’Istituto Plana e il Primo Liceo Artistico, già presenti all’interno della casa circondariale. Le lezioni introduttive saranno aperte a tutti i detenuti mentre i laboratori coinvolgeranno solo a coloro che frequentano i percorsi scolastici interni al carcere. Oggetto della produzione saranno alcuni cofanetti lignei, preziosi reperti parte del corredo funerario della tomba dell’architetto Kha, uno dei maggiori capolavori della collezione, ritrovato intatto durante le campagne di scavo guidate da Ernesto Schiapparelli nel 1906. I partecipanti al corso di falegnameria si occuperanno della costruzione dei contenitori, mentre le decorazioni saranno realizzate secondo le tecniche pittoriche e i cromatismi dell’antico Egitto, dagli studenti del Liceo Artistico. Gli oggetti prodotti diventeranno protagonisti di altri appuntamenti del programma “Il museo fuori dal museo” poiché saranno utilizzati per laboratori che l’Egizio svolge presso l’Ospedale Pediatrico Regina Margherita. Venerdì 16 marzo, il primo appuntamento del percorso presso la Casa Circondariale, dove i detenuti potranno assistere alla conferenza sulla scoperta della Tomba di Kha, tenuta da Enrico Ferraris, curatore del Museo Egizio. “Siamo molto orgogliosi di poter intraprendere questa preziosa collaborazione con la Casa Circondariale Lorusso Cotugno” dichiara il Direttore “il percorso didattico permette di favorire la conoscenza delle collezioni dell’Egizio e di aumentare il radicamento sul territorio e nella comunità delle persone che vivono a Torino e non possono visitare il Museo. Per questa ragione, ci è sembrato altrettanto urgente riservare una promozione speciale alla Polizia Penitenziaria impegnata nel carcere di Torino: da oggi potrà farci visita acquistando due biglietti al prezzo di uno”. L’Ufficio Garante della Città di Torino inserisce tale collaborazione nell’ambito dei programmi realizzati in ottemperanza all’articolo 9 della Costituzione per promuovere lo sviluppo e la diffusione della cultura. *Garante comunale dei diritti dei detenuti Venezia: in radio tutta la musica delle carcerate di Laura D’Orsi Il Gazzettino, 18 marzo 2018 Carcerate alla radio. Non si tratta di una denuncia sociale, ma di un vero e proprio riscatto. E soprattutto in musica con un brano speciale: con una canzone dal titolo “Nonostante tutto” scritta da 37 detenute del carcere della Giudecca insieme a Jack Jaselli, cantante, autore e chitarrista milanese. L’iniziativa è stata promossa dall’associazione Closer, che si occupa di attività culturali negli istituti di pena. “Tutto ha avuto inizio dopo un incontro che Jaselli ha avuto con le detenute, per parlare di musica e conoscere le loro storie. Da qui è nata l’idea di scrivere un brano che raccogliesse le paure, i sentimenti, i sogni di chi vive dentro quelle mura” racconta Giulia Ribaudo, veneziana, che ha fondato l’associazione Closer insieme agli amici del liceo (suoi coetanei, nati tutti tra il 1990 e il 1992: Leonardo Nadali, Nicolò Porcelluzzi, Luca Ruffato, Federico Tanozzi, Leonardo Azzolini). “Così le donne della Giudecca hanno scelto ognuna una parola legata al tema condiviso della libertà. E Jaselli ha sviluppato il testo “cucendo” insieme tutte e 37 le parole (filosofia, infinito, speranza, ali, porta aperta, lettera, segno...) e mettendole in musica. Il passo successivo è stato registrare il brano insieme alle ragazze, portando microfoni, computer e ricreando uno studio con Max Casacci in carcere”. Un’esperienza diventata anche documentario che sarà trasmesso mercoledì 21 marzo alle 23.10 su Real Time (canale 31). L’obiettivo di Closer, che è nata nel 2016, è anche quello di aprire le porte del carcere all’esterno, per creare una comunicazione tra “dentro” e la realtà esterna, perché non ci si dimentichi di chi vive ai margini e perché chi è recluso si senta parte di una società e si prepari a rientrarvi pienamente. “Con questo intento abbiamo organizzato, insieme a Incroci di civiltà, i workshop dedicati alla letteratura, aperti anche al pubblico esterno” racconta Giulia Ribaudo. “Li abbiamo chiamati “Interrogatorio alla scrittura” perché a partire dalla letteratura e dalle domande che solleva si possano affrontare riflessioni su vari temi. Il primo incontro è stato con Giorgio Fontana, premio Campiello 2014. Abbiamo lavorato a lungo con le donne per prepararle all’evento: oltre ai romanzi, abbiamo dato loro da leggere anche gli articoli di Fontana, dove l’autore esprime una personalità ancora diversa. Le domande all’autore le hanno preparate loro e il reading si è svolto insieme al pubblico esterno”. Il 6 aprile si replica con lo scrittore Eraldo Affinati, mentre il prossimo obiettivo è ottenere i fondi per far partire un progetto dedicato ai detenuti delle case di reclusione veneziane e riguardante l’apprendimento delle nuove tecnologie. Migranti. Protocollo Venezia, il diritto di difesa non è uguale per tutti di Silvia Albano* e Riccardo De Vito** Il Manifesto, 18 marzo 2018 Il 6 marzo è stato sottoscritto il “Protocollo Sezione Immigrazione” tra il presidente del Tribunale di Venezia e il presidente del locale Consiglio dell’Ordine dal titolo. Ne ha scritto ieri, su questo giornale, Ernesto Milanesi. Non possiamo esimerci da alcune considerazioni critiche sul contenuto del protocollo perché crediamo contenga previsioni in contrasto con i più elementari diritti della parte processuale, in questo caso particolarmente debole ed ignara dei propri diritti. Ci riferiamo in particolare ai punti 6 e 7, laddove si prevede l’audizione dello straniero da parte del giudice senza la presenza del difensore e l’obbligo del difensore di comunicare al giudice, prima dell’udienza, l’eventuale sussistenza di malattie infettive del ricorrente e nel caso l’obbligo di produrre certificazione medica attestante l’assenza di pericolo di contagio. Si tratta di previsioni secondo noi illegittime sotto molteplici aspetti. La previsione dell’audizione del richiedente senza l’assistenza del suo avvocato difensore non solo lede gravemente il diritto di difesa della parte, tutelato dall’art 24 della Costituzione, ma rischia anche di rendere meno efficace e rilevante la stessa audizione del richiedente, il quale non conosce la normativa e spesso non rivela particolari rilevanti ai fini del riconoscimento della protezione internazionale semplicemente perché non sa che si tratta di fatti o condizioni che consentirebbero il suo riconoscimento (come spesso accade ad esempio per le vittime di tratta o di mutilazioni genitali). Da tale punto di vista il ruolo dell’avvocato è determinate per giungere ad una decisione corretta. L’obbligo per l’avvocato di rivelare dati ultra sensibili relativi al suo cliente, poi, lede il diritto alla riservatezza e la dignità della parte, e viola platealmente la normativa italiana sancita dal Codice in materia di protezione dei dati personali. Si tratta, infatti, di dati sensibili il cui trattamento e diffusione non è di regola consentito, possono essere oggetto di trattamento solo con il consenso scritto dell’interessato e previa autorizzazione del Garante. Anche a volere fare rientrare tale trattamento (del che sinceramente si dubita) nell’ipotesi di salvaguardia dell’incolumità fisica di un terzo - sarebbe, comunque, necessaria l’autorizzazione preventiva del Garante della Privacy. Nessuno penserebbe mai di chiedere simile certificazione medica alle parti di qualsiasi altro procedimento giudiziario, dimenticando, tra l’altro che i richiedenti sono soggetti a stringenti controlli medici sia al loro arrivo che nei centri di accoglienza. E nessuno oserebbe pensare, in altri settori del processo civile, a un interrogatorio libero della parte senza la presenza del difensore. Ci preoccupa, dunque, non solo il profilo di illegittimità, ma anche l’opzione culturale che traspare dal protocollo, che tradisce lo svilimento della materia, che è complessa e tratta dei diritti umani fondamentali, e un pregiudizio nei confronti dei richiedenti asilo e dei loro difensori. *Silvia Albano, Magistrato del Tribunale di Roma **Riccardo De Vito, Presidente di Magistratura democratica Migranti. “Negato il diritto di difesa”, Giuristi democratici contro il Protocollo Venezia di Ernesto Milanesi Il Manifesto, 18 marzo 2018 Anche Melting Pot, l’Ambasciata dei diritti, il mondo cattolico ed Emergency contro l’intesa firmata dal presidente dell’Ordine degli Avvocati e dal presidente del Tribunale che, tra le altre cose, impone ai difensori di denunciare lo stato di salute dei migranti a beneficio di quella del giudice. Un vulnus al diritto di protezione internazionale per i richiedenti asilo. Ma anche un esplicito segnale politico, sull’onda del “riformismo” di Minniti & Orlando. Il protocollo sottoscritta il 6 marzo da Paolo Maria Chersevani, presidente dell’Ordine degli Avvocati, e da Manuela Farini presidente del Tribunale, innesca reazioni senza appello. A cominciare dall’esecutivo nazionale dei Giuristi Democratici: “Apprendiamo con grande stupore della sottoscrizione presso il Tribunale di Venezia, sede della “Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Ue” di un protocollo contenente gravi, ed a nostro avviso illegittime, limitazioni del diritto di difesa dei richiedenti asilo. È previsto che i documenti allegati al ricorso devono essere tradotti in lingua italiana (a spese dei richiedenti, col pocket money, magari?); gli avvocati dovranno curare la massima puntualità, ma eventuali ritardi superiori ai 10 minuti comporteranno contrazione di pari durata dei tempi dell’audizione; non verranno concessi rinvii, se non per gravi e comprovati impedimenti del ricorrente; in caso di mancata comparizione del medesimo, la causa verrà rimessa al Collegio per la decisione; e, soprattutto l’audizione del ricorrente verrà condotta esclusivamente dal Giudice o dal Got designato, senza l’intervento del difensore”. E da GD arriva anche la critica esplicita all’Ordine degli Avvocati: “Lascia davvero negativamente colpiti, rappresentando in più punti l’evidente negazione del diritto di difesa dei richiedenti asilo (essendo negato persino l’intervento del legale in sede di audizione!), in una materia che dopo la riforma Minniti ha già subito una drastica riduzione di ogni garanzia di legge, in primis la possibilità di impugnare le sentenze di rigetto”. Leonardo Arnau, presidente dell’associazione Giorgio Ambrosoli e membro dell’esecutivo GD, conclude: “Riteniamo che questo ulteriore vulnus al diritto alla protezione internazionale non possa essere accettato supinamente. Auspichiamo la rapida revisione dell’accordo in senso conforme alla disciplina di legge e alle regole processuali “comuni”, assicurando anche il nostro impegno di difensori anche nell’applicazione in sede giudiziale dei principi fondamentali che riteniamo negati”. D’altro canto, il protocollo ha già fatto il giro d’Italia: da Melting Pot all’Ambasciata dei diritti, dal mondo cattolico fino a Emergency ci si prepara a fronteggiare le conseguenze intollerabili in particolare dell’articolo 7 del protocollo, che impone agli avvocati di denunciare lo stato di salute dei migranti a beneficio di quella del giudice. E il “caso” sarà dibattuto anche durante il “Festival Welcome”, organizzato a Padova dal 23 al 25 marzo dal centro scambi e dinamiche interculturali Xena con il patrocinio del Comune. Stati Uniti. Milioni di utenti Facebook spiati dalla società legata a Trump di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 18 marzo 2018 Milioni di elettori americani spiati via Internet a loro insaputa per capire non solo gli orientamenti politici, ma anche il loro profilo psicologico: tipi impulsivi, riflessivi, introversi o altro. Carpendo da Facebook i dati di 50 milioni di cittadini Usa e tarando poi il messaggio politico da sussurrare all’orecchio di ognuno sulla base delle caratteristiche temperamentali dedotte dalla loro attività sul web: siamo già a questo. Che tecnologia e psicologia pesino sulle elezioni americane lo sappiamo da molti anni. Dalle campagne di Obama a quella di Trump, potenziata dai progressi dell’intelligenza artificiale. Ora il puzzle delle tecniche informatiche usate dalla società Cambridge Analytica nelle presidenziali 2016 (per Ted Cruz e poi per Donald Trump) per influenzare la psicologia degli elettori americani, sta diventando un mosaico nel quale quasi tutte le tessere vanno a posto grazie alle indagini giornalistiche e giudiziarie. Ultimo, lo straordinario contributo di un “pentito”: Christopher Wylie, l’informatico che ha lavorato in Cambridge Analytica fin dalla sua fondazione, lasciandola qualche anno fa per obiezione di coscienza. Wylie ha raccontato al britannico Observer e al New York Times come questa società, originariamente denominata SCL, ha convinto il miliardario conservatore Robert Mercer e l’ideologo Steve Bannon, allora direttore di Breitbart, a finanziare con decine di milioni e a sostenere politicamente lo sviluppo di una sofisticata piattaforma capace di analizzare gli elettori non più solo sulla base dei voti espressi e dei modelli di consumo, ma penetrando nella psicologia dei singoli. Per farlo, però, la società necessitava di un’enorme quantità di dati che non aveva. Così il suo padrone, l’inglese Alexander Nix, tentò di ottenere attraverso l’università di Cambridge l’accesso al database di Facebook. Respinto dall’ateneo, Nix, su suggerimento di Bannon, cambiò il nome della società da SCL a Cambridge Analytica per farle acquisire una parvenza accademica e trovò in Aleksand Kogan, un professore russo-americano che aveva accesso ai dati di Facebook, un collaboratore pronto a trasferire le informazioni su 50 milioni di americani dagli archivi del grande social network a quelli della “falange” digitale di Donald Trump. Guidata dal quel Brad Parscale appena messo alla guida della campagna per la sua rielezione nel 2020. Facebook, che ancora una volta aveva minimizzato i segnali d’allarme, cade dalle nuvole: si dichiara innocente, condanna l’uso abusivo della sua piattaforma, caccia Cambridge Analytica e i personaggi coinvolti. Seguiranno altre puntate appassionanti: nell’ambito del Russiagate il procuratore Bob Mueller indaga da tempo su questa società che sembra aver commesso molti atti illegali a cominciare dall’uso di cittadini stranieri (da Nix allo stesso Wylie, canadese) in azioni relative alle elezioni Usa: cosa vietata dalla legge. Irrilevante per Bannon: “Per lui - spiega Wylie - siamo in guerra: una guerra culturale, prima che politica. E in guerra tutto è permesso”. Stati Uniti. L’Oklahoma vuole usare le camere a gas per le condanne a morte di Luca Romano Il Giornale, 18 marzo 2018 Lo Stato dell’Oklahoma vuole ricorrere all’asfissia da azoto per uccidere i condannati a morte, ma arrivano le proteste dei difensori dei detenuti nel braccio della morte. Lo hanno riferito i funzionari dello Stato, mercoledì, per quello che sarebbe la prima volta dell’utilizzo di questa tecnica per eseguire sentenze capitali in territorio americano. L’Oklahoma ricorrerà all’azoto dopo che, come altri Stati, non sono stati in grado di acquisire i farmaci necessari per le iniezioni letali a causa dell’opposizione dei produttori. Le aziende si rifiutano di dare farmaci per l’uccisione dei condannati. Lo Stato dell’Oklahoma non effettua esecuzioni dal 2015 dopo una serie di incidenti che hanno causato l’imbarazzo delle autorità e le proteste dell’opinione pubblica contraria a queste condanne, tra cui un’iniezione fallita in cui è stato visto un detenuto torcersi dal dolore a terra ed un altro detenuto che è stato giustiziato con un farmaco che non era mai stato utilizzato nello stato. Il procuratore generale dello Stato, Mike Hunter, ha annunciato in un comunicato che le autorità utilizzeranno l’ipossia da azoto, come principale strumento di esecuzione una volta che il protocollo sarà stato completato. “Usare un gas inerte sarà efficace, semplice da amministrare, facile da ottenere e non richiede procedure mediche complesse”, ha detto Hunter in una nota. Il direttore esecutivo del Centro di informazione sulla pena di morte, Robert Dunham, ha assicurato che prima che lo Stato possa chiedere una condanna a morte e che lo esegua con l’azoto, ci vorrà del tempo. Il direttore esecutivo ha però osservato che l’American Veterinary Medical Association riteneva che il processo non fosse appropriato nemmeno per l’eutanasia dei mammiferi e che ci sarebbero voluti più di sette minuti per provocare la morte di un maiale da 32 chilogrammi. “Questo è un altro processo di esecuzione che non è mai stato dimostrato. Non è stato testato ed è sperimentale “, ha detto Dunham. Come riporta l’Independent, Dale Baich, uno degli avvocati dei 20 detenuti nel braccio della morte dell’Oklahoma, ha protestato vivamente sul metodo di esecuzione deciso dallo Stato, aggiungendo che l’Oklahoma deve dimostrare quale ricerca scientifica abbia dimostrato la sicurezza e la legalità del nuovo processo per le condanne a morte. “Senza totale trasparenza, non abbiamo alcuna garanzia che le esecuzioni non rimarranno problematiche”, ha affermato Baich in una nota. L’Onu accusa il Messico: pessime indagini sulla sparizione di 43 studenti di Riccardo Noury Corriere della Sera, 18 marzo 2018 Un duro rapporto delle Nazioni Unite sulle indagini svolte dal governo messicano sulla sparizione forzata di 43 studenti, verificatasi nel 2014, ha rivelato che persone sospettate di essere coinvolte nella vicenda sono state vittime di detenzione arbitraria e di tortura e che delle prove sono state alterate o nascoste. Il 26 settembre 2014 a Iguala, nello stato di Guerrero, la polizia attaccò un gruppo di studenti della scuola magistrale di Ayotzinapa: 43 studenti scomparvero e altri tre studenti e tre persone presenti sul posto vennero uccisi. Da allora, i 43 studenti non sono più stati visti. Esperti internazionali hanno ripetutamente smentito la teoria avanzata dalla Procura generale del Messico, secondo la quale agenti della polizia locale avrebbero consegnato gli studenti a un gruppo di narcotrafficanti, che li avrebbe uccisi bruciandone i corpi in una discarica nei pressi di Cocula, per poi disfarsi delle ceneri nel fiume San Juan. Il rapporto denuncia che nel corso delle indagini della Procura generale sono state commesse molteplici violazioni dei diritti umani, tra cui 34 casi di detenzione arbitraria e tortura e la possibile esecuzione extragiudiziale di un sospetto, Emmanuel Alejandro Blas Patiño, torturato a morte da soldati della Marina militare il 27 ottobre 2014. Il rapporto sostiene inoltre che le autorità messicane hanno violato il diritto alla verità e alla giustizia, segnala irregolarità nelle indagini svolte al fiume San Juan e gli ostacoli a un’inchiesta interna alla Procura sulle detenzioni illegali. Amnesty International ha sollecitato il Messico a dare seguito alle 15 raccomandazioni contenute nel rapporto in modo tempestivo ed efficace, soprattutto per quanto riguarda l’istituzione di un sistema autenticamente indipendente e imparziale d’indagine penale e la fine delle violazioni dei diritti umani da parte di coloro che portano avanti le indagini.