Ultimo atto del governo: la riforma del carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 marzo 2018 L’esecutivo Gentiloni chiude consegnando al Paese una legge di grande civiltà. La riforma dell’ordinamento penitenziario arriva al traguardo più importante: il Consiglio dei ministri di ieri ha di nuovo approvato, e inviato per l’ultima volta al Parlamento, il decreto che consente di superare le preclusioni nell’accesso a benefici e misure alternative. Sul via libera definitivo ci sono ormai pochi dubbi: l’ultimo esame delle Camere, non vincolante, dovrà essere atteso per non più di dieci giorni dopo l’insediamento dei nuovi eletti. Non sono state recepite le richieste di modifica delle commissioni Giustizia: il testo del provvedimento resta di fatto invariato. Risolto anche l’ultimo rebus, relativo al rischio che il passaggio di consegne tra vecchia e nuova legislatura potesse imporre un ritorno dell’iter alla casella iniziale: non è così, assicurano dal ministero della Giustizia. Il cui titolare, Andrea Orlando, sembra dunque essere riuscito a cogliere l’obiettivo dopo un estenuante percorso a ostacoli. Si tratta del frutto di un lungo lavoro che parte proprio dall’intuizione del guardasigilli. È stata sua l’idea di istituire gli Stati generali dell’esecuzione penale, coinvolgendo giuristi, magistrati, politici sensibili alle tematiche penitenziarie come Rita Bernardini, associazioni come Antigone e volontari. Tre poi sono state le commissioni nominate da Orlando ed altrettante le aree tematiche principali: misure di sicurezza e sanità per la prima, ordinamento minorile per la seconda, ordinamento penitenziario per la terza. Di tutte le proposte prodotte dalle commissioni, solo il troncone principale riguardante soprattutto le pene alternative ha avuto la possibilità di percorrere il lungo iter per l’approvazione. Le misure alternative - concesse secondo la discrezionalità dei magistrati - consentiranno a un maggior numero di detenuti di scontare la pena attraverso una serie di misure di comunità che tendono non solo all’esecuzione della sanzione attraverso una precisa responsabilizzazione, ma anche al recupero sociale della persona. In sintesi, consentirà di recuperare la persona, quindi abbattere la recidiva e assicurare più sicurezza nel mondo libero. La riforma, come detto, è stata il frutto di un lungo percorso. Comincia ad assumere una forma embrionale a partire dal 19 maggio 2015, quando nel carcere di Bollate prendono il via gli Stati generali. Una vera e propria rivoluzione culturale pensata dal ministro Andrea Orlando e coordinata dal professor Glauco Giostra: oltre 200 esperti e addetti ai lavori si confrontano per sette mesi ed elaborano - tramite diversi tavoli tematici - un documento di quasi mille pagine che ha fissato le linee guida per l’attuazione della riforma. A giungo del 2017 il Parlamento approva la legge delega, e il 17 luglio il guardasigilli istituisce tre commissioni coordinate dal professore Glauco Giostra per l’elaborazione del vero e proprio testo di riforma dell’ordinamento penitenziario, con il compito di tradurre in norme di dettaglio i principi generali della legge delega. Il 23 dicembre scorso si riunisce il Consiglio dei ministri e approva preliminarmente il decreto principale: restano fuori lavoro, affettività, minori, giustizia riparativa e misure di sicurezza. Arriviamo al 7 febbraio scorso quando le commissioni Giustizia di entrambe le Camere concludono l’esame dei decreti licenziati dal Consiglio dei ministri ed esprimono parere favorevole con relative osservazioni. Quelle del Senato rischierebbero, se recepite, di stravolgere il contenuto della riforma, soprattutto nella parte relativa al 4 bis. Poi il 22 febbraio il Consiglio dei ministri, a sorpresa, licenza preliminarmente i decreti lasciati indietro in precedenza e mette in stand by quello principale, già visionato dalle Camere. Protestano in molti, dai Garanti regionali e locali agli avvocati delle Camere penali che si sono mobilitati attraverso due giornate di astensione dalle udienze. Seguono numerosi appelli indirizzati al governo, che vedono in campo alte personalità del mondo giuridico, accademico, forense, con il Cnf in testa, e di parte della magistratura. Infine arriviamo a ieri con l’approvazione del decreto principale. Ora manca davvero poco per ottenere il via libera definitivo. Il carcere cambia volto: il Consiglio dei ministri dà il via libera alla riforma di Teresa Valiani Redattore Sociale, 17 marzo 2018 Varata oggi una parte dell’attesa riforma dell’ordinamento penitenziario, inserita nella Legge Delega con cui il 14 giugno dello scorso anno il Parlamento ha affidato al governo il compito di ridisegnare il profilo dell’esecuzione penale italiana. Orlando: “Non c’è nessun salva ladri. E non c’è nessuno svuota carceri”. 16 marzo 2018: il carcere cambia volto. Nella seduta numero 74 il Consiglio dei ministri ha varato una parte dell’attesa riforma dell’ordinamento penitenziario, inserita nella Legge Delega (103 del 2017) con cui il 14 giugno dello scorso anno il Parlamento ha affidato al governo il compito di ridisegnare il profilo dell’esecuzione penale italiana. Una necessità in primo piano da tempo, che arriva a 40 anni dall’ultimo intervento in materia, diventata urgenza dopo la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che l’8 gennaio del 2013 aveva condannato l’Italia per trattamento inumano e degradante nei confronti dei detenuti con la nota sentenza “Torreggiani”: una sentenza definita dagli stessi giudici “pilota” e che per la prima volta affrontava i problemi strutturali del sistema penitenziario nazionale. “Abbiamo approvato la riforma - ha detto con soddisfazione il ministro della Giustizia, Andrea Orlando al termine della seduta, una riforma importante che rivede l’ordinamento penitenziario. Non c’è nessun salva ladri, noi le pene per i ladri le abbiamo aumentate rispetto a quelle che c’erano e che abbiamo trovato. E non c’è nessuno ‘svuota carceri’: vedrete che nei prossimi giorni nessuno uscirà sulla base degli automatismi. C’è una norma che dice che si deve valutare il comportamento del detenuto, naturalmente non per tutti i reati: se la persona ha studiato, se ha lavorato, a un certo punto la pena può essere trasformata in un altro tipo di pena, che restituisca qualcosa alla società, anche con il lavoro, risarcendo il danno prodotto con il reato”. “Si tratta - sottolinea Andrea Orlando - di un provvedimento che serve ad abbattere la recidiva. Siamo un Paese che spende quasi 3 miliardi di euro ogni anno per eseguire le pene, ma purtroppo abbiamo ancora un tasso di recidiva tra i più alti d’Europa. Con questo intervento andiamo in un’altra direzione”. Spazi stretti, tempi vuoti, diritti violati nella gestione di una pena che non rispetta la Costituzione perché non lavora sulla possibilità di recupero dei detenuti e sull’esigenza, imprescindibile, di ristabilire un contatto tra i reclusi e la società civile in vista del ritorno in libertà. Questi, in estrema sintesi, i princìpi su cui è stata avviata una riforma che vede in cima alle priorità l’ampliamento delle misure alternative al carcere come unica via per consentire il recupero e il graduale reinserimento dei detenuti. E che, grazie alla felice intuizione del Guardasigilli, principale protagonista della riforma, era riuscita a coinvolgere anche la società civile con la rivoluzione culturale denominata Stati generali sull’esecuzione penale. Tre le commissioni che erano state nominate da Orlando ed altrettante le aree tematiche principali: misure di sicurezza e sanità per la prima, ordinamento minorile per la seconda, ordinamento penitenziario per la terza. Di tutte le proposte prodotte dalle commissioni, solo il troncone principale era riuscito a percorrere l’iter più lungo in vista del voto del 4 marzo e del possibile rovesciamento di fronte, confermato peraltro dai risultati elettorali: quello relativo alla riforma dell’ordinamento penitenziario su cui ha lavorato la squadra di giuristi coordinati da Glauco Giostra, già in passato consulente ministeriale sugli stessi temi. Ed è questa la parte della riforma approvata oggi: quella che rivede le modalità di accesso alle misure alternative che, fermo restando la discrezionalità dei magistrati e le valutazioni caso per caso, consentiranno a un maggior numero di detenuti di scontare la pena attraverso una serie di misure di comunità che tendono non solo all’esecuzione della sanzione, ma anche al recupero sociale della persona. Garantendo, quando la stessa tornerà libera, più sicurezza e un abbattimento significativo della recidiva. “Una riforma - sottolinea Glauco Giostra - che si preoccupa di dare effettività alla funzione rieducativa della pena, intesa come la possibilità, attraverso opportunità che vanno meritate da parte del detenuto, di modulare la pena in base al percorso individuale del soggetto. Questo spiega perché non può esserci spazio per gli automatismi. Ogni detenuto ha una storia diversa e ha bisogno di un intervento differente. L’esperienza, non solo italiana, dimostra che non concedere speranze a un detenuto significa rassegnarsi a un maggior indice di recidiva”. Ora il testo sarà inviato nuovamente alle Camere. Le Commissioni avranno dieci giorni di tempo per esprimere un nuovo parere, non vincolante e, ricevuti i pareri (o comunque dopo che siano decorsi i dieci giorni), il Governo potrà dare l’ok definitivo. Carceri: più giustizia e umanità per la vera sicurezza Danilo Paolini Avvenire, 17 marzo 2018 Andiamo subito al punto: ieri il Consiglio dei ministri non ha approvato alcun decreto “svuota-carceri”, ma appena un quarto della riforma dell’ordinamento penitenziario che il Parlamento, in forza di legge, gli aveva delegato. Prevede la possibilità di un più ampio ricorso alle pene alternative e alla semilibertà, sempre previa valutazione di un giudice e mai per chi è stato condannato per reati di mafia e terrorismo. Non per un eccesso di “buonismo”, come ormai sembra di moda dire, ma perché è dimostrato dai fatti che chi sconta l’intera pena in carcere, una volta uscito commette nuovi reati in più del 60% dei casi; una percentuale che invece scende al 19% tra coloro che fruiscono di misure alternative alla detenzione e crolla all’1% tra gli ex-detenuti che trovano un lavoro. È quindi davvero uno strano Paese, il nostro, dove una riforma nata con l’obiettivo dichiarato di abbattere il tasso di recidiva dei reati comuni arriva al traguardo monca, a legislatura finita e, soprattutto, al termine di un percorso lastricato di paura. La paura che seminano gli allarmisti di professione e i politici che gridano al “salva-ladri”. Per non far mancare niente a questa nostra Italia dei paradossi, tra l’altro, molti di loro sono gli stessi che fanno professione di iper-garantismo quando il condannato è uno importante, meglio ancora se indossa la loro stessa casacca. Ma non è stata, questa, l’unica paura a fare da levatrice alla riforma dell’ordinamento penitenziario. Si è dimostrato pauroso anche il governo, che a lungo ha tergiversato prima di esercitare la delega affidatagli dalle Camere e che ha frenato bruscamente a pochi giorni dalle elezioni politiche. Come se l’esito di queste ultime dipendesse da quel provvedimento. Non era cosi, ovviamente. E quando si capisce di avere il vento contro, è meglio soccombere senza ammainare la bandiera. Ritirare fuori, adesso, il decreto legislativo, a urne chiuse e a Parlamento in fase di ricambio, è senz’altro meglio di niente. Ma non è la stessa cosa, né per forza politica né sotto il profilo della tempistica, perché il testo dovrà ora tornare alle competenti commissioni parlamentari per un parere non vincolante ma nemmeno del tutto trascurabile. E la commissione parlamentare potrebbe essere una bicamerale “speciale” (costituita in attesa che si formino le nuove) oppure le commissioni della legislatura entrante, con una maggioranza differente da quella che ha voluto e votato la riforma. Insomma, le incognite sulla strada del provvedimento non sono del tutto estinte. Senza contare che il decreto in questione, pur fondamentale, è soltanto un pezzo dell’impianto originario al quale hanno lavorato i “tecnici” incaricati dal ministro della Giustizia: le altre misure - sui detenuti minorenni e giovani adulti, sul lavoro carcerario e sulla giustizia riparativa - non hanno visto la luce (malgrado il via libera preliminare, quasi “di testimonianza”, del Consiglio dei ministri del 22 febbraio) e difficilmente la vedranno nella legislatura che sta per cominciare, con un Parlamento formato in larghissima parte da forze contrarie. Fa anche questo, la pania. Ma la paura non è uno stato d’animo che si addice alla giustizia. Non è giustizia quella alimentata dalla paura, perché distorce la realtà. Impedisce di vedere, per esempio, la differenza che esiste tra il livello di sicurezza “percepita” nei talk show televisivi pomeridiano-serali e il livello di sicurezza reale certificato da accurate rilevazioni e statistiche. La compagna ideale della giustizia è invece l’equanimità: la sacrosanta certezza della pena (uno dei cardini dello Stato di diritto) non esclude l’umanità e la ragionevolezza della pena stessa, nel rispetto del dettato costituzionale che ne indica il fine ultimo nella “rieducazione del condannato”. Per la sicurezza di tutti. Riforma penitenziaria. Le associazioni: “bene, ma non allentare la tensione” Redattore Sociale, 17 marzo 2018 Una “buona notizia” l’approvazione del decreto legislativo nel Consiglio dei ministri di oggi, ma preoccupa l’ipotesi che il passaggio alle Camere possa bloccare l’iter. Soddisfatto il Garante dei detenuti. Antigone: “Chi parla di svuota-carceri è in malafede” Bene la mossa del governo uscente di varare una parte dell’attesa riforma del sistema penitenziario nel Consiglio dei ministri, ma prima di cantare vittoria occorre attendere: l’iter legislativo non è ancora completo e potrebbe trovare un Parlamento diverso da quello della scorsa legislatura. È un’esultanza a denti stretti, quindi, quella del mondo delle associazioni alla notizia del via libera alla riforma penitenziaria. “È sicuramente una buona notizia - spiega Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. È un passo in avanti su temi delicati come la salute psichica, l’accesso alle misure alternative, la vita interna alle carceri, i rapporti con l’esterno, il sistema disciplinare. Purtroppo alcune norme essenziali sono rimaste al palo, come quelle sui minori o sulla sessualità”. A preoccupare, però, è soprattutto quello che accadrà da oggi in poi. Il testo dovrà tornare necessariamente alle Camere per poter procedere e c’è il rischio reale che a doversi esprimere siano i nuovi parlamentari eletti lo scorso 4 marzo che colorano in modo diverso l’arco parlamentare rispetto alla 17ma legislatura. “Dunque c’è ancora da fare pressione e da non allentare la tensione - spiega Gonnella - poiché, in questa fase post-elettorale, i tempi potrebbero dilatarsi e la delega decadere. C’è infatti tempo fino ad inizio luglio per approvarla”. A chi in queste ore ha parlato di norma salva-ladri, Gonnella risponde che “non ci saranno cambiamenti radicali. Chi urla parlando di svuota-carceri è in malafede, perché non è vero, non si svuota proprio nulla. Chi parla di 41-bis svuotato dice il falso. Il 41bis non c’entra proprio nulla e non è stato minimamente toccato. È una riforma - conclude Gonnella - che interviene solo su alcuni aspetti della vita detentiva. Si poteva fare di più, ma è un passo in avanti. Sempre che gli ultimi passaggi legislativi siano portati a termine a breve”. Soddisfatto il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, che in una nota si congratula con il governo uscente per aver inviato alle Camere “il primo e principale decreto legislativo di attuazione della legge delega 103/2017” e di aver saputo “non disperdere l’occasione di portare a compimento l’approvazione del nucleo principale e più atteso della riforma penitenziaria”. “Ancorché non si tratti del testo esaustivo - si legge nella nota del Garante -, completo di tutte le parti della riforma dettate dalla legge delega, quello che è stato avviato al traguardo è infatti certamente il nucleo più qualificante e atteso, che riporta l’esecuzione della pena in assetto con i principi della Costituzione. La riduzione degli automatismi che limitano o impediscono l’accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative alla detenzione in carcere, con la conseguente restituzione al giudice del diritto-dovere di valutarne caso per caso l’applicabilità, l’ampliamento delle possibilità di ammissione a un’esecuzione penale che non sia esclusivamente di natura carceraria, la revisione del modello di vita penitenziaria in attuazione dei precetti costituzionali e delle indicazioni degli organi sovranazionali, sono gli elementi che fanno di questo decreto il cardine della trasformazione dell’esecuzione penale e della cultura della pena per la quale si è messo in moto il lungo lavoro partito dagli Stati Generali dell’esecuzione penale nel 2015”. Sull’approvazione della riforma sono intervenute anche Ilaria Cucchi e Irene Testa, esponenti dell’associazione Stefano Cucchi Onlus. “Apprendiamo con soddisfazione l’approvazione della riforma carceraria che porta la firma del ministro Andrea Orlando - spiegano -. Ci auguriamo ora che il prossimo governo possa dare attuazione ad una riforma importante e attesa da decenni come quella di oggi. Più studio, più lavoro, vuol dire meno recidiva. Con questa riforma, oggi siamo più vicini al dettato Costituzionale”. Soddisfazione espressa anche da Alessandro Pinna, presidente dell’Isola Solidale, che da oltre 50 anni accoglie detenuti che si trovano agli arresti domiciliari, in permesso premio o che, giunte a fine pena, si ritrovano prive di riferimenti familiari e in stato di difficoltà economica. “Siamo assolutamente convinti che il carcere debba essere una misura non punitiva, ma riabilitativa - spiega Pinna, e per questo è importante che venga previsto un percorso di reinserimento sociale per i detenuti. Chi viene da noi, impara nuovamente a relazionarsi con il mondo esterno e molto spesso trova anche una via che possa evitargli di tornare in carcere in futuro, poiché insegniamo loro anche alcuni mestieri, a lavorare in una falegnameria, in un carrozziere o in un orto. Tutto ciò aiuta queste persone a non sentirsi escluse definitivamente, ma accettate, e quindi favorisce il loro definitivo allontanamento dal mondo della delinquenza”. A lanciare un appello al nuovo Parlamento è Giovanni Paolo Ramonda, presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII. “Ci appelliamo al nuovo Parlamento affinché approvi in via definitiva il provvedimento di riforma del carcere: l’Italia ha bisogno non solo della certezza della pena, ma anche della certezza del recupero”. Per Ramonda, “La sicurezza vera dei cittadini è garantita dal corretto funzionamento delle carceri. Le persone che hanno sbagliato devono giustamente pagare per i loro errori, ma devono anche essere rieducate - continua Ramonda. È quello che facciamo nelle nostre Comunità dove accogliamo carcerati che scontano la pena con misure alternative al carcere. Per chi esce dal carcere la tendenza a commettere di nuovo dei reati, la cosiddetta recidiva, è purtroppo molto alta: tra il 75 e l’80 per cento dei casi. Invece nelle nostre comunità, dove i detenuti sono rieducati attraverso esperienze di servizio ai più deboli, i casi di recidiva sono appena il 15 per cento”. Anche per gli Assistenti sociali sperano in un passaggio parlamentare veloce e in continuità col testo. “L’auspicio - spiega Gianmario Gazzi, presidente del Consiglio nazionale degli assistenti sociali - è che il Senato, dove il provvedimento dovrà tornare prima della sua definitiva trasformazione in decreto legislativo, operi celermente consentendo che il nostro paese abbia finalmente in dotazione quelle modalità di esecuzione penale esterna che tutti gli indicatori scientifici in tema di carcerazione mostrano essere indispensabili per abbattere la recidiva”. Carcere, il governo trova il coraggio e vara la riforma di Eleonora Martini Il Manifesto, 17 marzo 2018 Via libera (quasi in extremis) al decreto legislativo che ridisegna l’ordinamento penitenziario. Lega e M5S: “Lo cancelleremo”. Paradossalmente, mentre si prepara a lasciare il campo alle destre che hanno vinto le elezioni, il governo Gentiloni mostra quel coraggio che gli era mancato negli ultimi mesi, almeno da quando - il 22 dicembre scorso - aveva lanciato il sasso del diritto costituzionale avviando l’iter della riforma dell’ordinamento penitenziario, per poi nascondere la mano. Ieri invece il Consiglio dei ministri ha dato il via libera (quasi definitivo) al primo decreto legislativo che attua la delega ottenuta dal parlamento il 23 giugno 2017 ridisegnando in parte il profilo dell’esecuzione penale, vecchia ormai di 40 anni e che rischiava di far incorrere l’Italia in altre condanne della Corte europea dei diritti umani. E il ministro Andrea Orlando ha tenuto testa al leghista Matteo Salvini e ai grillini che elargiscono slogan privi di fondamento come fossero in campagna elettorale. “Vergogna, un governo bocciato dagli italiani approva l’ennesimo salva-ladri. Appena al governo cancelleremo questa follia nel nome della certezza della pena: chi sbaglia paga!”, commenta l’aspirante premier. Ma il leader del Carroccio non è solo, si muove all’unisono con l’Ugl, la più estrema delle sigle sindacali della polizia penitenziaria, ma anche con l’ex ministro degli Affari regionali di Renzi e Gentiloni, Enrico Costa, e soprattutto con il Movimento 5 Stelle. Per il possibile prossimo ministro di Giustizia pentastellato, Alfonso Bonafede, infatti, il provvedimento “mina alla base il principio della certezza della pena” ed “è un affronto che non può essere accettato”. Secondo l’ex vicepresidente della commissione Giustizia della Camera, “il governo è consapevole che i cittadini non vogliono una norma di questo tipo e, proprio per questo, lo ha approvato con una strategia sconcertante per il modo in cui calpesta le prerogative parlamentari”, approvando il testo del decreto legislativo “nella distrazione generale” e “nella fase di passaggio tra una legislatura e l’altra”. “Non c’è nessun “salva-ladri”, noi le pene per i ladri le abbiamo aumentate rispetto a quelle che c’erano. - ha ribattuto, fiero, il ministro Orlando - E non c’è nessuno “svuota-carceri”: vedrete che nei prossimi giorni nessuno uscirà sulla base degli automatismi. C’è una norma che dice che si deve valutare il comportamento del detenuto, naturalmente non per tutti i reati: se la persona ha studiato, se ha lavorato, a un certo punto la pena può essere trasformata in un altro tipo di pena, che restituisca qualcosa alla società, anche con il lavoro, risarcendo il danno prodotto con il reato”. Il decreto attuativo infatti amplia le possibilità di ricorso alle pene alternative ma elimina gli automatismi affidando maggiore discrezionalità alla magistratura di sorveglianza che deciderà caso per caso il percorso punitivo/rieducativo di ciascun condannato. E introduce alcune norme per migliorare la vita dei detenuti, lavoro, studio, formazione, contrasto alle discriminazioni e accesso alle cure per i malati psichici. “Si tratta di un provvedimento che serve ad abbattere la recidiva - fa notare Orlando - Siamo un Paese che spende quasi 3 miliardi di euro ogni anno per eseguire le pene, ma purtroppo abbiamo ancora un tasso di recidiva tra i più alti d’Europa. Con questo intervento andiamo in un’altra direzione”. Il testo del decreto attuativo della delega legislativa non ha subito ieri le modifiche - lo stravolgimento, si potrebbe dire - richieste dalla commissione Giustizia del Senato. D’altronde aveva invece ottenuto il parere favorevole della Camera. Ora, dopo il via libera in Cdm, il provvedimento torna di nuovo alle commissioni che in teoria hanno dieci giorni di tempo per esprimere un nuovo parere, comunque non vincolante ai fini della definitiva approvazione da parte del governo. Il problema è che le commissioni non esistono ancora. Ma, ha spiegato Orlando, in attesa che si costituisca una maggioranza in grado di dare vita alle commissioni parlamentari, si potrebbero istituire due commissioni speciali, una alla Camera e una al Senato, per mandare avanti i provvedimenti più urgenti, come ad esempio il Def che l’esecutivo dovrebbe presentare entro il 10 aprile. I tempi ovviamente stringono ma questo provvedimento potrebbe comunque andare a buon fine prima che sia troppo tardi e che il lavoro di oltre 200 esperti per due anni e del parlamento uscente venga buttato via. Rimangono fuori gli altri tre decreti legislativi concernenti l’ordinamento penitenziario dei minori, il lavoro e la giustizia riparativa, quelli adottati in via preliminare il 22 febbraio scorso quando, in piena campagna elettorale, il governo Gentiloni proprio non se la sentiva di fare il passo compiuto finalmente ieri. Carcere, una riforma che serve anche a Lega e M5S di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 17 marzo 2018 Una legge penitenziaria moderna e civile serve a tutti, anche a chi ieri, pensando ancora di essere in campagna elettorale, ha urlato contro il Governo dicendo le solite prevedibili sciocchezze. Sono anni che, di fronte a qualsiasi piccolo o grande provvedimento votato dal parlamento o dal governo in ambito penale o penitenziario, un circolo vizioso di giornalisti in malafede e politici opportunisti parla di legge svuota-carceri. Eppure le carceri non si sono mica svuotate, visto che i detenuti sono circa 58 mila. Un po’ di chiarezza è comunque necessaria per capire a che punto della riforma siamo, quali sono i contenuti essenziali e chi sono i più strenui oppositori della stessa. Nel giugno del 2017 il Parlamento approvò una legge delega che, tra mille cose, chiedeva al governo di emanare uno o più decreti legislativi per riformare l’ordinamento penitenziario per adulti, istituirne uno nuovo per minori e altro. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando nominò tre commissioni per l’elaborazione dei testi. A novembre 2017 le Commissioni chiusero i propri lavori. A metà dicembre il governo fece fare il primo step di approvazione al solo decreto che introduceva nuove norme in materia di esecuzione penale per adulti. Tutto il resto è finito in un binario morto o semi-morto. Il testo fu inviato alle commissioni Giustizia di Camera e Senato per un parere. Mentre la Camera espresse un parere di approvazione, la Commissione Giustizia del Senato pronunciò la sua contrarietà rispetto ad alcune norme che estendevano la possibilità di accesso alle misure alternative per detenuti che prima ne erano automaticamente esclusi. Ieri il Consiglio dei ministri ha ribadito la sua intenzione di andare avanti con il testo originario, senza tenere contro del parere della Commissione Giustizia del Senato. Quest’ultima, probabilmente nel nuovo Parlamento che si andrà ad insediare, avrà altri dieci giorni per valutare come il Governo avrà motivato la sua decisione di proseguire per la sua strada. Trascorsi questi dieci giorni il Governo potrà finalmente emanare il decreto legislativo. Quale Governo a questo punto? Quello attuale o il futuro? Dipende da quando il Senato restituisce le carte e da quando decorrono i dieci giorni per il parere. Agli inizi di luglio c’è però la dead-line finale, in quanto la delega deve essere esercitata per allora, altrimenti tutto decade e tutto sarà stato inutile. Cosa prevede di importante la legge, in estrema sintesi: più discrezionalità nelle mani dei giudici di sorveglianza per l’accesso alle misure alternative nel caso di persone che hanno commesso alcune tipologie di reati, superando così gli automatismi preclusivi; l’equiparazione della malattia fisica a quella psichica ai fini dell’adozione di misure di sostegno terapeutico; più ragionevolezza e normalità nella vita dentro gli istituti; il richiamo alle Regole Penitenziarie europee sul tempo da trascorrere fuori dalla cella ma pur sempre dentro il carcere. Cosa non prevede la legge: resta inalterato il regime duro di cui all’articolo 41bis, secondo comma dell’ordinamento penitenziario; nessuna novità in materia di sessualità; nessuna norma che autorizzi a parlare di svuota-carceri o di grandi rivoluzioni. Chiunque si oppone urlando ai quattro venti è in malafede. Chiunque invoca catastrofi per la sicurezza del Paese è un imbroglione. Chiunque dica che è una legge contro la Polizia penitenziaria vorrebbe sotto sotto tornare a un mondo fatto di secondini e camosci e non di poliziotti e persone provvisoriamente private della libertà. Chiunque dica che è un regalo alle mafie mistifica la realtà. Carceri, più pene alternative. Ma il decreto va alle Camere di Gianni Barbacetto Il Fatto Quotidiano, 17 marzo 2018 In un giorno-simbolo della storia italiana, il 16 marzo della strage di via Fani, il consiglio dei ministri del governo Gentiloni ha approvato la riforma delle carceri, lasciata a metà prima delle elezioni, per non scontentare troppo l’elettorato sensibile a chi la definisce “riforma svuota-carceri” o addirittura “salvaladri”. Le norme più contestate sono quelle che permettono di allargare il campo delle misure alternative alla detenzione, con l’obiettivo di ridurre la recidiva. Per i sostenitori, è una riforma civilissima che favorisce il reinserimento dei detenuti. Per i critici, è una misura “svuota-carceri” che finirà per aiutare anche i mafiosi. Soddisfatto il ministro della Giustizia Andrea Orlando: “Non c’è nessun salva-ladri, le pene per i ladri”, ha detto al termine del Consiglio dei ministri, “le abbiamo aumentate rispetto a quelle che abbiamo trovato; e non c’è nessun svuota-carceri, perché nei prossimi giorni nessuno uscirà sulla base di automatismi”. Durissimo il segretario della Lega e leader del centrodestra Matteo Salvini: “Vergogna, un governo bocciato dagli italiani approva l’ennesimo salva-ladri. Appena al governo cancelleremo questa follia nel nome della certezza della pena”. In realtà quello approvato ieri dal Consiglio dei ministri è un decreto attuativo della riforma dell’ordinamento penitenziario che non ha però recepito tutte le indicazioni del Senato: dunque dovrà tornare alle Camere, che ora hanno una composizione che potrebbe essere poco propensa ad approvarlo definitivamente. Se la Lega di Salvini lo ritiene una misura svuota-carceri, il Movimento 5 stelle si è mostrato sensibile agli allarmi lanciati da alcuni tecnici, come il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho e l’ex direttore dell’Ufficio detenuti del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Sebastiano Ardita, oggi procuratore aggiunto a Catania, il quale segnala il pericolo che l’allargamento delle misure alternative al carcere finisca per arrivare anche ai condannati per mafia detenuti al 41bis, il carcere duro, anche se formalmente esclusi dai benefici previsti dal nuovo ordinamento. Ieri Alfredo Bonafede (M5S) ha detto che si tratta di un affronto del governo. Il ministro Orlando ha cercato di rassicurare: “Non viene introdotto alcun automatismo, saranno i magistrati di sorveglianza a valutare situazione per situazione. E saranno esclusi i reati più gravi, tra cui quelli di mafia”. Contesta il provvedimento Emanuela Piantadosi, dell’Associazione vittime del dovere: “I dati secondo cui la recidiva, cioè il ritorno a delinquere, è inferiore tra chi sconta pene alternative rispetto a chi resta in carcere, sono incerti e opinabili e la stessa amministrazione penitenziaria non dispone di dati aggiornati, corretti ed esaustivi. Ci impongono una riforma disegnata sulla base di dati non certi”. Ora la discussione si sposterà in Parlamento. Il provvedimento sarà discusso probabilmente dalle “commissioni speciali”, nate con il compito di esaminare i provvedimenti urgenti, una alla Camera e una al Senato, in attesa che si costituisca una maggioranza in grado di dare vita alle commissioni parlamentari. Per Orlando “ci sarà chi tenterà di speculare e cavalcare le paure, ma i cittadini non devono avere paura, perché da domani non esce nessuno sulla base di questo provvedimento: da domani il giudice potrà valutare più seriamente caso per caso il comportamento dei singoli ed evitare quello che oggi avviene, cioè che trascorso un certo periodo a prescindere dal comportamento, se non c’è stato nessun evento negativo, il detenuto possa essere liberato e possa godere dei benefici. Da oggi, invece, ogni singolo detenuto sarà valutato sulla base del comportamento tenuto all’interno del carcere”. Cancellate le preclusioni nell’accesso ai benefici, ma non per mafia e terrorismo Il Dubbio, 17 marzo 2018 Il Capo I (artt. 1- 3) detta disposizioni in tema di assistenza sanitaria in ambito penitenziario. In particolare, la riforma approvata: - equipara alla grave infermità fisica la grave infermità psichica sopravvenuta al reato, ai fini del possibile rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena e del possibile accesso alle misure alternative alla detenzione; - adegua l’ordinamento penitenziario ai principi affermati dal decreto legislativo 22 giugno 1999, n. 230, di riordino della medicina penitenziaria, confermando l’operatività del servizio sanitario nazionale negli istituti penitenziari; - amplia le garanzie dei reclusi modificando la disciplina della visita medica generale all’ingresso in istituto, e chiedendo al medico che procede di annotare tutte le informazioni riguardo a eventuali maltrattamenti o a violenze subite. La riforma inoltre estende la gamma dei trattamenti sanitari che i reclusi possono richiedere in carcere a proprie spese; - istituisce negli istituti penitenziari apposite sezioni per detenuti con infermità di esclusiva gestione sanitaria. Il Capo II (artt. 4- 5) reca disposizioni per la semplificazione dei procedimenti di esecuzione delle pene e concessione delle misure alternative disciplinati tanto dall’ordinamento penitenziario quanto dal codice di procedura penale. Tra gli interventi di maggior rilievo la riforma: - distingue le competenze dell’autorità giudiziaria a seconda che vi sia o meno una condanna definitiva prevedendo, prima della condanna definitiva l’intervento del giudice procedente (gip o giudice della fase o grado del giudizio non definito) e dopo, a seconda dei casi, del magistrato di sorveglianza e del Tribunale di sorveglianza; nell’ordinamento attuale, invece, il magistrato di sorveglianza provvede anche nei confronti degli imputati dopo la pronuncia della sentenza di primo grado; - sopprime, in relazione ai reclami giurisdizionali dei detenuti e degli internati, il giudizio del tribunale di sorveglianza prevedendo la ricorribilità diretta del provvedimento del magistrato di sorveglianza in Cassazione; - prevede l’innalzamento da 3 a 4 anni del limite massimo di pena inflitta o residua entro il quale è consentito l’accesso alle misure alternative; - amplia casi in cui il tribunale di sorveglianza procede con rito semplificato; - introduce una nuova procedura semplificata e a contraddittorio eventuale per la concessione in via provvisoria delle misure alternative richieste, quando la pena da scontare, anche residua, non sia superiore a un anno e sei mesi. Il Capo III (artt. 6- 13) mira a eliminare gli automatismi e le preclusioni per l’accesso a benefici penitenziari e misure alternative alla detenzione; in particolare, le disposizioni introdotte dal capo III individuano nei più gravi reati associativi previsti dall’art. 4- bis OP, i reati ostativi alla concessione di benefici carcerari e misure alternative; tra le principali novità, si segnala: - la modifica dell’art. 4- bis con la limitazione ai più gravi reati associativi delle preclusioni ad accedere a benefici e misure alternative; - la soppressione della disposizione che attualmente prevede che non possano essere concesse le misure alternative, il lavoro esterno ed i permessi premio ai detenuti per i quali il procuratore nazionale antimafia segnali l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata; - la soppressione della disciplina che limita la concessione dei permessi premio ai pluri-recidivi Carceri, parte la riforma. Salvini: la cancelleremo, è soltanto una salva ladri di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 17 marzo 2018 Sul filo di lana, una settimana prima dell’avvio della nuova legislatura che dovrebbe portare a una nuova (e diversa) maggioranza di governo, il Consiglio del ministri ha approvato la riforma dell’ordinamento penitenziario. Facendo esplodere, com’era prevedibile, le polemiche scansate in campagna elettorale ma inevitabili oggi, alla vigilia del cambio della guardia in Parlamento. Il decreto varato dal ministro della Giustizia Andrea Orlando prevede l’estensione della possibilità di concedere benefici e misure alternative ai detenuti (con l’esclusione di quelli condannati per mafia, terrorismo e altri reati gravi, e sempre dopo la valutazione preliminare dei giudici), ma dai partiti vincitori nelle urne si grida allo scandalo. “Vergogna, un governo bocciato dagli italiani approva l’ennesimo salva ladri - tuona il leader della Lega Matteo Salvini. Appena al governo, cancelleremo questa follia nel nome della certezza della pena: chi sbaglia paga!”. E Alfonso Bonafede, deputato grillino e Guardasigilli designato in un eventuale esecutivo Cinque Stelle rincara: “È un affronto che non può essere accettato. Il governo, fuori da ogni possibile controllo parlamentare, ha approvato un provvedimento pericoloso che mina alla base, dopo gli innumerevoli “svuota-carceri” di questi anni, il principio della certezza della pena”. In realtà il controllo parlamentare c’è stato, con i pareri votati dal Parlamento in scadenza che avevano espresso - soprattutto al Senato, alla Camera il giudizio era sostanzialmente positivo - alcune perplessità sul regolamento messo a punto dal ministro Orlando. Il quale, riscrivendo la riforma, ha tenuto conto soltanto di alcuni rilievi. Per esempio, l’esclusione dai benefici è stata reintrodotta anche ai partecipanti nelle organizzazioni che gestiscono il traffico e lo spaccio di droga, e non solo a capi e promotori. Ed è stato reinserito il parere del procuratore nazionale Antimafia, che in una precedente versione era stato cancellato. Altre modifiche proposte dal Senato non sono state accolte: avrebbe significato tornare al regime precedente, mentre Orlando insiste sulla necessità di “una riforma che serve ad abbattere la recidiva. Non è uno svuota-carceri, perché nessuno uscirà sulla base di automatismi”. Ora la procedura prevede che il testo venga riesaminato dal Parlamento, non si sa ancora se le nuove commissioni Giustizia (di là da essere composte) o la commissione speciale che tratterà gli atti urgenti. In ogni caso eventuali rilievi non richiederanno un nuovo passaggio da parte del governo, la riforma dovrebbe entrare in vigore comunque. Fermi restando eventuali retromarce decise da nuove maggioranze politiche. Il Garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma, “esprime grande soddisfazione” perché il governo “ha saputo non disperdere l’occasione di portare a compimento” una riforma attesa anche dagli avvocati raccolti nell’Unione camere penali: “La riforma, contrariamente a quanto sostenuto da taluno, garantisce maggiore sicurezza ai cittadini, attuando principi costituzionali”. Rita Bernardini: “La speranza? Mai persa e lo devo a Marco Pannella” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 marzo 2018 Se il governo è riuscito, in extremis, ad approvare il decreto portante della riforma dell’ordinamento penitenziario, il merito - oltre alla volontà del ministro della Giustizia Andrea Orlando - lo si deve allo sforzo del Partito radicale e in particolare a Rita Bernardini, che attraverso lunghi scioperi della fame ha esercitato pressioni per portare a termine il tortuoso iter della riforma. Utilizzando una sua espressione, in “zona cesarini plus” il governo ha approvato il decreto attuativo della riforma già sottoposto al parere delle commissioni Giustizia. In molti avevano perso le speranze. E lei? Sinceramente mi sono incazzata un bel po’ di volte perché avevo ben presenti i tempi, che ho monitorato assieme ai miei compagni del Partito radicale fin dall’avvio nel 2015 degli Stati generali dell’esecuzione penale. Ma vengo dalla scuola pannelliana dello “spes contra spem”: come avrei potuto perdere la speranza? So che per non perderla, e anche questo è un insegnamento di Marco, occorre dotarsi via via di strumenti di conoscenza, che sono l’elemento essenziale di un’iniziativa nonviolenta. Ora il decreto attuativo, trascorsi i 10 giorni di tempo, potrà essere approvato definitivamente anche in assenza dei pareri. Qualcuno parla di strappo istituzionale. Avrei preferito che la riforma penitenziaria fosse approvata entro la passata legislatura: sarebbe stato certamente molto meglio, ma non c’è alcuna ragione che stia dalla parte dello “strappo istituzionale” visto che questo primo decreto attuativo della legge delega approvata nel giugno 2017 ha già passato un primo importante vaglio delle commissioni Giustizia di Camera e Senato e che manca solo questo ultimo passo che sarà compiuto dalla istituenda commissione speciale, bicamerale, per l’esame degli Atti del governo, prevista dal regolamento nelle more della formazione delle commissioni permanenti nel nuovo Parlamento. Questa commissione, che avrà l’equilibrio rappresentativo della nuova realtà venutasi a formare con le elezioni del 4 marzo, riceverà il decreto così come è stato approvato dal Consiglio dei ministri e avrà 10 giorni per dire la sua, dopodiché il governo attualmente in carica può approvare il testo che riterrà più opportuno perché i pareri delle commissioni sono obbligatori ma sempre non vincolanti per l’esecutivo. Tutto scritto nella legge delega, non è un’invenzione né un escamotage mio, di Orlando o di Gentiloni. Quali sono gli aspetti positivi di questo decreto? Restituisce alla pena la sua funzione costituzionale, e in questi tempi bui per la democrazia non è poco. Riconsegna dignità e ruolo al magistrato di sorveglianza, da anni costretto dal legislatore a negare diritti anche a quei detenuti che si rendono protagonisti di esemplari percorsi di riabilitazione. Inoltre dà maggiore sicurezza alla collettività, oggi sempre più minacciata da persone che escono dal carcere peggiori di come sono entrate semplicemente perché l’ozio unito a trattamenti disumani e degradanti non può che dare risultati nefasti, a differenza delle misure alternative; che sempre pene sono, ma sicuramente più risocializzanti. Quelli negativi? Non si è avuto il coraggio - ma era un limite della delega - di consentire a tutti i condannati il percorso previsto dalla Costituzione. Chi è condannato per reati di mafia o terrorismo continua a essere escluso da quanto espressamente previsto dall’articolo 27 e quindi privato di qualsiasi possibilità di riscatto. La riforma, una volta approvata definitivamente e firmata dal presidente Mattarella, sarà comunque incompleta. Rimangono fuori aspetti fondamentali per un’esecuzione penale legale, come il lavoro e l’affettività, la giustizia riparativa nei confronti delle vittime dei reati, l’amministrazione penitenziaria minorile e le misure di sicurezza. Il nuovo Parlamento sarà composto prevalentemente da forze, come M5S e Lega, che hanno una visione carcero-centrica: il Partito radicale come affronterà questo scenario? Siamo pronti ad accedere alle giurisdizioni superiori per denunciare le continue macroscopiche violazioni del diritto così come stiamo per lanciare un pacchetto di proposte di legge di iniziativa popolare sui temi della giustizia e dell’esecuzione penale così come delle inderogabili riforme istituzionali dell’attuale sistema italiano. Più lavoro per chi è dentro: finalmente una riforma che dà un merito a chi resta fuori di Walter Izzo ilsussidiario.net, 17 marzo 2018 Il nuovo ordinamento non è un “salva-ladri”. Dà la possibilità di accedere a misure alternative che abbattono la recidiva. E vuole favorire studio e lavoro dei detenuti. Il Governo ha approvato la riforma dell’ordinamento penitenziario. La decisione è stata presa dopo gli inevitabili rinvii per motivi elettorali e dovrebbe superare senza danni un altro passaggio parlamentare. Duecento esperti hanno lavorato per circa due anni a supporto del ministro Orlando, per una riforma che arriva quarant’anni dopo la precedente e vari richiami dell’Europa per lo stato dei detenuti. Ma di cosa si tratta? Di un provvedimento “salva-ladri” e “svuota-carceri”, come hanno subito tuonato l’aspirante premier Salvini e qualche grillino eternamente in campagna elettorale? In realtà, il decreto attuativo dà la possibilità di accedere alle misure alternative al carcere anche a chi ha un residuo di pena fino a quattro anni, ma sempre tramite la valutazione del magistrato di sorveglianza. In particolare, il giudice dovrà valutare il comportamento tenuto dal detenuto (se ha studiato, se ha lavorato) e potrà concedergli misure alternative alla detenzione, centrate sul lavoro e sul principio del risarcimento alla collettività del danno a suo tempo procurato. Dichiara il ministro guardasigilli: “Si tratta di una misura che punta ad abbattere la recidiva: abbiamo una delle recidive più alte d’Europa”. In effetti, dalle statistiche emerge che per chi espia la pena in carcere vi è recidiva nel 60,4 per cento dei casi, mentre per coloro che hanno fruito di misure alternative alla detenzione il tasso di recidiva è del 19 per cento, ridotto all’1 per cento per quelli che sono stati inseriti nel circuito produttivo. In altri termini: magari si “svuotassero” le celle! E si riempissero le aule e i laboratori, in carcere, per imparare un mestiere e lavorare, una volta usciti su parere positivo di un giudice. Commento a caldo le prime notizie della riforma con due amici di una cooperativa sociale. “Finalmente si muove qualcosa, in un mare di bisogni estremi - interviene uno: in carcere non hanno neanche la biancheria per cambiarsi…”. “La biancheria?!”. “Sì, mutande e maglie... Ormai buona parte dei detenuti sono tossicodipendenti ed extracomunitari, senza parenti che vengano a portar loro la biancheria di ricambio: se finiscono in cella d’estate, rischiano di avere addosso gli stessi indumenti l’inverno successivo e, a quel punto, hanno bisogno anche di un maglione o di una felpa”. “Già - lo interrompe l’altro - ti ricordi quella volta che una catena di hotel ci aveva regalato centinaia di capi di vestiario in seguito al rinnovo delle divise del personale?”. I miei due amici scoppiano in una risata. “Cosa c’è di divertente?”, chiedo. “Abbiamo dovuto scucire per giorni le etichette ben in vista su ogni capo, col nome degli hotel e le cinque stelle della categoria… in cui non rientrava San Vittore!”. “È un altro mondo, con gli agenti che sopportano a fatica quelli che son lì ad aiutare i carcerati”. “Perché?”. “Perché capita che le guardie si considerino discriminate rispetto ai detenuti! Un mio amico, che era riuscito a organizzare un corso di informatica, si era sentito dire: ‘Perché per loro sì e per noi no?’. E così la cooperativa ha dovuto organizzare un corso apposito per le guardie! Del resto, hai mai fatto caso a come è fatto il carcere di Opera? Lo si vede benissimo dalla Tangenziale ovest di Milano”. Ci son passato mille volte. È un complesso di edifici grigi e tristi, collegati fra loro e circondati da un muro di cemento dello stesso grigio. “In uno di quegli edifici vivono le guardie: sole, spesso con la famiglia in Meridione, isolate... È una vita, in un certo senso, da reclusi anche quella, trascorsa fra casa e lavoro... in due edifici simili e vicini… Una decina di guardie e una cinquantina di detenuti si suicidano ogni anno in Italia!”. “Ma quanti sono i detenuti che lavorano in carcere?”. “Meno del 5 per cento, se parliamo di un lavoro vero, dato da un committente esterno, che paga e pretende che sia fatto bene. Poi ci sono i detenuti che puliscono i corridoi, che spingono il carrello dei pasti e compiti simili, utili per poter uscire di cella qualche ora, spesso a rotazione. Così, fra l’altro, si gonfiano le statistiche ufficiali di quelli che lavorano”. “E lo studio? - intervengo. La riforma pare lo voglia favorire”. “C’è bisogno di tutto, dai corsi di avviamento al lavoro a quelli per imparare a leggere e scrivere. Il 95 per cento dei carcerati ha frequentato, al massimo, la terza media”. È un dato statistico, ma per me è anche un pugno nello stomaco: il carcere è una discarica per cattivi e ignoranti. O forse è un posto destinato a molti che nascono e crescono ai margini della società: che meriti ha chi ne resta fuori? Via libera al decreto di riforma sulle carceri, la Lega attacca di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 17 marzo 2018 Salvini: cancelleremo l’ennesimo salva-ladri. Orlando: così si abbatte la recidiva. Il Governo, ieri, ha approvato il decreto sulle pene alternative alla carcerazione. Ora il testo del provvedimento andrà all’esame del parlamento. Dura la presa di posizione della Lega. Salvini: provvedimento salva-ladri, lo cancelleremo. Per il ministro Orlando si tratta invece di un provvedimento necessario. “Non è un salvaladri”. “Vergogna”. “Si abbatte la recidiva”. “Affronto che non può essere accettato”. Gli autori? Nell’ordine, il ministro della Giustizia Andrea Orlando, il segretario della Lega Matteo Salvini, di nuovo Orlando, Alfonso Bonafede, possibile ministro della Giustizia dei 5 Stelle. Il Consiglio dei ministri di ieri mattina ha approvato, nuovamente, il decreto legislativo che riforma l’ordinamento penitenziario e, immediatamente, il tono dello scontro tra le forze politiche si è alzato, rendendo peraltro evidente la forte sintonia che esiste, nel merito, tra le due forze politiche vincitrici delle elezioni. E così se Salvini tuona un “vergogna, un governo bocciato dagli italiani approva l’ennesimo salva ladri. Appena al governo cancelleremo questa follia nel nome della certezza della pena: chi sbaglia paga!”, Bonafede fa eco, parlando di “un affronto che non può essere accettato: nella diciottesima legislatura, il Parlamento dovrà intervenire in materia di giustizia rassicurando i cittadini sull’importanza della legalità e della certezza della pena”. Orlando prova a replicare sottolineando che l’intervento ha anche l’obiettivo di abbattere la recidiva, rendendo più sicuri i cittadini: “Attualmente vengono spesi ogni anno quasi 3 miliardi di euro per l’esecuzione penale, eppure abbiamo il tasso di recidiva più alto d’Europa”. Il secondo passaggio, ma non definitivo, in Consiglio dei ministri, si è reso necessario dopo che il Governo ha deciso di non accogliere molte delle condizioni poste dalle commissioni Giustizia del Parlamento uscente. Ora le Camere hanno a disposizione 10 giorni di tempo per tornare ad esprimersi, in maniera però non vincolante. Con un’incognita sui tempi però, perché a doversi esprimere dovrebbero essere le commissioni Giustizia di una Camera e di un Senato i cui componenti ancora non si sono ufficialmente insediati, lo faranno solo tra una settimana, prossimo 23 marzo. A seguire l’elezione dei presidenti e solo dopo la costituzione delle commissioni. Tempi quindi abbastanza lunghi. Tanto che nelle ultime ore ha preso corpo, il ministro Orlando ne ha parlato esplicitamente ieri a ridosso del Consiglio dei ministri, l’ipotesi di costituire due supercommissioni, una alla Camera e una al Senato, con il compito di esaminare subito i provvedimenti più urgenti. Il Def, certo, ma anche l’esecuzione penale appunto. Permettendo in questo modo al Governo Gentiloni di potere procedere all’approvazione definitiva che, in realtà, potrebbe avvenire anche in caso di inerzia del Parlamento, con una forzatura istituzionale. Nel merito, sottolinea il Governo, il provvedimento punta a ridurre il ricorso al carcere a favore di soluzioni che, senza indebolire la sicurezza della collettività, riportino al centro la finalità rieducativa della pena; a razionalizzare le attività degli uffici dell’esecuzione, riducendo i tempi procedimentali e risparmiando sui costi; a diminuire il sovraffollamento, sia assegnando formalmente la priorità del sistema penitenziario italiano alle misure alternative al carcere, sia potenziando il trattamento del detenuto e il suo reinserimento sociale in modo da arginare il fenomeno della recidiva; a valorizzare il ruolo della Polizia penitenziaria, ampliando lo spettro delle sue competenze. La versione approvata ieri non ha accolto soprattutto una serie di condizioni poste dal Senato che avrebbe ristretto in maniera significativa la platea di chi può usufruire di misure alternative al carcere, contraddicendo uno dei cardini della riforma, rappresentato dalla cancellazione di automatismi nei divieti. Si è invece accolta la richiesta di un recupero del ruolo del Procuratore nazionale antimafia nel processo decisionale sulla concessione dei benefici. Via libera al decreto carceri. Salvini: “è un salva-ladri”. Orlando: “non esce nessuno” di Liana Milella La Repubblica, 17 marzo 2018 “Non è una salva-ladri, perché noi le pene per i ladri le abbiamo aumentate. Non è uno svuota-carceri, perché non uscirà nessuno”. Questa è la campana del Guardasigilli Andrea Orlando che, appena passate le 12, lascia soddisfatto palazzo Chigi. La sua riforma dell’ordinamento penitenziario ha ottenuto il penultimo via libera durante il consiglio dei ministri. Passano pochi minuti e tutto il centrodestra si scatena. Il segretario della Lega Matteo Salvini: “Vergogna. Un governo bocciato dagli italiani approva l’ennesima salva- ladri. Appena al governo cancelleremo questa follia nel nome della certezza della pena: chi sbaglia paga”. A ruota Giorgia Meloni, la presidente di Fratelli d’Italia: “L’ultima follia di un governo scaduto. Fuori i delinquenti dalla galera. È lo slogan della sinistra che tenta di approvare un nuovo decreto salva-criminali”. Si fa sentire anche Edmondo Cirielli, il padre della legge Cirielli che nel 2005 aveva azzerato i benefici carcerari. “Un provvedimento che insulta e calpesta le vittime dei reati”. Peccato che Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano Cucchi, il ragazzo morto per i pestaggi subiti, sia pronta a dire: “Grande passo di civiltà. Più studio e più lavoro vuol dire meno recidiva. Con questa riforma siamo più vicini al dettato costituzionale”. Detenzione domiciliare per chi deve scontare una pena sotto i 4 anni, come ha appena scritto anche la Consulta, con una sentenza di cui era relatore il neo presidente Giorgio Lattanzi. Diritto alla salute e all’affettività in carcere. Spazi per le detenute madri. Garanzie per i gay. Accesso facilitato in cella ai volontari. Riapertura dei canali per i permessi premio e i benefici bloccati dalla Cirielli. Chance anche per chi è stato condannato all’ergastolo, potrà ottenere le condizioni della semilibertà solo se ha fruito correttamente di permessi premio per almeno cinque anni consecutivi. E il dubbio di noti magistrati antimafia come il procuratore aggiunto di Catania Sebastiano Ardita che la riforma possa smantellare il 41bis, il carcere duro per i mafiosi? Un giudizio negativo condiviso da Piercamillo Davigo. Orlando ribatte: “Non esce nessuno. Da domani il giudice potrà valutare caso per caso il comportamento dei singoli”. Automatismi esclusi. Ma il decreto diventa legge? Manca uno step. Entro 10 giorni le commissioni di Camera e Senato devono dare un parere. Mancando quelle sulla Giustizia se ne occuperà una speciale. Se il parere dovesse essere negativo il governo in carica però può dare il via libera. Ma qui entra in ballo M5S. Dice Alfonso Bonafede, stretto collaboratore di Luigi Di Maio e potenziale Guardasigilli: “La riforma è un affronto inaccettabile perché mina alla base il principio della certezza della pena. Nella distrazione generale il governo ha calpestato le prerogative dei parlamentari”. Orlando dovrà vedersela con un agguerrito asse M5S-centrodestra. Riforma delle carceri: davvero chi sconta meno di 4 anni dentro non ci va? di Alberto Gandolfo agi.it, 17 marzo 2018 Questa le tesi del leader della Lega Matteo Salvini sulla riforma. Abbiamo fatto una verifica. Il segretario della Lega, Matteo Salvini, nel corso di un comizio a Trento lo scorso 15 marzo ha dichiarato (min. 8.55): “Domani alle 11 è convocato un Consiglio dei ministri a Roma […] tra le altre cose all’ordine del giorno c’è un provvedimento che riguarda le carceri, che prevede il fatto che, se sei condannato a una pena inferiore ai quattro anni, in galera non ci vai”. Salvini presenta le informazioni in modo incompleto: il provvedimento aumenta il limite temporale di una misura che c’è già, e non prevede automatismi. Vediamo come stanno le cose nel dettaglio. Il Consiglio dei ministri di venerdì 16 marzo ha in effetti in agenda l’esame del decreto legislativo sulla riforma dell’ordinamento penitenziario. Si tratta di un decreto che attua una delega parlamentare (prevista, precisamente, dall’art. 1, co. 82, 83 e 85 della legge 23 giugno 2017, n. 103). Se guardiamo lo schema del decreto legislativo, quello che ci interessa è l’articolo 5: qui si prevede che l’articolo 656 del codice di procedura penale venga modificato in modo da aumentare da tre a quattro anni, per tutte le ipotesi, il limite di pena al di sotto del quale il giudice può concedere misure alternative al carcere. Ad oggi il limite di quattro anni vale, sempre in base all’art. 656 co. 5, solo per ipotesi particolari (over 70, over 60 parzialmente inabili, donne incinte, madri o padri soli e responsabili di figli under-10 etc.). Per alcolisti e tossicodipendenti il limite è, e rimane, di sei anni. L’articolo 14 del decreto legislativo prevede poi il medesimo innalzamento, da tre a quattro anni, per l’ipotesi specifica dell’affidamento ai servizi sociali, una delle possibili misure alternative al carcere previste dal nostro ordinamento, insieme alla semilibertà, la liberazione anticipata, la detenzione domiciliare (da non confondere con la misura cautelare degli arresti domiciliari). Che cosa vuol dire - Non siamo dunque parlando di una novità, ma della modifica di misure esistenti, quelle che riguardano la concessione di misure alternative al carcere. In particolare, si innalza da tre a quattro anni il limite massimo di pena che consente di accedere alle misura alternative alla detenzione. Contrariamente a quanto lascia capire Salvini, la misura non si applica a tutti i condannati a una pena inferiore ai quattro anni. Per accedere alle misure alternative al carcere, infatti, è necessaria una decisione in tal senso del giudice. Non ci sono automatismi. Riguardo l’affidamento ai servizi sociali, ad esempio, il secondo comma dell’articolo 47 della legge sull’ordinamento penitenziario dice così: “Il provvedimento è adottato sulla base dei risultati della osservazione della personalità, condotta collegialmente per almeno un mese in istituto, nei casi in cui si può ritenere che il provvedimento […] contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati”. Il periodo di osservazione di un mese può non essere necessario se il condannato, dopo la commissione del reato, ha tenuto un comportamento tale da renderlo superfluo (ad esempio se ha tentato in tutti i modi di riparare alle conseguenze delle sue azioni). Dunque anche in futuro sarà possibile che persone condannate e pene inferiori a quattro anni (ad oggi, fino a tre) possano finire in carcere, se la personalità è ritenuta pericolosa o se la concessione di una misura alternativa al carcere non si ritiene possa servire alla rieducazione del reo e alla prevenzioni di altri reati. Inoltre, chi beneficia di una misura alternativa alla detenzione deve rispettare le prescrizioni del magistrato di sorveglianza, che può in caso contrario revocare le misure alternative e riportare così in carcere il condannato. Conclusione - L’affermazione di Salvini è imprecisa, in quanto - secondo il provvedimento che verrà discusso domani dal Consiglio dei ministri - chiunque venga condannato a una pena inferiore a quattro anni non ha alcuna certezza di non finire in carcere. Può richiedere, ed eventualmente ottenere, che vengano concesse misure alternative alla detenzione, ma non c’è alcun automatismo, come invece sembra suggerire il segretario leghista. Inoltre si tratta di un istituto che già esiste, solo che ha un limite leggermente inferiore per i casi “normali” (3 anni invece che 4) e lo stesso (4 anni) per una serie di ipotesi particolari. Via libera del governo alla riforma dell’ordinamento penitenziario di Luca Liverani Avvenire, 17 marzo 2018 Il testo dovrà tornare all’esame delle Commissioni in Parlamento. Orlando (Giustizia): non è uno svuota-carceri, con pene alternative recidiva crolla dal 60 al 19% e all’1% per chi lavora. Via libera del Consiglio dei ministri alla riforma dell’ordinamento penitenziario che allargherà la possibilità di accedere alla misure alternative al carcere per i detenuti. Lo ha annunciato il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Il testo ora dovrà tornare alle commissioni parlamentari per l’ultimo vaglio. A fine febbraio il governo aveva varato in via preliminare i primi tre decreti attuativi di riforma dell’ordinamento penitenziario, quelli su lavoro, giustizia minorile e giustizia riparativa. Proprio per il completamento della riforma dieci giorni fa giuristi e associazioni avevano sottoscritto un appello al governo. La riforma dell’ordinamento penitenziario, ha spiegato il ministro Orlando, “serve ad abbattere la recidiva. Attualmente vengono spesi ogni anno quasi 3 miliardi di euro per l’esecuzione penale, eppure abbiamo il tasso di recidiva più alto d’Europa”. Dalle statistiche, infatti, di cui il ministero della Giustizia ha tenuto conto nell’elaborazione della riforma, emerge che per chi espia la pena in carcere vi è recidiva nel 60,4% dei casi, mentre per coloro che hanno fruito di misure alternative alla detenzione il tasso di recidiva è del 19%, ridotto all’1% per quelli che sono stati inseriti nel circuito produttivo. Rafforzare le misure alternative al carcere, ponendo al centro il percorso riabilitativo del detenuto - tranne per chi si è macchiato di delitti di mafia e terrorismo - con il vaglio, caso per caso, della magistratura di sorveglianza, con l’obiettivo di abbattere il tasso di recidiva. È il punto centrale della riforma dell’ordinamento penitenziario, basata sui lavori degli Stati generali per l’esecuzione penale voluti dal Guardasigilli Andrea Orlando e conclusi nell’aprile 2016. “Questo non è un provvedimento salva-ladri, uno svuota-carceri: da domani non ci sarà nessun ladro in più in giro”., ha ribadito il ministro della Giustizia dopo il Consiglio dei ministri che ha dato il via libera alla riforma dell’ordinamento penitenziario. “Qualcuno - ha aggiunto - tenterà di cavalcare queste paure. Ma da domani non uscirà nessuno dal carcere, da domani un giudice potrà valutare il comportamento del detenuto e ammetterlo a misure che gli consentono di restituire qualcosa di quello che ha tolto alla società”. Il testo sull’ordinamento penitenziario “potrebbe passare ora alla commissione speciale”, ha spiegato Andrea Orlando, specificando che “questa è una valutazione che sarà fatta dai Rapporti con il Parlamento”. In attesa che si costituisca una maggioranza in grado di dare vita alle commissioni parlamentari di merito una delle ipotesi, per avviare rapidamente i lavori delle Camere, è quella infatti di istituire due commissioni speciali, una per ciascun ramo del Parlamento, con il compito di esaminare i provvedimenti urgenti. Già in avvio della precedente Legislatura, nel 2013, è stata questa la strada individuata per l’esame del Documento di economia e Finanza. E l’ipotesi è tornata in auge proprio in vista dell’esame del Def, che il governo dovrebbe presentare entro il 10 aprile. Il nuovo via libera del Consiglio dei ministri alla riforma dell’ordinamento penitenziario “è sicuramente una buona notizia, ma c’è ancora da fare pressione e da non allentare la tensione poiché, in questa fase post-elettorale, i tempi potrebbero dilatarsi e la delega decadere. C’è infatti tempo fino ad inizio luglio per approvarla”, ha dichiarato il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella. La pensa diversamente il segretario della Lega Matteo Salvini: “Vergogna, un governo bocciato dagli italiani approva l’ennesimo salva ladri. Appena al governo cancelleremo questa follia nel nome della certezza della pena: chi sbaglia paga!”. “Ancora una volta l’arroganza del Pd produce l’ennesimo atto scellerato - tuona il senatore forzista Maurizio Gasparri - contro gli agenti che lavorano nelle carceri e a favore di chi invece ha commesso reati ed è in carcere per scontare la propria pena”. Misure alternative più facili. Accesso anche per chi ha ancora 4 anni da scontare di Giovanni Galli Italia Oggi, 17 marzo 2018 Si allarga per i detenuti la possibilità di accedere alla misure alternative al carcere. Potrà fruire di questa opportunità anche chi ha un residuo di pena fino a quattro anni, sempre tramite la valutazione del magistrato di sorveglianza. E in ogni caso questa possibilità non si estende ai detenuti al 41bis per reati di mafia e quelli per reati di terrorismo. È la principale previsione contenuta nel decreto legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario approvato ieri in secondo esame preliminare dal consiglio dei ministri. “Il provvedimento che abbiamo approvato non è uno svuota-carceri né un salvaladri”, ha detto il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, spiegando che il testo è stato varato senza le modifiche sostanziali chieste in commissione al Senato, ma con modifiche di piccola entità. Per questo il testo dovrà avere un altro passaggio presso le commissioni parlamentari prima di essere definitivamente varato. A occuparsene potrebbero essere le commissioni speciali che saranno istituite per vagliare i provvedimenti urgenti in attesa della formazione di quelle definitive, ma su questo deciderà, ha detto Orlando, il ministro per i rapporti con il parlamento. “Qualcuno”, ha aggiunto il guardasigilli, “tenterà di cavalcare paure. Ma da domani non uscirà nessuno dal carcere, da domani un giudice potrà valutare il comportamento del detenuto e ammetterlo a misure che gli consentono di restituire qualcosa di quello che ha tolto alla società”. Il dlgs di “Riforma dell’ordinamento penitenziario in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 82, 83 e 85, lettere a), b), c), d), e), f), h), i), l), m), o), r), s), t), e u) della legge 23 giugno 2017, n. 103”, questo il titolo per esteso, introduce disposizioni volte a riformare l’ordinamento penitenziario. Ha principalmente l’obiettivo di renderlo più attuale (la disciplina è del 1975) per adeguarlo ai successivi orientamenti della giurisprudenza di Corte costituzionale, Cassazione e Corti europee, e mira, in particolare, a: ridurre il ricorso al carcere in favore di soluzioni che riportino al centro del sistema la finalità rieducativa della pena indicata dall’art. 27 della Costituzione; razionalizzare le attività degli uffici preposti alla gestione del settore penitenziario; diminuire il sovraffollamento, sia assegnando formalmente la priorità del sistema penitenziario italiano alle misure alternative al carcere, sia potenziando il trattamento del detenuto e il suo reinserimento sociale in modo da arginare il fenomeno della recidiva; valorizzare il ruolo della Polizia Penitenziaria, ampliando lo spettro delle sue competenze. Il decreto è suddiviso in 6 parti, corrispondenti ad altrettanti capi, dedicate alla riforma dell’assistenza sanitaria, alla semplificazione dei procedimenti, all’eliminazione di automatismi e preclusioni nel trattamento penitenziario, alle misure alternative, al volontariato e alla vita penitenziaria. La riforma dell’ordinamento penitenziario “serve ad abbattere la recidiva”, ha dichiarato Orlando. “Attualmente vengono spesi ogni anno quasi tre miliardi di euro per l’esecuzione penale, eppure abbiamo il tasso di recidiva più alto d’Europa”. Per chi espia la pena in carcere vi è recidiva nel 60,4% dei casi, mentre per coloro che hanno fruito di misure alternative alla detenzione il tasso di recidiva è del 19%, ridotto all’l% per quelli che sono stati inseriti nel circuito produttivo. Se le super-procure scavalcano l’intermediazione dell’Anm di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 17 marzo 2018 Alla fine quel tramonto dei corpi intermedi che molto fa discutere politologi e sociologi investe anche la magistratura. Il declino, temuto o auspicato, di una forma di rappresentanza a suo modo “classica” come quello dell’Anm traspare dal, per certi versi, sorprendente comunicato, con il quale l’Associazione nazionale magistrati ha preso le distanze da quel network di capi delle principali procure che sempre più si pone e ha la forza di porsi come interlocutore della politica. Poche righe, abbastanza dirompenti, per annunciare come all’ordine del giorno del prossimo Consiglio direttivo centrale verrà posta “l’iniziativa attivata da alcuni Procuratori della Repubblica volta a strutturare un coordinamento permanente tra i dirigenti degli uffici requirenti, con la finalità di elaborare proposte unitarie su tematiche giudiziarie nonché di interloquire in maniera sinergica con le Istituzioni. Tale iniziativa, anche al di là delle intenzioni dei Procuratori interessati, può oggettivamente produrre l’effetto di delegittimare e depotenziare il ruolo della Anm, sovrapponendosi alla sue fondamentali funzioni”. Una presa di distanza netta, tanto da far suonare un po’ troppo rituali le conclusioni con le quali la giunta Anm “auspica che gli ideatori si rendano promotori anche di una opportuna interlocuzione con la Anm al fine di elaborare un percorso condiviso, essendo l’associazione ampiamente disponibile a valorizzare le istanze sottese all’iniziativa nell’ambito di un confronto franco e leale nell’interesse di tutta la magistratura e della giustizia”. Una sorta di ufficializzazione di quel partito delle Procure che nel passato è stato più volte evocato e soprattutto contestato da esponenti politici protagonisti di stagioni di forte tensione con la magistratura stessa. Ora, invece, e suona per certi veri paradossale, le perplessità arrivano dalle toghe stesse. Alla vigilia oltretutto della campagna elettorale per il rinnovo del Csm. Consiglio superiore della magistratura che, a sua volta, nelle ultime ore ha voluto sottolineare la propria “vicinanza” agli uffici di Procura, ribadendo la propria centralità istituzionale su un tema assai delicato come quello della nuova ipotesi di avocazione in vigore dall’agosto scorso. A smuovere le acque, l’iniziativa del G5 dei pubblici ministeri per la costituzione di un coordinamento, partita da Giuseppe Pignatone (Roma), Giovanni Melillo (Napoli), Francesco Greco (Milano), Franco Lo Voi (Palermo) e Armando Spataro (Torino). Di fatto, la formalizzazione di quanto avvenuto assai di recente sul fronte delle intercettazioni. Con i capi delle Procure che prima, con circolari che autonomamente proponevano soluzioni alle ricorrenti frizioni tra tutele della privacy ed esigenze investigative, hanno fatto da battistrada alla riforma del Governo, e poi, in corso d’opera, hanno suggerito modifiche al Parlamento (in larga parte non accolte, a dire la verità) e adesso sono pronti a chiedere uno slittamento dell’entrata in vigore in un convegno già convocato dalle Camere penali a Roma tra una settimana. A chiarire meglio, il presidente dell’Anm, Eugenio Albamonte, spiega che “non sono assolutamente in discussione le intenzioni dei protagonisti di questa iniziativa, e neppure il sacrosanto diritto di tutti di dibattere e discutere, anche io sono pubblico ministero, ma il rischio, oggettivo, è che in questo modo a potere essere scavalcata sia la forma di rappresentanza unitaria che tutta la magistratura si è data”. E nelle parole di Albamonte traspare anche la preoccupazione per una possibile “polifonicità” di voci con le quali la magistratura si esprime nel momento in cui si apre anche una complicata fase istituzionale. Napoli: l’accusa di Saviano “in carcere muore la Costituzione” di Stella Cervasio La Repubblica, 17 marzo 2018 Saviano torna a Napoli e visita i detenuti di Poggioreale. Lo annuncia su Fb: “La tanto amata Costituzione muore in carcere”. Ieri mattina l’autore di “Gomorra” è entrato nel penitenziario con la ex deputata e coordinatrice della presidenza del Partito radicale Rita Bernardini, che per un mese con oltre 10 mila detenuti ha fatto lo sciopero della fame per spingere il governo a varare i decreti attuativi della riforma dell’ordinamento penitenziario. Oggi al Consiglio dei ministri è all’ordine del giorno la parte della riforma sulle pene alternative. Ed è a quel settore che l’attenzione dello scrittore si è fermata. “Il Parlamento ha approvato una riforma - dice Saviano - che dà piena attuazione all’articolo 27 della Costituzione, ma la campagna elettorale ha suggerito al governo prudenza. E di quale prudenza stiamo parlando? Seguire i sondaggi secondo i quali gli italiani vorrebbero i detenuti in celle senza serrature e senza chiavi. Murati vivi. Reclusi a vita. Quali sondaggi? Quelli delle carceri da considerare discarica sociale”. I segni del mancato decollo sono sotto gli occhi dei visitatori: la falegnameria, l’officina, la tipografia sono i laboratori, alcuni anche molto capienti, dove è previsto si svolga il programma di recupero dei detenuti. Lavorare, essere pagati, una simulazione della vita vera, per poi mettere in atto a fine pena ciò che in carcere si è imparato. Non succede. O meglio, accade per una percentuale irrisoria: su 2300 detenuti, lavora anche meno del 10 per cento. Eppure, “se la politica vuole ritrovare dignità è da Poggioreale, da Lampedusa e dai lager libici che deve ripartire”, è convinto Saviano, che lo scrive sul suo profilo Facebook. L’accusa al governo in scadenza è di non aver spinto l’acceleratore sulla riforma delle carceri. “La coalizione c’è già, ed è contro gli ultimi. Tante promesse - commenta Saviano - ma nulla di fatto (o molto poco) fino a oggi”. E torna a sottolineare che la giornata di oggi sarà cruciale: “L’ultima occasione per rendere le nostre carceri più umane, rispettose della “amata” (a giorni alterni) Costituzione e per rendere le vite di chi sta fuori più sicure, dettaglio non trascurabile”. Saviano, rispondendo ad alcuni commenti sotto il suo post, aggiunge che aspirare a un carcere più umano “non è buonismo, basta guardare le statistiche sulla recidiva per rendersi conto che carceri umane equivalgono a una società più sicura”. Rita Bernardini ha visitato tante volte prima il penitenziario napoletano con Marco Pannella. “Oltre al ristrutturato Padiglione Genova, che ospita 36 detenuti - e che per questo ha un aspetto decisamente più umano degli altri reparti più affollati - abbiamo visitato la falegnameria, la tipografia, l’area dedicata al corso di canto e a quello di teatro e a vari spazi dedicati alle diverse attività rieducative. Ma sono troppo pochi i detenuti che vi lavorano, come la stessa direttrice ammette, e la sua ricerca va in direzione di un’apertura sempre maggiore, ma mancano le risorse. Quando tornano nelle loro celle, la situazione non cambia: luoghi stretti, sovraffollati. Alcuni ci hanno detto “non abbiamo neanche il cuscino e i materassi sono scaduti”. Altri problemi, nel rapporto con l’istituzione, sono quelli che i detenuti hanno denunciato a Saviano e alla Bernardini: “Il più grave di tutti è l’impossibilità di lavorare - sottolinea l’ex deputata radicale - Nella falegnameria lavorano 6 persone, e altrettante in tipografia. Un falegname ci ha detto di lavorare 6 ore al giorno guadagnando 700 euro a settimana, ed è certo di trovare lavoro all’uscita. Ma tutti gli altri no”. Molti i servizi alla popolazione carceraria svolti dai detenuti e sta per partire un corso per pizzaioli finanziato dalla Regione. Ma non è abbastanza. Non ancora abbastanza. Torino: bimbi in carcere, interrogazione al ministero della Giustizia La Stampa, 17 marzo 2018 L’ha presentata Liberi e Uguali. “È inaccettabile sia l’idea che tre bambini siano costretti a restare a lungo in un luogo non adatto, che ne ha già compromesso la serenità, sia l’ipotesi ventilata di allontanarli dalle loro mamme”. Lo dichiara il deputato uscente di Possibile, Andrea Maestri, esponente di Liberi e Uguali, annunciando un’interrogazione al ministro della Giustizia sulla vicenda dei bambini detenuti nella sezione femminile del carcere di Torino. La storia dei tre piccoli, due di 2 anni e uno di appena 12 mesi, arrivati al Lorusso e Cotugno insieme alle loro madri, è emersa pochi giorni fa. Le donne, tutte di nazionalità nigeriana e accusate a vario titolo di tratta di esseri umani, riduzione in schiavitù e resistenza a pubblico ufficiale, erano state accolte nell’Icam, la struttura separata dalle altre sezioni del penitenziario, ricavata dai vecchi alloggi del personale. La situazione è precipitata poco prima di Natale, quando il loro rifiuto a rispettare le regole della comunità aveva fatto salire la tensione tra le altre detenute. Da qui la decisione del direttore del carcere, che aveva già segnalato il caso al ministero, di un momentaneo trasferimento. “Una soluzione ideale e più tollerabile per i bambini, potrebbe essere costituita dal modello detentivo delle case famiglia protette, ma sostanzialmente rimasto inapplicato perché le disposizioni della legge non prevedono finanziamenti per la loro costituzione” spiega Maestri. Venezia: le parole della libertà, quella canzone scritta a 76 mani con le detenute di Pierfrancesco Carcassi Corriere Veneto, 17 marzo 2018 Il nuovo singolo di Jaselli è nato dentro il carcere della Giudecca. Sopportazione, noia tristezza, disperazione: sono alcune delle parole scelte da donne e ragazze del carcere che hanno partecipato alla canzone di Jack Jaselli (a destra) L’associazione Closer, presieduta da Giulia Ribaudo, 27 anni, ha avviato un progetto per portare la cultura dentro il carcere della Giudecca. “Volevo tatuarmi “Il giudice mi ha condannato ma mia madre mi ha perdonato”, come ha fatto un mio amico, perché è vero: mia madre mi ha sempre perdonata”. Una sintesi dolce e amara assieme quella di Desirè, 20 anni: la frase penetrata nella sua pelle, avrebbe potuto rimanere un segno solo privato. Uno tra i tanti del passato che l’ha costretta nel carcere femminile della Giudecca, isola nell’isola, a pochi metri di laguna da San Marco. E invece è diventato il verso di una canzone. Non una qualunque: fa parte del testo di “Nonostante tutto”, il nuovo singolo del cantautore milanese Jack Jaselli, uscito ieri per l’etichetta Universal e prodotto dal chitarrista dei Subsonica Max Casacci: Jaselli lo ha scritto e cantato collaborando con le detenute della Giudecca. Ciascuna di loro, di età e percorsi diversi, ha scelto una parola che riflettesse la propria idea di libertà: 37 in tutto. Luciana, 27 anni, ha scelto “sopportazione”: “Perché mi permette di stare qui ad attendere la libertà”, spiega. Ma ci sono anche “tristezza”, “disperazione”, “noia”, “sesso”, “speranza”, “volare”, “Dio”, “cuore”, e altre ancora. Tutto è nato da un concerto, durante un ciclo di laboratori tenuti in carcere da musicisti professionisti: “Nel 2017 sono stato invitato dall’associazione Closer per un esibizione-workshop alla Giudecca - racconta Jack Jaselli - era la prima volta che mettevo piede in carcere ed è stato un impatto”. Dopo una manciata di incontri, il cantautore ha conosciuto le storie delle detenute ed è nata l’idea di comporre una canzone: è stato lui a unire e musicare le parole suggerite dalle ragazze sul tema della libertà, scelto assieme. “Ero tesissimo quando ho fatto sentire loro il risultato, avevo la responsabilità di creare un testo a partire da parole che riassumevano storie personali”, ricorda il musicista. Le detenute ne sono state entusiaste e Jaselli ha proposto loro di cantarlo con lui. Così il carcere è diventato uno studio di registrazione, con microfoni e computer. “Alla fine ci siamo abbracciati e commossi - ha concluso Jaselli - La cosa più bella che mi hanno detto è che lavorando alla canzone smettevano di essere detenute e tornavano donne e ragazze. Verrò a trovarle e con un permesso proverò a portarle a vedere un concerto”. È stata per tutti un’esperienza artistica e umana di superamento delle distanze: “Il ricordo più bello è l’aver conosciuto Jack come persona, oltre che come musicista”, tiene a sottolineare Desirè. Stefania aggiunge: “Le attività come questa aiutano a rafforzare il rapporto tra noi detenute, ma anche a creare qualcosa che è pensato per il mondo esterno”. Era questo lo scopo del progetto: “Vogliamo portare un pezzo di carcere all’esterno e un pezzo di mondo in carcere - afferma Giulia Ribaudo, 27 anni, presidentessa dell’associazione organizzatrice Closer - Abbiamo iniziato invitando alla Giudecca scrittori come il Campiello Giorgio Fontana o la traduttrice Martina Testa per farli intervistare dalle detenute; ora proveremo a lanciare un corso di programmazione”. Circa un anno dopo il primo incontro tra Jaselli e le ragazze, alla Giudecca sono sbarcate le telecamere del piccolo schermo: il prossimo 21 marzo alle 23.10 andrà in onda su Real Time il documentario sulla genesi di “Nonostante tutto”. Per mostrare che “Bisogna usare la filosofia e la sopportazione / Metter l’infinito dentro una canzone / e volare via di qua”, come recitano alcune strofe della canzone. E che nonostante le quattro mura che delimitano la quotidianità del carcere, la musica può rendere liberi. Com’è stato per Desirè: “Ora la frase che volevo tatuarmi la potranno sentire tutti!”, conclude felice. Ancona: “Diritti dei bambini e genitori detenuti”, convegno patrocinato dal Garante picchionews.it, 17 marzo 2018 Il diritto del bambino al mantenimento della relazione con il genitore detenuto tema centrale del seminario organizzato dagli Ordini professionali di psicologi e assistenti sociali e patrocinato dal Garante dei diritti. Ospitato a Palazzo delle Marche, l’incontro ha focalizzato l’attenzione su una possibile collaborazione tra quanti operano nel settore per attivare sistemi integrati di supporto alla genitorialità. Un problema caratterizzato da numeri significativi se si considera che ogni anno in Italia centomila bambini si trovano ad avere un genitore recluso e oltre due milioni sono nella stessa situazione per quanto riguarda i Paesi del Consiglio d’Europa. “Non possiamo che ribadire - ha sottolineato il Garante Andrea Nobili presentando l’iniziativa - la centralità del legame affettivo, che va preservato nonostante situazioni di oggettiva difficoltà. Elementi essenziali sono quelli riferiti all’accoglienza, all’assistenza, al supporto psicologico, all’informazione da destinare ai minori, anche attraverso un’adeguata formazione del personale. E non può mancare una costante azione di monitoraggio che permetta di cogliere le eventuali criticità e di attivare interventi qualificati”. Numerosi i relatori chiamati a fare il punto sulla normativa vigente, sull’applicazione del Protocollo - Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti, sull’attuale situazione nelle Marche, sui progetti e gli interventi posti in essere anche grazie al lavoro del terzo settore. Bugie e torture in Messico, “doppia ingiustizia” per i 43 studenti desaparecidos di Fabrizio Lorusso Il Manifesto, 17 marzo 2018 Rapporto Onu accusa autorità e Procura generale della Repubblica. Con un rapporto presentato il 15 marzo a Ginevra l’Onu ha dato il colpo di grazia alla cosiddetta “verità storica” della Procura generale della Repubblica (Pgr) messicana sul caso dei 43 studenti di Ayotzinapa, vittime di sparizione forzata nella città di Iguala la notte del 26 settembre 2014 e tuttora desaparecidos. Il documento “Doppia ingiustizia: relazione sulle violazioni ai diritti umani nell’indagine sul caso Ayotzinapa” dell’Ufficio dell’Alto commissariato Onu per i Diritti umani analizza i casi di 63 dei 129 detenuti nell’inchiesta sulla sparizione degli studenti che, lungi dall’essere “chiusa”, presenta una lunga serie di inconsistenze e piste tralasciate deliberatamente dagli inquirenti. Jan Jarab, rappresentante del Commissariato Onu in Messico, ha spiegato che, in base ai referti medici della stessa Pgr, si può affermare che almeno 34 persone, che “presentavano lesioni multiple” sono state torturate dalle autorità messicane e, inoltre, l’ex direttore dell’Agenzia per le Indagini criminali, Tomás Zerón, s’è comportato “in modo fraudolento” nei confronti della stessa Onu. Zerón è stato indicato per gestioni illegali in una presunta scena del crimine nella discarica di Cocula, dove secondo la Pgr i ragazzi sarebbero stati bruciati da narcotrafficanti. Inoltre ha dichiarato il falso, cioè che membri dell’Ufficio Onu in Messico l’avevano accompagnato il 28 ottobre 2014 nei pressi del Río San Juan, che scorre sotto la discarica, dove sono state ritrovate delle borse di plastica coi resti di uno degli studenti. L’ormai screditata versione ufficiale si basa anche su queste prove, raccolte irregolarmente e manipolate da Zerón. Dunque l’Onu conferma quanto già denunciato dai familiari dei ragazzi, dai giornalisti e dagli esperti della Commissione interamericana dei Diritti umani, i quali hanno chiesto senza successo che s’investigasse il ruolo dell’esercito nel crimine. “Una menzogna storica fabbricata in una discarica di spazzatura, così com’è spazzatura la storia che hanno creato”, ha gridato il 16 marzo in conferenza stampa Emiliano Navarrete, uno dei genitori dei 43. “Esauriremo tutte le vie legali fino ad arrivare alla verità, i delinquenti sono i funzionari di governo e dovranno guardarci in faccia, non permetteremo che ci mettano i piedi in faccia perché siamo poveri”. La pista ufficiale sul caso è stata costruita quasi esclusivamente in base a testimonianze di persone che si sono autoaccusate dei delitti imputati in seguito alle torture, secondo il rapporto, di funzionari della Procura, della polizia federale e della Marina. “Tiriamo le somme delle responsabilità dello Stato”, commenta Mario Patrón, direttore del Centro per i Diritti umani Pro Juárez. “Dal rapporto emerge il ruolo della Marina nella morte violenta del detenuto Blas Patiño”, ha spiegato Mario González, padre dello studente César Manuel. “Non difendiamo nessun delinquente ma non vogliamo neanche una verità estorta con la tortura”. L’Onu insiste perché la Pgr conduca “un’indagine autentica sulle torture e altre violazioni ai diritti umani, includendo le responsabilità dei superiori e il potere giudiziario. “Ringraziamo l’Onu, perché il governo vuole coprire i veri responsabili”, dice María de Jesús Tlatempa, madre di uno dei ragazzi. “Ora basta con le sparizioni forzate e le fosse clandestine”. Afghanistan. La giustizia giusta di Abdul Pedram di Paolo Lepri Corriere della Sera, 17 marzo 2018 Abdul Wadood Pedram, fondatore a Kabul della “Human Rights and Eradication of Violence Organization”, sogna un processo di Norimberga afghano. Vorrebbe vedere sul banco degli imputati chi ha seminato morte e terrore nel suo Paese: i talebani, l’Isis, la rete Haqqani. Senza dimenticare l’esercito e la coalizione internazionale, perché a pagare il prezzo delle guerre (e dei loro errori) sono sempre i civili innocenti. In effetti, comunque la si pensi su un intervento diventato anche un difficile appoggio alla ricostruzione, la giustizia internazionale ha un senso solo se esamina i fatti e ne accerta in modo imparziale le responsabilità. E bisogna fare presto. Non si deve sottovalutare il pericolo che la proposta di pace rivolta agli “studenti di Dio” dal presidente Ashraf Ghani, ha detto Pedram a El País, “possa seppellire tutti i delitti commessi”. Alla Corte penale internazionale dell’Aja sono state depositate le denunce, da lui raccolte, riguardanti circa 800 casi di crimini di guerra che hanno coinvolto 1,7 milioni di cittadini afghani: massacri, uccisioni, attentati suicidi, esecuzioni extragiudiziarie. Il tribunale - nato nel 2002 con la ratifica da parte di sessanta Paesi dello “Statuto di Roma” (ora sono 123) - dovrà stabilire se iniziare le indagini. Pedram ritiene che tutto questo sia indispensabile anche per mettere fine all’impunità esistente. “Il nostro sistema - osserva - non assicura giustizia né alle vittime né ai familiari”. Tra i tanti afghani che si sono rivolti alla Corte c’è un giovane, Hussain Razaee. In luglio i talebani hanno compiuto un attentato suicida contro un pullman che trasportava gli impiegati del ministero delle miniere. Su quell’autobus, insieme ad altre trenta persone - tutte morte - c’era Najiba, la sua fidanzata. Seguendo il destino rovesciato dell’uomo che quel giorno guidava un’automobile imbottita di esplosivo, Hussain aveva pensato di uccidersi. Accecato dal fanatismo religioso, l’assassino sa perché lo ha fatto, mentre lui, invece, non sa ancora perché non lo ha fatto. “Ho perso la persona che amavo”, ha detto alla Associated Press. Gli sono rimaste solo queste sei parole. Di loro, e di molti altri come loro, si sta occupando Pedram. Il filo non è nascosto.