Carceri, la riforma in Cdm. Ma Salvini strepita e si appella a Mattarella di Eleonora Martini Il Manifesto, 16 marzo 2018 Il leader leghista: “Faremo qualunque cosa per fermare il salva-ladri”. Ma le nuove regole contenute nel decreto attuativo sono state votate dal parlamento. A elezioni superate e messo da parte ogni tatticismo, quando ormai mancano pochi giorni all’insediamento del nuovo Parlamento, il governo Gentiloni sembra convinto finalmente a rispettare la delega legislativa ricevuta e a portare a termine almeno una parte di quella riforma dell’ordinamento penitenziario tanto voluta dal ministro di Giustizia Andrea Orlando e alla quale hanno lavorato per due anni circa duecento tra i maggiori esperti italiani del mondo penale e penitenziario. E così oggi il Consiglio dei ministri si appresta ad un ulteriore passo verso il varo definitivo del decreto attuativo delle nuove misure alternative, l’unico dei quattro che ha qualche possibilità di concludere l’iter prima dell’inizio della nuova legislatura. Ma è bastato che la riforma entrasse nell’ordine del giorno del Cdm di questa mattina per far inalberare il leghista Matteo Salvini. “Un governo sconfitto e senza la fiducia degli italiani si prepara ad approvare il salva-ladri - ha detto sobriamente il possibile presidente del Consiglio - Facciamo appello al Presidente della Repubblica affinché eviti questa vergogna. Noi siamo pronti a qualsiasi cosa per impedire a migliaia di delinquenti di uscire di galera”. Il “salva-ladri” o “svuota-carceri”, come lo hanno ribattezzato strumentalmente i leghisti e i leader pentastellati, in realtà riforma le modalità con cui si concedono ai detenuti le misure alternative al carcere, superando alcuni automatismi, in favore invece di una maggiore discrezionalità accordata alla magistratura di sorveglianza. Che dovrà decidere caso per caso, nella logica di soppesare meglio il percorso punitivo/rieducativo di ciascun condannato, come da dettato costituzionale. Con la stessa ambizione di favorire il reinserimento sociale dei detenuti, il decreto prevede l’equiparazione tra infermità psichica e fisica per l’accesso alle cure, maggiore attenzione alla formazione, all’uso delle tecnologie, al lavoro e anche ai diritti. Come quello di non essere discriminati per l’orientamento sessuale o l’identità di genere, o quello di essere reclusi nel carcere più vicino al proprio territorio. Si amplia inoltre il parterre di reati che rientrano nella possibile concessione di benefici e di misure alternative. Su questo punto, in particolare sulla riforma dell’articolo 4 bis, era intervenuta pesantemente la censura della commissione Giustizia del Senato che vorrebbe maggiori limitazioni. Ma il governo uscente sembrerebbe orientato ad accogliere solo in minima parte le obiezioni di Camera e Senato. Questa mattina il testo sostanzialmente immutato potrebbe essere rinviato alle commissioni Giustizia per avere l’ultimo parere, in ogni caso non vincolante, prima dell’ok definitivo. Per sostenere l’approvazione della riforma, il cui iter era iniziato il 22 dicembre, la radicale Rita Bernardini, che è stata per settimane in sciopero della fame insieme a migliaia di detenuti, ieri con Roberto Saviano si è recata in visita al padiglione Genova di Poggioreale, recentemente inaugurato da Orlando. All’inizio della settimana, invece, l’Unione delle camere penali ha indetto due giorni di astensione dalle udienze, nella convinzione che non sia più rinviabile riportare “l’esecuzione penale entro una cornice di legalità costituzionale e sovranazionale dopo le umilianti condanne europee”. Il Governo ci riprova, oggi in Cdm la riforma delle carceri Huffington Post, 16 marzo 2018 Il provvedimento mira a estendere la possibilità per i detenuti di accedere a misure alternative. Salvini sulle barricate: "Fermeremo il Salvaladri". Il governo ci riprova. Dopo il tentativo sfumato il 22 febbraio, prima delle elezioni, oggi torna in Consiglio dei ministri la riforma dell’ordinamento penitenziario voluta dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, il cui fulcro è l’estensione dell’esecuzione penale esterna come alternativa al carcere. Se la materia era già incandescente per essere trattata prima del voto - Matteo Salvini la definì una "follia" - l’esito delle elezioni del 4 marzo conferma la situazione alquanto complicata per il varo del testo di legge. Permangono le contrarietà di diverse forze politiche, che si sono affermate alle urne, Lega in testa. "Un governo sconfitto e senza la fiducia degli italiani si prepara ad approvare il salvaladri. Facciamo appello al presidente della Repubblica affinché eviti questa vergogna. Noi siamo pronti a qualsiasi cosa per impedire a migliaia di delinquenti di uscire di galera" afferma il leader leghista. Nelle ultime settimane sono stati molti gli appelli a procedere in questa direzione: due giorni fa, il 13 marzo, i penalisti hanno proclamato uno sciopero astenendosi dalle udienze per protestare contro la mancata approvazione della riforma; Antigone, l’associazione che si batte per i diritti dei detenuti, ha lanciato numerosi appelli, l’ultimo al Capo dello Stato; i radicali hanno accusato il Governo di aver mentito sulle reali intenzioni di portare a termine la riforma. Il decreto attuativo ha avuto il primo via libera preliminare da parte del Consiglio dei ministri il 22 dicembre, poi è stato avviato alle Camere per i pareri delle commissioni. E qui ha incontrato ostacoli, in particolare al Senato, con la richiesta di rivedere proprio il nocciolo duro del provvedimento. Richiesta bypassata, perché alla vigilia del Cdm del 22 febbraio, l’intenzione era di portare il testo senza interventi. Poi ci fu il rinvio. A quanto si apprende, qualche richiesta della Camera e del Senato è stata accolta, ma i punti controversi non sono stati toccati, il testo resta nella sostanza quello di dicembre. Quindi, se il provvedimento dovesse passare, la possibilità di accedere alle misure alternative al carcere si allarga a chi ha un residuo di pena fino a quattro anni. Una linea, che per altro, ha ora l’imprimatur di una sentenza della Corte Costituzionale depositata pochi giorni fa, il 2 marzo, che individuando un limite del codice penale, ha di fatto ritenuto legittima questa impostazione, riconoscendo il diritto a chiedere l’affidamento in prova ai servizi sociali da parte di chi deve scontare una pena residua fino a 4 anni. "Non ci sarà nessun automatismo, sarà comunque sempre un giudice a valutare l’applicazione della misura alternativa, che in ogni caso resterà preclusa per mafiosi al 41bis e terroristi", assicurano dal ministero della Giustizia, dove prevale l’ottimismo rispetto all’approvazione, domani, del decreto. Un’approvazione che comunque, anche nel mutato quadro politico post-elettorale, potrebbe innescare nuove polemiche e lascerà parecchio scontenta un’altra categoria: gli agenti penitenziari, perplessi per diversi contenuti del decreto che, secondo i sindacati, vanno ad aggravare il lavoro, già difficile, nelle carceri. Carceri, ultimo appello: oggi riforma in Consiglio dei ministri Avvenire, 16 marzo 2018 Il governo ci riprova. Dopo il tentativo sfumato il 22 febbraio, prima delle elezioni, oggi torna in Consiglio dei ministri la riforma dell’ordinamento penitenziario voluta dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, il cui fulcro è l’estensione dell’esecuzione penale esterna come alternativa al carcere. Proprio prima delle elezioni del 4 marzo, il Cdm aveva approvato in via preliminare tre decreti attuativi sulle carceri riguardanti minori, lavoro e giustizia riparativa. “È un work in progress”, aveva detto allora il premier Paolo Gentiloni. Gli obiettivi della riforma, che ha avuto un iter tortuoso nei passaggi tra governo e Parlamento, sono tra le altre cose la riduzione del ricorso al carcere grazie a misure alternative, la razionalizzazione del lavoro degli uffici penitenziari, la diminuzione del sovraffollamento delle carceri, la valorizzazione del ruolo della Polizia penitenziaria. Materia ritenuta troppo "scomoda", quella dei benefici per i detenuti, per trattarla prima del voto. Ma anche dopo, a giudicare dalla reazione del leader della Lega, Matteo Salvini, che ieri si è appellato al presidente Mattarella affinché “eviti” quella che lui definisce “vergogna”. Nelle ultime settimane, però sono stati molti gli appelli di segno contrario, cioè a procedere: martedì scorso i penalisti hanno proclamato uno sciopero astenendosi dalle udienze per protestare contro la mancata approvazione della riforma; Antigone, l’associazione che si batte per i diritti dei detenuti, ha lanciato numerosi appelli, l’ultimo al capo dello Stato. Il decreto attuativo ha avuto il primo via libera preliminare da parte del Cdm il 22 dicembre, poi è stato avviato alle Camere per i pareri delle commissioni. E qui ha incontrato ostacoli, in particolare al Senato, con la richiesta di rivedere proprio il nocciolo duro del provvedimento. Richiesta aggirata, perché alla vigilia del Cdm del 22 febbraio, l’intenzione era di portare il testo senza interventi. Poi ci fu il rinvio. E oggi cosa succederà? A quanto si apprende, qualche richiesta della Camera e del Senato è stata accolta, ma i punti più delicati non sono stati toccati, il testo resta nella sostanza quello di dicembre. Quindi, se il provvedimento doves se passare, la possibilità di accedere alle misure alternative al carcere si allargherebbe a chi ha un residuo di pena fino a quattro anni. Una linea, che per altro, ha ora l’imprimatur di una sentenza della Corte costituzionale depositata pochi giorni fa, il 2 marzo, che individuando un limite del Codice penale, ha di fatto ritenuto legittima questa impostazione, riconoscendo il diritto a chiedere l’affidamento in prova ai servizi sociali da parte di chi deve scontare una pena residua fino a quattro anni. “Non ci sarà nessun automatismo, sarà comunque sempre un giudice a valutare l’applicazione della misura alternativa, che in ogni caso resterà preclusa per i mafiosi al 41bis e i terroristi”, assicurano dal ministero della Giustizia, dove prevale l’ottimismo rispetto all’approvazione del decreto. Un’approvazione che comunque, anche nel mutato quadro politico post-elettorale, potrebbe innescare nuove polemiche. Di certo, tra i critici ci sono gli agenti penitenziari, perplessi per diversi contenuti del decreto che, secondo i sindacati, vanno ad aggravare il loro lavoro. Flick: si riapre uno spiraglio per la riforma, ma non mancano i timori di Teresa Valiani Redattore Sociale, 16 marzo 2018 Oggi in Consiglio dei ministri i decreti che ridisegnano il sistema dell’esecuzione penale italiana. L’ex ministro, Giovanni Maria Flick: “Il governo ha fatto quello che doveva, ma lo ha fatto un po’ tardi. Preoccupazione per l’orientamento delle nuove Camere” Riforma dell’ordinamento penitenziario: quando ormai anche per i sostenitori più ottimisti sembrava tutto perduto, si riaccende la speranza di vedere tramutate in legge le proposte maturate dopo tre anni di lavoro, ricerca e un percorso travagliato quanto complesso avviato con il fine di ridisegnare il volto dell’esecuzione penale italiana. Dopo un pre-consiglio convocato ieri mattina, arriva domani in Consiglio dei ministri il decreto di riforma dell’ordinamento penitenziario: documento per il quale nei giorni scorsi si sono mobilitati giuristi, personalità del mondo penitenziario e associazioni con l’intento di sostenere un varo che rischia di restare bloccato sull’ultimo metro. “C’è un ravvedimento operoso da parte del governo - commenta a Redattore Sociale l’ex ministro della Giustizia, Giovanni Maria Flick, tra i più grandi sostenitori della riforma - e questo non può che rallegrarci. Ma quanto all’esito di questo ravvedimento operoso, ci sono dei dubbi: cioè che le nuove Camere non ritengano di proseguire il percorso avviato da quelle precedenti. Il governo ha fatto quello che doveva - sottolinea Flick, ma lo ha fatto un po’ tardi. Lo ha fatto dopo che era passato il termine per la presa d’atto delle Camere precedenti. A questo punto, il carattere vincolante o non vincolante della decisione del Governo è rimesso un po’ alla valutazione che le nuove Camere daranno. A me sembra che dovrebbe andare in porto così. Ma non posso nascondermi la preoccupazione di due Camere che hanno un orientamento totalmente diverso da quello precedente”. “Fermo restando, a mio avviso - conclude l’ex ministro - l’assoluta necessità che l’inizio della riforma possa avere luogo: sia per colmare un gap di svariate decine di anni, sia per non togliere la speranza ai detenuti che aspettano con ansia condizioni più umane di vita, sia per attuare finalmente, almeno in parte, l’articolo 27 della Costituzione, dopo le condanne della corte di Strasburgo”. Le tappe della riforma. 19 maggio 2015: nel carcere di Bollate prendono il via gli Stati generali sull’esecuzione penale: la “rivoluzione culturale” pensata dal ministro Andrea Orlando e coordinata dal prof. Glauco Giostra, per restituire dignità al sistema carcere e riformare tutta l’esecuzione penale italiana dopo le condanne arrivate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu). Oltre 200 esperti, del mondo accademico, giuridico, penitenziario e del volontariato si confrontano per sette mesi e tracciano la nuova rotta, nel solco di quanto dettato dalla Costituzione. 18 e 19 aprile 2016. L’evento conclusivo degli stati generali vede per due giorni più di 600 persone, tra cui il presidente della Repubblica e diversi ministri, nell’auditorium del carcere di Rebibbia e racconta i punti salienti di un documento di 98 pagine che ne sintetizza più di mille. 17 luglio 2017. Il Guardasigilli istituisce tre commissioni per l’elaborazione della riforma dell’ordinamento penitenziario, con il compito di tradurre in norme la Legge Delega (103 del 2017), avvalendosi anche delle proposte arrivate dai tavoli degli Stati generali. La prima commissione, presieduta da Marco Pellissero, lavora sullo schema di decreto legislativo in tema di misure di sicurezza (parte di riforma che ancora non ha visto la luce) e di assistenza sanitaria (tema entrato nel decreto in discussione già in prima battuta). La seconda, presieduta da Francesco Cascini, riguarda la riforma dell’ordinamento penitenziario minorile e produrrà proposte che saranno prima accantonate e poi ripescate. La terza, quella presieduta da Glauco Giostra, che ha coordinato le tre commissioni, lavora sulla parte più corposa della riforma, relativa proprio all’ordinamento penitenziario. È questo il troncone che ha effettuato il percorso più completo, tra passaggi in Consiglio dei ministri e nelle commissioni Giustizia di Camera e Senato, ed è quello che, secondo gli auspici, dovrebbe traghettare anche gli altri due. 23 dicembre 2017. Il consiglio dei ministri approva in esame preliminare una parte dei decreti: passano quelli relativi alla riforma dell’ordinamento penitenziario e sanità. Restano fuori: lavoro e affettività (della commissione Giostra), minori e giustizia riparativa (Casini) e misure di sicurezza (Pellizzero). 7 febbraio 2018. Camera e Senato concludono l’esame dei decreti licenziati dal Consiglio dei ministri ed esprimono parere favorevole con relative osservazioni. Il Senato è quello che interviene più pesantemente “stravolgendo - a parere dei giuristi - il contenuto della riforma”. 22 febbraio 2018. Il Consiglio dei ministri, in una delle ultime sedute utili in vista del voto del 4 marzo, vara tre decreti. Ma, a sorpresa, ripesca i temi lasciati indietro in precedenza (minori, lavoro e giustizia riparativa) e congela il troncone principale: quello relativo alla riforma dell’ordinamento penitenziario. Lo stesso che aveva bisogno solo di percorrere l’ultimo tratto prima del varo definitivo. Mentre i decreti appena varati, avranno bisogno di ripartire dal passaggio iniziale nelle competenti commissioni parlamentari. I garanti territoriali avviano uno sciopero della fame per sostenere l’approvazione della riforma mentre a favore dei decreti si mobilita anche il resto del mondo penitenziario con manifestazioni e appelli che arrivano fino al Presidente della Repubblica e che vedono in campo alte personalità del mondo giuridico, accademico, forense (con le camere penali che indicono giornate di sciopero e una manifestazione nazionale), e di parte della magistratura. Domani il nuovo passaggio in Consiglio dei ministri. Giostra: “per la riforma passaggio tanto importante quanto insperato” di Teresa Valiani Redattore Sociale, 16 marzo 2018 Il presidente della Commissione ministeriale commenta il nuovo step della riforma dell’ordinamento penitenziario, calendarizzata per domani in Consiglio dei ministri. “Si tratta di un passaggio tanto importante, quanto ormai insperato: sulla riforma penitenziaria si era addensata, infatti, una tempesta perfetta”. Coordinatore delle tre commissioni ministeriali per la riforma dell’ordinamento penitenziario, presidente della commissione che ha lavorato sul troncone principale, Glauco Giostra, ordinario di Procedura penale alla Sapienza, già in passato consulente ministeriale e coordinatore del comitato scientifico degli Stati generali sull’esecuzione penale, commenta per Redattore Sociale il nuovo step che stanno affrontando i decreti di una riforma che vuole restituire dignità al sistema dell’esecuzione penale e più sicurezza al Paese. In attesa di un bilancio complessivo, a bocce ferme. “Ai soliti ingiustificati allarmismi, resi ancora più stentorei dalla demagogia pre-elettorale - spiega Giostra, si sono aggiunte poche, ma autorevoli, voci, che si sono lasciate andare a spericolate e fuorvianti interpretazioni. Le complesse vicende politiche degli ultimi tempi, poi, hanno reso incerto e frammentato l’iter istituzionale per l’approvazione della riforma. Una parte importante è riuscita ad arrivare alla penultima tappa prima del suo varo. Ciò grazie alla determinazione politica del Governo, sostenuta dagli appelli di tutti gli studiosi della materia, dell’avvocatura, di una parte qualificata della magistratura, del Garante nazionale e dei Garanti territoriali, delle Associazioni che svolgono ruoli molto importanti in ambito penitenziario, di prestigiose personalità delle istituzioni e della cultura; grazie, in particolare, alla recente mobilitazione delle Camere penali e, sempre, alla strenua, meritoria battaglia ideale del partito radicale per la causa carceraria. Sono invece all’inizio del loro non breve cammino le parti della riforma concernenti il lavoro penitenziario, l’ordinamento penitenziario minorile e la giustizia riparativa. L’auspicio è che anche la riforma del sistema delle misure di sicurezza, il cui progetto è pronto da tempo, possa presto prendere avvio”. “Domani - spiega il presidente - il Consiglio dei ministri dovrebbe licenziare il testo che recepisce alcune delle raccomandazioni espresse dalle Commissioni giustizia di Camera e Senato, per inviarlo nuovamente alle stesse. Le Commissioni avranno dieci giorni di tempo per esprimere un nuovo parere, peraltro non vincolante. Ricevuti i pareri (o comunque dopo che siano decorsi i dieci giorni), il Governo potrà varare la riforma. Tenuto conto della particolarissima contingenza politica, si tratta di vedere se l’invio alle Camere avverrà già all’inizio della prossima settimana o, più opportunamente a questo punto, subito dopo l’insediamento delle nuove Camere, il 23 marzo”. Riforma delle carceri al secondo esame preliminare Italia Oggi, 16 marzo 2018 Ricco menu per il consiglio dei ministri in agenda stamane. L’attesa “Riforma dell’ordinamento penitenziario in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 82, 83 e 85, lettere a), b), c), d), e), f), h), i), l), m), o), r), s), t), e u) della legge 23 giugno 2017, n. 103” è al secondo esame preliminare, il che fa capire che sarà con tutta probabilità il prossimo esecutivo a riprendere in mano il dossier. Molti invece i provvedimenti al sì definitivo. Si va dal dlgs recante “Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 12 maggio 2016, n. 93, in materia di riordino della disciplina per la gestione del bilancio e il potenziamento della funzione del bilancio di cassa”, in attuazione dell’articolo 42, comma 1, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, al Testo unico in materia di foreste e filiere forestali, anche questo all’ultimo ok come pure il dlgs con “Modifiche al decreto legislativo 29 marzo 2004, n. 102, in attuazione dell’articolo 21 della legge 28 luglio 2016, n. 154” e quello di “Attuazione della direttiva (Ue) 2016/1214 della Commissione del 25 luglio 2016 recante modifica della direttiva 2005/62/Ce per quanto riguarda le norme e le specifiche del sistema di qualità per i servizi trasfusionali”. Esame preliminare in vista per una serie di schemi di dlgs: “Disposizioni per disciplinare il regime delle incompatibilità degli amministratori giudiziari, dei loro coadiutori, dei curatori fallimentari e degli altri organi delle procedure concorsuali, a norma della legge 17 ottobre 2017, n. 161”, “Disposizioni in materia di tutela del lavoro nell’ambito delle imprese sequestrate e confiscate, in attuazione dell’articolo 34 della legge 17 ottobre 2017, n. 161”, “Attuazione della direttiva 2014/50/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 aprile 2014, relativa ai requisiti minimi per accrescere la mobilità dei lavoratori tra Stati membri migliorando l’acquisizione e la salvaguardia di diritti pensionistici complementari”, “Norme di attuazione dello Statuto speciale della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia in materia di compartecipazioni ai tributi erariali. Come schemi di dpr, sempre in via preliminare, sono attesi all’esame “Regolamento concernente l’amministrazione e la contabilità delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 4, comma 3, lettera b), del decreto legislativo 31 maggio 2011, n. 91”, “Regolamento recante modifiche ed integrazioni al decreto del presidente della repubblica 19 febbraio 2014, n. 60, relativo alla disciplina del Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle richieste estorsive e dell’usura, a norma dell’articolo 14, comma 5, della legge n. 122/2016”, “Regolamento recante modifiche al decreto del Presidente della Repubblica 7 settembre 2010, n. 178, in materia di registro pubblico delle opposizioni, con riguardo all’impiego della posta cartacea, ai sensi dell’articolo 1, comma 54, della legge 4 agosto 2017, n. 124”, “Regolamento recante ulteriori modifiche all’articolo 12 del decreto del presidente della repubblica 8 settembre 1997, n. 357, concernente regolamento di attuazione della direttiva 92/43/Cee relativa alla conservazione degli habitat naturali e semi-naturali, nonché della flora e della fauna selvatiche”, Regolamento di attuazione del regolamento (Ue) n. 517/2014 sui gas fluorurati a effetto serra e che abroga il regolamento (Ce) n. 842/2006”. Riforma, oggi è il giorno buono! di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 marzo 2018 Si riunisce oggi il Consiglio dei Ministri per approvare il decreto attuativo. Oggi il Consiglio dei ministri si riunisce alle ore 11 per licenziare il decreto attuativo della riforma dell’ordinamento penitenziario già sottoposto al parere delle commissioni giustizia. Ieri in un intervista a Il Dubbio, Walter Verini, capogruppo del Partito Democratico in commissione Giustizia alla Camera, ha spiegato che la riforma si farà e che “sarebbe il timbro finale su un lavoro di anni, non di un atto nuovo”. Il giorno prima, il ministro della Giustizia Andrea Orlando, intervistato da Lanfranco Palazzolo per Radio Radicale ha fatto sapere, infatti, che ci sono ancora speranze. “Posso solo dire - spiega il guardasigilli ai microfoni di radio radicale - che non bisogna abbandonare le speranze, perché stiamo lavorando ancora per questa prospettiva”. Orlando poi ha aggiunto: “Penso che alcune critiche siano state troppo frettolose. Alcune dichiarazioni di questi giorni le comprendo. Anche per me l’aspettativa è grande”. Rita Bernardini del Partito radicale che, insieme a migliaia di detenuti, ha attuato un lungo sciopero della fame, così ha commentato le parole del ministro: “Eh sì, l’importante è riuscire a risolverli i problemi. Che poi, per la situazione penitenziaria e dell’esecuzione penale, sono vere violazioni della Costituzione, non semplici problemi!”. Ma ora, i problemi, sono in via di risoluzione. Stamattina il Governo licenzierà il decreto su cui si regge tutta la riforma. Ricordiamo, infatti, che questo decreto attuativo, approvato preliminarmente dal governo il 22 dicembre scorso e trasmesso alle Commissioni delle due camere per il parere, amplia l’accesso alle misure alternative al carcere innalzando il limite di pena da tre a quattro anni per poter fruire dell’affidamento in prova ai servizi sociali, la riforma dell’assistenza sanitaria e la modifica dell’articolo 4 bis che oggi vieta il ricorso a forme di pene alternative per alcuni reati. Se prima erano considerati ostativi solo l’appartenenza alla mafia e terrorismo, con il passare degli anni, come una calamita, il 4 bis ha attirato a se tanti altri reati inseguendo la logica emergenziale. La modifica, sempre se non venissero accolte le osservazioni della commissione giustizia del Senato, serve semplicemente per riportare il 4 bis all’origine. Oggi il Governo licenzia il decreto e trascorsi dieci di giorni dalla trasmissione a Camera e Senato, il testo potrà essere approvato definitivamente anche in assenza dei pareri. Il papà di Silone e i carcerati di Mattia Feltri La Stampa, 16 marzo 2018 Un gruppo di parlamentari di Forza Italia ha costituito un comitato per la liberazione di Marcello Dell’Utri, condannato a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Dell’Utri, dicono, è allo stremo per un cancro e altre malattie. Tocca ricordare che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ottenuto la revoca della condanna per Bruno Contrada, il superpoliziotto che prese dieci anni per concorso esterno, perché, quando fu commesso, il reato non era abbastanza definito perché Contrada sapesse di commetterlo. Il caso di Dell’Utri è identico, e uno Stato serio dovrebbe prenderne atto. E tocca ricordare che Forza Italia seguita a essere garantista soltanto con gli amici, e infatti tace o si oppone alla civilissima riforma dell’ordinamento penitenziario che amplia il ricorso alle pene alternative al carcere; a carceri orrende e traboccanti (oggi il Consiglio dei ministri prenderà una decisione, e la vedremo). Forza Italia tace o si oppone forse perché gli alleati della Lega e di F.lli d’Italia sono contrarissimi, ma di fronte a tanto cinismo tocca anche ricordare un contadino abruzzese d’inizio Novecento: vide suo figlio, Ignazio Silone bimbetto, ridere di un uomo cencioso e zoppicante che procedeva affiancato da due carabinieri. Lo prese per l’orecchio e lo trascinò in casa e, al suo addolorato stupore, gli disse: non si ride di un carcerato, primo perché non può difendersi, poi perché forse è innocente, e di sicuro perché è un infelice. Ma il papà di Silone era solo un contadino. Noi evoluti continuiamo a ridere. Il Pd e la riforma dell’ordinamento penitenziario di Massimo Bordin Il Foglio, 16 marzo 2018 Se oggi davvero il consiglio dei ministri approverà le norme attuative della riforma dell’ordinamento penitenziario sarà, da parte del Partito democratico, un atto politico di maggiore rilevanza rispetto a qualsiasi intervista a tutta pagina di qualche capo corrente o a qualsiasi dichiarazione su alleanze o presidenze. Un atto politico qualificante perché costruirebbe un caposaldo sui terreni della politica sulla giustizia e della legalità costituzionale. Soprattutto mostrerebbe la capacità di operare scelte coraggiose rispetto alla pulsioni forcaiole, alimentate dalla peggiore politica e dalla peggiore informazione, e attenzione a quanto di progressivo si muove nella società. Sarebbe anche però, e forse soprattutto, una vittoria del partito radicale che ha scelto questa battaglia, rispetto a quella elettorale, con le iniziative non violente di Rita Bernardini insieme a migliaia di detenuti. Se davvero la riforma andasse in porto, un effetto collaterale potrebbe essere l’opportunità di trovare la spiegazione più efficace delle differenze e divisioni che hanno caratterizzato i radicali dopo la morte di Marco Pannella. Arresti, condanne e carcere. La Polizia non conserverà per sempre i nostri dati personali di Aldo Fontanarosa La Repubblica, 16 marzo 2018 Un decreto del Presidente della Repubblica indica i termini massimi di custodia delle informazioni sensibili negli archivi degli investigatori. Il deposito prolungabile per reati gravi come mafia, terrorismo, tratta di esseri umani. Si va da un minimo di 18 mesi a un massimo di 30 anni. I dati su un arresto, su un’indagine, finanche su una condanna penale che ci è stata inflitta. Queste ombre, questi momenti bui della nostra vita non potranno restare per sempre dentro gli schedari - cartacei o digitali - della Polizia. Gli archivi e le banche dati di "organi, uffici e comandi di Polizia" potranno conservare i nostri dati personali e le informazioni sensibili soltanto per un determinato periodo di tempo che viene ora precisato, caso per caso, dal decreto del Presidente della Repubblica pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Il decreto ha il numero 15 e la data del 15 gennaio 2018. La condanna - che resterà per sempre nel Casellario giudiziale perché non ci può essere oblio su questo - a un certo punto uscirà quantomeno dal radar della Polizia, come molte altre notizie simili. I tempi di conservazione dei dati personali, indicati dall’articolo 10 del decreto in Gazzetta, sono questi: 1) provvedimenti di natura interdittiva, di sicurezza e cautelare saranno cancellati dopo 20 anni dalla cessazione dell’efficacia; 2) misure di prevenzione di carattere personale e patrimoniale via dopo 25 anni dalla cessazione dell’efficacia; 3) provvedimenti che dichiarano l’estinzione della pena o del reato via a 8 anni dall’inoppugnabilità del provvedimento; 4) attività informativa e ispettiva per la tutela dell’ordine pubblico via a 15 anni dall’ultimo trattamento; 5) attività di polizia giudiziaria conclusa con provvedimento di archiviazione via a 20 anni dall’emissione; 6) attività di polizia giudiziaria conclusa con sentenza di condanna via a 25 anni dal passaggio in giudicato della sentenza. E ancora: a) indagini che non hanno dato luogo a procedimento penale via 15 anni dopo l’ultimo trattamento; b) controlli di polizia via 20 anni dopo la raccolta; c) provvedimenti di espulsione e rimpatrio di stranieri via dopo 30 anni dall’esecuzione; d) dati su detenzione di armi, munizioni, esplosivi via a 5 anni dalla cessazione della detenzione. La cancellazione dei dati riguarderà anche i periodi che una persona ha trascorso in carcere. In particolare, la Polizia eliminerà informazioni personali dopo 30 dalla scarcerazione della persona che ha espiato per intero la pena; dopo solo 5 anni nel caso la persona abbia ottenuto un decreto di archiviazione o di non luogo a procedere oppure una sentenza di assoluzione; dopo 25 anni in caso di altri tipi di "misure di sicurezza detentive". Il decreto pubblicato in Gazzetta tocca poi il materiale fotografico, gli audio e i video che i poliziotti hanno in archivio dopo le loro attività. La conservazione non potrà superare i 3 anni dalla loro raccolta nel caso di indagini per motivi di ordine pubblico. Pensiamo alle foto scattate durante gli scontri in un corteo. Il tempo di custodia negli archivi si riduce a 18 mesi in caso di "documentazione dell’attività operativa". Questi termini massimi di conservazione possono essere aumentati di due terzi per reati di particolare gravità come mafia, terrorismo, tratta di esseri umani e immigrazione clandestina, traffico di armi. Il decreto in Gazzetta fa riferimento in particolare ai delitti di cui all’articolo 51 (commi 3-bis, 3-quater e 3-quinquies, del Codice di procedura penale) e aall’articolo 407, comma 2, lettera a), del Codice di procedura penale. Infine, su casi specifici, il "capo dell’ufficio o il comandante del reparto" potranno decidere di conservare i dati personali anche oltre i termini fissati dal decreto. Il capo dell’ufficio o il comandante del reparto potranno estendere, dunque, la conservazione 1) rispettando le regole che il Capo della Polizia avrà precisato sul tema; 2) soltanto se "strettamente necessario" a nuove attività investigative; 3) per un periodo che non potrà superare dei due terzi i termini del decreto. I garantisti si preparino ad affrontare il deserto di Astolfo Di Amato Il Dubbio, 16 marzo 2018 Non si era mai assistito, dopo una elezione, a prese di posizioni tanto radicali da parte dei leaders dei partiti. Chiusa la campagna elettorale, vi era un generale ritorno al principio di realtà ed era immediato lo sforzo per trovare uno sbocco alle esigenze di governo del paese. Questa volta non è così. È come se i partiti avvertissero come imminente una nuova campagna elettorale con la conseguente esigenza di non dismettere gli slogans. A questo si deve aggiungere che gli eccessi e i pregiudizi di questi ultimi anni hanno finito con il bollare con l’espressione negativa di “inciucio” quello che è, in fondo, il cuore della politica in un paese democratico, cioè il compromesso. Solo le dittature sono capaci di realizzare senza tentennamenti e senza la contaminazione che viene dal confronto con l’avversario le proprie idee ed i propri programmi. In questo quadro, che certamente non fa ben sperare per il futuro, quali prospettive vi sono per la giustizia? Errico Novi su questo giornale ha messo a confronto, nel numero del 7 marzo u. s., la giustizia grillina e la giustizia padana nelle declinazioni che emergono dai programmi elettorali. Al di là della circostanza che la giustizia padana registra alcuni temperamenti dovuti probabilmente al confronto con le altre forze del centro destra, il dato comune è un tasso molto alto di giustizialismo e l’adesione al principio per il quale i cattivi “metteteli dentro e buttate la chiave”. Nel prossimo Parlamento, dunque, oltre il 50% dei componenti sono stati chiamati a realizzare una visione della giustizia chiusa a quelle esigenze di temperamento, di moderazione, di rispetto dei diritti individuali che, in genere, vanno sotto il nome di garantismo. Il giustizialismo, insomma, ha stravinto nell’urna contro il garantismo. Ed è proprio questo l’aspetto più delicato: non è tanto la maggioranza dei parlamentari che spaventa, quanto piuttosto la circostanza che sia la maggioranza degli elettori a ragionare in quei termini. Le ragioni sono molteplici. Da un lato, la corruzione indicata come un fatto endemico e causa di tutti i mali e di tutte le difficoltà collettive ed individuali. Questo mentre le statistiche riferiscono che se si passa dal sentire comune ai dati oggettivi, l’Italia non è affatto nel gruppo di testa dei paesi corrotti. Dall’altro la sottolineatura costante alle aggressioni alla sicurezza che verrebbero soprattutto dalle ondate migratorie, mentre anche in questo caso le statistiche dicono che i crimini sono in diminuzione e che l’Italia è diventata un paese più sicuro. Dunque, si è in presenza di un problema giustizia tenuto in ostaggio dalla strumentalizzazione politica e dalla perdita di contatto con la realtà, che tale strumentalizzazione aiutata dalla complessità della società ha determinato. In questa situazione il futuro della giustizia non può che essere gramo. Altro che la riforma carceraria per la quale si batte Rita Bernardini! I garantisti dovranno affrontare il deserto, coltivando in solitudine la fiducia e la fedeltà alle proprie idee. In una situazione del genere emerge in tutta la sua importanza la funzione del Partito Radicale. Abituato da una lunga esperienza ad attraversare in solitudine il deserto della indifferenza se non della ostilità, sorretto solo dalla fedeltà ai propri valori. È intorno a quel nucleo che, probabilmente, dovrà attestarsi, per non andare dispersa, la pattuglia dei garantisti. In questa prospettiva, è stata una anticipazione della storia l’alleanza tra Partito Radicale e categoria degli avvocati, che si è di recente sviluppata su alcune idee. Il successo dei populisti e le inutili illusioni di Federico Fubini Corriere della Sera, 16 marzo 2018 Il grande investitore italo-americano Ray Dalio ha studiato diciotto casi di insurrezione negli ultimi 150 anni in Europa, negli Stati Uniti, in America Latina e in Giappone. Ogni volta che i partiti definiti populisti vincono delle elezioni, si sente ripetere la stessa considerazione: quando andranno al potere, non faranno quello che avevano detto. Non attueranno i loro programmi, perché sarebbero incompatibili con il sistema e le sue istituzioni così come le conosciamo. Non usciranno dalla strada segnata e dall’ordine costituito. Le loro promesse radicali di spesa, taglio alle tasse, dazi e chiusura dei mercati o di mettere da parte altre regole interne e sovranazionali, tutto questo è servito agli insorti per accendere i riflettori su di sé. I loro leader sanno bene che l’esercizio del potere è un’altra cosa: un’arte che richiede una dose, se non di moderazione, almeno di prudenza. È un’analisi che torna ogni volta che si affermano forze estranee al vecchio sistema. E onestamente non avrebbe senso spiegare se sia corretta o sbagliata in assoluto, neanche fosse una legge universale. Non lo è. Anche se qualcuno preferisce illudersi che sia altrimenti, la politica, la storia e l’economia non sono come la fisica: non esistono leggi immutabili, tantomeno durante una rivolta degli elettori contro il mondo di ieri. Per farsi un’idea di come potrebbe essere il futuro, esistono solo le esperienze del passato lontano e recente. Ray Dalio, il grande investitore italo-americano, ha studiato diciotto casi di insurrezione populista degli ultimi 150 anni in Europa, Stati Uniti, America Latina e in Giappone - tutti meno gli ultimi - e ha classificato somiglianze e differenze. In diciassette casi su diciotto, dalla rivolta di Andrew Jackson negli Stati Uniti contro le élite del New England nel 1829 a quella chavista in Venezuela nel 1990, l’economia era sempre molto debole (l’eccezione è la Francia nella stagione poujadista degli anni ‘50). In quattordici casi su diciotto, le diseguaglianze di redditi fra cittadini erano elevate. E in dieci casi su diciotto la crescita dei populisti aveva contribuito alla paralisi politica, che a sua volta ha alimentato l’insoddisfazione dei cittadini verso un establishment ritenuto incapace di rispondere ai loro problemi; questa frustrazione a sua volta ha rafforzato ancora di più il richiamo dell’insurrezione, in una sorta di spirale che finisce per autoalimentarsi. L’Italia del 2018 rientra in tutti questi modelli: economia debole, diseguaglianze, paralisi. Resta giusto da capire quanto i nuovi protagonisti siano assimilabili e omologabili al sistema, una volta entrati a palazzo. Anche qui non esistono risposte certe, solo esperienze durante le quali si erano sentite le solite previsioni di relativa continuità: tutto doveva cambiare, perché tutto restasse com’era. Questi anni ci dicono però che non è andata così: penetrati nella stanza dei bottoni, gli insorti hanno sempre dimostrato che facevano sul serio e hanno cercato di realizzare i loro programmi. Donald Trump ha tenuto un discorso moderato nel giorno della vittoria nel 2016 e si è circondato di prudenti consiglieri scelti dai vertici di Wall Street; poi però ha licenziato chiunque non la pensasse come lui e ha veramente messo gli Stati Uniti su una traiettoria protezionista. Anche dopo il referendum sulla Brexit si pensava che, pur di tutelare la City e gli interessi commerciali del Regno, Londra non avrebbe rinunciato a partecipare al mercato europeo anche se dall’esterno; invece il governo sta veramente cercando una rottura intransigente con l’Unione Europea. Anche nel 2015 ad Atene Alexis Tsipras ha veramente resistito alle condizioni di Bruxelles e Berlino, fino a oltre l’orlo del baratro. E pochi mesi fa gli indipendentisti di Barcellona hanno davvero cercato di portare la Catalogna fuori dalla Spagna e dalla Ue. Chiamateli populisti se volete. Ma dobbiamo tutti ammettere che, seduti ai posti di comando, non sono cambiati. La convinzione, l’orgoglio e soprattutto il rapporto con gli elettori ha imposto loro di restare fedeli a se stessi. Ovviamente Tsipras e i secessionisti catalani a un certo punto hanno dovuto fermarsi, ma questa è un’altra esperienza interessante per l’Italia del 2018: in entrambi i casi la scelta di perseguire politiche fuori dal quadro europeo alla lunga si era dimostrata impraticabile. In Grecia la fuga dei risparmi verso l’estero era arrivata al punto che dai bancomat non uscivano più soldi e dalla Catalogna migliaia di imprese si erano trasferite nel resto della Spagna, per non rimanere tagliate fuori dall’area euro. L’Italia resta lontanissima da scenari del genere, non è questo il rischio che sta correndo adesso. Ma guardiamo alle scadenze concrete per il Paese: l’anno scorso i privati hanno dovuto finanziare appena il 51% delle emissioni di debito a medio-lungo termine necessarie a far funzionare lo Stato, perché al resto ha pensato la Banca centrale europea. Quest’anno la parte che andrà coperta dai privati sale al 74% e l’anno prossimo esploderà all’85% di un programma di emissioni di debito che, solo per il medio lungo-termine, aumenterà a 257 miliardi di euro. Chiunque governi, questi numeri non possono cambiare (se non al rialzo se l’Italia farà più deficit). Siamo diversi dalla Grecia e dalla Catalogna, ma anche noi viviamo entro vincoli precisi: dipendiamo e dipenderemo sempre dalla cortesia dei nostri creditori. Ma c’è un’ultima esperienza dei populisti di cui vale la pena prendere nota. Quando Tsipras e gli indipendentisti catalani hanno dovuto battere in ritirata sui loro programmi, i loro elettori non li hanno abbandonati. I populisti sono rimasti popolari. Forse erano stati votati per un umano desiderio di rinnovamento del ceto politico: non per fede cieca nelle loro promesse più assurde. La priorità è completare la riforma della giustizia di Antonio Patuelli* Il Sole 24 Ore, 16 marzo 2018 I recentissimi documenti della Commissione Europea e del ramo di vigilanza della Bce sui crediti deteriorati (Npl) vanno esaminati in combinato disposto non solo fra loro, ma anche con le altre normative vigenti per valutare anche quali abrogazioni esplicite o implicite interverranno per ottenere infine un coerente quadro di riferimento normativo per questa complessa e importante materia sulla quale non sono giustificate valutazioni superficiali o affrettate che prescindano da una approfondita valutazione giuridica complessiva. Indubbiamente ha ragione il Sole 24 Ore quando, in particolare il 15 di marzo, in riferimento alle nuove regole europee sui crediti deteriorati (Npl), segnala in modo documentato che è la lentezza della giustizia civile in Italia a complicare le procedure per affrontare e risolvere il gravoso lascito della decennale crisi economica, cioè i crediti deteriorati. Perciò non basta guardare alle normative europee sugli Npl, ma occorre fare ogni sforzo in Italia per velocizzare la giustizia civile. La scorsa legislatura ha certamente visto la realizzazione di alcuni passi avanti in proposito: non è stata completata la complessa riforma della giustizia civile che era contenuta in un apposito disegno di legge delega approvato dalla Camera dei Deputati, ma non dal Senato. Invece nell’autunno scorso, con un’ampia maggioranza, è stata approvata dal Parlamento in via definitiva la riforma della vetusta legge di diritto fallimentare del 1942. Detto provvedimento tende a semplificare, velocizzare, e adeguare ai migliori standard europei una normativa decisiva per affrontare le crisi d’impresa e le sue conseguenze come i rapporti coi creditori tutti. Il disegno di legge approvato in via definitiva attende da mesi i decreti delegati ad esso conseguenti che sono indispensabili per fare entrare in vigore tale nuova legge delega dello Stato. Si tratta di provvedimenti assai importanti senza i quali la riforma non ha attuazione. Siamo convinti che al Ministero di Giustizia e nelle altre sedi istituzionali competenti, subito dall’autunno scorso, siano all’opera i competenti uffici per predisporre i testi dei decreti delegati che dovranno passare al vaglio sia del Consiglio dei Ministri sia delle Commissioni Parlamentari. Insomma si tratta di completare un lavoro molto importante con atti conseguenti che sono assolutamente doverosi. Evidentemente la fine della legislatura e poi una complessa fase di ricerca di costituzione di un nuovo Governo rallentano questo itinerario. Ma i rallentamenti hanno dei costi soprattutto in una fase nella quale gli organismi europei spingono verso una accelerata ulteriore riduzione dei crediti deteriorati, per cui l’Italia non può permettersi il lusso di ritardare il varo degli adempimenti conseguenti: la riforma del diritto fallimentare può dare un contributo molto importante al miglioramento del complesso di rapporti economico- giuridici che la riguardano e deve pertanto essere considerata come una priorità. Le decisioni in proposito diventano sempre più importanti ed urgenti ogni giorno che passa. *Presidente dell’Abi “Sarà la casa della democrazia”, ecco la Consulta di Lattanzi di Errico Novi Il Dubbio, 16 marzo 2018 Con lui e con il vertice dell’avvocatura Andrea Mascherin, prendono la parola nella tavola rotonda, i presidenti della Cassazione, Giovanni Mammone, del Consiglio di Stato, Alessandro Pajno, della Corte dei Conti, Angelo Buscema. Ma è rappresentata anche l’accademia ai suoi più alti livelli, grazie all’intervento del presidente dell’Associazione italiana dei costituzionalisti Massimo Luciani. Dopodiché la suggestione dei nomi cede il passo a una sorta di ipnosi: l’intensità del confronto è così forte da indurre a dimenticarsi di chi parla. E così, in prima battuta, potrebbe passare come una mera considerazione tecnica, il passaggio in cui Mammone evoca il rischio che al diritto “si sostituiscano i diritti giurisprudenziali: lo si coglie”, spiega, “nell’incrocio di Corti e di Carte, nei contrasti tra le giurisdizioni sovranazionali e le interpretazioni nazionali, fino a perdere di vista proprio la Costituzione: il cui vero contenuto, come scrive Flick, è l’affermazione dei diritti e la loro tutela”. Lattanzi: “la mia Corte aperta a tutti” - Ecco, la Carta fondamentale come una casa in cui rifugiarsi e portare a soluzione il nodo illustrato proprio dal presidente emerito della Consulta: “Sottovalutare la dimensione dei diritti e far prevalere quella degli interessi. Mettere da parte i valori e lasciare che si guardi solo ai mercati”. Non è solo il punto di vista di uno straordinario e appassionato giurista, autore del saggio che dà occasione per l’incontro: l’altro aspetto notevole è che la preoccupazione di Flick, introdotta da Mammone, unisce tutti gli autorevolissimi relatori. E conferma l’indovinata lettura suggerita dall’Elogio della Costituzione: quello appunto di tornare alla Carta per “guardare al futuro”, come ripete l’autore anche a margine dell’incontro. Ecco, per riuscirci, un’ottima cosa è far conoscere i 139 articoli. Una soluzione che il nuovo presidente della Corte costituzionale, e successore dunque dello stesso Flick, Giorgio Lattanzi, condivide in pieno. “Quando sono arrivato, da giudice costituzionale, a Palazzo della Consulta, segnalai l’esigenza di una persona addetta alla comunicazione. La prima risposta che ottenni fu che la Corte parla attraverso le sentenze. Replicai ricordando che le sentenze vanno però capite, e quindi devono essere spiegate, rese comprensibili. E oggi”, nota Lattanzi, “grazie a Paolo Grossi che mi ha preceduto, abbiamo consolidato la prassi di diffondere comunicati. Così come abbiamo in corso in una lunga e significativa serie di incontri, innanzitutto nelle scuole: io credo che la Corte Costituzionale continuerà con iniziative di questo genere”, aggiunge, e dà così notizia di un suo preciso “programma” da presidente. Lattanzi nota come tale obiettivo sia del tutto affine “a quello del libro scritto da Giovanni Maria Flick, che parte dall’idea secondo cui la Costituzione debba essere conosciuta e amata”. Mascherin rappresenta “quale onore sia, per l’avvocatura, il fatto che il presidente Lattanzi scelga il Cnf come prima occasione per intervenire pubblicamente dopo la sua elezione”. Fatto connesso anche al valore che le parole di Lattanzi assumono, come ricerca di un avvicinamento della Costituzione ai cittadini e di una sua riscoperta in quanto strumento di unità. È la strada per riaffermare quella che Mascherin definisce “la democrazia solidale”. È uno slancio ben colto da un passaggio dell’intervento di Pajno, che nota come l’Elogio della Costituzione di cui si parla attesti “prima ancora dell’esperienza di Flick in quanto scienziato del diritto, la sua passione civile: ed è quest’ultima che consente di farci ritrovare la Carta come sostrato fondamentale della nostra vita pubblica”. Il presidente del Consiglio di Stato nota anche come l’affermarsi del mercato e della concorrenza quali valori europei rischi di far trascurare il peso “dell’articolo 11 della Costituzione, che ha consentito l’apertura della nostra giurisdizione all’Europa”. Da lì Flick parte per notare uno scarto: “Il viaggio che all’inizio dell’esperienza comunitaria un giovane poteva immaginare di compiere nell’Europa delle cattedrali e delle università oggi è stato soppiantato da quello che si limita a visitare solo le sedi del mercato borsistico”. Ma come è possibile che siano caduti gli argini fino a far tracimare la “cultura anglosassone della concorrenza come unico elemento regolatore”, per citare ancora Flick? Il presidente della Corte dei Conti Buscema nota come il suo organismo “sia orientato, nel controllo sulle amministrazioni, a non perdere mai di vista un principio: non ci si può permettere, certo, di sostenere costi pubblici al di sopra delle nostre possibilità, ma è anche vero che questo non può dirsi a svantaggio di diritti che invece devono restare incompribili”. Il tema si incornicia in un’idea alta di compromesso. A inizio dibattito, Mascherin segnala che il tipo di accordo tra le diverse culture dei costituenti oggi “rischierebbe di essere spacciato per un inciucio”. Ed è il professor Luciani che lo ricorda bene: “La varietà della culture politiche, nell’assemblea che scrisse la Carta, era persino superiore all’idea che se ne potrebbe avere: eppure c’erano tante cose in comune, a cominciare da un grande senso di responsabilità, che indusse scelte orientate innanzitutto alla pace sociale”. Alla democrazia solidale, appunto, e non a quella del mercato. Lieve entità solo nel piccolo spaccio: deve esserci basso grado di offensività di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 16 marzo 2018 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 15 marzo 2018 n. 11994. Il piccolo spaccio può beneficiare della lieve entità a patto che l’attività sia esercitata con basso grado di offensività. Questo il principio sancito dalla Cassazione con la sentenza n. 11994/18. Secondo la Corte, infatti, oltre a valutare il tipo di stupefacente e la sua pericolosità in relazione all’aspetto eminentemente tossicologico è necessario delineare le modalità con cui avviene lo spaccio. Esclusione dello sconto - Il beneficio, quindi, si legge nella sentenza risulta applicabile quando lo spaccio pur essendo socialmente tipico di attività illecita, tuttavia si pone su un gradino inferiore in termini di offensività e compatibile anche con la detenzione di dosi quantificabili in decine. La Cassazione puntualizza che comunque deve trattarsi di ipotesi da circoscrivere e da delimitare in modo chiaro altrimenti si rischia di fornire delle spiegazioni giuridicamente non corrette. Non rientra, pertanto, in questa categoria l’attività svolta da un soggetto che disponga di fonti di approvvigionamento certe e stabili o comunque sia in grado di rifornire un vasto mercato. A tale proposito è stato affermato che è legittimo il mancato riconoscimento della lieve entità qualora la singola cessione di una quantità modica, o non accertata, di droga costituisca manifestazione effettiva di una più ampia e comprovata capacità dell’autore di diffondere in modo non episodico, né occasionale, sostanza stupefacente, non potendo la valutazione della offensività della condotta essere ancorata al solo dato statico della quantità volta per volta ceduta, ma dovendo essere frutto di un giudizio più ampio che coinvolga ogni aspetto del fatto nella sua dimensione oggettiva. Logica conclusione è che non può (e non deve) ravvisarsi la lieve entità quando l’attività sia effettuata nel quadro della gestione di una cosiddetta “piazza di spaccio”, che fa leva su un’articolata organizzazione di supporto e difesa e assicura uno stabile commercio di sostanza stupefacente Conclusioni - Bocciate le censure della Procura che contrastavano la valutazione della Corte in ordine al fatto che non fosse possibile desumere dalle risultanze fattuali la disponibilità concomitante o dinamica di quantitativi incompatibili con la fattispecie minore, a fronte di condotte di spaccio aventi a oggetto singole dosi e riferibili a un numero esiguo di acquirenti. Respinto, però, anche il ricorso degli imputati visto che avevano rifornito di eroina e hashish una pluralità di clienti abituali. Alle sezioni unite il favoreggiamento all’immigrazione clandestina di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 16 marzo 2018 Corte di cassazione - Sezione I - Sentenza 15 marzo 2018 n. 11889. Va all’esame delle Sezioni unite il testo unico sull’immigrazione. In particolare il Supremo consesso è chiamato, con l’ordinanza interlocutoria 11889, ad esprimersi sul reato di favoreggiamento all’immigrazione clandestina, disegnato dall’articolo 12 del Dlgs 286/1998, su due diverse ipotesi: una “semplice” prevista dal comma 1 e una “aggravata” indicata dal comma 3. In entrambi i casi il crimine è messo in atto da chi promuove, organizza, dirige, finanzia o effettua il trasporto degli stranieri nel territorio dello Stato o commette altri atti finalizzati all’ingresso illegale. La differenza sta nel fatto che il comma 3, pur replicando la condotta del delitto base, aggiunge una serie di circostanze più gravi: dall’ingresso di più di 5 persone, al percolo di vita per il trasportato, dai trattamenti inumani e degradanti, al fatto commesso da tre o più persone, fino alla disponibilità di armi. Ora i giudici sono chiamati a chiarire se i casi disciplinati dal terzo comma possono essere considerati aggravanti del delitto “base” o figure autonome di reato e, nel caso si scelga quest’ultima ipotesi, se il reato considerato autonomo rientra tra i fatti di pericolo a “consumazione anticipata”, perfezionandosi quindi con il solo tentativo di procurare l’ingresso dello straniero, a prescindere dal risultato. Per la sezione remittente (la prima penale) l’adesione all’una o all’altra via comporta conseguenze non marginali sia dal punto di vista giuridico sia, ovviamente da quello sanzionatorio, decisamente inasprito dal legislatore per le ipotesi più gravi delineate dal terzo comma: la “forbice” va, infatti, da uno ai 5 anni per il delitto base, e dai 5 ai 15 per le ipotesi più gravi. Nel caso esaminato all’imputato era stata ridotta la pena perché nessuno dei cittadini pachistani che aveva cercato di far entrare in Italia era riuscito nell’intento. Ad avviso della Corte d’appello infatti, il comma 3 non poteva essere considerato un’aggravante ma un titolo autonomo di reato, con la necessaria condizione dell’ingresso. Tesi contro la quale aveva fatto ricorso la pubblica accusa. La soluzione, avvertono i giudici serve anche a risolvere il caso concreto. Se si sceglie di considerare i due commi come titoli autonomi di reato si dovrà definire, ai fini della pena, se a fare la differenza è l’ingresso effettivo. Al contrario, se si sceglie la strada dell’aggravante, dovrebbe scattare il bilanciamento con le circostanze attenuanti, riconosciute all’imputato in primo grado, che troverebbero un limite solo in caso di aggravanti cumulative. Alle Sezioni unite il riesame del sequestro di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 16 marzo 2018 Corte di cassazione, ordinanza interlocutoria 15 marzo 2018, n. 11935. Va alle Sezioni unite la domanda di “revisione” del sequestro. Sarà il Supremo consesso a stabilire se, in caso di una richiesta non tempestiva di “revisione” del provvedimento che applica una misura cautelare reale, il Tribunale del riesame possa o meno dichiarare inammissibile il successivo appello cautelare che non sia fondato su elementi nuovi, ma teso solo a dimostrare l’assenza di condizioni per applicare la misura sulla base di quelli già esistenti. La Corte di cassazione, con l’ordinanza interlocutoria 11935 chiede aiuto alle Sezioni unite per risolvere una causa, in presenza di orientamenti contrastanti. Il caso esaminato riguardava il ricorso di una Srl contro la decisione del tribunale del riesame di dichiarare inammissibile l’appello contro il no alla revoca del sequestro delle somme della società,avvenuto nell’ambito di un processo penale nel quale erano coinvolti gli amministratori, indagati per reati tributari. Il no al dissequestro dei beni era scattato perché, ad avviso del tribunale, l’impugnazione era tesa a dimostrare l’assenza dei presupposti per adottare in origine la misura e non su circostanze sopravvenute o preesistenti, ma emerse dopo. Il tribunale con la sua decisione aveva, infatti, scelto di aderire all’indirizzo indicato dalla più recente giurisprudenza che, prendendo le distanze da quanto affermato dalle Sezioni unite, ritiene che il controllo della sussistenza del fumus sia riservato alla fase del riesame. La conseguenza, secondo il principio prescelto, è l’ inammissibilità delle censure relative ai profili genetici della misura sollevate per la prima volta in sede di appello cautelare. La Cassazione è però consapevole di un diverso orientamento, successivo alle Sezioni unite, secondo il quale la mancata tempestiva proposizione da parte dell’interessato della richiesta di riesame contro il provvedimento che applica la misura cautelare reale non ne preclude la revoca per la mancanza delle condizioni di applicabilità, neppure in assenza di fatti sopravvenuti. Ora tocca alle Sezioni unite indicare la via. Alla prova analitica non serve conferma di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 16 marzo 2018 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 15 marzo 2018 n. 11919. Se l’imposta evasa superiore alla soglia penale è stata quantificata in misura analitica dalle Dogane è irrilevante ai fini della sussistenza del reato che poi vi sia stata una ricostruzione induttiva da parte dall’agenzia delle Entrate. A precisarlo è la Corte di cassazione, terza sezione penale, con la sentenza n. 11919 depositata ieri. Il Tribunale aveva condannato un imprenditore per i reati di occultamento delle scritture contabili e per omessa presentazione della dichiarazione dei redditi per più anni di imposta. La Corte di appello confermava solo parzialmente la pena con riferimento all’omessa dichiarazione per un solo periodo di imposta. L’imputato ricorreva così in Cassazione lamentando che il giudice territoriale non aveva verificato la corretta quantificazione dell’imposta evasa. Nell’appello, infatti, era stato evidenziato che tutto derivava da una ricostruzione induttiva compiuta dall’agenzia delle Entrate, con la conseguenza che non poteva dirsi certo il superamento delle soglie di punibilità rilevanti ai fini penali. I giudici di legittimità hanno ritenuto inammissibile il ricorso perché con la doglianza proposta era stata richiesta una nuova valutazione di merito non consentita nel giudizio di legittimità. La Suprema Corte ha rilevato che l’imputato aveva riconosciuto le operazioni illecite oggetto di contestazione. Inoltre, l’agenzia delle Dogane, intervenuta nel controllo al contribuente, aveva quantificato l’imposta evasa in oltre 600mila euro. Ne conseguiva che, a prescindere dalla ricostruzione induttiva e quindi solo presuntiva operata dalle Entrate, la soglia di rilevanza penale (all’epoca 77.468,53 euro), era stata sicuramente superata. In altre parole, la quantificazione operata dalle Dogane, essendo analitica, era sufficiente per dimostrare il superamento della soglia e quindi non smentire la ricostruzione induttiva delle Entrate. La decisione induce ad una riflessione sulla valenza presuntiva in ambito penale degli accertamenti tributari. Le presunzioni tributarie non possono di per sé essere utilizzate ai fini della quantificazione dell’imposta penalmente rilevante, poiché è il giudice a dover accertare l’ammontare dell’evasione mediante una verifica che privilegi il dato fattuale rispetto ai criteri formali che caratterizzano l’ordinamento fiscale. Esiste così un “doppio binario”: nel processo penale, l’onere della prova è sempre a carico dell’accusa e non è ammessa un’inversione probatoria attraverso l’utilizzo di presunzioni; nel giudizio tributario, invece in presenza di presunzioni pro fisco deve essere il contribuente a fornire la prova contraria. Per completezza va detto che, in ambito penale, la presunzione viene invece ritenuta sufficiente ai fini della richiesta del sequestro. Roma: si suicidò, non doveva stare in cella. Per il pm non ci sono responsabili di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 marzo 2018 Il pubblico ministero di Roma Attilio Pisani ha chiesto l’archiviazione per l’esposto che chiede di individuare i responsabili dell’illegittima permanenza in carcere di Valerio Guerrieri, il ragazzo di 22 anni che si è suicidato il 24 febbraio del 2017 presso la Casa circondariale di Regina Coeli. Rimane in campo solo un procedimento penale, quella aperto sempre dallo stesso Pm nei confronti di due agenti penitenziari che si alternavano nei turni di sorveglianza e i medici di Regina Coeli responsabili di aver stabilito la frequenza dei controlli. Per Guerrieri era stato disposto il regime di “grande sorveglianza”, che presuppone controlli ogni 15 minuti, mentre più appropriato, data la perizia che recitava “alto rischio di togliersi la vita, attenzione psichiatrica maggiore possibile”, sarebbe stata, secondo il pm, la sorveglianza speciale, ossia il detenuto andava tenuto costantemente a vista. Ma anche i controlli più diradati sarebbero stati inevasi, dato che già la sera prima del suicidio i compagni di cella avevano segnalato come Valerio stesse “preparando qualcosa”. Eppure, secondo il presidente di Antigone Patrizio Gonnella questa indagine non tiene conto dell’elemento principale: ovvero se Valerio Guerrieri si dovesse trovare in carcere o meno. Infatti, da quando si evidenzia dall’esposto - ieri archiviato - presentato dall’avvocata Simona Filippi, il ragazzo era in una situazione di detenzione illegale. L’esposto ricostruisce molto dettagliatamente la vicenda. Da premettere che Valerio Guerrieri presentava dei problemi psichiatrici. Il 2 settembre 2016 Valerio Guerrieri viene arrestato in flagranza di reato per resistenza e lesioni a pubblico ufficiale e danneggiamento aggravato, reato compiuto a causa della sua patologia. Il procedimento penale in cui Guerrieri era imputato si era concluso il 14 febbraio 2017, davanti alla giudice Pazienza del Tribunale di Roma, con l’emissione della seguente sentenza di condanna: “Visti gli artt. 533- 535 C. P. P. Dichiara Guerrieri Valerio colpevole dei reati ascritti […] lo condanna alla pena di quattro mesi di reclusione” e “dispone la misura di sicurezza con assegnazione in regime residenziale in una casa di cura per la durata di mesi sei, con revoca della misura cautelare della custodia cautelare in carcere”, specificando a penna la “esclusione della Rems di Ceccano (eventualmente Rems di Sollicciano)”. Quindi Guerrieri doveva essere rimesso in libertà in quanto la misura cautelare era stata revocata. Inoltre viene riconosciuto a Valerio un vizio parziale di mente, sulla base delle conclusioni avanzate dal perito del Tribunale che, nella stessa udienza del 14 febbraio chiariva come fosse presente “un rischio suicidario non basso, quindi non trascurabile” e come questo fosse “un altro elemento che va ovviamente soppesato dal punto di vista trattamentale”. Dunque già mesi e mesi prima del suicidio si constatava un grave malessere e un rischio che potesse suicidarsi. Come se non bastasse, la difesa ricorda anche un altro precedente: ovvero che, in quello stesso procedimento penale, a Valerio Guerrieri era stata già revocata un’altra volta la misura della custodia cautelare in carcere e anche in quel caso il provvedimento non era stato eseguito. Valerio Guerrieri dunque per due volte resta in carcere senza titolo legale. Ripercorriamo la prima detenzione illegittima. Il giorno dopo l’arresto in flagranza di reato, veniva applicata a Valerio Guerrieri la misura cautelare in carcere in quanto l’abitazione dei genitori, indicata come domicilio ai fini della esecuzione degli arresti domiciliari, veniva valutata inidonea. Il 25 ottobre del 2016, il Giudice ha modificato questa misura disponendo gli arresti domiciliari presso l’abitazione dei genitori. Questa ordinanza non veniva però eseguita per cui Valerio Guerrieri rimaneva in carcere senza alcun titolo. Questa circostanza, tra l’altro, viene evidenziata dallo stesso Giudice procedente nell’ordinanza di sostituzione della misura cautelare degli arresti domiciliari, dove evidenzia che la misura degli arresti domiciliari non erano stati “mai eseguiti”. Durante il periodo in cui si è svolto il processo, Valerio era stato sottoposto alla misura di sicurezza in una Rems con la sentenza del 9 marzo del 2015, emessa dalla Corte di Appello di Roma, sezione II penale. Nello specifico, con questa sentenza, la Corte di Appello, in riforma della sentenza di primo grado emessa dal Tribunale di Roma, ha assolto Valerio Guerrieri per incapacità di intendere e di volere ed ha applicato la misura di sicurezza del ricovero presso una struttura residenziale Rems. Ma per ben due volte Valerio finisce illegittimamente in carcere. Alla data del 24 febbraio 2017, giorno in cui si è tolto la vita impiccandosi, non doveva essere detenuto a Regina Coeli. Motivo per cui, l’avvocata Simona Filippi, incaricata dalla madre del ragazzo ha chiesto alla Procura della Repubblica di Roma di indagare individuando possibili profili di responsabilità in merito alla illegittima detenzione. Però ieri il Pm Pisani ha fatto richiesta di archiviazione. Secondo il procuratore non c’è alcuna responsabilità penale circa la detenzione visto che la direzione del carcere era in attesa con tanto di sollecitazione tramite posta elettronica - che ci fossero posti disponibili presso le Rems. L’associazione Antigone - che ha seguito fin dall’inizio questo caso, portandolo anche all’attenzione del Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura - farà opposizione. Casi come quelli di Valerio Guerrieri non sono rari. Come già denunciò a IL Dubbio il garante regionale dei detenuti Stefano Anastasìa, “troppi internati non realmente pericolosi affollano le Rems e alimentano le liste d’attesa, fino all’abuso del trattenimento senza titolo in carcere”. Forse per il caso Guerrieri fa più comodo procedere contro la mancata sorveglianza in carcere, anziché aprire un procedimento sull’illegittima detenzione. In quest’ultimo caso si aprirebbe un vaso di pandora che coinvolgerebbe diversi fattori: dai magistrati che abusano troppo del ricovero nelle Rems, invece che predisporre percorsi di terapia alternativi con i servizi sanitari e sociali del territorio, all’inerzia dei servizi territoriali stessi fino al sequestro in carcere di persone che legalmente non ci dovrebbero assolutamente stare. Ma la responsabilità qualcuno se la deve pur prendere, affinché si evitino altre tragedie come quelle che hanno riguardato Valerio. Un caso simile, a rischio di finire in tragedia, riguarda un altro ragazzo. È sempre Antigone a sollevare il problema. Il ragazzo, affetto da epilessia cronica e schizofrenia paranoide con tendenze suicide è recluso nella Casa di lavoro di Vasto. Anche in questo caso il magistrato di sorveglianza aveva disposto il ricovero in una Rems, ma è tuttora incarcerato. Napoli: con Saviano, dietro le sbarre di Poggioreale di Antonio Mattone Il Mattino, 16 marzo 2018 La scorta varca il portone del carcere a sirene spiegate, la prima volta di Roberto Saviano a Poggioreale richiede una certa dose di prudenza. Lui scende dalla macchina un po’ spaesato e pensoso con gli “angeli custodi” che non lo perdono di vista un solo istante. Lo scrittore ha varcato la soglia del luogo dove sono concentrati piccoli boss e delinquenza marginale. Un incontro che Saviano desiderava da tempo per comprendere la vita all’interno del luogo che veniva definito “l’inferno” ma dove da alcuni anni è cominciato un processo di cambiamento culturale. Accompagnato da una delegazione di Radio Radicale guidata da Rita Bernardini, comincia a visitare il padiglione Genova, il nuovo reparto inaugurato lo scorso 30 gennaio dal ministro Orlando, che attualmente ospita una trentina di detenuti. A regime saranno un centinaio quelli che alloggeranno in questo complesso all’avanguardia. Nel corridoio una biblioteca a muro abbellisce la parete, mentre si intravedono nel corridoio gli attrezzi per fare ginnastica. I muri sono colorati e gli spazi luminosi e manca quel tanfo tipico che si può respirare dentro le galere. La direttrice Maria Luisa Palma spiega che nonostante tutto non è stato facile coprire i posti disponibili: le abitudini consolidate e l’avversione alle novità sono state più forti del desiderio di stare meglio. Lo scrittore è entrato in carcere in punta di piedi. Ascolta, vuole capire e poi inizia a fare domande. “Come mai alcuni non vogliono venire in questo nuovo padiglione?”. Antonio gli spiega che il passaggio al nuovo reparto comporterebbe la variazione del giorno di colloquio e questo rappresenta un problema per quelle famiglie che si organizzano per venire insieme soprattutto quando abitano lontano da Napoli. Poi aggiunge: “Certo qui si sta meglio che negli altri reparti, ma la galera è la galera, comunque si sta male”. Cos’è un’ora di colloquio con un figlio o una moglie, si chiede. Un’ ora vola, non riesci neanche a fare una carezza anche perché gli agenti hanno paura che possano passare droga o cose proibite. Se invece stai seduto sul fuoco un’ora è assai, non resisti. “Tu - riprende il carcerato - conosci molto delle dinamiche che portano tanti ragazzi alla malavita per poi finire in carcere, ma non sai che vuol dire vivere qui dentro”. E con un sguardo sornione lo invita a trascorrere un weekend a Poggioreale. Saviano sorride ed annuisce, mentre alla discussione assiste in silenzio anche Michele, il giovane detenuto che ha interpretato il docu-film di Michele Santoro Robinù. Un altro carcerato lo invita ad occuparsi della “terra dei detenuti” così come si è occupato della terra dei fuochi. Poi si va nei luoghi dove si svolgono le attività di intrattenimento e le lavorazioni. Una ventina di detenuti che fanno un corso di canto iniziano ad intonare “Gente magnifica gente” tratta da musical Scugnizzi. La musica fa scaricare l’adrenalina, fa sfogare dice l’istruttrice. “Io sono l’unica pecora nera della famiglia” esordisce un detenuto. Mio padre ha fatto l’infermiere per 40 anni all’ospedale Cardarelli e quando portavo a casa i soldi frutto di attività illecite mia madre mi bruciava le mani sul gas e mi diceva: tuo padre lavora e si suda il salario”. Cosa sarebbe dovuto accadere - chiede allora l’autore di Gomorra - per non farti tornare in carcere?”. “Ci vorrebbe il lavoro” risponde l’uomo, che poi si ferma e ammette che si delinque per non essere inferiori a nessuno, per scalare posizioni sociali. Un altro carcerato suggerisce di impegnare il tempo delle ore d’aria con delle attività, perché poi si finisce sempre per parlare di reati e di progettarne di nuovi per quando si uscirà di galera. Altri reclusi si lamentano per il cibo a volte scotto e altre troppo crudo. Due cucine per i 2208 detenuti presenti non possono garantire una grande qualità. “Una volta si diceva la galera è dura ma la pagnotta è sicura e adesso una panino al giorno non ci basta, soprattutto ai detenuti più giovani che mangiano di più”. Ma non è con tono pretenzioso che i detenuti si rivolgono a Saviano. Il colloquio è disteso e costruttivo, a volte scherzoso. Mi hanno arrestato per “pensata tentata rapina” dice Ciro che sta in falegnameria. Mi hai dato un’idea, potrebbe essere il titolo di un romanzo dice lo scrittore, che poi chiede se in carcere vedono le puntate di Gomorra. Solo quelle in chiaro rispondono i detenuti, ma vediamo le partite del Napoli. In tanti fanno capannello attorno a Rita Bernardini e le chiedono della Riforma penitenziaria. Sembra che domani nel Consiglio dei ministri sia all’ordine del giorno il decreto sulle pene alternative. C’è incertezza sul testo riformulato e sui tempi di approvazione. “Sepolto Pannella con lui sono svanite le nostre speranze” dice Franco. Si fa ora di andare via. Un detenuto si congeda con un vecchio detto: “forza e coraggio la galera è solo di passaggio”. Poi tra strette di mano e sorrisi Roberto Saviano esce da Poggioreale più pensieroso di come era entrato. Rovigo: biblioteca del nuovo carcere già ko, piove dentro Corriere Veneto, 16 marzo 2018 E troppo poco lavoro retribuito per i detenuti. Il Garante dei diritti dei detenuti, Giulia Bellinello, ha evidenziato le carenze del penitenziario. Biblioteca inagibile perché ci piove dentro. Non c’è pace per il nuovo carcere rodigino da 207 detenuti inaugurato solo due anni fa, il 29 febbraio 2016 e costato 29 milioni di euro. Ieri mattina, a un convegno nel penitenziario e organizzato dagli avvocati rodigini delle Camere penali (martedì e ieri in sciopero per la mancata approvazione dei decreti attuativi della riforma sull’ordinamento carcerario) il Garante dei diritti dei detenuti, Giulia Bellinello non le ha mandate a dire. “La biblioteca è già servita dei libri, ma è inagibile perché ci sono infiltrazioni d’acqua” ha spiegato il Garante in carica dal novembre 2015. Vero che, ha aggiunto Bellinello, “i detenuti sono in larga parte stranieri e spesso hanno un basso livello di scolarizzazione, ma questo non giustifica le condizioni della biblioteca”. Un altro problema sollevata dal Garante dei diritti dei detenuti riguarda la difficoltà di lavorare dentro il carcere. “Gli unici compiti lavorativi disponibili - ha spiegato Bellinello - sono in cucina, lavanderia e nella pulizia degli spazi comuni. Questo vuol dire che i detenuti lavorano solo per un paio d’ore al giorno al massimo e solo alcuni di loro riescono ad arrivare a compensi da 100 euro al mese”. La questione è strettamente connessa alla carenza di personale penitenziario, ha spiegato la Bellinello. “Gli agenti sono pochi e faticano a garantire con la loro presenza la sicurezza nello svolgimento dei lavori in carcere da parte dei detenuti” ha chiarito il Garante. La scarsità di guardie penitenziarie a Rovigo sta danneggiando anche i volontari, ha aggiunto la Bellinello. Ha concluso il garante: “La possibilità di avere una presenza degli agenti durante gli incontri coi detenuti è limitata e, di conseguenza, i volontari non riescono a incastrare i loro legittimi impegni personali con le esigenze d’orario del personale”. Venezia: sit-in dei legali davanti al carcere, i detenuti si fanno sentire di Rubina Bon La Nuova Venezia, 16 marzo 2018 Presidio della Camera Penale davanti a S. Maria Maggiore. “Protesta del pentolino” dei carcerati. Fuori dalle porte del carcere di Santa Maria Maggiore, il sit-in silenzioso promosso dagli avvocati della Camera Penale Veneziana per protestare contro la mancata riforma dell’ordinamento penitenziario (attesa prima delle elezioni del 4 marzo) che non “rieduca” chi deve scontare un periodo dietro alle sbarre. Dentro, la “protesta dei pentolini” messa in atto dai detenuti: una manifestazione rumorosa, con la gran parte dei carcerati che alle 11 precise, in concomitanza con l’inizio della manifestazione degli avvocati, ha iniziato a battere con oggetti di metallo sulle inferriate. Il risultato era di un rumore udibile anche da lontano, che qualcuno ha scambiato per quello di un cantiere edile dove sono in corso lavori di demolizione. C’era anche chi urlava e in molti avevano le mani fuori dalle inferriate. Non è la prima volta, come confermano anche i residenti che vivono a ridosso della casa circondariale, che i detenuti nelle ultime settimane danno vita a manifestazioni rumorose, di solito per protestare contro le condizioni di reclusione. A Santa Maria Maggiore la capienza regolamentare è di 163 detenuti, quella tollerabile di 244. Al 30 giugno scorso erano 262. La manifestazione promossa dagli avvocati penalisti veneziani aveva avuto l’ok da parte della direzione del penitenziario veneziano e della Questura. “Negli anni passati abbiamo più volte fatto sentire la nostra voce contro il sovraffollamento delle carceri per difendere la dignità di chi non ha voce, perché crediamo che uno Stato che ha il diritto e il dovere di giudicare e condannare, ma non può mai togliere la dignità a colui che ha condannato, perché proviamo rabbia e vergogna di fronte alle condanne della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo”, spiegano in una nota gli avvocati Stefano Zanini e Ugo Simonetti a nome dell’Unione delle Cameri Penali del Veneto, “Protestiamo contro quella colpevole disinformazione che ha presentato la riforma come uno “svuota carcere”, creando timore e confusione in un’opinione pubblica che giustamente chiede sicurezza ma non trova risposte adeguate”. “Le misure alternative garantiscono la sicurezza nel futuro”, spiega il vicepresidente della Camera Penale Veneziana Marco Vassallo, “È dimostrato dalle statistiche che chi sconta l’intera pena in carcere ha un rischio ben più alto di recidiva rispetto a chi beneficia di misure alternative” Alla manifestazione indetta dalla Camera Penale Veneziana hanno aderito l’Ordine degli assistenti sociali del Veneto, le associazioni “Il granello di senape”, “Il cerchio”, “La Gabbianella”, la Cooperativa “Rio Terà dei Pensieri”, la Cgil per la polizia penitenziaria e gli assistenti sociali, i garanti dei detenuti di Venezia e regionale. Firenze: dalla Comunità di Sant’Egidio una "guida" per i senzatetto di Ilaria Ciuti La Repubblica, 16 marzo 2018 Arrivato alla quarta edizione, il volume consiglia i luoghi in cui lavarsi, mangiare e dormire a chi vive per strada. I poveri crescono. Solo la Comunità di Sant’Egidio, che ieri ha presentato in coincidenza con i suoi 50 anni, la quarta edizione della guida “Dove dormire, mangiare, lavarsi”, in un solo anno ha loro distribuito 15 mila pasti, vestito 100 persone che chiedono soprattutto sacchi a pelo, coperte e scarpe, ospitato alle cene di strada tra 200 e 250 convitati la settimana. Chi sono i poveri fiorentini? Il 60 per cento, racconta Sant’Egidio, è straniero. Quelli che vengono dall’Africa sono richiedenti asilo dalla Somalia, l’Etiopia, il Mali, in maggioranza uomini. Oppure sono sia giovani appena arrivati che altri da lungo qui che hanno bisogno di periodi di aiuto e vengono dal Marocco, l’Egitto. la Tunisia. Poi ci sono gli zingari romeni, soprattutto donne. Ma poco meno della metà del totale, il 40%, è italiano. Si tratta di anziani con la casa che però non ce la fanno con la pensione o la usano per aiutare i figli. Oppure di senza casa, i classici barboni. Ci sono anche i cinquanta-sessantenni un passo dalla pensione ma nel frattempo non in grado di lavorare o altri che lavorano in proprio con piccole ditte che non assicurano loro il necessario. Non mancano neanche i giovani tra i 20 e i 40 anni che spesso hanno lavorato all’estero e, rientrati, non trovano un impiego, oppure hanno problemi vari, da quello psichiatrici a altri di tossicodipendenza o alcolismo. Quanto alla guida, fatta con la collaborazione della Fondazione Cassa di risparmio, la Fondazione “Il cuore si scioglie” e l’8 per mille della Cei, è destinata principalmente a immigrati e ex detenuti e è molto richiesta da servizi sociali, ospedali e associazioni di volontariato. La comunità di Sant’Egidio ne distribuirà 1.500 copie gratuite ai senza dimora fissa, a persone e famiglie in difficoltà, a immigrati e ex detenuti, agli operatori del sociale. Siena: la pittura dei detenuti protagonista di Siena Città Aperta gonews.it, 16 marzo 2018 L’arte come strumento di riabilitazione sociale, la pittura come veicolo di comunicazione per inviare messaggi all’esterno della comunità carceraria. Si intitola “Soluzione a pennello” la mostra, a ingresso libero, inserita nel cartellone di eventi del Festival Siena Città Aperta, che fino al 31 marzo vedrà il Complesso di San Marco ospitare le opere dei detenuti della Casa Circondariale di Siena coinvolti nel laboratorio di pittura realizzato dalla sezione senese della Croce Rossa Italiana. L’inaugurazione della mostra si terrà sabato 17 marzo alle ore 17.30. Quindici le opere protagoniste dell’allestimento, risultato dell’attività svolta in carcere insieme alle educatrici ed alla volontaria della Croce Rossa Monica Minucci che ha diretto il laboratorio di pittura e ceramica, dando così la possibilità ai detenuti di esprimere la propria creatività e di offrire uno strumento di riabilitazione sociale. Tra le numerose attività realizzate dal progetto della Croce Rossa Italiana, la donazione nei mesi scorsi di alcuni dipinti dei reclusi di Santo Spirito al reparto di Pediatria del Policlinico Santa Maria alle Scotte. “Un ringraziamento va alla professoressa Lucia Domini Merlino, ex Presidente della sezione femminile Cri Siena, per aver contribuito ad avviare, qualche anno fa, il progetto di cooperazione tra Casa circondariale e la nostra associazione”, ha sottolineato il presidente del comitato di Siena della Croce Rossa Italiana, Enrico Petrini Nei giorni della mostra le Associazioni d’arma in congedo (Associazione nazionale Carabinieri, Associazione Nazionale Finanzieri d’Italia e Associazione Nazionale Polizia di Stato) garantiranno l’apertura e la vigilanza del Complesso di San Marco. Roma: "Made in Rebibbia", in carcere si impara l’arte della sartoria di Paolo Travisi Il Messaggero, 16 marzo 2018 La vita può ripartire anche dal carcere. Nel penitenziario romano di Rebibbia s’insegna l’arte della sartoria. Quindici allievi, per quattro giorni a settimana, sei ore al giorno, imparano come tagliare, cucire e confezionare un abito sartoriale. È il progetto “Made in Rebibbia - Ricuciamolo insieme”, nato per iniziativa di Ilario Piscioneri, presidente della storica Accademia Nazionale dei Sartori, fondata nel 1575, che ha voluto trasmettere le sue conoscenze ai detenuti, per offrire loro un’altra possibilità di vita. “Volevo cercare dei ragazzi con la voglia di apprendere questo mestiere. Fuori ce ne sono tanti, ma qui dentro sono più motivati. Infatti sono rimasto stupito, perché molti di loro hanno bruciato le tappe”. Siglato l’accordo con l’Istituto penitenziario di Rebibbia e grazie alla sponsorizzazione di Bmw Roma, che ha finanziato l’acquisto di materiale didattico ed attrezzature, lo scorso settembre sono iniziate le lezioni, che durano come un anno scolastico e prevedono un percorso formativo di tre anni, al termine del quale, i detenuti-sarti saranno pronti per il lavoro professionale. Dentro l’aula di sartoria di Rebibbia gli errori commessi nella vita passata non contano. Per quelli, ognuno sta scontando la propria pena. Gli errori che contano, sono quelli che si commettono quando si taglia una stoffa o si cuce la manica di una giacca. Da quelli s’impara. E la soddisfazione è enorme, perché il lavoro è realmente uno strumento di rieducazione sociale. Tra le macchine per cucire, i fili e le stoffe ci sono due sarti. In loro c’è la passione del mestiere e la voglia di aiutare. “I ragazzi sono motivati ed apprendono facilmente” dice Giuseppe Bertone che viene da Rapallo, “io mi faccio 400 chilometri al giorno, vengo da Ascoli e sono orgoglioso di loro” aggiunge il maestro sarto Franco Mariani. Per gran parte dei 15 detenuti del progetto “Made in Rebibbia”, questa attività è iniziata come un passatempo per sfuggire alla noia della detenzione. Poi hanno scoperto la creatività e acquisito la consapevolezza di apprendere un mestiere. “Sto realizzando il mio futuro” dice Massimo “non avevo mai preso un ago in vita mia ed in pochi mesi ho già cucito tre giacche. In carcere ho scoperto di avere un dono”. “Nella mia vita non avrei mai pensato di fare il sarto” aggiunge Andrea, uno dei primi a fare parte del progetto, “per me è una bella soddisfazione, perché fa piacere sapere che possiamo ancora imparare”. Manuel ha iniziato sette mesi fa, ora è in grado di realizzare giacca e gilet “noi veniamo dalla strada ed abbiamo commesso degli errori. Non sapevamo nulla di questo mestiere, ma è fondamentale per il nostro reinserimento nella società”. Filippo ha 47 anni, è molto attento mentre sta cucendo la manica di una giacca eppure “all’inizio non mi sentivo predisposto, ma con l’impegno eccomi qua. Nulla è impossibile”. A fine corso, il progetto “Made in Rebibbia”, prevede la consegna di un diploma per ogni allievo e la possibilità di partecipare ad una sfilata con gli abiti realizzati. “Il pensiero più bello” aggiunge Filippo “è far vedere alla mia famiglia ed ai miei figli, che essere stato qui dentro per anni, non è stato tempo perso perché ho usato la mia creatività”. Roma: la scrittrice Cinzia Tani "con i detenuti un rapporto particolare" di Roberta Barbi vaticannews.va, 16 marzo 2018 Parla la giornalista e scrittrice presente a Goliarda Sapienza fin dalla prima edizione. Ora è lo scrittore editor, che corregge i racconti dei detenuti e li incoraggia ad appassionarsi alla scrittura. “Io sono fatta così: con qualunque mio studente cerco di instaurare un rapporto personale e in genere ci riesco…”. Parola di Cinzia Tani, scrittore editor del premio Goliarda Sapienza che quest’anno ha seguito i 60 detenuti partecipanti per tutto il percorso delle lezioni di scrittura creativa conducendoli quasi per mano verso la fase finale del concorso. “Ma sono stata anche in giuria a volte”, precisa. E lei è davvero una di quelle presenze fisse e rassicuranti che questa prestigiosa e utile iniziativa l’hanno vista crescere come un figlio, negli ultimi sette anni: “Ci sono sempre stati i detenuti che scrivono bene, e infatti qualcuno non è alla prima partecipazione - spiega - con altri, invece, devi tenere un profilo molto basso perché ci sono molti stranieri che parlano l’italiano poco e male e alcuni connazionali che non sono andati oltre la quinta elementare”. Un minuzioso lavoro di correzione - “La correzione è stata la parte più complicata del lavoro perché bisogna stare ai tempi del carcere - racconta Tani - ai partecipanti le mie osservazioni arrivavano una volta a settimana, mentre loro, magari, erano già andati avanti a scrivere altre parti del racconto e quindi, poi, diventava tutto più difficile”. All’inizio, inoltre, i racconti da rivedere erano 60 e molti detenuti, che si erano appassionati in particolar modo alla scrittura, mandavano pagine e pagine di storie: “È comprensibile, in fondo ognuno sul foglio bianco imprimeva la propria vita”. I grandi della letteratura affezionati ai detenuti - Secondo lo scrittore editor, comunque, uno dei frutti più fecondi del concorso è vedere con quanta passione i grandi della letteratura coinvolti anno dopo anno si affezionino al progetto: “Molti instaurano un rapporto strettissimo con i detenuti, addirittura li vanno a trovare anche in seguito”. E quest’anno è toccato proprio a Tani presentare gli scrittori tutor, uno dopo l’altro, nelle 15 lezioni del corso: “Ogni incontro durava due ore; nella prima correggevo i racconti e facevo le mie osservazioni; nella seconda intervistavo gli autori che quest’anno hanno collaborato con noi. Tutti hanno lasciato qualcosa di sé, non solo sulla tecnica, ma anche della propria esperienza, della propria ispirazione, della propria vita”. Goliarda Sapienza: chi era costei? - “Tutti nelle carceri in cui entriamo virtualmente sanno chi è la scrittrice detenuta perché l’organizzatrice del Premio lo spiega al primo incontro - aggiunge Tani - ma pochi hanno letto qualcosa di lei”. Molti, però, i reclusi che passano molto tempo a leggere in carcere: “In realtà so che ce ne sono alcuni che escono tra poco: ecco, a tutti loro voglio consigliare di non abbandonare né la scrittura né la lettura. Oggi ci sono molti concorsi in rete: partecipate, vincete e createvi il vostro curriculum; molte piccole case editrici sono interessate ad autori emergenti e li cercano nel web”. Aversa (Ce): spettacolo teatrale per i detenuti del carcere pupia.tv, 16 marzo 2018 Sabato 17 marzo, nel carcere di Aversa, avrà luogo uno spettacolo teatrale della compagnia teatrale “Tiemp bell ‘e ‘na vota” che si esibirà per i detenuti all’interno della sala teatro dell’istituto nella commedia “Don Pascà fa acqua ‘a pippa”. La commedia in due atti di Gaetano Di Maio ha la regia di Enzo Cicala. L’iniziativa è promossa dall’organizzazione no-profit Campania Plus, che, grazie ai suoi dirigenti Gennaro Mariniello, Gennaro Nobile e Domenico De Cristofaro, si è resa disponibile a sostenere iniziative volte al recupero culturale dei reclusi, mediante l’organizzazione di eventi ludici ed artistici presso questo istituto. La disponibilità di Campania Plus si è altresì, estesa all’organizzazione di corsi di formazione e di perfezionamento artigianali ed artistici in genere a favore dei detenuti della Casa di Reclusione di Aversa. La direzione, rappresentata dalla direttrice Carlotta Giaquinto, accoglie con grande entusiasmo tali iniziative, nella convinzione che gli interventi della società esterna, espressione di valori positivi possa arricchire la proposta rieducativa che l’Amministrazione Penitenziaria offre ai ristretti secondo gli obiettivi che la Costituzione attribuisce alla pena ed auspica un crescente coinvolgimento degli enti che si occupano a vario titolo di recupero sociale. Per dare pregio all’iniziativa saranno invitate le principali autorità di Aversa - vescovo di Aversa, presidente del Tribunale Napoli Nord, procuratore Capo Napoli Nord, procuratori aggiunti Napoli Nord, presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Napoli Nord, presidente della Camera Penale Napoli Nord, sindaco, direttore della Caritas di Aversa - nonché il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, il magistrato di sorveglianza, il Garante regionale dei diritti delle persone detenute, il Provveditore regionale, il direttore dell’Uepe, il responsabile della Comunità di Sant’Egidio, il presidente del Rotary Club di Aversa. Migranti. I libici minacciano la Ong spagnola Open Arms di Leo Lancari Il Manifesto, 16 marzo 2018 Impedito il salvataggio in acque internazionali di un gommone pieno di donne e bambini. Le motovedette della Guardia costiera libica continuano impunemente ad ostacolare le operazioni di soccorso di migranti in acque internazionali. L’ultimo caso è di ieri mattina e ha avuto come vittime un centinaio di uomini, donne e bambini che si trovavano su un gommone e - per l’ennesima volta - la nave della ong Proactiva Open Arms, alla quale una motovedetta libica ha impedito con le minacce di trarre in salvo i migranti. A rendere ancora più grave quanto accaduto è il fatto che tutto non si è svolto nelle acque territoriali del paese nordafricano, bensì a 73 miglia dalle coste libiche, un’area nella quale Tripoli non ha alcune autorità. “Un’azione in palese violazione del diritto internazionale al limite di un atto di pirateria” commenta il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani del Senato. Tutto comincia ieri mattina, quando alla nave della Ong spagnola arriva la segnalazione dalla sala operativa della Guardia costiera italiana a Roma di un’imbarcazione in difficoltà nel canale di Sicilia. Immediatamente dalla nave vengono messe in acque le rhib, che una volta sul posto trovano un’imbarcazione con a bordo un centinaio di persone stravolte. Comincia il salvataggio, con donne e bambini che vengono tratti in salvo a bordo della nave della Ong, giunta nel frattempo. A questo punto, però, si avvicina anche una motovedetta libica, Si tratta di uno del mezzo forniti a Tripoli dall’Italia e parte dell’accordo siglato con la Libia proprio per fermare le partenze dei barconi. Dalla motovedetta parte l’ordine di sospender le operazioni di salvataggio, con Open Arms che replica facendo presente che il recupero delle persone è già in atto. Per tutta risposta i libici minacciano di sequestrare i mezzi di salvataggio con gli equipaggi. In mezzo a tutto questo i migranti, che assistono terrorizzati alle manovre dei libici. Una situazione che è durata fino a sera, quando finalmente tutti i migranti sono potuti saliti salire a bordo della nave spagnola. Quello di ieri è stato solo l’ultimo di una lunga serie di attacchi compiuti dai libici contro le navi delle Ong impegnate nel Mediterraneo e che hanno visto i libici non esitare a usare le armi per dissuadere i soccorritori. Come accaduto sempre a Proactiva Open Arms il 7 agosto dello scorso anno, quando da una motovedetta della guardai costiera di Tripoli sono partiti colpi di avvertimento contro la nave impegnata in un’operazione di salvataggio. Da sottolineare che Proactiva Open Arms è una delle Ong che ha firmato i codice di comportamento voluto dal ministero degli Interni italiano. “Quanto sta accadendo nel mediterraneo è di una gravità estrema”, commenta Manconi. “I libici, con le armi spianate, hanno intimato alla nave di non muoversi e hanno minacciato di condurre a Tripoli le lance di recupero. E questo avviene in acque internazionali, con una palese violazione del diritto internazionale al limite del comportamento piratesco”. Siria. Sette anni e 350mila morti dopo... di Victor Castaldi Il Dubbio, 16 marzo 2018 Sette anni di guerra in Siria hanno causato oltre 350mila morti (più di un terzo sono civili) e insopportabili sofferenze a milioni di persone. Un massacro senza soluzione di continuità nonostante il conflitto abbia vissuto fasi diverse con attori diversi nel corso del tempo. Prima la rivolta dell’opposizione laica ad Assad, con la contemporanea la scesa in campo dei qaedisti di al Nusra, poi l’irruzione del Califfato delll’Isis e infine la feroce rappresaglia di Damasco. E ancora oggi una soluzione politica appare più lontana che mai. è quanto denuncia il Programma alimentare mondiale (Wfp) nel suo ultimo rapporto sul paese arabo. Ogni giorno, le famiglie vivono un incubo che sembra non finire mai, sotto i bombardamenti e i colpi di mortaio, e ogni giorno sempre più vite innocenti vengono sacrificate, afferma un comunicato secondo cui oltre un terzo della popolazione siriana è sfollata, nel tentativo disperato di trovare salvezza. Il continuo spostamento di persone si accompagna ad allarmanti ed alti livelli di fame e di bisogno: circa 6,5 milioni di siriani soffrono di insicurezza alimentare; altri quattro milioni rischiano di soffrirne, il doppio rispetto a un anno fa, secondo il Wfp. “Ogni giorno che passa senza una soluzione a questa crisi è un altro giorno in cui siamo venuti meno alla popolazione siriana - ha detto Jakob Kern, rappresentante e direttore Wfp nel Paese - La priorità assoluta deve essere porre fine al conflitto. Ne risponderemo davanti alla Storia”. Anche con barlumi di speranza e molte storie di resilienza, i combattimenti continuano ad infuriare senza sosta su diversi fronti: la Ghouta orientale nella Damasco Rurale, nel governatorato meridionale di Daràa e al nord, a Idlib e Afrin. Sono i civili a subirne le conseguenze peggiori. Dall’inizio del conflitto, i prezzi del cibo, saliti alle stelle, sono fuori dalla portata di moltissime persone. Il pane ora costa otto volte di più rispetto a prima della crisi, denuncia ancora il comunicato, e “oggi, terribilmente, sette siriani su dieci vivono in povertà estrema”. Il Wfp unisce la sua voce all’appello per la pace e “invita con urgenza tutte le parti in conflitto a permettere un accesso umanitario sicuro e senza condizioni per la consegna di cibo e altra assistenza salva- vita a quanti ne hanno così disperatamente bisogno”. Russia. Vigilia elettorale: arresti e carcere per gli attivisti dell’opposizione di Riccardo Noury Corriere della Sera, 16 marzo 2018 A pochi giorni dalle elezioni presidenziali del 18 marzo in Russia, Amnesty International ha denunciato il clima di repressione nei confronti degli attivisti politici che sostengono il boicottaggio del voto. La campagna per il boicottaggio delle elezioni è stata lanciata da Aleksei Navalny, attivista politico e anti-corruzione, cui è stato impedito di candidarsi per ragioni ampiamente discutibili. Il capo della campagna di Navalny, Leonid Volkov, è stato arrestato il 22 febbraio all’aeroporto di Mosca mentre si stava recando nella città di Ufa. Poche ore dopo, è stato condannato a 30 giorni di detenzione amministrativa per aver organizzato un “raduno non autorizzato”. L’accusa si riferisce alle manifestazioni dello “sciopero degli elettori”, svoltesi il 28 gennaio in oltre 100 città russe a sostegno del boicottaggio delle elezioni. A Mosca, Navalny si era visto rifiutare l’autorizzazione a tenere la manifestazione in centro città e lui e decine di suoi sostenitori erano stati arrestati per alcune ore e poi rilasciati. Secondo fonti della polizia, il ruolo di Volkov nell’organizzazione del raduno di Mosca sarebbe consistito in due retweet che indirettamente incoraggiavano le persone a parteciparvi. Uno era un tweet postato da Navalny mentre era in corso il suo arresto, l’altro un link a una diretta web della manifestazione. Il coordinatore dell’ufficio di Navalny di San Pietroburgo, Denis Mikhailov, è stato arrestato il 31 gennaio e condannato a 30 giorni di detenzione amministrativa dopo la manifestazione dello “sciopero degli elettori” nella città. Accusato di aver organizzato un “raduno non autorizzato”, è stato rilasciato il 2 marzo solo per essere nuovamente arrestato poche ore dopo, stavolta per “aver partecipato” all’evento, e condannato ad altri 25 giorni di carcere. Almeno altri due noti attivisti sono stati arrestati a San Pietroburgo in circostanze simili. Il 28 febbraio il coordinatore cittadino del movimento Open Russia, Andrei Pivoravov, è stato condannato a 25 giorni di detenzione amministrativa. Il giorno prima dell’arresto, aveva scritto su Facebook che temeva di essere sorvegliato. Il 26 febbraio Artyom Goncharenko, esponente di un altro movimento di opposizione denominato “Vesna” (“Primavera”), è stato condannato a 25 giorni di detenzione amministrativa per aver esposto un’enorme anatra gonfiabile alla finestra della sua abitazione al momento del passaggio di una manifestazione di protesta. Dallo scorso anno, le anatre gialle sono diventate un popolare simbolo dell’opposizione. Ungheria. Sette anni di carcere al migrante che ha superato il confine: "Atti di terrorismo" di Raffaella Scuderi La Repubblica, 16 marzo 2018 Nonostante abbia un passaporto Ue, Ahmed Hamed è stato condannato per aver oltrepassato la frontiera con la Serbia nel 2015. La sentenza parla di "terrorismo" e Amnesty denuncia: "Decisione assurda". I presunti "atti di terrorismo" per cui un tribunale ungherese ha condannato a sette anni di reclusione Ahmed Hamad consisterebbero in un lancio di sassi contro la polizia che sparava acqua dai cannoni e gas lacrimogeni verso i migranti, e l’aver varcato "illegalmente" il confine dalla Serbia, pur essendo in possesso di un passaporto europeo. L’uomo in questione è siriano-cipriota e la sentenza arriva dalla corte di Szeged, cittadina meridionale dell’Ungheria. I fatti risalgono al 16 settembre del 2015, un giorno dopo la chiusura della frontiera da parte del Governo di Viktor Orbán, quando centinaia di migranti forzarono l’apertura del cancello di frontiera scontrandosi con la polizia. Ahmed faceva parte del gruppo e parlava alla folla dall’altoparlante. La difesa ha sostenuto che lui non fece altro che tirare dei sassi e non ha alcuna affiliazione terroristica. Condannato nel novembre del 2016 a 10 anni di carcere, venne assolto dalla corte d’appello che annullò la sentenza ordinando un nuovo processo, che si è concluso nella giornata di ieri. Ahmed è apparso in tribunale ammanettato e con i piedi incatenati, sorvegliato da diversi poliziotti col volto coperto dal passamontagna. A tutti gli effetti, un trattamento da vero terrorista quando in realtà, avendo un passaporto europeo, sarebbe potuto entrare in Ungheria senza visto. Si presentò invece ai cancelli per aiutare i suoi parenti e altri cittadini siriani. "Non siamo andati al confine per causare problemi - ha dichiarato - Non la mia cultura e neanche la mia religione lo incoraggerebbe". Tra le circostanze attenuanti approvate dalla corte: la mancanza di precedenti penali, il suo dovere di sostenere le sue due giovani figlie e l’inferno che ha sofferto. Amnesty International ha condannato la sentenza affermando che "il verdetto di oggi riflette la pericolosa sintesi delle radicali leggi anti-terrorismo ungheresi e la spietata repressione di Budapest nei confronti di rifugiati e migranti. La condanna di Ahmed dovrebbe essere annullata in appello e lui rilasciato senza indugio". È proprio nello stesso anno, l’8 settembre, che al confine tra Serbia e Ungheria, dopo che alcuni migranti frustrati per la mancanza di assistenza da parte del governo ungherese, tentarono la fuga dal campo di Roszke. In quella circostanza Petra Laslzo, reporter ungherese di N1TV, sgambettò un padre in fuga con in braccio un bambino. Il video fece il giro del mondo e Petra fu licenziata. La sua condanna arrivò dalla stessa corte della cittadina di Szeged che ora manda in galera Ahmed. Quasi la metà del milione di migranti entrati nell’Unione europea nel 2015 ha attraversato l’Ungheria. Fidesz, il partito nazionalista di destra di Orbán, si è fortemente opposto alle quote Ue sui migranti attraverso il blocco, affermando che rappresentano una minaccia per i valori e la cultura occidentali. Il premier ungherese ha spesso usato il caso di Ahmed nelle sue campagne di propaganda anti-migranti definendolo "un terrorista". Nel 2015 sia il Parlamento europeo che il Dipartimento di Stato degli Usa con Barack Obama espressero preocccupazione per l’arresto di Hamed. La Corte di giustizia europea a settembre del 2017 ha rigettato il ricorso di Ungheria, Slovacchia, Céchia e Polonia sulle quote migranti, affermando che "ripartire il numero dei profughi tra i paesi della Ue è irrinunciabile". Bolivia. Scontro fra detenuti e polizia in prigione di Palmasola, sei morti e venti feriti Nova, 16 marzo 2018 Almeno sei persone sono state uccise e più di 20 ferite in un violento scontro nella prigione di Palmasola, in Bolivia. La prigione è considerata la più pericolosa del paese. Secondo le prime ricostruzioni delle autorità, riferisce l’agenzia stampa boliviana "Abi", diversi gruppi di detenuti hanno resistito con armi da fuoco a una perquisizione che la polizia ha effettuato nelle prime ore di ieri. L’operazione ha coinvolto almeno 2.200 agenti, di cui sei sono stati feriti da proiettili. Sei detenuti della prigione hanno resistito con armi da fuoco, ha spiegato il viceministro del Regime interno e della polizia, José Luis Quiroga. Alcuni giorni fa, le autorità avevano ordinato la sottrazione dei figli che vivevano con i genitori detenuti a Palmasola, reagendo ad alcune accuse di prostituzione infantile e ai frequenti scontri verificatisi all’interno della prigione, nella quale vivono oltre 5.000 persone fra uomini e donne. Di questi, riferisce la stampa, solo 400 sono già stati condannati: la maggior parte sconta una pena di prigione preventiva, in una situazione che aggrava il problema di sovraffollamento delle carceri boliviane. Sempre a Palmasola, uno scontro del 2013 aveva provocato la morte di 34 detenuti. Bresile. Uccisa a Rio Marielle Franco: aveva denunciato gli omicidi nelle favelas di Rocco Cotroneo Corriere della Sera, 16 marzo 2018 Trentotto anni, la consigliera comunale è stata assassinata con quattro colpi di pistola alla testa. I sicari hanno anche ucciso il suo autista e ferito lievemente una sua assistente. Marielle era nata e cresciuta alla Maré, il vergognoso benvenuto di Rio de Janeiro per chi sbarca all’aeroporto internazionale. Dietro tristi pannelli, ufficialmente antirumore, e tra i fetori di un mare morto da tempo, vivono 130.000 abitanti in quello che è definito “complesso” di una dozzina di favelas. Il tassista che sfreccia verso gli alberghi sulle spiagge raccomanda finestrini chiusi. Per l’odore nauseabondo e il “non si sa mai”. Veniva da qui Marielle Franco, 38 anni, consigliere comunale, morta ammazzata mercoledì sera a causa della lotta coraggiosa per i diritti della sua gente, povera e di colore come lei. In primo luogo il diritto di non finire ammazzata per mano degli squadroni della polizia. E la sua è stata una vera e propria esecuzione. Sapevano tutto: che lei era in quell’auto, seduta dietro, sono andati a colpo sicuro nonostante la notte e i vetri scuri. Dalla macchina affiancata al semaforo sono partiti dieci colpi, che hanno ucciso Marielle insieme ad Anderson Gomes, l’autista. In perfetto stile mafioso: tappare una bocca e spaventare le altre. Era appena uscita da un dibattito pubblico sul tema a lei più caro, la violenza sulle donne nelle aree di rischio, tutto filmato sui social. E alle 21,30, nel mezzo di un’importante partita del Flamengo per la coppa Libertadores, il tam tam della rete ha sconvolto la vita dei tanti abitanti di Rio che la conoscevano e l’avevano votata. Nel 2016, esordiente in politica, Marielle Franco aveva preso 46.000 preferenze, la quinta più votata alle comunali. Militava in un piccolo partito di sinistra, il Psol, da sempre in prima linea a Rio sul tema dei diritti umani. Con il leader del partito, Marcelo Freixo, Marielle aveva lavorato per anni. A causa delle loro accuse sugli abusi di forza della polizia, qualcuno li definiva “amici dei banditi”. Freixo è anche diventato personaggio di un film sulla violenza a Rio che ha fatto il giro del mondo, Tropa de Elite. Ha dunque il suo primo omicidio eccellente la nuova guerra di Rio de Janeiro, deflagrata dopo i “fasti” dei Mondiali di calcio e delle Olimpiadi. Con la classe politica corrotta spazzata via dai giudici, i narcos e le milizie paramilitari si sono ripresi gli spazi perduti negli anni in cui la città era sotto gli occhi del mondo. Il governo centrale ha risposto commissariando Rio con i militari, e il governatore è stato esautorato da un generale poche settimane fa. Contro questa misura estrema, possibilmente foriera di altre morti e brutalità nelle favelas, lottava Marielle Franco. Qualche giorno fa, il suo gruppo politico aveva convocato a Rio i giornalisti stranieri per lanciare una iniziativa di monitoraggio e denuncia sull’intervento dei militari a Rio. Ma chi l’ha uccisa dunque? La polizia corrotta, le milizie, i narcos? In tanti potrebbero aver avuto questo interesse. Quattro giorni prima di morire Marielle aveva denunciato la morte ingiustificata di due giovani, alla periferia nord di Rio, per mano della polizia. Appena poche ore prima dell’agguato, aveva scritto su Twitter: “Quante altre persone dovranno morire prima che questa guerra finisca?”. Soltanto la scorsa notte a Rio sono state ammazzate cinque persone. Tra loro Marielle e Anderson. Pakistan. Asia Bibi: in carcere prego con il rosario donatomi dal Papa di Stefano Vecchia Avvenire, 16 marzo 2018 Ma il Pakistan sembra avere dimenticato la domanda di grazia fatta dal marito nel 2016. Speranze, invece, per l’udienza alla Corte Suprema. “Ora finalmente potrò pregare con il rosario donatomi dal Papa. Grazie per il vostro aiuto”. Dopo 3.184 giorni in cella per presunto oltraggio alla fede islamica, la cattolica pachistana Asia Bibi ha ricevuto il permesso di tenere nel carcere di Multan il Rosario che papa Francesco le ha donato. “È la prima volta in nove anni che mi consentono di tenere un cella un oggetto religioso” ha detto la donna incontrando il 12 marzo il marito Ashiq e la figlia Eisham di ritorno dal viaggio in Italia con Aiuto alla Chiesa che Soffre, durante il quale erano stati ricevuti in udienza privata da papa Francesco. In quell’occasione il Pontefice aveva consegnato ai familiari quel dono per Asia Bibi, assicurando che avrebbe pregato per lei. “Ricevo questo dono con devozione e gratitudine - ha detto Asia - Questo rosario sarà per me di grande consolazione, così come mi conforta sapere che il Santo Padre prega per me e pensa a me in queste difficili condizioni”. Lo rende noto un comunicato di Aiuto alla Chiesa che Soffre (Acs). Nella stessa occasione, il 25 febbraio, il marito e la figlia Eisham di Asia Bibi erano stati ospiti di Avvenire a Roma. La figlia e il marito hanno inoltre raccontato ad Asia della serata del 24 febbraio, quando Acs ha illuminato di rosso il Colosseo in memoria dei martiri cristiani e l’ha ricordata in particolar modo attraverso la testimonianza dei suoi cari. “L’attenzione internazionale sul mio caso è fondamentale per me. È infatti per merito di questa se sono ancora viva. Grazie ACS per tutto quello che fate, non soltanto per me, ma per tutte le altre vittime della legge antiblasfemia, il cui abuso colpisce soprattutto le minoranze religiose”. Intanto sembra farsi sempre più in salita la strada verso la liberazione. A segnalare come un provvedimento di clemenza, chiesto al presidente Mamnoon Hussain due anni fa, sia di difficile attuazione è il legale musulmano Saif-ul-Malook, a capo del collegio di difesa della donna che attende nel carcere femminile di Multan che la Corte Suprema si esprima sulla correttezza dell’iter processuale che ha portato alla sua condanna a morte. Nel 2016, il marito di Asia Bibi, Ashiq Masih, aveva inviato al presidente una lettera in cui chiedeva un provvedimento di grazia per la moglie e anche il permesso per il suo espatrio in Francia dove si erano dichiarati disponibili a ospitare la famiglia. Nei giorni scorsi, in un’intervista alla rete televisiva tedesca Deutsche Welle, Malook ha confermato che la sua assistita, per altre fonti in non buone condizioni di salute e prostrata dall’esperienza del carcere e dalla separazione dalla famiglia, sia invece “trattata bene” e “non abbia particolari lamentale verso le guardie carcerarie, tutte donne”. A smorzare ulteriormente la speranza in una soluzione in tempi brevi della vicenda, Malook ha risposto in modo sostanzialmente negativo sulla possibilità di un intervento presidenziale. “L’opposizione di una larga parte della società pachistana è talmente forte che non ritengo possa esserci una reale possibilità per Asia Bibi. Secondo la Costituzione, il presidente agisce su consiglio del primo ministro e non credo che qualunque leader politico in Pakistan possa ora permettersi di avanzare una simile richiesta”. L’avvocato si è però detto speranzoso che i giudici convochino al più presto l’udienza definitiva, anche se da tempo - ha chiarito - è apparso con chiarezza che il caso di Asia Bibi non è prioritario per la Corte Suprema. Una situazione che mette ancor più in difficoltà le autorità di Islamabad, peraltro finito sotto la lente dell’Unione Europea, che recentemente ha avvertito che il rinnovo in corso di importanti accordi commerciali con il Paese asiatico dipenderà proprio dalla scarcerazione della donna. Monsignor Benny Travas, vescovo di Multan, città dove è imprigionata Asia, incontrerà invece oggi in Vaticano papa Francesco con altri vescovi pachistani in vista ad limina apostolorum. Il prelato segnalerà nell’occasione ancora una volta la delicatezza del “caso di Asia Bibi e l’impossibilità di farle arrivare l’eucaristia”, come pure di consentire a sacerdoti di farle visita. “Solo cristiane impiegate nel carcere - ricorda - a volte riescono a parlarle, dandole un po’ di calore umano e di partecipazione spirituale”.