Uno sguardo diverso verso il carcere di Maria Chiara Cugusi Il Portico - Settimanale diocesano di Cagliari, 15 marzo 2018 Ornella Favero dirige “Ristretti Orizzonti”, una rivista sul mondo dietro le sbarre. Un’informazione che riduca la distanza tra il carcere e la società, il ruolo del volontariato e l’importanza delle misure di comunità, alternative al carcere. Di questo ha parlato ai giornalisti sardi Ornella Favero, direttrice della rivista Ristretti orizzonti e presidente della Conferenza Nazionale Volontariato e Giustizia (Cnvg). In che modo raccontare oggi il carcere? Nella nostra redazione abbiamo capito qual è il modo giusto per raccontare il carcere quando ci siamo accorti che nell’ambito del nostro progetto, in cui i detenuti dialogano con gli studenti, questi ultimi avevano l’illusione della “estraneità” del carcere, visto come una realtà che riguarda solo i “cattivi”, coloro che hanno fatto una certa scelta di vita. In questi 20 anni di volontariato ho incontrato tante persone che non avrebbero mai immaginato di andare in carcere: ecco, con i ragazzi partiamo sempre dai reati che chiunque potrebbe compiere, come quelli legati all’abuso di sostanze alcoliche, o quelli per “futili motivi”. Il nostro compito di giornalisti è ridurre questa finta distanza che la “cattiva informazione” crea tra il carcere e la società, la sicurezza di dire “a noi non capiterà mai”. E proprio la consapevolezza che questa realtà può riguardare anche noi, i nostri cari, ci fa guardare alle pene in modo diverso… Qual è l’importanza dei percorsi alternativi al carcere? Nel racconto dei detenuti emerge che quelli che hanno scontato la pena interamente in carcere, non hanno un deterrente per non commettere più reati, anche perché resta solo il dolore, il rancore. Secondo un’ indagine svolta qualche anno fa a livello nazionale dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria su circa 15mila detenuti, le persone che scontano l’intera pena in carcere, nel 69% dei casi ritornano a commettere reati, mentre tra coloro che scontano la pena con una misura alternativa, uscendo prima dal carcere in un percorso guidato, la recidiva crolla al 19%. Qual è il ruolo del volontariato? Il volontariato ha la capacità di essere anche fuori, nel territorio, di accompagnare le persone che, in alcuni casi, si troverebbero totalmente sole. Anche quando si ha accesso alle misure alternative la situazione non è così semplice: ci sono delle regole da rispettare, bisogna ricostruire gradualmente le relazioni, i rapporti con i familiari, con i figli, spesso annullate dall’esperienza del carcere. Ci deve essere una gradualità: spesso la persona, che ha trascorso tanti anni in carcere, una volta fuori, vorrebbe recuperare subito il tempo perso, invece occorre aiutarla ad accettare l’idea di partire da quel momento, cercando di riparare al male fatto e di costruire qualcosa per il futuro. Quali sono le progettualità più efficaci? Dentro il carcere le progettualità più efficaci sono quelle che mettono le persone davanti alle loro responsabilità: gli incontri con le vittime sono straordinari, così come sono importanti quelli con gli studenti che impongono di “restituire” qualcosa alla società. È importante rafforzare ulteriormente le “misure di comunità”, che sono tante ma non abbastanza: circa 20mila detenuti hanno da scontare un residuo di pena sotto i tre anni, quindi potrebbero essere inseriti in una misura, e invece si trovano in carcere. Ogni detenuto che resta fino all’ultimo giorno in carcere è una sconfitta per la società, perché quando torna in libertà è una persona profondamente a rischio. Inoltre, tanti talvolta non accedono alle misure alternative, perché non hanno risorse, appoggi sul territorio, perché c’è sempre più una cosiddetta “detenzione sociale”: ecco allora l’importanza di tutte le strutture gestite dal volontariato che aiutano queste persone a reinventarsi e a ricostruire se stesse. Si sblocca (per ora) la riforma del carcere di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 15 marzo 2018 Approderà domani sul tavolo del Consiglio dei ministri il decreto di riforma dell’ordinamento penitenziario. Il Governo Gentiloni rompe gli indugi e mette all’ordine del giorno un intervento dal percorso assai tormentato e, quanto a iter procedurale, con profili inediti. A favore dell’approvazione, negli ultimi giorni, ha preso corpo una forte mobilitazione di associazioni e giuristi con un appello pubblico sottoscritto tra gli altri dalle Camere penali, dal Consiglio nazionale forense, da Magistratura democratica, e, tra molti altri, da Valerio Onida, Vladimiro Zagrebelsky, Edmondo Bruti Liberati, Armando Spataro, Ernesto Lupo, Carlo Federico Grosso. In realtà, il perno della riforma, il decreto legislativo che riscrive in maniera profonda e significativa, dopo un ampio lavoro preparatorio costituito dagli Stati generali dell’esecuzione penale, punti chiave come le misure alternative al carcere, il trattamento sanitario, l’individualizzazione della pena, i colloqui, la corrispondenza e l’informazione, è già stato approvato una prima volta in Consiglio dei ministri nell’autunno scorso. I pareri delle commissioni Giustizia, soprattutto quello del Senato, hanno però posto condizioni assai incisive, tanto da modificarne le linee guida, stravolgendone l’ispirazione. Di qui la decisione di non accoglierle, rendendo quindi necessario un nuovo passaggio parlamentare. Che, quanto a tempi, sarebbe però ricaduto direttamente a ridosso della data delle elezioni. Con la conseguenza di un possibile varo di una riforma a elevato tasso divisivo nelle ore immediatamente precedenti la consultazione elettorale. Il Governo ha così deciso di non decidere, prendendo tempo, ma non abbandonando, come ha voluto sottolineare ancora pochi giorni fa da Bruxelles il ministro della Giustizia Andrea Orlando, il progetto (che si è andato poi arricchendo di altri 3 decreti, sulla giustizia riparativa, sul lavoro e sull’ordinamento minorile) al suo destino. Che però resta appeso a un filo. Perché il testo a questo punto sarà affidato per i pareri alle nuove Camere, che ancora però non si sono insediate e tanto meno saranno costituite a breve le commissioni Giustizia. Insomma, a mancare potrebbe ancora essere, per un po’, l’interlocutore istituzionale. Dove a complicare ulteriormente la situazione c’è poi il fatto che il Governo potrebbe anche decidere di forzare la mano, visto che una volta trascorsa una decina di giorni dalla trasmissione a Camera e Senato, il testo sarebbe comunque approvabile anche in assenza dei pareri. Si tratterebbe però di uno strappo istituzionale, del quale è assai dubbio voglia farsi carico un Governo uscente. E Orlando spera ancora... Il Consiglio dei ministri I potrebbe riunirsi domani per licenziare quella parte dei decreti attuativi, già approvati il 22 febbraio, della riforma dell’ordinamento penitenziario già sottoposti al parere delle commissioni giustizia. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando al microfono di Lanfranco Palazzolo per Radio Radicale lascia aperto uno spiraglio: “Posso solo dire che non bisogna abbandonare le speranze, perché stiamo lavorando ancora per questa prospettiva”. Orlando poi ha aggiunto: “Penso che alcune critiche siano state troppo frettolose. Alcune dichiarazioni di questi giorni le comprendo. Anche per me l’aspettativa è grande”. Rita Bernardini del Partito radicale che, insieme a migliaia di detenuti, ha attuato un lungo sciopero della fame, così ha commentato le parole del ministro: “Eh sì, l’importante è riuscire a risolverli i problemi. Che poi, per la situazione penitenziaria e dell’esecuzione penale, sono vere violazioni della Costituzione, non semplici “problemi”“. Nel frattempo ieri, gli avvocati penalisti, per il secondo giorno consecutivo, si sono astenuti dalle udienze per protestare contro la mancata approvazione del decreto su cui si regge tutta la riforma. Voglia di riforma delle galere ai tempi della voluttà carceraria di Adriano Sofri Il Foglio, 15 marzo 2018 Lo sciopero dell’Unione delle Camere Penali e altre iniziative sono apprezzabili perché testimoniano di un impegno giusto e necessario, protratto lungo tre anni, e definitivamente affossato. Se non ascoltassi Radio radicale e non ricevessi il quotidiano Il Dubbio avrei a stento saputo che gli avvocati penalisti italiani hanno scioperato per due giorni, l’altro ieri e ieri. Lo sciopero, e le altre (poche) iniziative condotte soprattutto da militanti radicali e da detenuti, oltre alle prese di posizione (poche ma significative) di giuristi e magistrati, riguardano un segmento della riforma penitenziaria sopravvissuto alle successive rinunce e mutilazioni nella legislatura che si chiude. Un segmento importante in particolare per le pene alternative. Lo sciopero dell’Unione delle Camere Penali, che peraltro ha avuto un’adesione vastissima, e le altre iniziative, sono apprezzabili in realtà solo perché testimoniano di un impegno giusto e necessario, protratto lungo tre anni, e definitivamente affossato. Nessuno poteva e può credere che gli ultimi giorni di una legislatura sepolta e di un governo di affari correnti producessero il soprassalto di una volontà di riforma appena decente della condizione delle galere. Tanto più quando hanno prevalso nelle elezioni partiti e uomini gonfi di voluttà carceraria. Hanno una grossa maggioranza, questi freschi vincitori. Ci sono luoghi, celle, scantinati, scale, stive, panchine, dai quali si aspetta il loro regno con l’orecchio al suolo e le braccia attorno alla testa. Rannicchiati nel quinto angolo. Carceri, mobilitazione di giuristi e radicali: non affossate la riforma di Valter Vecellio lindro.it, 15 marzo 2018 Lo chiedono i penalisti: hanno indetto due giorni di sciopero che si sono conclusi con una manifestazione nazionale, ieri, a Roma. L’Unione delle Camere penali rivolge un “forte richiamo” al governo perché rispetti i “propri impegni” e approvi, “prima dell’oramai prossima scadenza”, il testo della riforma dell’ordinamento penitenziario già sottoposto al vaglio del Consiglio dei Ministri. La riforma dell’ordinamento penitenziario voluta dal Ministro Andrea Orlando dicono i penalisti “è stata salutata dall’avvocatura penale come una grande riforma organica dell’esecuzione penale con la quale, dopo oltre quaranta anni, si è tornati a porre la finalità rieducativa ed il reinserimento sociale del condannato al centro della legislazione penale nella luce dei principi affermati dall’art. 27 c.3 della Costituzione”. E gli stati generali dell’esecuzione penale voluti dal Ministro per riunire l’accademia, l’avvocatura e la magistratura, attorno alla attuazione della delega,” hanno prodotto una riforma che pone ancora una volta l’Italia all’avanguardia nella elaborazione dei più avanzati strumenti di recupero e di trattamento penitenziario”. I pareri non vincolanti delle Commissioni Giustizia del Parlamento, “con i quali si sono espresse riserve circa la esclusione di alcuni automatismi e di alcune preclusioni, non possono costituire un ostacolo all’iter di approvazione definitiva della legge, dovendo il Governo restare fedele allo spirito della riforma ed alla lettera della delega, ed agli impegni più volte pubblicamente assunti dal Ministro Orlando e dal Presidente del Consiglio Gentiloni”. Lo chiede Agnese Moro, una delle figlie del leader democristiano ucciso quarant’anni fa dalle Brigate Rosse. Ferita in uno dei suoi affetti più cari, avrebbe tutto il diritto di mostrare il volto arcigno che non concede perdono e misericordia. Invece si fa interprete di un “sentire” improntato a pacata ragione e meditata consapevolezza: “A volte sembra che la nostra vita pubblica assomigli alla storia di Penelope, che tesseva di giorno e di notte disfaceva il lavoro fatto. È quello che rischia di succedere alla riforma penitenziaria su cui governo, Parlamento, studiosi, operatori, addetti ai lavori, volontariato e società hanno lavorato intensamente negli ultimi anni”. Agnese Moro, nella sua settimanale rubrica su “La Stampa”, ricorda che per cercare di scongiurare una simile eventualità diverse associazioni si sono rivolte con un appello al Governo perché l’approvi, in attuazione della delega ricevuta con la legge n. 103/2017. Cosa che ancora può fare. “Speriamo”, auspica, “che il Governo abbia quel po’ di coraggio che serve per non disfare tanto lavoro e tante speranze”. L’appello. Lo firmano l’Associazione italiana dei professori di diritto penale; l’Associazione tra gli studiosi del processo penale; L’Unione Camere Penali Italiane e il Consiglio Nazionale Forense; Magistratura Democratica, Area democratica per la giustizia, Antigone, la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia; il Partito Radicale Nonviolento Transnazionale Transpartito e Nessuno Tocchi Caino. E ancora: Edmondo Bruti Liberati; Fabio Cavalli; Adolfo Ceretti; Paolo Di Paolo; Emilio Dolcini; Elvio Fassone; Giovanni Fiandaca; Luca Formenton; Carlo Federico Grosso; Vittorio Lingiardi; Franco Lorenzoni; Ernesto Lupo; Sergio Moccia; Tomaso Montanari; Valerio Onida; Padre Laurent Mazas; Francesco Palazzo; Mauro Palma; Sandra Petrignani; Armando Punzo; Andrea Pugiotto; Domenico Pulitanò; Gaetano Silvestri; Marco Ruotolo; Delfino Siracusano; Armando Spataro, Donatella Stasio; Vladimiro Zagrebelsky; e ancora: Rita Berrnardini; Sergio D’Elia; Elisabetta Zamparutti; Emilia Rossi; Guido Stampanoni Bassi Guido; Monica Manca; Federico Cappelletti. Nell’appello si osserva che “il cammino della riforma contenuta nello schema di decreto legislativo adottato il 22 dicembre 2017 rischia di avere una definitiva battuta di arresto”. Per questo ci si rivolge con forza al Governo perché, “mantenendo fede all’impegno assunto ed esercitando almeno nella sua parte fondamentale la delega conferita con la legge n. 103/17 votata dal Parlamento, approvi in via definitiva, pur dopo le elezioni politiche, la riforma dell’ordinamento penitenziario, riportando l’esecuzione penale entro una cornice di legalità costituzionale e sovranazionale dopo le umilianti condanne europee”. La riforma, dicono i firmatari, “rappresenta niente più che il rifiuto, ideale prima ancora che giuridico, di presunzioni legali di irrecuperabilità sociale, dal momento che nessuna pena deve rimanere per sempre indifferente all’evoluzione personale del condannato, ed affida alla magistratura, cui per legge è assegnata istituzionalmente la realizzazione del finalismo rieducativo dell’art. 27 della Costituzione - la magistratura di sorveglianza - la piena valutazione sulla meritevolezza delle misure alternative e il bilanciamento degli interessi in gioco. Sarebbe davvero amaro se il destino di questa stagione riformatrice, iniziata nel 2015 con la felice intuizione degli ‘Stati generali dell’esecuzione penalè, si concludesse con la beffarda presa d’atto che solo il carcere e non anche - e soprattutto - le misure di comunità svolgono efficacemente la funzione di garantire la sicurezza dei cittadini e riducono la recidiva”. Walter Verini (Pd): “la riforma del carcere darebbe il senso a un’intera legislatura” di Giulia Merlo Il Dubbio, 15 marzo 2018 L’impresa è quasi disperata, ma la riforma dell’ordinamento penitenziario si può ancora approvare. Ci crede Walter Verini, capogruppo del Partito Democratico in commissione Giustizia alla Camera: “Sarebbe il timbro finale su un lavoro di anni, non di un atto nuovo”. Lei spera ancora che il decreto legislativo si approvi, nonostante la fine della legislatura? La mia non è solo una speranza, ma credo che chiudere questa pagina sia un dovere. Io confido che il governo, seppure legittimato solo all’esercizio degli affari correnti, approvi la riforma: del resto, non si tratta certo di un provvedimento inedito, ma la conclusione di un iter che ha visto le forze politiche impegnate per 18 mesi. Insomma, è la chiusura di un percorso e non certo l’avvio di uno nuovo. C’è chi non la considera una priorità per il Paese... Invece è un provvedimento fondamentale, perché va nella direzione di dare effettiva applicazione dell’articolo 27 della Costituzione, che stabilisce che la pena non è una vendetta ma serve a rieducare. Si tratta di una risposta vera ai bisogni di sicurezza dei cittadini, gli stessi che il Pd ha probabilmente sottovalutato e che da cui è stato travolto. Eppure i detrattori sostengono l’esatto opposto e che sia un provvedimento “svuota carceri”... Le persone che escono dal carcere con un lavoro che hanno appreso mentre scontavano la pena, con una formazione acquisita e una socialità esercitata non tornano a delinquere. La pena è e deve essere certa, ma deve anche riabilitare. In altre parole, trattare i detenuti come persone, anche se hanno sbagliato, è il miglior investimento per la sicurezza del Paese. Le carceri devono essere un luogo umano, dove chi entra possa vivere con la speranza di avere una nuova chance di vita sociale. Viene da chiedersi allora come mai il governo sia arrivato davvero al filo di lana della legislatura senza aver ancora approvato la riforma. Perché? Io penso che sia prevalso un minimo di prudenza, per non avvelenare ulteriormente un clima pre elettorale, in cui i mercanti del cinismo e della paura - Salvini in primis - avrebbero sfruttato la riforma per alimentare pretestuose polemiche e speculazioni. Ora, superata la campagna elettorale, non c’è più ragione di avere questa pur comprensibile cautela. Non temete che la futura maggioranza interpreti questa approvazione come un travalicamento dalle funzioni di un governo dimissionario? No, perché si tratta della conclusione di un percorso già avviato. Per di più, si tratta di un’istanza trasversale nel Paese: la chiedono le Camere penali, l’avvocatura tutta, importanti settori della magistratura e molte personalità di varia impostazione politico culturale. Del resto, si tratta di dare applicazione a un articolo della Costituzione. Lei crede che la riforma possa essere valutata positivamente anche dalle forze che hanno vinto questa tornata elettorale? Un vizio negativo del nostro Parlamento è che le nuove maggioranze sfascino quanto fatto prima. Io credo che non si tratti di un provvedimento perfetto, ma che sia il meglio che potevamo ottenere: spero ci sia modo di verificarlo nella sua applicazione. E mi aspetterei da coloro che con merito hanno svolto un ruolo di stimolo per la riforma, in particolare i radicali e Rita Bernardini, di non spronare solo noi del Pd, ma di fare altrettanto anche con altre forze politiche. Secondo lei troverebbero degli interlocutori? Nel Pd e nel governo li hanno trovati. Possibile che non ci sia un parlamentare 5 stelle, nonostante la consegna bulgara di non parlare con nessuno, che riconosca l’importanza della riforma delle carceri? Lo stesso vale per Forza Italia, che pure esibisce medaglie di garantismo: non ho visto dichiarazioni in favore della riforma, mentre ho letto legittime dichiarazioni sulla vicenda di Dell’Utri. Il tema delle carceri umane non esiste solo quando riguarda qualche personaggio noto. Visto l’esito del voto, il Pd qualcosa ha sbagliato. Le conquiste del governo sono state mal raccontate oppure i diritti non fanno più presa sull’elettorato? Noi abbiamo fatto benissimo a portare a casa diritti civili attesi da anni. Il punto, però, è che non si devono contrapporre i diritti civili ai diritti sociali. Il vero povero non è solo chi non ha niente, ma anche chi si sente solo: la nostra sinistra ha lasciato soli tanti cittadini delle periferie sociali e non solo geografiche del Paese. Chi deve fare i conti con il procurarsi il pane e con i 33 centesimi l’ora di paga in un call center si è sentito abbandonato, invece la sinistra doveva partire da loro e non solo occuparsene durante i convegni. Serve una forza vera che condivida tutti i giorni la vita di queste persone, che non sia un raggruppamento di ceto politico ma un gruppo che vive la politica come volontariato. In una parola, serve un partito di sinistra aperto. Dovremo compiere una lunga traversata per ritornare a incarnare l’ideale col quale il Pd era nato e che conquistò 12 milioni di voti, di cui 6 sono andati persi. Si combattono così quelli che lei ha chiamato i mercanti della paura? Si combattono tornando ad essere una forza di coesione sociale, che non lascia indietro le marginalità e allo stesso tempo sostiene il ceto medio e difende i professionisti e le imprese. Ora, invece, siamo percepiti come la sinistra che garantisce i garantiti. Dobbiamo tornare a capire le paure, vere o percepite, in modo da provare a superarle, invece che specularci sopra come fa Salvini. La sicurezza, però, oggi viene percepita come un tema della destra. Invece è un tema nostro, perché ad essere meno sicuri sono i ceti sociali più deboli, e il ministro Marco Minniti ha detto e fatto cose sacrosante. Al tempo stesso, però, la sinistra deve avere il coraggio di tenere vivi i valori della civiltà giuridica, del garantismo, del carcere come rieducazione e della legittima difesa che non sia far west. Altrimenti, diventiamo subalterni a chi gioca con la paura. Provocatoriamente, forse potreste farlo meglio tentando l’appoggio a un governo d’intesa coi 5 Stelle e dunque lavorando dall’interno. Gli elettori ci hanno detto cosa fare: non spetta a noi governare. Davanti a uno stallo e a un appello del Presidente della Repubblica il Pd non farà mancare il suo apporto, ma con forme che oggi è prematuro dire. Anche fuori dal governo, però, non staremo a guardare e vigileremo in Parlamento per evitare che le nostre riforme, soprattutto in materia di giustizia, vengano snaturate. Lo Stato della pena; ciò che non è Stato di Michele Passione (Avvocato) Ristretti Orizzonti, 15 marzo 2018 In un’intervista di ieri Giovanni Moro, figlio dello Statista assassinato dalle Brigate Rosse 40 anni fa, ha definito così il concetto di “non decidere”: “quando un sistema politico non vuole gestire un problema mette in campo un sistema di valori, riti, procedimenti, attori, che hanno come obiettivo quello di non prendere la decisione. È la decisione di non decidere” Il Prof. Moro parlava dei 55 giorni che accompagnarono, e segnarono per sempre, la sorte del padre e di questo sventurato Paese. Possiamo usare le stesse parole; “è la Verità che fa la Giustizia”. Noi qui parliamo di un grande avvenire alle nostre spalle; lo Stato della pena, ciò che non è Stato. Come altri a questo tavolo, ho in tasca un decreto, che mi impegna a rispettare un dovere istituzionale; per questo, per mesi, abbiamo provato a cambiare le cose (lo Stato di cose esistenti, si diceva una volta...). A differenza di altri, però, noi rispettiamo la Legge, sulla quale fu posta la fiducia, e impegnato il Parlamento su un percorso di riforma; fedele al self restraint che ci lega all’impegno assunto, quanto meno fino allo scadere del nostro incarico, non entrerò dunque nel dettaglio di ciò che poteva essere, e invece non sarà. Questa riforma ha avuto avversari dichiarati: il deputato 5S Ferraresi, e con lui il suo partito (non certo l’unico), ci ha definiti “criminali”. Il Procuratore nazionale Cafiero De Raho, che ha messo in discussione la Consulta per perorare la sua causa ostile; il Procuratore Aggiunto Ardita, che ha consapevolmente inverato la realtà, evocando il rischio di scioglimento del cumulo per i detenuti in 41 bis (espressamente esclusi dalla delega penitenziaria); l’ANM, che ha proditoriamente privilegiato una posizione prudenziale e farisaica, in vista delle prossime elezioni del Csm. Nessuno, come l’Ucpi e il partito radicale, si è battuto così a fondo, e fino in fondo, perché questa riforma andasse in porto; con noi, detenuti e Accademia, oltre alla meritoria Magistratura Democratica. Peggio. Abbiamo avuto qualche Collega (?) che ha scordato il significato della toga, consegnandosi a piene mani al populismo imperante, dispensato ad arte, e quotidianamente, alla Società ignara della posta in gioco, dei dati di realtà che questa materia propone. Adesso è l’ora di dire la verità. L’esecuzione penale non è figlia di un Dio minore. Lo ricordava il Presidente Canzio, nel corso della chiusura degli Stati Generali a Rebibbia, due anni fa, ribadendo “la centralità della fase esecutiva, complementare a quella della cognizione”. Lo insegnava Aldo Moro ai suoi studenti; la pena costituzionale è la pena dell’Uomo, non del reato che ha commesso. Invece oggi, e non per caso, “il legislatore smentisce se stesso” (per usare le parole della Corte Costituzionale, con la recente sentenza n.41 del 2018, che ha invece, e finalmente, riformato l’art. 656 comma 5 del codice di rito, agganciandolo alla previsione del novellato affidamento allargato). Il diritto penale è sempre più ossessionato dalla necessità di trovare una corrispondenza tra pena e colpa. La Comunità Giovanni XXIII in preghiera per la riforma delle carceri torinoggi.it, 15 marzo 2018 Un momento di preghiera è stato promosso ieri dai volontari di don Benzi di fronte alle carceri di Torino, Saluzzo, Vicenza, Forlì, Rimini e Spoleto. La riforma delle carceri si è arenata e la Comunità Papa Giovanni XXIII si mobilita per chiederne l’approvazione. Un momento di preghiera è stato promosso oggi dai volontari di don Benzi di fronte alle carceri di Torino, Saluzzo, Vicenza, Forlì, Rimini e Spoleto. “Siamo ad un passo dall’approvazione della più importante riforma dell’ordinamento penitenziario degli ultimi 40 anni. Fermarsi ora dopo un lavoro di anni che ha coinvolto centinaia di esperti sarebbe davvero un’ingiustizia. Pertanto siamo andati davanti alle carceri di diverse regioni d’Italia per pregare affinché si possano migliorare le condizioni di vita dei detenuti, favorendo le pene alternative al carcere. L’intera società ne trarrebbe giovamento”. Questo il commento di Giovanni Paolo Ramonda, Presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII, in merito alla decisione del Governo di non licenziare il decreto attuativo sull’ordinamento penitenziario nel quale sono disciplinate le pene alternative al carcere. La Comunità Papa Giovanni XXIII gestisce in Italia 6 Comunità Educanti con i Carcerati (Cec), strutture per l’accoglienza di carcerati che scontano la pena. Se nelle carceri la tendenza a commettere di nuovo dei reati, la cosiddetta recidiva, è molto alta: tra il 75 e l’80% dei casi, per quanto riguarda le comunità gestite dalla Comunità di don Benzi, dove i detenuti fanno esperienza di servizio ai più deboli, i casi di recidiva sono appena il 10%. La prima casa è stata aperta nel 2004. Ad oggi sono presenti 61 detenuti. Negli ultimi 10 anni sono state accolte 565 persone. Nel solo 2016 le giornate di presenza sono state 12.199. Se la giustizia è la Weimar d’Italia di Dimitri Buffa L’Opinione, 15 marzo 2018 Nessun politico, tranne la radicale Rita Bernardini e l’ex presidente della Regione Lazio Renata Polverini di Forza Italia, ha avuto il coraggio di farsi vedere alla manifestazione dell’Unione delle camere penali italiane a favore della promulgazione - non avvenuta - dei decreti attuativi della riforma sull’ordinamento penitenziario, voluta a suo tempo dal ministro Andrea Orlando e che sembra destinata a rimanere nel cassetto. È quella della giustizia la riforma cardine dello Stato di diritto in Italia. E la condizione delle carceri rappresenta il sintomo più appariscente della nostra Repubblica di Weimar. Insieme a questa orrenda situazione politica venutasi a determinare soprattutto per colpa di un popolo immaturo che dopo il lavaggio del cervello di 30 anni tra “Mani Pulite”, Marco Travaglio, Beppe Grillo, popolo viola e “se non ora quando”, si è illuso di poter cambiare la politica vera e professionale con la società civile che poi tanto civile non è. Gli italiani sono i veri responsabili di quel che sta loro accadendo. Crisi, nuove povertà, mancanza di diritti e di certezza degli stessi. In questa orgia forcaiola che sembra non dovere mai più finire c’è il declino intellettuale di una popolazione che solo negli anni Settanta sembrava molto più colta e consapevole. C’è stata un’involuzione da Terzo Mondo. Un Paese che non studia più e che quando studia lo fa con i cattivi maestri che vediamo ogni giorno in tivù. È la Weimar italiana e i migliori interpreti di quella fase oscura che verrà dopo sono proprio i vari Grillo, Di Maio, Di Battista e purtroppo anche Salvini. La foga del ricambio generazionale, la vigliaccheria del parricidio politico e quant’altro ci hanno portato su questo baratro di guerra tra poveri. E la politica si vergogna di perorare le cause giuste ma impopolari. Marco Pannella diceva che bisognerebbe avere il coraggio di essere impopolari per non essere antipopolari. Ma per costoro, che di Pannella non hanno nemmeno un grammo della statura politica, l’importante è vincere, non partecipare. Anche imbrogliando un popolo che sembra felice di farsi imbrogliare. Gli impostori che urlano “onestà” fanno rabbrividire. Sembrano le piazze di Hitler. E non c’è dubbio che dopo il periodo weimariano - che in Germania durò 15 anni - arriveranno anche i dittatori. Ma la “ggente”, quella con due o persino tre “g”, faccia il piacere di non lamentarsi: sono tutti responsabili quando votano come pecore pazze, per citare Dante. Hitler fu portato al potere democraticamente. Come sta capitando con Luigi Di Maio e Matteo Salvini. Chi ha votato non si tiri fuori e non dica che non aveva capito. Il patto tra le procure più grandi che preoccupa Anm e Csm di Sara Menafra Il Messaggero, 15 marzo 2018 L’idea era circolata prima in una chat riservata e poi in una mailing list: creare una sorta di coordinamento tra i procuratori, da attuare con riunioni periodiche, per fare sentire la propria voce sui problemi posti dalle ultime riforme o avanzare proposte tematiche. L’iniziativa dei capi delle principali procure di circa un mese fa subisce ora un primo stop, unanime, sia dal Csm sia dall’Anm. Parallelamente, sia il Consiglio superiore della magistratura sia il sindacato delle toghe, respingono la proposta sottolineando che i luoghi di consultazione della magistratura esistono già. Uno istituzionale e l’altro sindacale sulle diverse istanze. L’ipotesi di coordinamento tra procuratori era stata lanciata a metà febbraio dai capi delle cinque principali procure: Giuseppe Pignatone (Roma), Francesco Greco (Milano), Giovanni Melillo (Napoli), Francesco Lo Voi (Palermo) e Armando Spataro (Torino). I temi da affrontare andavano dal tema dell’avocazione delle indagini ad iniziative propositive visto anche il modello di tavolo organizzato dal ministro della giustizia Andrea Orlando su alcuni argomenti, dalla riforma delle intercettazioni alla costituzione della Procura nazionale antiterrorismo. A sollevare i primi dubbi, sin da febbraio scorso, era stato Angelantonio Racanelli, a nome di Magistratura indipendente. Con un comunicato a cui lì per lì non era seguita risposta, aveva manifestato il timore che l’iniziativa all’esterno potesse essere strumentalizzata e prestare il fianco all’accusa di voler creare un partito dei pm. Un timore che ora Palazzo dei marescialli e l’Associazione nazionale dei magistrati hanno mostrato di condividere, pur riconoscendo l’importanza dei problemi posti dai procuratori soprattutto sul delicato tema delle avocazioni. L’iniziativa, “anche al di là delle intenzioni dei Procuratori interessati, può oggettivamente produrre l’effetto di delegittimare e depotenziare il ruolo della Anm, sovrapponendosi alla sue fondamentali funzioni”, ha messo nero su bianco il sindacato delle toghe, che ha poi deciso di porre la questione all’ordine del giorno del prossimo Comitato direttivo centrale ed ha invitato i promotori ad “un confronto franco e leale nell’interesse di tutta la magistratura” e nell’ottica di “valorizzare” le istanze di cui sono portatori i procuratori. Il tono del Csm è inevitabilmente più istituzionale, ma la sostanza è la stessa: in una nota con cui ha manifestato la propria “vicinanza agli Uffici di Procura” e ha assicurato che “farà tutto quanto è nelle sue prerogative per consentire un’applicazione ragionevole delle recenti riforme emanate dal Parlamento”, il Consiglio ha ribadito la propria “centralità”, rivendicando per sé il ruolo istituzionale “di indirizzo e di regolamentazione” delle questioni che riguardano le procure. E ha fatto sapere che non solo andrà ancora avanti con le audizioni sullo spinoso tema delle avocazioni, ma in vista dell’adozione di una risoluzione, si appresta ad aprire un confronto ad ampio raggio con i capi delle procure, il Pg della Cassazione e il procuratore nazionale antimafia. Le stanche liturgie del sindacato dei magistrati di Massimo Adinolfi Il Mattino, 15 marzo 2018 Per dirla un po’ liturgicamente: è cosa buona e giusta che i capi delle maggiori Procure della Repubblica provino ad affrontare insieme i problemi, anzitutto di carattere organizzativo, che sorgono in particolare in presenza di nuove disposizioni di legge. Quando per esempio il governo è in procinto di fare un decreto sulle intercettazioni, e tu devi fargli presente che è bene si adottino protocolli di sicurezza comuni, o che si trovino opportune soluzioni logistiche, non è inutile un confronto fra le Procure ai fini di una più efficace interlocuzione. Oppure quando ne va delle modifiche (approvate di recente) al potere di avocazione del Procuratore: vuoi che non se ne parli? Ma se a parlarne lo fanno, insieme, Melillo e Pignatone, Greco, Lo Voi e Spataro, l’associazione Nazionale Magistrati che cosa ci sta a fare?. Chi gli rimane da rappresentare? Il suo Segretario, Eugenio Albamonte, deve esserselo chiesto, e ha concluso che la cosa all’anm non poteva che spiacere assai: ne va del suo ruolo. Così ha deciso: facciamo partire il comunicato. Dandone diffusione, l’Anm si è però data la zappa sui piedi, di fatto disvelando pubblicamente tutta l’autoreferenzialità che ormai ne vizia le prese di posizione. L’iniziativa, dice il sindacato dei magistrati, può oggettivamente produrre l’effetto di delegittimare e depotenziare l’associazione. L’avverbio “oggettivamente” fa salve le migliori intenzioni soggettive dei Procuratori, ma solo quelle. Perché la volta in cui i capi degli uffici di Napoli, Roma, Milano, Palermo, Torino trovano una linea comune da portare all’attenzione del governo e del Parlamento. L’Anm è bella che spiazzata. Di colpo non serve a nulla. Abituata a detenere il monopolio della mediazione con la politica, ora scopre all’improvviso che non è detto affatto che le cose andranno sempre così, per saecula saeculorum. Soprattutto se il grido d’allarme che ha lanciato ieri mostra che è sufficiente lo scambio di vedute fra i capi degli uffici per mandarla sottosopra. Naturalmente è intervenuto anche il Csm: più per provare a mettere una pezza, però, che per spalleggiare Albamonte. E così è arrivato il secondo comunicato. Questa volta è il Consiglio Superiore della Magistratura a rivendicare giustamente un ruolo di indirizzo e regolamentazione, al contempo esprimendo però “vicinanza agli uffici di Procura”. Una puntualizzazione, ma certo non una sconfessione dell’iniziativa dei Procuratori. Se anzi Palazzo dei Marescialli tiene a sottolineare di avere avviato un confronto ad ampio raggio con i capi delle Procure, di nuovo par di capire che L’Anm serve a poco. Almeno sull’insieme dei problemi che oggi sono sul tappeto, sui quali non è l’associazione ad offrire i luoghi e i termini di un dibattito reale. Prima di un nodo politico, c’è infatti un nodo pratico, che investe il concreto funzionamento degli uffici giudiziari. Diciamo così: comincia ad affermarsi anche ai vertici degli uffici la volontà di risolvere i problemi senza subire il veto soffocante del sindacato di categoria. Che manda alti lai in nome della propria funzione di rappresentanza ferita, con ciò però lasciando che si insinui il sospetto che, senza quelle vive rimostranze, non saprebbe darsi un’effettiva giustificazione del proprio operato. L’Anm - si legge sul sito - è l’associazione cui aderisce il 90% circa dei magistrati italiani. Una percentuale che una volta si sarebbe detta bulgara. Così stando le cose, non può certo essere il coordinamento più o meno stabile dei Procuratori a lederne la legittimità, a eroderne il ruolo. La preoccupazione manifestata in questa circostanza sembra cioè francamente sproporzionata. E non basta l’appello a motivazioni di principio rispetto a un impulso mosso da sano spirito pragmatico: abbiamo dei problemi, vi diciamo come vanno le cose nei nostri uffici e facciamo delle proposte. Forse, allora, quel numero tanto elevato non dice tutto. A una così intensa sindacalizzazione forse non corrisponde un indice di popolarità altrettanto alto, fra le file stesse dei magistrati. Forse - ma diciamo ancora una volta “forse”, con tutte le cautele del caso - l’iscrizione all’associazione è più un passaggio obbligato che un’intima adesione: la presa d’atto di come le cose funzionano in magistratura, insomma, più che l’espressione di un sostegno convinto. Se è così, un’altra cosa buona e giusta, nell’interesse generale del Paese ma anche di quello della stessa Magistratura, è una energica riforma di certe sue liturgie. Un comitato per Dell’Utri libero: “vogliamo incontrare Mattarella” di Stefano Zurlo Il Giornale, 15 marzo 2018 Una stanza al Campus Biomedico di Roma. Fuori, nel salottino, due agenti fissi per controllare le mosse del detenuto Marcello Dell’Utri. La finestra è sempre chiusa, la luce nel vestibolo perennemente accesa, l’ora d’aria si svolge, fra fili pendenti e rumori assordanti, nei locali della centrale che fornisce l’aria condizionata all’ospedale. È una situazione surreale quella in cui si trova l’ex parlamentare, condannato a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa e ora ricoverato nella struttura sanitaria per un ciclo di radioterapia. “Quello di Marcello Dell’Utri è un caso europeo”, rilancia in conferenza stampa Amedeo Laboccetta, deputato uscente che con cadenza settimanale va a visitare l’amico. Laboccetta annuncia la nascita di un comitato Pro Dell’Utri “nazionale, apolitico, aperto a tutti, per una battaglia di civiltà”. Non ci sono, non ci dovrebbero essere divisioni di tipo politico: “Dell’Utri - insiste Laboccetta - non chiede la grazia, chiede giustizia”. L’idea è che il comitato, promosso anche da Massimo Palmizio e Franco Cardiello, semini inquietudine e raccolga adesioni trasversali nel mondo dell’avvocatura, fra i magistrati e gli intellettuali. In Italia, ma anche oltre i nostri confini. E poi si pensa ad “un incontro con il presidente della Repubblica, insieme alla moglie e ai figli dell’ex senatore”. Un programma ambizioso, davanti a una vicenda che non si sblocca. Nelle scorse settimane era parso che un segnale di cambiamento, dopo una raffica di no su tutta la linea, potesse arrivare da Caltanissetta. La Procura generale, a sorpresa, aveva dato parere favorevole alla revisione del caso e si era spinta a chiedere la scarcerazione del detenuto. Ma la Corte d’appello ha respinto l’istanza, anche se resta problematico capire come si possa eludere la sentenza di Strasburgo che ha di fatto cancellato la condanna contro l’ex 007 Bruno Contrada: il verdetto Contrada e quello Dell’Utri sono gemelli. Stesso reato, stesso periodo sul calendario, prima del fatidico 1994, l’anno in cui il concorso esterno è stato codificato dalla Cassazione a sezioni unite, perdendo quella vaghezza e indeterminatezza che secondo la Corte di Strasburgo lo caratterizzava in precedenza. Non importa. Dell’Utri resta un carcerato. Ci sono volute infinite dispute, in questo caso davanti al tribunale di sorveglianza ai Roma, per spostarlo da Rebibbia al Campus biomedico. E per iniziare finalmente, il 14 febbraio, la radioterapia necessaria per combattere il tumore maligno alla prostata diagnosticato a luglio dell’anno scorso. “Intanto - spiega preoccupata la signora Miranda Ratti, moglie del fondatore di Publitalia - il tumore non curato è diventato ad alto rischio”. Ora si corre ai ripari. Ma lo si fa fra apparati di sicurezza francamente incomprensibili e costosissimi per lo Stato. Le sedute quotidiane durano quattro minuti, ma la sorveglianza non si allenta mai. Otto agenti si alternano al capezzale del pericoloso malato 24 ore su 24. Come se Dell’Utri fosse un boss di Cosa nostra. Stalking: aggravante della relazione affettiva anche senza convivenza di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 15 marzo 2018 Corte di cassazione - Sezione I - Sentenza 11604. L’aggravante della relazione affettiva nel reato di stalking scatta a prescindere dalla convivenza. La Corte di cassazione, con la sentenza 11604, pur annullando con rinvio la condanna per stalking a causa della mancata prova dell’ansia e della paura generata nella vittima, considera infondata la tesi sostenuta dal ricorrente, secondo il quale nel reato di stalking non poteva essere contestata l’aggravante della relazione affettiva, se non c’era mai stata una convivenza. Una convinzione che derivava alla difesa dalla lettura della norma relativa all’aggravante della relazione affettiva nel reato di violenza sessuale (articolo 609-bis del Codice penale) con la quale viene specificato che la pena lievita “anche senza convivenza”. L’assenza della stessa precisazione nell’articolo 612-bis comma 2 aveva portato il ricorrente a concludere per la necessità della convivenza. La Cassazione spiega che non è così. Per i giudici il legislatore nel caso della violenza sessuale è stato esplicito proprio per la particolare struttura di quel reato, consapevole della necessità di evitare che possa essere messa in dubbio la configurabilità dell’aggravante. Secondo la suprema corte senza le parole evidenziate si poteva ritenere, per l’attinenza della condotta con la sfera sessuale, che solo in caso di relazione affettiva caratterizzata dalla convivenza potesse essere applicata la pena più severa. La stessa esigenza - spiega la Corte - non c’è per lo stalking, che prevede l’aggravante (articolo 612-bis comma 2) se l’atto è stato commesso da persona che è o è stata legata da una relazione affettiva con la persona offesa. Anche senza la precisazione normativa sulla configurabilità dell’aggravante “anche senza convivenza” emerge - conclude il collegio - l’indifferenza della situazione di convivenza rispetto ad un reato che riguarda una sfera diversa da quella sessuale Tutela dei migranti nei modelli 231 di Riccardo Borsari Il Sole 24 Ore, 15 marzo 2018 Il catalogo dei reati presupposto della responsabilità degli enti basata sul Dlgs 231/2001 è stato recentemente arricchito tramite la legge 161/2017, di modifica al Codice antimafia (Dlgs 159/2011), e la legge Europea 2017 (167/2017). In particolare, la legge 161 ha introdotto tre nuovi commi nell’articolo 25-duodecies del decreto 231, che prevede quale reato presupposto l’impiego di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, estendendo la responsabilità dell’ente anche ai delitti di cui all’articolo 12, comma 3 (con le aggravanti dei commi 3-bis e 3-ter) e comma 5, del Dlgs 286/1998 (Testo unico immigrazione). Più nel dettaglio, l’ente può ora rispondere anche per le condotte di promozione, direzione, organizzazione, finanziamento o trasporto di stranieri nel territorio dello Stato, nonché per il compimento di altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso in Italia o nel territorio di altro stato. Ipotesi punite al ricorrere delle condizioni indicate, tra cui l’esposizione della persona trasportata a pericolo per la sua vita o incolumità. D’altro canto, la responsabilità dell’ente è sancita anche per le ipotesi di favoreggiamento della permanenza illegale dello straniero in Italia per trarre, dalla sua condizione d’illegalità, un ingiusto profitto. Con la legge 167, il legislatore ha successivamente introdotto nel decreto 231 il nuovo articolo 25-terdecies, rubricato “Razzismo e xenofobia”, a norma del quale l’ente risponde di alcuni dei delitti di cui all’articolo 3 della legge 654/1975. Questa disposizione sanziona, tra l’altro, la propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, l’istigazione a commettere atti di discriminazione, violenza o provocazione alla violenza, per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, nonché la partecipazione, promozione o direzione di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per i medesimi motivi. L’ente potrà essere chiamato a rispondere di tali ipotesi delittuose soltanto qualora la propaganda, l’istigazione o l’incitamento, commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, siano fondati, in tutto o in parte, sulla negazione, sulla minimizzazione in modo grave o sull’apologia della Shoah, dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra. Intervento ancor più significativo riguarda l’introduzione, tra i reati presupposto, del delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (articolo 603-bis del Codice penale), meglio noto come caporalato, tramite la legge 199/2016. Ai sensi dell’articolo 25-quinquies del decreto 231, l’ente nel cui interesse o vantaggio sia stato commesso il delitto di caporalato è oggi soggetto a pesanti sanzioni, tra le quali si annovera, per i casi più gravi, l’interdizione definitiva dall’attività. Per beneficiare dell’esenzione di responsabilità di cui all’articolo 6 del decreto, pertanto, l’ente deve ora dotarsi di un modello organizzativo che garantisca, tra le altre cose, la retribuzione dei dipendenti in conformità ai contratti nazionali e territoriali, il rispetto della normativa sull’orario di lavoro, il periodo di riposo e le ferie, l’applicazione delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro, nonché condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza e situazioni alloggiative non degradanti. Si segnala, peraltro, che la legge 199 ha allargato notevolmente le maglie della fattispecie di cui all’articolo 603-bis. In particolare, estendendola alle condotte di mero utilizzo, impiego e assunzione di lavoratori in condizioni di sfruttamento, anche da parte di soggetti singoli o privi di organizzazione. Con conseguente rischio di applicazione del reato ad ipotesi marginali o scarsamente offensive, nonché ad imprese o realtà di per sé estranee al fenomeno del caporalato. In stand-by il ddl sui reati agroalimentari di Riccardo Borsari Il Sole 24 Ore, 15 marzo 2018 Tra le eredità della legislatura appena conclusa, hanno un peso molto rilevante due progetti legislativi in materia di responsabilità da reato degli enti: il disegno di legge n. 4220, approvato in data 22 giugno 2017 dalla Camera dei Deputati, recante disposizioni in materia di reati contro il patrimonio culturale, e il disegno di legge sui reati agroalimentari approvato dal Consiglio dei ministri il 1° dicembre scorso (meglio noto come “Ddl Caselli”). Il primo provvedimento prevede la modifica delle disposizioni penali a tutela del patrimonio culturale, con l’introduzione di un Titolo ad hoc nel libro II del Codice penale (VIII-bis) e la previsione di nuove fattispecie criminose, anche nel Dlgs 231/2001, tra cui, ad esempio, la contraffazione di opere d’arte, il danneggiamento, deturpamento e imbrattamento colposi di beni culturali o paesaggistici e le attività organizzate per il traffico illecito di beni culturali. Il Ddl sui reati agroalimentari, invece, interviene su due fronti: la tutela della “salute pubblica”, attraverso la revisione del Titolo VI del Codice penale; il contrasto delle frodi in commercio di prodotti alimentari, sia sotto il profilo sanzionatorio, sia sotto quello dell’estensione della sfera repressiva, in modo da tutelare maggiormente il consumatore e colpire con più efficacia le organizzazioni complesse. A tali fini, il provvedimento prevede, oltre alla modifica di alcune fattispecie di reato già esistenti e all’introduzione di nuovi delitti (tra cui il disastro sanitario e l’agro-pirateria), una significativa espansione della responsabilità degli enti. In particolare, è prevista la “scomposizione” del vigente articolo 25-bis.1 del Decreto 231 in due disposizioni aventi ad oggetto, rispettivamente, i delitti contro l’industria e il commercio (articolo 25-bis.1) e le frodi in commercio di prodotti alimentari (articolo 25-bis.2, tra cui la nuova fattispecie di agro-pirateria). Viene disposta, inoltre, l’introduzione dei delitti contro la salute pubblica, finora non compresi nell’ambito di applicazione del Decreto 231 (articolo 25-bis.3). Un’ulteriore novità è rappresentata dal nuovo articolo 6-bis, rubricato “Modelli di organizzazione dell’ente qualificato come impresa alimentare”, che per la prima volta immette nella sistematica del Decreto 231 una disciplina specifica dei Modelli Organizzativi in funzione dell’attività svolta dall’ente. Questi Modelli devono assicurare, in particolare, un sistema aziendale per l’adempimento di tutti gli obblighi giuridici, di fonte nazionale e sovranazionale, relativi, ad esempio, al rispetto degli standard delle informazioni sugli alimenti; alle attività di vigilanza riguardanti la rintracciabilità, ovvero la possibilità di ricostruire e seguire il percorso del prodotto alimentare attraverso le fasi della produzione, trasformazione e distribuzione; alle procedure di ritiro o richiamo dei prodotti non conformi ai requisiti di sicurezza degli alimenti; alle attività di valutazione e gestione del rischio, attraverso adeguate scelte di prevenzione e controllo. I due progetti di riforma descritti scontano, inevitabilmente, la fine della legislatura: spetterà al nuovo Legislatore stabilirne le sorti. Sardegna: accordo regionale per l’inserimento lavorativo dei detenuti di Corrado Ballocco Il Portico - Settimanale diocesano di Cagliari, 15 marzo 2018 Il lavoro, soprattutto in questo tempo di perdurante crisi, non è facile da trovare e né da mantenere. Per i cittadini appartenenti a fasce sociali svantaggiate tale difficoltà si dimostra ancora più consistente. È il caso dei soggetti in stato di detenzione, in favore dei quali sono state recentemente previste alcune disposizioni volte ad proficuo reinserimento sociale, attraverso un graduale ed efficace processo di inclusione lavorativa. Il trattamento rieducativo previsto dal sistema penitenziale individua nell’interazione con l’ambiente esterno ed in particolare nella pratica lavorativa uno straordinario strumento di reale integrazione con il territorio e la comunità di riferimento, anche in vista di una significativa riduzione dei casi di recidiva del reato. In questa direzione va il recente accordo procedimentale siglato tra l’Agenzia sarda per le politiche attive del lavoro e la Casa Circondariale di Cagliari. L’accordo prevede, infatti, la sperimentazione di un servizio, attivo all’interno della struttura di reclusione, denominato Sportello Info-Lavoro, i cui operatori realizzeranno azioni di informazione, orientamento, formazione e tutoraggio, finalizzati alla definizione di percorsi di reinserimento lavorativo e sociale. In questo senso il raccordo con il tessuto economico e produttivo locale si rivela necessario e strategico. Questo progetto di integrazione partirà dalla possibile fruizione anticipata in sede intramuraria dei servizi erogati dal Centro per l’Impiego che, sulla base dell’accordo raggiunto, potranno essere forniti subito ai soggetti in esecuzione penale. Ciò permetterà ai detenuti “dimittendi”, ai reclusi che possono usufruire di misure alternative o a quanti abbiano terminato di scontare la propria pena di costruirsi preventivamente un significativo bagaglio di conoscenze e competenze funzionali. In un altro accordo firmato tra l’Aspal Sardegna e la Procura della Repubblica di Cagliari è stato sancito l’impegno per la realizzazione di un progetto di inserimento lavorativo di soggetti in stato di detenzione e di soggetti svantaggiati dell’area penale. L’iniziativa, che si spera densa di risultati e di possibili ulteriori effetti positivi, avrà come oggetto l’attività di dematerializzazione degli atti afferenti alla Amministrazione penitenziaria. Livorno: detenuto trovato morto sull’isola-carcere di Pianosa Il Tirreno, 15 marzo 2018 Rinaldo Mannarino aveva 54 anni, era in “Articolo 21” sull’isola, dove scontava la pena per furto. Sarebbe dovuto uscire a giugno. La morte dovuta probabilmente a un malore. Un detenuto del carcere di Porto Azzurro, in “Articolo 21” e impegnato in lavori extra-murari sull’isola di Pianosa, è morto nella notte tra martedì e mercoledì nella sua stanza situata nella struttura del Sembolello. È stato un agente della polizia penitenziaria a trovare il corpo senza vita dell’uomo, nel suo letto. Rinaldo Mannarino, è questo il nome del detenuto, sarebbe dovuto uscire dal carcere alla fine del mese di giugno, dopo alcuni anni di detenzione. Era dentro dal dicembre del 2014 dopo esser stato arrestato per furto. Nato a Paola, in provincia di Cosenza, aveva 54 anni. Di solito molto puntuale, era atteso ieri mattina dagli altri detenuti per la colazione. Avrebbe dovuto alzarsi di buon ora per compiere dei lavori di manutenzione sull’isola di Pianosa. Ma non si è fatto vedere all’ora prevista. Dopo aver atteso alcuni minuti, uno degli agenti della polizia penitenziaria di stanza a Pianosa per seguire i detenuti in semilibertà è entrato nell’alloggio di Mannarino e ha fatto la triste scoperta. Il sostituto procuratore Fiorenza Marrara ha inviato sull’isola i carabinieri (arrivati con una motovedetta partita da Portoferraio) e ha avviato le indagini necessarie per fare luce sulla vicenda. La salma del detenuto è stata portata a Portoferraio nel pomeriggio di mercoledì e nelle prossime ore sarà sottoposta ad autopsia. L’ipotesi al momento più probabile è che il 54enne sia morto per cause naturali. Padova: mancata riforma dell’ordinamento penitenziario, protesta della Camera penale di Cristina Genesin Il Mattino di Padova, 15 marzo 2018 “Questo tema non fa consenso, il pacchetto sicurezza sì. Più misure alternative”. Sovraffollamento in carcere (anche a Padova) e ordinamento penitenziario superato, nuova doppia emergenza. E la protesta della Camera penale italiana - in prima linea quella di Padova presieduta dall’avvocato Pietro Someda - non è mancata in occasione delle due giornate di astensione dalle udienze penali (martedì e ieri) con una manifestazione di fronte al grattacielo del Due Palazzi, la Casa di reclusione per i detenuti definitivi. Una “casa” con 590 reclusi rispetto a una capienza regolamentare di 439, mentre la circondariale conta 227 ospiti per una capienza di 171 (dati aggiornati al 28 febbraio). “Il premier Gentiloni e il ministro della Giustizia Orlando avevano promesso di far passare la riforma dell’ordinamento frutto del lavoro durato due anni degli Stati generali della giustizia. Così non è stato, anche se il governo in carica avrebbe ancora tempo per farlo” spiegano il presidente Someda con la collega Annamaria Alborghetti, referente del carcere per la Camera penale padovana. Eppure basterebbe poco: un consiglio dei ministri dedicato al varo del decreto delegato destinato a dare attuazione alla legge delega di riforma. “Non sarebbe un colpo di maggioranza ma l’esito di un lavoro condiviso. Purtroppo il carcere non produce consenso elettorale mentre il pacchetto sicurezza sì” rilevano. La riforma “amplierebbe le misure alternative al carcere escludendo i reati più gravi come quelli di mafia e terrorismo. L’apertura a una detenzione diversa, non in base a un automatismo, sarebbe condizionata da rigorosi controlli perché il detenuto la deve meritare. Peraltro la Corte costituzionale ha anticipato la riforma prevedendo che, fino a una condanna a 4 anni, si possa chiedere l’affidamento in prova”. Un modo per ridurre il sovraffollamento: “Il paradosso è che si mette in carcere per insegnare la legalità e poi lo Stato italiano è condannato in Europa a risarcire i detenuti per un trattamento in condizioni degradanti e disumane. In più da 27 anni non c’è un’amnistia, fatto che non trova precedenti nella storia repubblicana, e solo nel 2006 c’è stato l’ultimo indultino” osservano, “Serve anche una depenalizzazione: ci sono abusi edilizi, come l’apertura di una finestra in zona vincolata, trattati come reati penali quando basterebbe una sanzione amministrativa”. “Bisogna uscire dalla logica che il carcere genera più sicurezza. Anzi è provato che con le misure alternative minore è il tasso di recidiva” rileva l’avvocato Leonardo Arnau per l’Ordine degli avvocati. Ordine che ha aderito all’iniziativa con Antigone (presente il professor Giuseppe Mosconi); Ristretti Orizzonti (Angelo Ferrarini) e Altra città (Valentina Franceschini), Fp Cgil (Giampiero Pegoraro). Iniziativa condivisa anche dalla magistratura di Sorveglianza e dal provveditore veneto alle carceri Sbriglia. Sassari: avvocati in astensione dalle udienze per due giorni La Nuova Sardegna, 15 marzo 2018 La mancata riforma del sistema penitenziario alla base della protesta. Palmieri: il detenuto va tutelato. Stavolta “la materia del contendere” alla base dei due giorni di astensione (ieri e oggi) dalle udienze degli avvocati penalisti è la mancata riforma del sistema penitenziario. “Non siamo stati così ingenui da pensare che il Governo uscente desse seguito al decreto legislativo adottato il 22 dicembre - spiega Marco Palmieri, presidente della camera penale di Sassari - eppure le rassicurazioni del ministro sul punto sembravano precise”. Secondo Palmieri “è preoccupante la mancata approvazione della riforma, o una sua regressiva e/o repressiva rimodulazione, che finirebbe per comprimere e stravolgere la “messa a punto costituzionale” del sistema penitenziario. In particolare preme rendere attuali le norme che puntano a garantire l’esercizio da parte dei detenuti di quei diritti, primo fra tutti quello alla salute, che nemmeno il carcere deve ledere o comprimere”. Sente di dover “tranquillizzare quanti non conoscono le pieghe della riforma”, il presidente della camera penale sassarese: “Non contiene alcuno spirito “buonista”, alcuna indulgenza votata allo “svuota-carceri”, alcuna “liberatoria” per soggetti che abbiano commesso i crimini più gravi. Credo che concedere l’opportunità a soggetti che abbiano sbagliato, e che lo Stato ha legittimamente condannato, di essere e diventare cittadini migliori, significhi conferire un servizio alla collettività”. Poi Palmieri tocca un altro tema cruciale: la salute dei detenuti, in particolare a Bancali. “Credo che gli operatori medici e infermieristici facciano il massimo, ma ritengo sia utile comprendere in che situazione ambientale facciano il massimo. In particolare credo ci sia un settore debole, quello della cura del malato “psichiatrico”. Avevo sentito parlare della creazione di una sorta di struttura interna, forse mai decollata, o decollata e poi “abortita”. Credo che i soggetti con disturbi della personalità, o comunque pazienti psichiatrici, che spesso danno vita a tentativi autolesionistici o suicidari, necessitino di un’attenzione, un monitoraggio, un’accoglienza peculiari”. E a questo proposito aggiunge: “La Camera penale di Sassari auspica la migliore collaborazione possibile con tutti gli operatori del settore, per fare in modo che il sistema giustizia - e in particolare quello carcerario - operino e facciano lavorare anche gli avvocati nel miglior modo possibile, per garantire massima tutela al detenuto”. Rovigo: i penalisti “Ordinamento penitenziario, riforma in fumo” La Voce di Rovigo, 15 marzo 2018 Ordinamento penitenziario, i penalisti spiegano le ragioni dell’astensione. Malasoma, presidente della Camera penale: “Carceri, una riforma in fumo”. “Nelle carceri italiane non c’è un livello di umanità e civiltà adeguate”. Così l’avvocato Paola Malasoma, presidente della Camera penale di Rovigo, che ha spiegato le ragioni per cui gli avvocati dell’Unione delle camere penali italiane martedì e mercoledì si sono astenuti dalle udienze: protestare contro la mancata riforma dell’ordinamento penitenziario. “È una vergognosa e plateale violazione della costituzione italiana - ha aggiunto - La riforma della giustizia avrebbe avuto un senso se ci fosse stata anche la riforma se fosse stata approvata anche la riforma dell’ordinamento penitenziario. Dopo tre anni di battaglia, quest’ultima riforma è andata in fumo. Doveva essere trasversale, ora invece sta scadendo il termine per farla”. L’avvocato Malasoma ha peraltro sottolineato: “I magistrati hanno saputo sopperire alla latitanza del legislatore”. Anche l’avvocato Marco Casellato, responsabile dell’osservatorio carceri, ha spiegato le ragioni alla base della scelta dell’astensione, ovvero “la mancata realizzazione della riforma dell’ordinamento penitenziario, soprattutto dopo la condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo”. Lo stesso avvocato Arabella Brognara, che è tra i probi viri della Camera penale, ha ricordato la sentenza dell’otto gennaio 2013 della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha condannato l’Italia per il trattamento inumano dei detenuti, anche in considerazione del sovraffollamento delle carceri: “Va ricordato che vige il principio di umanità della pena e che la pena stessa deve tendere alla rieducazione del condannato”. E ha riportato un dato: “Dal 1992 ad oggi, 26.550 persone hanno subìto un’ingiusta detenzione. Infine, ha preso la parola anche Giulia Bellinello, garante per i detenuti: “In carcere mancano corsi di formazione per l’avviamento al lavoro - ha spiegato - E speriamo arrivino più agenti”. Venezia: la protesta dei penalisti “la parte finale della pena va scontata fuori” Corriere Veneto, 15 marzo 2018 “Non il carcere vissuto fino all’ultimo giorno di pena, ma le misure alternative riducono la recidiva e garantiscono la sicurezza dei cittadini. Certezza della pena deve significare certezza della rieducazione”. È arrivata anche a Venezia la “protesta” degli avvocati penalisti che ieri e oggi disertano le udienze per la mancata approvazione dell’ordinamento penitenziario. Ieri i penalisti hanno organizzato un presidio davanti al carcere di Venezia. Alla protesta hanno partecipato anche molti detenuti sbattendo le pentole sulle finestre. “Negli anni passati ci siamo fatti sentire contro il sovraffollamento delle carceri - hanno spiegato - La riforma non è una svuota carceri. Il governo non lasci cadere nel nulla il decreto adottato a dicembre”. All’iniziativa hanno aderito anche l’associazione “Il Granello di Senape”, il Consiglio regionale degli Assistenti Sociali del Veneto, Cgil Uepe e Polizia Penitenziaria Venezia. Torino: tre bimbi dietro le sbarre, nel carcere Lorusso e Cotugno di Federico Genta La Stampa, 15 marzo 2018 Il direttore: “Le madri non rispettano le regole, abbiamo scritto al ministero”. L’istituto a custodia attenuata per le donne accompagnate da minori, fino a sei anni, può ospitare fino a un massimo di 14 detenute. Oggi ce ne sono sette con tredici bambini e sei di loro provengono dai campi nomadi della città. Il più piccolo ha compiuto da poco dodici mesi. Gli altri hanno due anni. Tutti e tre sono dietro le sbarre dalla vigilia di Natale. Sì, dietro le sbarre della sezione femminile del carcere di Torino. Reclusi insieme con le loro mamme. È dal 2015 che il Lorusso e Cotugno mette a disposizione delle donne accompagnate da minori l’Icam, l’Istituto a custodia attenuata per detenute madri. Sono le palazzine demaniali che un tempo ospitavano gli alloggi destinati al personale. Né sbarre né celle, ma piccoli alloggi per uno o più nuclei famigliari. Bagni e cucine comuni, luoghi di incontro e spazi gestiti da educatori e mediatori culturali. Come il nido e la scuola materna. E poi ci sono i giochi: scivoli e altalene per far vivere ai più piccoli l’ambiente di una casa famiglia. Uno spazio che, da più di due mesi, viene negato ai tre bimbi. In carcere da Natale - Loro, insieme alle madri tutte di nazionalità nigeriana, sono arrivati nella casa circondariale lo scorso inverno. Una delle donne è accusata di resistenza a pubblico ufficiale. Le altre due, sorelle, di tratta di esseri umani e riduzione in schiavitù. La loro permanenza all’Icam è durata poco. “Problemi di convivenza con le altre detenute”, sette in tutto e sei provenienti dagli accampamenti nomadi della città per scontare pene legate a furti e raggiri. L’istituto, intitolato a febbraio alla memoria di Maria Grazia Casazza - agente medaglia d’oro al valore civile, morta nel 1989 durante un incendio, mentre mettevano in salvo le detenute rinchiuse nelle celle - è stato ribattezzato, tra i corridoi del carcere, il “campo rom delle Vallette”. Una definizione che contrasta con le sue finalità. “Sono sporche e non cucinano” - “Loro sono sporche, non cucinano e non puliscono” sono le accuse del gruppo più numeroso rivolte alle nuove arrivate. Così, dopo le prime tensioni, la direzione ha deciso di trasferire provvisoriamente queste ultime nella sezione femminile, piccoli compresi. Che, inevitabilmente, adesso sono esclusi dai progetti degli educatori. “Quei bimbi, quando sono arrivati, erano spaesati ma vispi. Adesso sono apatici” assicura chi si trova ogni giorno a contatto con i piccoli. Il caso dei tre bambini dietro le sbarre, però, va oltre le pur confermate tensioni tra le ospiti dell’Icam. “Sono episodi che sono sempre successi e sono stati risolti con il tempo, anche attraverso provvedimenti disciplinari - spiega il direttore del Lorusso e Cotugno, Domenico Minervini. Il problema, questa volta, è che le tre donne nigeriane non rispettavano le regole dell’istituto e non sembrano avere alcuna intenzione di osservarle in futuro. Ho provato personalmente a convincerle e ancora ci stanno provando le mediatrici culturali, per ora senza risultati. Ora abbiamo scritto anche al ministero della Giustizia. Perché una situazione del genere qui non si era mai verificata”. Un luogo inadatto ai minori - Al centro della contesa non ci sono le detenute ma i loro figli. “Da un lato non vogliamo rovinare l’equilibrio raggiunto tra gli ospiti dell’Icam, ma non possiamo nemmeno accettare l’idea che i minori siano costretti a restare a lungo in un luogo non adatto”. Potranno essere allontanati dalle madri? “È uno dei quesiti che abbiamo posto a Roma”. Provvedimenti attesi anche dai sindacati di polizia penitenziaria. “Non si può restare in balia dei detenuti convinti di poter disporre a loro piacimento del personale e delle strutture - dice Leo Beneduci, segretario generale Osapp - dettando le regole della propria detenzione”. Salerno: “prigionieri in una mini-cella, ora lo Stato deve risarcirci” di Viviana De Vita Il Mattino, 15 marzo 2018 Il ricorso di due ex detenuti: “In 8 senz’acqua e riscaldamento”. Stipati in una cella di circa 20 metri quadri con altri 8 detenuti, senza acqua calda né riscaldamento. Un trattamento inumano che sarebbe stato patito da alcuni detenuti salernitani che, ora, chiedono al ministero della Giustizia il risarcimento, per quella detenzione che, a loro dire, avrebbe violato l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Entrambi i procedimenti, seguiti dagli avvocati Anna Sassano e Dario Barbirotti, pendono davanti al giudice Iachia del tribunale civile di Salerno che dovrà decidere se accogliere o rigettare i ricorsi finalizzati ad ottenere il risarcimento in base a quanto stabilito dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, pronunciata!’8 gennaio 2013, che ha imposto all’Italia dì prevedere una nonna che consenta, a chi ha subito il trattamento disumano in carcere, di essere risarcito. Le vicende, oggetto dei due distinti procedimenti, si riferiscono a periodi di detenzione precedenti al 2014 quando, nel penitenziario salernitano, erano ristrettì fino a 600 detenuti: 233 in più rispetto al parametro della capienza regolamentare che prevede che all’interno dell’istituto non possano esserci più dì 367 detenuti (oggi il carcere di Fuorni ne contiene 488). Nel ricorso, redatto dagli avvocati Sassano e Barbirotti, si parte quindi dal sovraffollamento: la detenzione dei due detenuti non avrebbe rispettato i parametri europei che fissano in tre metri quadri lo spazio minimo disponibile a favore di ciascun ristretto. Ci sono poi altre violazioni, puntualmente elencate nel ricorso redatto dai legali, che avrebbero contribuito a rendere inumane le condizioni di espiazione pena dietro le sbarre del penitenziario salernitano. Era il novembre 2016 quando il giudice del tribunale dì Salerno Lucia Cammarota, con un’ordinanza dì trenta pagine, accolse il ricorso di risarcimento avanzato da un giovane ex detenuto del carcere di Fuorni per trattamento inumano, rigettando le eccezioni sollevate dall’Avvocatura dello Stato e condannandoli Ministero della Giustizia. “Chi ha sbagliato va punito, ma non umiliato” scrisse il giudice nella motivazione che si rifaceva al principio secondo il quale “ogni detenuto deve vivere nelle condizioni che sono compatibili con il rispetto della dignità umana” poiché “chi ha commesso un reato, non per questo cessa di essere titolare dei diritti fondamentali, perché di fronte ai diritti inviolabili della persona tutti gli uomini sono uguali e continuano ad esserlo anche da detenuti”. Quella sentenza rappresentò la prima pronuncia di accoglimento in materia da parte del Tribunale di Salerno che si pose così in linea con le massime di tutti i Tribunali d’Italia, che hanno già accolto tali richieste a causa del sovraffollamento carcerario. Molti però i ricorsi che vengono rigettati e che pongono Salerno come uno dei tribunali più rigidi in materia di risarcimento per trattamento disumano in carcere. Attualmente, però, stando all’ultima relazione redatta dal direttore della casa circondariale di Salerno Stefano Martone le cose nel penitenziario di Fuorni sono migliorate: “allo stato attuale l’88% dei detenuti gode di un regime di ordinaria apertura - non meno di 8 ore al giorno - e il 12% di un regime di ulteriore apertura”. “La crisi della giustizia - afferma il radicale Donato Salzano, segretario dell’associazione salernitana Maurizio Provenza - è nel sovraffollamento delle carceri, una situazione drammatica, riflesso del sovraffollamento sulle scrivanie dei magistrati. Dietro quelle centinaia di faldoni ci sono esseri umani: centinaia di persone che, per più del 50% dei casi, sono ancora in attesa di giudizio dietro le sbarre del carcere di Fuorni. In tutta Italia - conclude Salzano - i penalisti si astengono dalle udienze per chiedere al governo di ripristinare la legalità, quella per cui dal 2013 il nostro Paese viene sanzionato per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani. A Salerno, invece, si pensa agli ascensori della cittadella. Non dobbiamo dimenticare che, come diceva Voltaire, è dalle carceri e non dai palazzi che si misura il grado di civiltà di una nazione”. Trani (Bat): “Ripartiamo dalla pasta”, domani la premiazione per dieci detenuti traniviva.it, 15 marzo 2018 Venerdì 16 marzo si svolgerà la cerimonia ufficiale di consegna degli attestati del progetto “Ripartiamo dalla pasta”, che ha visto protagonisti 10 detenuti del Penitenziario Maschile di Trani: un percorso di riqualificazione sociale in cui l’intreccio di cibo e letteratura ha avuto l’obiettivo di dare nuovi stimoli e un rapporto consapevole con l’ambiente, la natura, le tradizioni e il sociale a chi dopo aver scontato la propria pena, cercherà di reinserirsi nella società. Il progetto, pensato e ideato da Granoro e Factory del Gusto, una scuola di cucina barese (con sede a Molfetta), si è riproposto l’obiettivo di fornire attraverso un percorso di riqualificazione numerose opportunità di sviluppo favorendo l’acquisizione di competenza, professionalità e qualità nel settore del food e in quello pastario (un alimento consumato quotidianamente in tutta Italia) grazie alla presenza di importanti aziende come Granoro. Anche quest’anno il percorso di formazione ha potuto contare su un valido alleato culturale: grazie al Presidio del Libro di Corato, istituzione che si propone di sperimentare nuove forme di coinvolgimento dei lettori e di promozione dei libri, soprattutto nei momenti e nei luoghi in cui mai ci si aspetterebbe di incontrarli, i detenuti hanno avuto la possibilità di leggere alcuni stralci tratti da saggi di libri dedicati all’alimentazione, selezionati con cura dalla Responsabile del Presidio del Libro di Corato Angela Pisicchio. La scelta di quest’anno è ricaduta su “Spaghetti, cozze e vongole” di Nicola Lagioia e “Fulmine” di Lello Gurrado. Alla Consegna degli attestati ai partecipanti, prevista per le ore 10.30 presso il Penitenziario Maschile di Trani interverranno il Direttore del Penitenziario Maschile di Trani, la Dott.ssa Marina Mastromauro - Amministratore Delegato di Granoro, Salvatore Turturo - Amministratore della Factory del Gusto e Anna Maria Montinaro - Responsabile del Presidio del Libro di Corato. Alla cerimonia sarà presenta anche Lello Gurrado, autore del romanzo “Fulmine”, un libro che tratta i temi più scottanti e coinvolgenti della nostra, purtroppo amara, attualità. Gurrado, barese di nascita ma milanese di adozione, giornalista professionista, ha al suo attivo numerose pubblicazioni e numerose esperienze da inviato speciale e caporedattore nelle più importanti case editrici nazionali. Con Fulmine torna in Puglia e riparte, con una storia in tasca e un sogno da non dimenticare. “Ripartiamo dalla pasta” è stato riservato a 10 detenuti del penitenziario tranese. Il percorso, articolato con lezioni teoriche e pratiche tenute dai tecnici dell’azienda Granoro e dai cuochi della Factory del Gusto, ha avuto la finalità di formare i detenuti sul processo di lavorazione industriale della pasta secca di semola di grano duro nell’ottica finale di far comprendere le caratteristiche intrinseche del prodotto per una migliore rielaborazione dello stesso nel momento della sua preparazione. Inoltre ha avuto l’obiettivo di creare formazione specializzata in campo alimentare, migliorare l’autostima e l’immagine di sé, individuale e di gruppo, costruire una conoscenza accademica più approfondita intorno al tema dell’alimentazione. Lecce: il laboratorio sartoriale in carcere diventa “maison” Redattore Sociale, 15 marzo 2018 Altro passo avanti per il marchio “Made in carcere” nato dal laboratorio attivo dal 2008 nel carcere di Lecce. Dieci detenute lavorano nella logica d’impresa producendo manufatti con materiali di scarto delle aziende. Ora gli ambienti acquisiscono nuovi arredi, grazie alla donazione del divanificio Calia Italia di Matera. Il laboratorio sartoriale attivo dal 2008 all’interno della casa circondariale di Borgo San Nicola, a Lecce, è diventato una “maison”: grazie al divano e a due poltrone donati dal divanificio di Matera Calia Italia, infatti, lo spazio disponibile all’interno del carcere non ospita più solo l’area addetta al lavoro sartoriale ma anche una stanza adibita a soggiorno con la televisione, una con i libri, e elementi che fanno arredo e scaldano l’ambiente, come piante e quadri. È solo l’ultimo risultato della sfida che porta avanti il marchio “Made in carcere”, nato proprio da questo laboratorio grazie alla cooperativa sociale senza scopo di lucro Officina Creativa, già presente in carcere. Nel laboratorio sartoriale un gruppo di dieci donne detenute lavora quindi da anni nella logica del fare impresa, pensa e confeziona prodotti eco-solidali, secondo la filosofia della “seconda chance”. I prodotti che escono dal laboratorio, infatti, sono ‘etici’ e rispettosi dell’ambiente, frutto del riuso di materiali di scarto che prendono nuova vita, campionari offerte da aziende sensibili, stock di rimanenze di magazzino. E le donne detenute, che lavorano, imparano un mestiere, acquisiscono competenze e consapevolezza nella logica di costruire anche loro una nuova vita e un nuovo futuro una volta fuori dal carcere. I prodotti realizzati nel laboratorio sartoriale - attivo non solo a Lecce ma anche nella casa di reclusione femminile di Trani - sono pensati per accompagnare tutti i momenti della vita, dai gadget etici personalizzabili per eventi e convegni agli accessori fashion come borse e trousse, a quelli per la casa, il lavoro, viaggi o tempo libero, shopper bag e braccialetti. “Sono circa due anni che l’azienda di Matera Calia ci dona gli scarti della lavorazione, tessuto, tappezzeria o pelle - spiega Luciana Delle Donne, imprenditrice instancabile, fondatrice di Made in Carcere (madeincarcere.it) - che noi utilizziamo soprattutto per realizzare cuscini, borse, portachiavi. Ora l’azienda ha anche acconsentito alla nostra richiesta e ci ha donato un divano e due poltrone che hanno contribuito a dare vita alla nostra maison”. Una maison, quindi non solo luogo di lavoro ma anche di ricostruzione della propria vita. “Le donne che vivono questi spazi, pur all’interno del carcere, hanno così la sensazione di trovarsi in ufficio, o tra le mura di una casa, l’idea di poter vivere nella bellezza e nell’eleganza anche in un contesto di disagio, privo di queste possibilità - aggiunge Delle Donne. Questo lavoro diventa così occasione di crescita personale e professionale, e le donne impegnate percepiscono come le logiche della produzione, i bisogni, svolgono anche momenti di formazione con il computer e con la lingua inglese”. È tuttora in corso un progetto per realizzare un laboratorio sartoriale anche all’interno del carcere di Matera. Il marchio Made in Carcere ha dato già vita invece anche ad un biscottificio che coinvolge i ragazzi detenuti negli istituti penitenziari minorili di Bari e Nisida. Un progetto di vita concreta, con risultati e oggetti tangibili distribuiti attraverso temporary store in tutta Italia e tramite e-commerce. Carinola (Ce): detenuti impegnati a titolo gratuito in pulizia e manutenzione del verde Comunicato stampa, 15 marzo 2018 Martedì 13 Marzo, presso la Casa Comunale di Teano (Ce), il Sindaco del Comune Sidicino (ing. Nicola Di Benedetto), il Direttore della Casa Reclusione di Carinola (dott. Carlo Brunetti) e il rappresentante del Polo Museale della Campania (dott. Antonio Salerno) hanno sottoscritto gli atti di rinnovo delle convenzioni che prevedono l’ utilizzo di detenuti in attività di pulizia e manutenzione in aree pubbliche. La prima convenzione, in vigore già dal 2014, interessa i tre Enti sopra citati e prevede l’utilizzo dei detenuti presso il Teatro romano (dell’ antica Teanum Sidicinum). La seconda convenzione, sottoscritta tra la Casa di Reclusione di Carinola e il Comune di Teano, stabilisce che detenuti siano impegnati a svolgere attività di pulizia e manutenzione presso ii centro storico di Teano. Tali convenzioni regolano l’impiego di detenuti per lavori di pubblica utilità; dopo una attenta selezione, basata sui requisiti giuridici e sull’affidabilità personale, i detenuti saranno autorizzati a svolgere lavoro all’esterno (secondo l’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario), a titolo gratuito, in giorni ed orari definiti, contribuendo a restituire alla collettività la fruizione di beni di grande valore sociale e culturale. Le iniziative in argomento rivestono una particolare importanza nel percorso di reinserimento sociale delle persone detenute, le quali hanno cosi la possibilità di poter rendere un servizio alla collettività, dimostrando la loro motivazione al cambiamento. Attraverso queste azioni, la persona detenuta, che ha commesso un reato del quale tutta la società ha risentito e ne risente, ha l’opportunità di ricucire uno strappo, rinsaldando a pieno titolo il patto di cittadinanza, violato con la commissione del reato. In una ottica di giustizia riparativa, questi percorsi tendono a cercare di rimediare il danno subito a livello collettivo e sociale. C’è poi un altro aspetto da sottolineare, secondario ma non di minore importanza e risiede nella possibilità di avvicinare il territorio, e la popolazione tutta, al mondo del carcere, percepito spesso come distante e minaccioso. Queste iniziative di avvicinamento tra carcere e società civile invece permettono di superare i pregiudizi attraverso la conoscenza e la condivisione, orientando gli sforzi verso obiettivi comuni e restituendo simbolicamente al territorio quanto sottratto con la commissione del reato. Il Comune di Teano e il Polo Museale sono stati i primi due Enti Pubblici che, nell ‘ambito della Regione Campania, hanno usufruito della possibilità di utilizzare i detenuti in attività di pubblica utilità, anche grazie all’ immediata disponibilità dell’associazione “Amici dei Musei” che opera per la salvaguardia e la valorizzazione del ricco patrimonio archeologico di Teano. In quest’ottica di sinergia fra varie Istituzioni, si registra quest’ anno, anche la disponibilità dell’ Associazione Nazionale Carabinieri in Congedo Sezione di Teano, che contribuirà al buon andamento dell’ iniziativa. Successivamente, grazie all’ azione di stimolo e sensibilizzazione della Direzione Casa Reclusione di Carinola, anche altri Enti Pubblici e Organizzazioni no profit hanno sottoscritto convenzioni in materia di lavoro di pubblica utilità da parte di detenuti. Essi sono: • Il Convento di San Francesco di Casanova di Carinola, in collaborazione con I’ Archeoclub locale; • la Reggia di Caserta; • il Comune di Francolise (Ce); • il Comune di Sparanise (Ce); • la parrocchia di Falciano del Massico (Ce); • l’Acli Campi Flegrei. Il Direttore della Casa Reclusione di Carinola Dott. Carlo Brunetti Lanciano (Ch): inaugurata nuova sezione del carcere tra le proteste dei sindacati abruzzoweb.it, 15 marzo 2018 Inaugurato di una nuova sezione per detenuti comuni nella Casa Circondariale di Lanciano (Chieti), alla presenza del sottosegretario alla Giustizia Federica Chiavaroli e il capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Santi Consolo, con contestuale sit-in di protesta dei sindacati Sappe, Osapp, Uil, Sinappe, Cisl, Cnpp e Cosp. La nuova sezione ha 46 posti. I sindacati, nell’annunciata protesta, hanno sottolineato l’inopportunità di ripristinare l’ex sezione femminile. “Qui siamo già sofferenti per la mancanza di personale - dice il portavoce Piero Di Campli del Sappe - per anni siamo stati in silenzio, nonostante ferie a singhiozzo e minimi livelli di sicurezza nel lavoro”. Il sit-in, dalle 10.30 alle 12.30, non è stato autorizzato nella pertinenza del carcere e la protesta si è svolta di fronte, su un terreno privato. A conclusione i sindacati hanno ribadito la disponibilità al dialogo. “Restiamo in attesa di un eventuale convocazione e anticipiamo che abbiamo intenzione di chiedere il tavolo superiore non vedendo alcun spiraglio nella chiusura totale”. Il sottosegretario Chiavaroli ha poi precisato che “oggi è stata riattivata una sezione che ha già funzionato. È funzionale e dotata dei migliori sistemi tecnologici, anche per la videosorveglianza. Vogliamo lavorare per dare una seconda opportunità ai detenuti non solo per espiare la pena, ma anche per fare un percorso di reinserimento nella società. Quanto alla protesta degli agenti io comprendo le ragioni di tutti. Credo di conoscere molto bene il loro lavoro e li ho sempre ringraziati per i sacrifici. Ora sono stati assegnate 5 unità in distacco che garantiscono il funzionamento di questa sezione. Non paiono esserci problemi di personale, ma qualora accadesse il Dipartimento li metterà a disposizione per reali necessità. Ascolteremo anche le ragioni dei sindacati”. “Ho già manifestato ai sindacati piena disponibilità a un incontro per avviare dialogo e confronto. Bisogna prima comprendere le ragioni degli altri e poi agire - ha detto Consolo -. La mancanza di personale purtroppo esiste ed è un problema diffuso su tutto il territorio nazionale. Con la legge Madia c’è stato un taglio 5 mila unità e con i concorsi non riusciamo a coprire le notevoli carenze di organico che abbiamo. A Lanciano, a fronte di un organico previsto di 157 agenti, ve ne sono 135 effettivi. Una carenza in linea, se non inferiore, di quanto registriamo in altri istituti d’ Italia. Con la riattivazione dell’ex sezione femminile oggi recuperiamo posti non più disponibili. Opera a cui hanno lavorato i detenuti e con una spesa assolutamente limitata di 88 mila euro. Un modulo custodiale più moderno in questo istituto che si propone a modello in Italia e vuole anche incentivare il lavoro dei detenuti e creare benessere per chi vive ed opera in questo carcere”. Presenti alla cerimonia la direttrice Lucia Avvantaggiato, il provveditore Cinzia Calandrino, il vescovo Emidio Cipollone e il sindaco Mario Pupillo. Trieste: nel carcere presentazione del libro “La libertà danza tra gli ulivi” con l’autore Comunicato stampa, 15 marzo 2018 Il 17 marzo 2018 ad ore 10.00 Alessandro Bozzi presenterà il libro “La libertà danza tra gli ulivi” presso la Casa Circondariale di Trieste a favore delle persone private della libertà alla presenza - anche - di un gruppo di persone provenienti dalla libertà. L’evento s’inserisce nel ciclo d’incontri letterari organizzati dal Garante Comunale dei Diritti dei Detenuti di Trieste - Elisabetta Burla. “La libertà danza tra gli ulivi” un legal-thriller, che affronta le complicate verità che spesso accompagnano i delitti: una giovane donna - Aurora - nel cui appartamento viene rinvenuto un cadavere; su di essa tracce di sangue, una soluzione “facile” quella che porta a ritenere la sua responsabilità nell’omicidio. Non così per i difensori che, nonostante il silenzio ostinato della propria cliente, non credono possibile un suo coinvolgimento. Una storia che si sviluppa tra il Friuli Venezia Giulia e la Puglia (il Salento) terra d’origine di Aurora, terra d’origine del giovane avvocato e dell’Autore. Descrizioni paesaggistiche incantevoli, tradizioni culturali, ricordi e un pizzico di psicologia, questi i tratti che costellano la narrazione del “caso” processuale. Il Garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste, Elisabetta Burla Politica della migrazione, una mancanza che pesa di Donatella Di Cesare Corriere della Sera, 15 marzo 2018 Serve una cultura in grado di sollevare lo sguardo di chi è ripiegato su di sé e rischia di non vedere quello che avviene oltreconfine. Il voto politico in Italia è la conferma della crisi che da tempo affigge la sinistra europea. Così viene giudicato dai media e dall’opinione pubblica all’estero. Numerose sono le analisi che interpretano l’esito delle elezioni mettendo l’accento sul travaso dei voti dal Pd al Movimento 5 Stelle (che segue peraltro quello degli ex Pci passati alla Lega). La questione riguarda anche Leu e in generale tutta l’area della sinistra. Le cause indicate sono molteplici. Per lo più prevale l’idea, senz’altro vera, ma troppo sbrigativa, che la sinistra abbia abbandonato “i propri territori”, che non sia stata capace di dare voce a scontenti, disoccupati, disagiati. In breve: l’emancipazione si sarebbe arrestata. Ecco il motivo - si dice - della crisi, anzi dello spegnimento della sinistra. Sennonché lo scenario è ben più complesso. Lo dimostra il ruolo giocato dal tema della migrazione prima e durante la campagna elettorale. I toni accesi, gli episodi violenti - come dimenticare Macerata? - vanno ricondotti a tale contesto. Per le strade e nel web non si parlava d’altro. O quasi. Perciò nelle analisi politiche sarebbe un grave errore non riconoscere che la migrazione è stato un punto dirimente. Contro questa frontiera della democrazia ha urtato arenandosi una sinistra che non ha saputo intervenire per tempo. Una questione globale ha potuto così essere letta nei termini di un sovranismo provinciale. È mancata una narrazione alternativa in grado di delineare la complessità in modo semplice e non semplicistico, comprensibile a tutti. Nel migliore dei casi è stata fornita quella lettura economicistica dell’immigrazione che trasforma i cittadini-lavoratori in utili risorse umane: “lasciamoli entrare, perché ci servono”. Come se non fosse proprio questo il dispositivo del mercato neoliberista che, se da un canto attrae, dall’altro respinge i migranti che sono voluti, ma non benvenuti, richiesti come lavoratori, ma indesiderati come stranieri, vittime perciò di una duplice discriminazione, di “razza” e di “classe”. Il problema, che ha investito, tutta la sinistra, non solo quella italiana, si può riassumere così: la giustizia sociale funziona unicamente all’interno dei confini nazionali? Occorre farsi carico solo del benessere economico degli autoctoni, salvaguardare e incrementare i diritti dei cittadini, in particolare - è ovvio - dei più poveri? Se è cosi, si accetta la frontiera fra cittadini e stranieri. Ma proprio questa frontiera è inaccettabile per la sinistra che finisce per tradire insieme la sua provenienza e la sua vocazione: l’ideale della solidarietà. La giustizia sociale non può fermarsi ai confini nazionali. Non è un caso che nel contesto tedesco dove, malgrado la crisi economico-finanziaria, il welfare ha tenuto, il tema della migrazione sia stato affrontato diversamente. Perché non si tratta di addossarsi la miseria del mondo, bensì di accettare una sfida epocale e inaggirabile. “Ce la faremo”, sono le parole pronunciate nell’estate del 2015 da Angela Merkel che passerà alla storia per essere stata l’unico leader europeo ad aver richiamato i cittadini ad una solidarietà responsabile. Ha fallito? Difficile dirlo. Tanto più che ha spiazzato il partito socialdemocratico. Ma certo ha avuto il coraggio di tentare. Purtroppo in Italia il tema della migrazione è stato affrontato in modo schizofrenico, da una parte consegnandolo alla pur decisiva carità etico-religiosa del volontariato, dall’altra facendone una questione di sicurezza e di ordine pubblico. È mancata e manca una politica della migrazione. Ed è grave che non sia stata sviluppata dalla sinistra con categorie nuove, che non riducano la politica a governance, a mera amministrazione. Proprio il tema della migrazione prova la necessità di una cultura politica in grado di sollevare lo sguardo di chi è ripiegato su di sé e rischia di non vedere quello che avviene oltreconfine. Migranti. Mauro Palma: “serve un cambio di passo sulla tutela dei diritti” Il Dubbio, 15 marzo 2018 Intervento del Garante dei detenuti dopo la chiusura dell’hotspot di Lampedusa. All’indomani della chiusura temporanea dell’hotspot di Lampedusa disposta dal ministero degli Interni, il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale Mauro Palma esprime soddisfazione e chiede che sia occasione per un vero cambio di passo sulla tutela dei diritti. Palma ricorda di aver visitato il centro e rivelato varie criticità e tensioni che si sono verificate negli ultimi giorni al suo interno. In particolare, rende noto di avere avviato da tempo un’interlocuzione con il ministero dell’Interno, tesa fra l’altro a verificare alcune circostanze particolarmente allarmanti, che saranno al centro del rapporto sulla visita effettuata lo scorso 23 gennaio, di prossimo invio alle autorità competenti e successiva pubblicazione. Il Garante osserva che gli interventi da realizzare nell’hotspot non si dovranno limitare a una mera ristrutturazione materiale, pure assolutamente necessaria e più volte sollecitata. Palma spiega che serve soprattutto porre le basi perché si verifichi un vero cambio di passo sulla tutela dei diritti fondamentali dei cittadini stranieri ospitati nella struttura, a partire dai tempi di permanenza, che devono essere nei limiti, normativamente previsti, delle 48 ore. “Sul piano più generale - si legge nel comunicato del Garante - è ormai tempo che si definisca un quadro di regole chiaro e trasparente su un sistema quello degli hotspot - la cui natura giuridica rimane dopo anni ancora ambigua e rischia di configurarsi di fatto come una privazione della libertà personale senza tutela giurisdizionale”. Nel frattempo, l’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi), la Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili (Cild) e IndieWatch, ricordano che la chiusura temporanea dell’hotspot è avvenuta anche a seguito delle loro segnalazioni indirizzate alla Procura della Repubblica di Agrigento, la Prefettura di Agrigento, alla Asl di Palermo e al Garante per le persone private della libertà personale al fine di chiamare la necessità di azionare il proprio dovere di controllo. L’Asgi ricorda che da giorni ha denunciato il degrado dei locali dove hanno dormito uomini, donne e bambini, anche molto piccoli, in condizioni di totale insicurezza e in aperta violazione dei loro diritti. Inoltre, a tutela di due nuclei familiari presenti presso l’hotspot, i legali di Asgi e Cild hanno presentato un ricorso di urgenza alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per chiedere l’immediato trasferimento e la messa in sicurezza dei bambini e dei loro genitori. In sintesi, come spiega sia il Garante Mauro Palma che le associazioni, non basta ristrutturare i locali danneggiati dall’incendio, ma consentire il rispetto delle regole che non ledono i diritti umani. Migranti. L’Ue: gli arrivi sono diminuiti del 30 per cento La Repubblica, 15 marzo 2018 Il commissario europeo Avramopoulos fa il bilancio dell’attuazione dell’Agenda Ue: “I risultati sono buoni e bisogna intensificare gli sforzi. Bene l’accordo con la Turchia. Intanto Proactiva soccorre 200 persone: “Gravi segni di maltrattamenti nei centri in Libia”. “Aiuteremo qualunque governo italiano”. Rispetto al 2014 gli arrivi dei migranti nell’Unione Europea sono diminuiti del 30 per cento ed è perciò il momento adatto per intensificare i rimpatri. Questa mattina il il commissario Ue alla migrazione, Dimitris Avramopoulos, ha comunicato il periodico bilancio sull’attuazione dell’Agenda europea sulla migrazione. “Con gli arrivi scesi di quasi il 30 per cento nel 2017, rispetto all’anno pre-crisi 2014, i tempi sono maturi per accelerare e intensificare i nostri sforzi - ha detto Avramopoulos - per agire di più e più velocemente sui rimpatri, gestione delle frontiere e canali legali, in particolare i reinsediamenti da Africa ma anche Turchia”. I dati della Commissione dicono poi che gli attraversamenti irregolari nel 2017 sono stati 205mila e nel Mediterraneo sono stati salvati oltre 285mila migranti con le operazioni compiute da febbraio 2016, mentre 2mila sono stati salvati nel deserto nel 2017. Sono poi stati compiuti quasi 34mila ricollocamenti, pari al 96 per cento dei migranti aventi diritto, nei due anni previsti dallo schema, e ne restano da ricollocare ancora un migliaio di cui 933 dall’Italia e 143 dalla Grecia. Sono inoltre stati effettuati in totale 19.432 reinsediamenti dalla Turchia sino al 2017. Avramopoulos ha poi parlato dei problemi di finanziamento per attuare l’Agenda, denunciando che manca ancora “oltre un miliardo” di euro al Trust Fund Ue per l’Africa per combattere alla radice le cause della migrazione. Al momento sono stati approvati 147 programmi, per un totale di 2,5 miliardi di euro tra Sahel, Corno d’Africa e Nord Africa e la Commissione Ue ha sbloccato la seconda tranche da 3 miliardi per attuare l’accordo sui migranti con la Turchia, dopo che la prima è stata pienamente utilizzata entro fine 2017. Il commissario Ue ha di fatto ribadito la bontà dell’accordo con la Turchia, sottolineando il suo funzionamento, visto che c’è stata una riduzione degli arrivi del 97 per cento su quella rotta rispetto al momento della crisi. Quanto alle nuove misure allo studio, la Commissione Ue propone una stretta sulla concessione dei visti Schengen per quei Paesi terzi che non collaborano sui rimpatri dei migranti irregolari, considerando che le nuove modifiche propongono anche procedure più rapide e semplificate per chi rispetterà gli impegni. Avramopoulos ha poi risposto a domande sulla situazione politica italiana e su come potrebbe cambiare la politica del paese in tema di immigrazione. “Seguiamo l’evoluzione politica in Italia e rispettiamo le decisioni prese dagli italiani - ha commentato - garantisco che continueremo ad aiutare l’Italia e a lavorare con l’Italia. L’Italia ha bisogno dell’aiuto della Ue e noi abbiamo bisogno dell’Italia”. “L’Italia è uno dei Paesi più importanti della Ue e il più grande difensore della nostra politica migratoria - ha aggiunto - ed è il Paese che con la Grecia subisce la più forte pressione migratoria. Garantisco che continueremo a aiutare l’Italia, contiamo sul ruolo dell’Italia, e sono convinto che quello che definisce la politica del nuovo governo sarà comunque rispettoso dello spirito europeo”. Intanto anche oggi si registrano altre imbarcazioni soccorso nel Mediterraneo. La nave della Ong spagnola Proactiva Open Arms ha soccorso oltre 200 migranti trovati in condizione di salute precarie e con segni di violenze e stenti, conseguenze, secondo la Ong, del trattamento subito nei centri di raccolta in Libia. Ieri ha suscitato commozione la morte, per gli effetti della denutrizione, di un giovane eritreo sbarcato due giorni fa a Pozzallo in gravi condizioni: “Ci ha detto - racconta Oscar Camps di Proactiva - che aveva 22 anni, il suo nome era Segen, eritreo, ed era stato in carcere in Libia per 19 mesi. Lo abbiamo salvato nel Mediterraneo domenica scorsa insieme a 93 persone e in Sicilia è morto per malnutrizione. Una storia terribile”. Migranti. “Ho attraversato il deserto e il Mediterraneo ora rischio di morire in cella” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 marzo 2018 Dopo giorni di emorragia è stata operata e poi riportata in cella senza assistenza né terapie. “La denuncia di Sandra Berardi, presidente dell’Associazione Yairaiha, che ha segnalato diverse situazioni di malasanità penitenziaria. “Sono passata attraverso il vento del deserto in Libia, sono quasi morta senza vestiti e medicine ma Dio mi ha aiutato e non sono morta in Libia né nel mar Mediterraneo. Dovrò morire di freddo in una prigione italiana?”. Questo è l’urlo di dolore di una donna immigrata, scampata dalla lunga e tortuosa traversata del deserto e del mare per raggiungere l’Italia, ma che rischia di morire nelle nostre patrie galere. A raccogliere la denuncia di questa detenuta è stata l’associazione Yairaiha Onlus, nata nel 2006 con fini esclusivamente di solidarietà sociale. In particolare si pone come obiettivi primari la tutela e la difesa dei diritti umani con particolare attenzione a quelli della popolazione sottoposta a limitazione della libertà e dei minori migranti non accompagnati. La breve lettera che pubblichiamo è stata inviata da questa donna a una amica. Una detenuta che era stata trasportata di urgenza all’ospedale perché in cella perdeva tantissimo sangue e operata di fibroma. Dopo l’operazione fu riportata in carcere, tremante di freddo e senza cure. Sandra Berardi, la presidente dell’associazione Yairaiha, spiega a il Dubbio che “la storia di R. (l’iniziale del nome, ndr) è una storia tra le tante, troppe, che si verificano nelle carceri d’Italia. Leggere il suo grido d’aiuto nel giorno in cui le donne di tutto il mondo scendono in piazza per rivendicare diritti e uguaglianza amplifica ulteriormente le violenze che si consumano sulla pelle delle donne”. La presidente dell’associazione spiega che “R. è una donna nigeriana detenuta a Bancali (il famigerato carcere di Sassari, ben più noto per la sezione di 41 bis più dura di tutte in Italia), che lancia la sua richiesta di aiuto a l’unica amica che ha in terra sarda. Nessun parente che faccia un colloquio, l’avvocato non può andare a trovarla. Dopo diversi giorni di emorragia viene portata in ospedale, per prima cosa le devono fare una trasfusione (ben 7 sacche!), il 27 febbraio viene operata di un fibroma all’utero e dopo due giorni viene riportata in cella senza nessuna assistenza né terapia! Dopo aver attraversato il deserto libico e il Mediterraneo, teme di morire in carcere, in Italia, la terra dei suoi sogni. Auspichiamo che il Garante sia già intervenuto per garantirle le cure adeguate”. Sandra Berardi spiega che di solito non pubblicano mai le storie dei singoli detenuti per i quali intervengono, sia per privacy sia per proteggerli, ma questa storia “non poteva essere taciuta perché emblematica della condizione delle donne detenute che viene spesso sottovalutata, forse perché (fortunatamente) in misura nettamente inferiore rispetto alla popolazione maschile”. L’associazione Yairaiha ha segnalato alle istituzioni, Garante compreso, diverse situazione analoghe legate alla salute. Sandra Berardi cita il caso di un morto per clostridium difficilis (Michele Rotella) e un malato terminale, Antonio Verde, per un tumore al pancreas che invece veniva trattato come una gastroenterite, a cui sono riusciti a far sospendere la pena per andare a morire a casa anziché piantonato in ospedale (entrambi nel carcere di Siano nel 2016 a distanza di un mese). “Ma le loro morti - spiega la presidente dell’associazione - sono state determinate da malasanità penitenziaria, causando l’irreversibilità delle rispettive patologie”. L’altro caso sempre segnalato dall’associazione riguarda l’uomo con gravi problemi psichiatrici che è stato tenuto in isolamento totale per oltre 6 anni nel carcere di Voghera in condizioni disumane. “Anche su questo caso - spiega Sandra Berardi - c’è una relazione dettagliata del Garante che in altri paesi avrebbe prodotto dimissioni dei vertici dell’amministrazione penitenziaria. In Italia solo il trasferimento temporaneo in altra struttura “adeguata” del detenuto in questione”. La presidente dell’associazione Yairaiha spiega che c’è anche un altro caso del quale ancora non si è parlato pubblicamente. “È relativo a un uomo - denuncia Sandra Berardi - che per due anni è stato completamente ignorato dai medici penitenziari al punto che quando si rivolgeva ai medici lamentando dolori atroci gli veniva risposto testualmente “vai a fare una partite a carte che ti passa tutto”, quando lo portarono in ospedale aveva tutti gli organi in metastasi, gli diedero dai tre ai sei mesi di vita. Morì dopo un mese. Aveva 50 anni e mezza vita d’avanti. Anche lui - conclude amaramente la presidente dell’associazione - non rientrerà nelle statistiche dei morti in carcere. È in corso la denuncia dei familiari, ci costituiremo parte civile”. Stati Uniti. Gli studenti in piazza, chiedono più controlli sulle armi di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 15 marzo 2018 Alle 10 di stamattina (le 15 in Italia) hanno lasciato le classi per chiedere leggi più severe sulle armi. Per la prima volta nella storia americana gli studenti sono scesi in strada contemporaneamente in tutte le principali città, da San Francisco a Chicago, da New York a Philadelphia, in quella che appare già come la più grande mobilitazione giovanile negli Usa contro le armi, con decine di migliaia di partecipanti. “Se i grandi non ci tutelano lo facciamo noi” hanno gridato. È la reazione dei giovani alla sparatoria del 14 febbraio in una scuola della Florida in cui sono morte 17 persone. La protesta ha raggiunto anche la Casa Bianca dove si sono radunati centinaia di giovani: “Never again!” (mai più), “Quando è troppo è troppo!”, “Proteggete le persone, non le armi” recitavano i cartelli. Lo “Sciopero nazionale scolastico” era stato pensato per durare 17 minuti, uno per ciascuna delle vittime. Tuttavia, è diventato evidente che molti studenti hanno deciso di prolungarlo, non rientrando nelle classi e continuando a manifestare. Negli Stati Uniti ogni anno ci sono oltre 30mila decessi legati alle armi da fuoco, di cui due terzi per suicidi. Gli organizzatori provengono dallo stesso gruppo che organizza la Women’s March, che nel gennaio 2017 portò milioni di persone nelle strade contro l’inaugurazione del presidente Donald Trump. Tre le richieste al Congresso: 1) mettere al bando le armi d’assalto 2) prevedere controlli severi su chi acquista un’arma 3) fare una legge che permetta ai tribunali di disarmare le persone che danno segni di violenza. La lobby delle armi (Nra) la scorsa settimana ha annunciato una causa contro lo Stato della Florida per aver varato una legge che introduce misure restrittive sulla vendita delle armi, tra cui l’aumento dell’età minima per l’acquisto da 18 a 21 anni. Per la Nra la legge è incostituzionale: “Le nuove norme puniscono chi rispetta la legge a causa di azioni portate avanti da gente folle”, ha dichiarato Chris Cox, responsabile degli Affari Legali della Nra. Nel ricorso si sostiene che la riforma firmata dal governatore Rick Scott rappresenta una violazione del II e del XIV emendamento della Costituzione americana, rispettivamente sul diritto a possedere armi e sul diritto a proteggersi. Stati Uniti. L’Oklahoma presenta un piano per usare l’azoto nelle esecuzioni capitali Corriere della Sera, 15 marzo 2018 La decisione dopo tre anni di dibattito. L’uso del gas viene considerato “il miglior protocollo da sviluppare” dal procuratore generale dello stato Mike Hunter. L’Oklahoma potrebbe essere il primo stato a ricorrere all’uso del gas per la pena di morte. Ad annunciarlo alcuni funzionari dello stato Usa che - secondo quanto riporta l’Associated Press - hanno parlato dell’uso dell’azoto. Il piano delle autorità prevede di portare a termine le esecuzioni attraverso l’inalazione di azoto. Un dibattito durato tre anni - Si è deciso di svilupparlo dopo i mille dubbi e le mille difficoltà sollevati dal ricorso alle iniezioni letali, e dopo un acceso dibattito durato tre anni. L’uso del gas viene considerato “il miglior protocollo da sviluppare” dal procuratore generale dello stato Mike Hunter, mentre la governatrice Mary Fallin già nel 2015 firmò un provvedimento che inseriva l’azoto nella lista dei possibili agenti da usare per portare a termine le esecuzioni. Salvador. Storia di Maira, 15 anni di carcere per un aborto spontaneo e ora libera di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 15 marzo 2018 Adesso piange. Lacrime di gioia. Con il viso che si illumina in un sorriso e le mani tremanti che cercano di asciugarlo. “Sono libera”, dice con un filo di voce ai giornalisti che sono andati ad accoglierla all’uscita dal carcere. “Ricomincio a vivere. Voglio recuperare il tempo perduto”. Maira Véronica Figueroa, 30 anni, 15 trascorsi dietro le sbarre per un aborto spontaneo, lancia un ultimo sguardo al penitenziario di Llopango, un buco miserabile alla periferia di San Salvador, che si lascia alle spalle. Cammina veloce, stretta dall’abbraccio della madre che l’ha sostenuta e seguita in tutti questi anni, assieme a decine di Ong e associazioni per i Diritti Umani. Fa qualche metro, si concede ai cronisti. Ricorda. “Quella sera stavo ancora al lavoro, una piccola fabbrica. Avevo 16 anni. Mi sentivo strana. Ho cominciato ad avere forti dolori al ventre. Ero preoccupata, stavo al sesto mese di gravidanza. Ma non raggiungo nemmeno la strada. Mi accascio a terra, le mani strette sul pancione che mi faceva sempre più male. Credo di essere svenuta. Mi risveglio in un lago di sangue. Chiamano un’ambulanza. Ma non arriva e io finisco per abortire”. Quando giungono finalmente gli infermieri, Maria è bianca come un fantasma. Ha perso molto sangue ma soprattutto ha perso il suo bambino. I paramedici sanno bene quello che è accaduto. Ma nel Salvador, tra i pochissimi paesi dell’America Latina in cui l’aborto, in qualsiasi circostanza, è considerato omicidio, bisogna subito allertare la polizia. Si rischia di essere accusati di complicità. Chi sgarra ad un ordine oscurantista, da vera Santa Inquisizione, entrato in vigore nel 1998, paga fino a una condanna a 40 anni di carcere. La ragazza finisce dentro. La condannano, nel 2003, a 30 anni per omicidio. Il caso arriva in appello l’anno scorso e anche qui la Corte conferma il verdetto. Si mobilitano le associazioni umanitarie, le Nazioni Unite. La ragazza è una delle 17 donne, che giacciono in prigione con condanne che arrivano a 40 anni. È diventata un’associazione combattiva, Las 17: un numero fatto di storie agghiaccianti. Tra il 2000 e il 2011 ne hanno processate 129. Sarà la Corte Interamericana a rompere le catene: ordina la revisione delle sentenze. Il 16 febbraio viene annullata quella nei confronti di Teodora Vásquez, anche lei condannata a 30 anni. Era stata violentata e aveva perso il bambino. Il muro è infranto. Ieri è uscita Maira. Dentro ne restano altre 27 tra condannate e in attesa di giudizio. Iraq. Centinaia di donne sono in carcere per aver aiutato i jihadisti di Zuhair al Jezairy Internazionale, 15 marzo 2018 Molti combattenti del gruppo Stato islamico (Is) morti o fuggiti si sono lasciati alle spalle i familiari dopo la sconfitta subita in Iraq lo scorso dicembre. Lo stesso capo del califfato, Abu Bakr al Baghdadi, ha lasciato la sorella, che è stata arrestata dalle forze armate irachene e che l’8 marzo è stata condannata a morte. Secondo il portavoce della corte suprema irachena Abdul Sattar Bairkadar, la donna avrebbe aiutato l’organizzazione terroristica “offrendo supporto logistico e contribuendo a compiere azioni criminali”. Inoltre avrebbe svolto varie attività insieme al marito, anche lui condannato a morte, nei tre anni in cui il gruppo Stato islamico ha controllato Mosul. Una delle loro funzioni era procurare soldi ai combattenti. La sorella di Al Baghdadi, di cui non è stato reso noto il nome, è una delle centinaia di donne che hanno prestato servizio all’interno dell’Is. Il numero più alto di donne straniere che sono state attive nel gruppo proviene dalle repubbliche dell’ex Unione Sovietica, ma altre sono arrivate dalla Turchia, dalla Francia e dalla Germania. Molte sono detenute con i figli nelle carceri irachene. Dieci mogli straniere di combattenti dello Stato islamico sono state condannate all’ergastolo, mentre decine di donne e bambini russi sono stati riconsegnati a Mosca il mese scorso. La Croce rossa ha contribuito a rintracciare le loro famiglie.