Che pazzia rinunciare alla riforma delle carceri! di Piero Sansonetti Il Dubbio, 14 marzo 2018 La riforma del carcere, probabilmente è morta. Ieri il governo avrebbe dovuto varare i decreti attuativi, ma non lo ha fatto. Dal momento in cui dovesse vararli, resterebbero poi dieci giorni alle Commissioni parlamentari per prendere atto della decisione del governo e renderla dunque definitiva, anche eventualmente col silenzio-assenso. Ma da oggi alla fine del mandato di questo Parlamento mancano solo nove giorni, e la possibilità che le Commissioni si riuniscono di urgenza e diano il via libera prima del 23 marzo, quando si insedierà il nuovo Parlamento, sono una su un milione. In questo modo il governo ha mandato in fumo un lungo lavoro, iniziato tre anni fa, su impulso di una sentenza della Corte di Strasburgo, la quale stabiliva che il livello di vita nelle nostre carceri è al di sotto del limite minimo della dignità, e dunque inaccettabile e illegale. La riforma del carcere nasce così. E cammina grazie alla spinta della battaglie condotte dall’avvocatura e dal Partito Radicale. La riforma arriva anche a una conclusione, con l’approvazione del Parlamento e la delega al governo ad emanare i decreti attuativi. Delega che il governo non ha rispettato. Non sappiamo perché non l’abbia rispettata. Se per sciatteria, o per volontà politica, o per paura. Sappiamo che una riforma che avrebbe permesso di ridurre una delle sacche di inciviltà presenti nella società italiana, non ci sarà. E che la riforma della giustizia, amputata dalla parte che riguarda il sistema penitenziario, non sarà certo ricordata come una grande riforma della giustizia. Ieri gli avvocati penalisti hanno scioperato, e sciopereranno anche oggi, per protesta contro questa inadempienza. Anche se pare che i giornali non siano interessatissimi a questo sciopero. Né a questa riforma. Noi non stiamo parlando di una occasione persa. parliamo di una cosa abbastanza più grave: di una scelta sciagurata che con ogni probabilità costringerà l’Italia a convivere per molti anni ancora con una situazione carceraria infame e insopportabile. E probabilmente a subire alcune pesanti e giustissime sanzioni da parte dell’Europa. Anche perché il Parlamento che si insedierà tra nove giorni è un Parlamento a maggioranza 5Stelle-leghista, cioè di due forze che si sono battute strenuamente contro questa riforma, perché ritengono che alleggerire le condizioni del carcere sia un atto criminogeno (i leghisti, in commissione, alla Camera, hanno definito la riforma una riforma criminale). I leghisti e i 5 stelle ritengono che la lotta per la legalità abbia bisogno di un inasprimento e non di un allentamento della repressione e della filosofia giustizialista. E sono abbastanza disinteressati ai richiami e alle proteste dell’Europa. A favore della riforma si sono pronunciati, oltre agli avvocati e ai radicali, un discreto numero di intellettuali di formazione e di cultura diversa: liberali, cattolici, esponenti della sinistra. Anche molti magistrati. Ieri, alla manifestazione organizzata dalle Camere penali, ha parlato anche il dottor De Vito, che è il presidente di Magistratura democratica, il quale si è chiesto come mai ci sia una parte della magistratura che si oppone a una misura civilissima com’è la riforma carceraria. Che oltretutto aumenta e non riduce il potere discrezionale della magistratura, e precisamente della magistratura di sorveglianza. Ma allora ritorniamo alla domanda: perché il governo non ha trovato il tempo o il modo per compiere il piccolo e semplice gesto di licenziare i decreti? La spiegazione, temo, è semplice: per paura di perdere consensi. Lo stesso risultato elettorale dimostra che stiamo attraversando una fase politica nella quale la maggioranza dell’opinione pubblica è orientata su posizioni giustizialiste o addirittura autoritarie. E il governo ha avuto paura di compiere una scelta in aperto contrasto con questa tendenza. Il problema è che in politica, da alcuni anni, si è celebrato il divorzio tra i due pilastri della democrazia: i principi e il consenso. La politica non vive più di principi (di idealità, di convinzioni, di tendenze culturali, o morali) attorno ai quali si costruisce il consenso. Si è rovesciato tutto il gioco: la politica è solo ricerca del consenso, il consenso non si aggrega più attorno ai principi ma succede l’inverso: i principi si costruiscono, ex post, attorno al consenso. Gli statisti sono diventati amministratori. I pensatori si sono dati alla macchia. In queste condizioni si rischia di diventare persino patetici se si continua a far notare che il funzionamento del nostro sistema carcerario è assolutamente incostituzionale. Che si violano gli articoli della Carta e si violano i diritti dell’uomo. Ti rispondono con una risata. Ti dicono in faccia, ghignando: “chiudeteli e in cella e buttate la chiave”. Ieri, alla manifestazione dei penalisti che si è svolta a Roma, è stato presentato il libro dell’ambasciatore Claudio Moreno, intitolato “Un ambasciatore a Regina Coeli”. Racconta la sua esperienza nel carcere romano, quando fu arrestato innocente - per una storia di tangenti alla quale, dopo 14 anni di sofferenze, è stato proclamato del tutto estraneo. Moreno, nel suo libro, non parla però della infondatezza delle accuse. Racconta semplicemente, con passione e con agghiacciante realismo, come si vive in carcere e come la vita carceraria - lo ha detto anche l’ex ministro Flick - non sia compatibile con almeno una decina di articoli della Costituzione, a partire dall’articolo 2, dall’articolo 3, dall’articolo 4. E ora? Ora bisogna solo avere il coraggio di non mollare. Di riprendere il discorso da zero, di ricominciare. Provando a parlare con tutti, anche con quelli che sono arrivati in Parlamento con idee molto lontane dal garantismo. Bisogna spiegargli che non si può difendere la Costituzione solo per fare la lotta a Renzi. Bisogna convincerli che il Diritto è il bene supremo della comunità: il Diritto, non la Punizione. Ne vale la pena. Le prigioni sono il buco nero della nostra civiltà. Non si può restare indifferenti, o rassegnati. “Uno dei delitti più gravi verso i detenuti è far perdere la speranza” di Valentina Stella Il Dubbio, 14 marzo 2018 Dibattito delle Camere penali nel primo dei due giorni di astensione dalle udienze per la mancata approvazione della riforma dell’Ordinamento penitenziario. Giovanni Maria Flick ha richiamato un concetto caro a Pannella. Ieri, nella giornata di mobilitazione e di astensione contro la mancata riforma dell’Ordinamento penitenziario, che ha comportato la non celebrazione della maggior parte dei processi, come avverrà anche oggi. Avvocati, tanti e agguerriti, e pochi magistrati si sono riuniti in un dibattito organizzato dall’Unione delle Camere Penali Italiane e dalla Camera Penale di Roma. I sentimenti prevalenti dei relatori sono stati quelli del pessimismo, essendo quasi scaduti i tempi per licenziare la riforma, della critica al ministro della Giustizia che nonostante le numerose promesse non ha portato a casa il risultato, ma anche di voglia di non mollare perché come ha ribadito in apertura l’avvocato Cesare Placanica, presidente della Camera Penale di Roma “si tratta di una battaglia che abbiamo il dovere di fare e solo noi col Partito Radicale possiamo portarla avanti. Siamo portatori di una cultura di minoranza che però non può e non deve arrendersi”. L’incontro, che ha accolto i saluti e il plauso di Andrea Mascherin, presidente del Consiglio Nazionale Forense, è proseguito con l’intervento di Laura Longo, già magistrato di Sorveglianza del Tribunale di Roma per la quale è sbagliato “marchiare le persone in base all’atto criminoso commesso, occorre restare aperti al cambiamento dei detenuti, individualizzare i trattamenti; eliminare gli automatismi significa restituire alla giurisdizione il potere che gli è stato tolto”. Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, si è invece appellato al capo dello Stato Sergio Mattarella “perché faccia sentire la sua voce, alta e sopra le parti, affinché si possa far fare alla riforma dell’ordinamento penitenziario l’ultimo piccolo passo che manca per la sua approvazione”. Il professore Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale, ha richiamato un concetto molto caro anche a Marco Pannella, ossia la speranza: “uno dei delitti più gravi verso i detenuti è far perdere loro la speranza. C’è una responsabilità politica enorme in chi aveva garantito che la riforma sarebbe passata e poi non ha fatto in modo che avvenisse”. Riccardo De Vito, presidente di Magistratura Democratica, tracciando una distanza con quei magistrati che anche nella Commissioni parlamentari sono andati a riferire ingiustamente che la riforma sarebbe stata uno svuota-carceri, ha sottolineato che “non ci sentiamo di tradire alcuna terzietà nel partecipare a questo incontro; se non l’avessimo fatto avremmo voltato le spalle alla nostra Costituzione. C’è bisogno di questa riforma per motivi etici, sociali, costituzionali ma anche di sicurezza”. Per l’avvocato Riccardo Polidoro, Responsabile dell’Osservatorio Carcere Ucpi, “non c’è stata la rivoluzione culturale auspicata da Orlando. Alla politica è mancato il coraggio di avere una opinione pubblica educata sul senso della pena e della rieducazione”. Rita Bernardini, della presidenza del Partito Radicale, ancora in sciopero della fame per sollecitare l’approvazione della riforma, ha sottolineato come “Gentiloni e Orlando non hanno rispettato la parola data, si sono messi dalla parte di chi ha voluto elettoralmente condividere il dividendo della paura, e ora il provvedimento è oltre zona Cesarini”. Il professor Giorgio Spangher, presidente dell’Associazione tra gli studiosi del Processo penale, ha fatto notare come tutte le nuove riforme “siano all’insegna della repressione, se pensiamo ad esempio all’omicidio stradale e al cyber bullismo. Nel caso della riforma dell’ordinamento penitenziario, la cultura giuridica non è mancata all’appuntamento ma ciò non è stato sufficiente, in Parlamento non si sono trovate le sponde necessarie, soprattutto in commissione giustizia. Il ministro Orlando poi ha avuto a cuore la riforma che ha preso il suo nome e non quella sull’ordinamento penitenziario. Occorre cambiare la filosofia sanzionatoria, bisogna intervenire sul sovraffollamento con una diversa logica sanzionatoria, prendere consapevolezza che la restrizione in carcere non sempre risolve. La detenzione deve essere strumento residuale”. Presente all’incontro anche Marisa Laurito che ha letto alcuni brani del libro “Un ambasciatore a Regina Coeli” dell’ex ambasciatore italiano di Buenos Aires, Claudio Moreno, in carcere per sei mesi da innocente e assolto dopo 14 anni. “Il carcere dà la misura - ha detto Moreno del non funzionamento del principio della riabilitazione del reo, affermato all’articolo 27 della Costituzione, a maggior ragione in presenza di un innocente. Si parla infatti di rieducazione del condannato, escludendo molte altre categorie che rappresentano la maggior parte della popolazione carceraria, cioè tutti quelli che sono in attesa di giudizio o peggio in carcerazione preventiva ancor prima del rinvio a giudizio. C’è poi il problema della carcerazione preventiva quando viene effettuata su vari indizi e solo su supposizioni senza riscontri, finendo per essere utilizzata da certi inquirenti come irresistibile mezzo di coercizione e di insostenibile pressione per ottenere prove che avrebbero dovute essere acquisite prima della decisione della custodia cautelare”. Le conclusioni sono state affidate a Beniamino Migliucci, presidente dell’Ucpi: “Il governo ha avuto paura di perdere consensi elettorali. Noi gli chiediamo di avere coraggio. La politica che non lo ha fa tristezza, non c’è nulla di peggio delle promesse non mantenute da parte dei politici, perché così si tradisce la fiducia dei cittadini; è sconcertante che sia passata l’idea sui mezzi di comunicazione che i ladri sarebbero usciti dal carcere, che questa riforma avrebbe pregiudicato la sicurezza: i politici avevano il dovere di dire ai cittadini che ciò non era vero”. Migliucci, quindi, ha ricordato alcuni dati che mostrano un quadro differente: per chi sta in carcere, la percentuale di caso di recidiva è del 70%, e scende al 30% per coloro che scontano la pena con misure alternative. Per chi lavora in carcere la recidiva è addirittura inferiore al 2%. Dopo 40 anni assistiamo al rifiuto di migliorare il sistema che sta di nuovo tornando alla situazione ante 2013: si sfora il numero di 58 mila detenuti”. P.S. Alla manifestazione delle Camere penali, che è stata conclusa dal discorso del presidente Migliucci, hanno partecipato molti avvocati, giuristi, magistrati. Politici pochini. C’era solo Rita Bernardini, che in questi anni ha lottato anima e corpo per la riforma, e Renata Polverini, che fa parte di un partito il quale, oltretutto, ha votato contro la riforma. Gli fa onore il suo impegno per i prigionieri. Tutti gli altri? Addirittura paura di farsi vedere? Riforma dell’ordinamento penitenziario. Antigone si appella al Capo dello Stato Ristretti Orizzonti, 14 marzo 2018 “Ci appelliamo alla saggezza, alla cultura sociale, istituzionale e politica del Capo dello Stato Sergio Mattarella perché faccia sentire la sua voce, alta e sopra le parti, affinché si possa far fare alla riforma dell’ordinamento penitenziario l’ultimo piccolo passo che manca per la sua approvazione. Una presa di posizione del Presidente della Repubblica risulterebbe decisiva, in questa fase in cui l’esito complessivo della riforma è nelle mani di un governo che non ha più una maggioranza parlamentare” a dirlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. La stagione delle riforme in campo carcerario aveva avuto nel messaggio alle Camere dell’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano un momento di elevato valore simbolico e istituzionale. “Gli auspici e le indicazioni contenute in quel messaggio - prosegue Gonnella - potrebbero essere portate a conclusione con quest’ultimo atto che la comunità penitenziaria, gli operatori della giustizia, gli operatori sociali e grande parte del mondo accademico stanno aspettando”. “Ci appelliamo inoltre al Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni perché non abbia timore - conclude il presidente di Antigone - di spiegare alle altre forze politiche quanto questa riforma sia necessaria per elevare gli standard di tutela dei diritti all’interno delle nostre carceri”. Flick: ergastolo “illegittimo” ed emergenza suicidi, allarme nelle carceri italiane di Matteo Giuliani internapoli.it, 14 marzo 2018 Lectio magistralis di Giovanni Maria Flick. Ergastolo, reclusione, morte negli istituti di pena e custodia cautelare: sono i quattro paradossi del carcere in Italia, spiegati a Roma dal presidente emerito della Corte Costituzionale e professore di diritto penale Giovanni Maria Flick nella lectio magistralis all’inaugurazione dell’anno accademico della scuola di specializzazione per le professioni legali dell’università Lumsa. Il primo paradosso del carcere è - secondo Flick - l’ergastolo: pena detentiva “per sempre” e in quanto tale illegittima, che, tuttavia, diventa legittima grazie alla presenza di istituti che, come la liberazione condizionale, consentono al condannato il recupero della libertà dopo un certo tempo e a certe condizioni. Secondo paradosso: la reclusione. Per quanto l’art. 27 della Costituzioni specifichi che “le pene” devono tendere alla rieducazione del condannato e non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, di fatto il ventaglio di pene maggiormente applicate resta limitato a due tipologie: la pena pecuniaria e la pena detentiva, ossia la privazione della libertà personale. Non prendendo adeguatamente in considerazione - ha sottolineato Flick - altri tipi di pena, come, ad esempio, la detenzione domiciliare o i lavori socialmente utili. Non solo: il nostro sistema è diventato affetto da strabismo, per cui con un occhio si guarda alla umanizzazione della pena, con l’altro occhio si largheggia nell’uso della pena del carcere. Tutto ciò porta inevitabilmente al sovraffollamento degli istituti carcerari: situazione drammatica, talvolta al di là della dignità umana, e limite alla rieducazione, che è l’obiettivo primario della detenzione in carcere. Terzo paradosso, secondo Flick, è che nelle carceri si continua a morire. Si muore per malasanità, spesso dovuta a carenza di assistenza in un contesto di sovraffollamento; si muore per “fuoco amico”, ossia per la violenza di altri detenuti; si muore per stress da adattamento (52 suicidi lo scorso anno); si muore anche per violenza da parte di chi è preposto alla custodia (Flick ha citato i fatti di Bolzaneto e il caso Cucchi). L’ultimo paradosso del carcere citato dal presidente emerito della Consulta è quello della custodia cautelare, utilizzata quasi come pena anticipata o tranquillante sociale e non come strumento da usare con extrema ratio. Di fronte a questi paradossi si è assistito di recente - ha detto Flick - a un risveglio culturale sul tema del carcere e dei suoi problemi: da quello dell’identità dei detenuti (stranieri, donne e minori) a quello della religione dietro le sbarre; dal lavoro, all’istruzione, all’affettività dei reclusi. Materie alle quali, tuttavia, si frappongono ostacoli legati ancora una volta al sovraffollamento, ad esigenze di sicurezza, all’interpretazione stessa delle leggi. Con una conclusione - secondo Flick - tutto sommato amara: in materia di carcere si è ancora prevenuti. E dominano una serie di paure: la paura generica dell’opinione pubblica di fronte a tutto ciò che è carcere; la paura del legislatore di prendere provvedimenti che verrebbero criticati e censurati come concessione di regali ai detenuti; la paura del governo, che, recentemente, non ha portato all’approvazione il decreto legislativo che introduceva alcune previsioni specifiche in materia di sanità carceraria, di accesso a misure alternative alla carcerazione e in materia di rapporti del detenuto con l’esterno. Provvedimenti che sono stati tutti fortemente criticati e che lasciano pensare - ha concluso Flick - che bisognerà aver pazienza e attendere qualche decina d’anni per raggiungere piccole conquiste che erano a portata di mano. La libertà di culto delle persone detenute di Stefania Sarallo articolo21.org, 14 marzo 2018 Intervista a Mauro Palma (Garante dei diritti dei detenuti, fondatore dell’associazione Antigone). Nella riforma dell’ordinamento penitenziario si punta sulla responsabilizzazione del soggetto detenuto e sulla ridefinizione delle misure alternative, seguendo il principio fondamentale della funzione rieducativa della pena. L’importanza della tutela della libertà religiosa all’interno del sistema carcerario. Lo scorso dicembre è stato approvato dal Consiglio dei ministri il decreto legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario. Abbiamo intervistato il professor Mauro Palma, presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale (un organismo indipendente in grado di monitorare, visitandoli, i luoghi di privazione della libertà), per raccogliere una sua opinione sul testo approvato e sul tema più specifico del diritto alla libertà religiosa del detenuto. Qual è la sua opinione sul tema delle religioni in carcere? Credo che si tratti di una questione attualmente centrale nel contesto dell’individuazione di strategie che attenuino le tensioni all’interno degli istituti penitenziari. Al contrario, mi sembra invece che i meccanismi con i quali vengono affrontate questioni come la radicalizzazione all’interno del mondo detentivo - un mondo chiuso e totalizzante - spesso inaspriscano la situazione. Il tema delle religioni ha una doppia valenza: da una parte può essere un’apertura a una riflessione non contingente e che rafforza il concetto stesso di responsabilità, dall’altro può costituire un’incentivazione all’appartenenza, soprattutto un potente elemento di sostegno di identità deboli a rischio e in tal caso le religioni rischiano di essere un veicolo del fondamentalismo. In fondo la religione può essere il luogo in cui ti trovi non per classe, non per censo ma per un “Altro” diverso da te cui fai riferimento. E proprio questo aspetto è strutturalmente ambivalente. Negli istituti carcerari italiani vedo pochissimi interventi positivi in materia, anche se non è ovunque uguale e negli ultimi anni si è registrata un’evoluzione positiva. Le religioni possono essere a volte elemento di maggiore consolidamento, in negativo, delle identità deboli e altre volte un elemento di rottura di questo elemento. Ultimamente una questione mi ha colpito fortemente: nelle sezioni del 41bis (il regime detentivo definito comunemente “carcere duro”, ndr), quando i detenuti entrano in contatto con persone esterne devono successivamente essere perquisiti. Nel domandare quali fossero le occasioni di perquisizione successive agli incontri con i ministri di culto, mi è stato risposto che per il cappellano non sono previste perché, a differenza degli altri ministri di culto, egli appartiene all’Amministrazione penitenziaria. Il cappellano è visto come parte dell’istituzione e la differenza con i ministri di culto delle altre religioni risulta evidente. Lo scorso 22 dicembre è stato approvato dal Consiglio dei ministri il decreto legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario elaborato dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Quali sono, a suo giudizio, i punti di forza e i limiti di tale atto? Il mio parere su questo decreto è positivo: il decreto introduce complessivamente delle cose importanti, basate su due elementi secondo me essenziali. Il primo è la responsabilizzazione della persona, che è il contrario della “passivizzazione”. Troppo spesso, infatti, consideriamo i detenuti come degli adulti retrocessi a bambini, con giudici e direttori di carcere che parlano dei loro “ragazzi”. La responsabilizzazione invece da un lato garantisce maggiore consapevolezza di ciò che si è commesso, perché la percezione del disvalore è un punto importante, dall’altro lato dà maggiore sicurezza, perché è possibile capire come una persona sia in grado di tornare positivamente al contesto sociale esterno solo se le viene data la responsabilità del proprio agire anche nella fase di permanenza in istituto, riuscendo così a comprendere le sue interazioni, la sua capacità di agire positivamente. Si hanno così elementi di comprensione degli aspetti positivi e negativi nel suo futuro reinserimento sociale, che non si hanno certamente se la si tiene chiusa, senza fare nulla. Il secondo elemento importante è nel ridefinire le misure alternative alla detenzione come tappe di un percorso che si svolge in fasi successive e crescenti e non considerarle come mere riduzioni dell’afflizione detentiva o addirittura come rinuncia al diritto/dovere dell’autorità statuale a esercitare la potestà penale. Questa ridefinizione delle misure alternative garantisce maggiormente rispetto alla garanzia di non ricommettere reati una volta che il soggetto è fuori. Questi sono, quindi, i due aspetti importanti del decreto: responsabilizzazione del soggetto in esecuzione penale e ridefinizione delle alternative come percorso di progressivo ritorno alla società, eliminando così una visione strettamente retributiva della pena. Detto questo, ci sono anche delle mancanze nel decreto, per esempio sul tema del mantenimento delle relazioni affettive con la propria famiglia. D’altra parte il Governo aveva presentato una legge di delega abbastanza ampia, il Parlamento l’ha ridotta nella sua ampiezza, le commissioni che hanno scritto il decreto e, quindi, il decreto stesso si muovono all’interno delle riduzioni. La questione inerente al diritto alla libertà religiosa del detenuto sembra essere rimasta ancora una volta fuori dai tavoli di lavoro… In realtà la legge delega, alla lettera “v” del comma 85, parla di: “Revisione delle attuali previsioni in materia di libertà di culto e dei diritti ad essa connessi”. Quindi c’è una delega che, a mio giudizio, è stata parzialmente esercitata. Quanto affermato, infatti, è poca cosa. Solo riaffermazioni di principio. Credo che sia dovuto al fatto che, come per la questione dell’affettività, il decreto è stato approvato prima della legge di bilancio e senza impegno di spesa, mentre nel testo si parlava della presenza di locali idonei per il culto e ciò avrebbe previsto dei costi. Quali domande e quali risposte legate all’assistenza religiosa per i diversi culti hanno preso forma all’interno del carcere e in che misura l’istituzione penale è consapevole di queste nuove domande che derivano dalla pluralizzazione dell’universo religioso intra-carcerario? Ce ne sono molte di domande, soprattutto là dove c’è una carcerazione più lunga e una situazione detentiva più isolata, più dura. Molto spesso vengono poste da membri di organizzazioni criminali. Sulle celebrazioni comuni di culto cattolico, non semplici in tali contesti, si registrano le soluzioni più disparate: nelle sezioni dove i detenuti hanno l’impossibilità di incontro al di fuori del gruppo maggiore di quattro, si va da situazioni in cui hanno fatto una cappellina dove possono assistere alla celebrazione di una messa a turno, in gruppi appunto di quattro, a quella in cui i detenuti rimangono in cella e il cappellano passa con un carrello e celebra la messa camminando, alla comunicazione di una celebrazione in “filodiffusione”. Quanto poi alle esigenze che provengono da fedeli di religioni diverse dalla cattolica, spesso, nelle situazioni più complesse, è ben difficile dare risposte positive. Sicuramente c’è, tranne qualche eccezione, rispetto per le tradizioni alimentari per i fedeli di religione islamica, così come per loro sono rispettati i turni di preghiera giornaliera. Stanze per la preghiera in senso generale ce ne sono per la religione islamica perché sono i musulmani a farne più richiesta, essendo spesso soggettivamente più osservanti. Tuttavia, in generale, le pratiche religiose non cattoliche spesso avvengono in ambienti unici, stanzoni “per tutti” o in alcuni casi vengono utilizzati gli stessi luoghi di culto cattolici, dati in prestito. Del resto presenze forti come aggregazioni, escludendo cattolici e islamici, ne vedo poche. Solo una volta mi è stato segnalato in senso positivo un operatore buddhista, mentre, per esempio, non ho mai incontrato ministri di culto induisti. I buddhisti del resto hanno un maggior radicamento sul territorio italiano, le loro associazioni volontarie si muovono e veicolano la loro filosofia. Negli ultimi anni la questione dei diritti religiosi dei detenuti di religione islamica è stata associata dal Dap al tema della sicurezza e, in particolare, della radicalizzazione. Per aumentare i controlli si è tentato di limitare l’aggregazione religiosa dei detenuti di fede islamica. Crede che sia una soluzione percorribile? Il primo modo di combattere la radicalizzazione è la normalità di una vita detentiva rispettosa delle regole, dei doveri e dei diritti dei detenuti: una istituzione che non riesce a dare un chiaro messaggio in tal senso, favorisce il senso di esclusione ed è terreno di coltura della radicalizzazione. Quest’ultima è certamente un rischio reale all’interno di un’istituzione totale, lì dove è facile che le persone ristrette si isolino e in molti casi divengano vulnerabili, a rischio di essere cooptati da altri soggetti più forti, soprattutto se privati di un forte sostegno educativo e sociale. I problemi legati alla radicalizzazione - e in particolare alla radicalizzazione verso l’estremismo violento - sono diversi. Un primo problema, a cui facevo precedentemente riferimento, è legato alla prevenzione del proselitismo rispetto a soggetti vulnerabili. Un secondo problema è costituito dalla gestione dei detenuti già radicalizzati e che, a volte, abbiano già commesso reati connessi proprio al loro radicalismo violento. Per gli uni e per gli altri, è necessario avviare dei percorsi di de-radicalizzazione. Altra questione è relativa alla comunicazione con l’esterno: come trasmettere le informazioni relative al percorso detentivo all’esterno, quando il detenuto finisce l’esecuzione della sua sanzione penale e viene rilasciato, in modo da poter monitorare il suo ritorno alla società. Problemi diversi, tenuti insieme però dal principio fondamentale che non è mai lecito intaccare la dignità della persona: gli interventi di osservazione, di prevenzione, di de-radicalizzazione, di trasmissione di informazione devono essere implementati in un contesto di assoluto rispetto dell’articolo 3 della Convenzione europea per i diritti umani, che non consente alcun trattamento contrario al senso di umanità e alla dignità della persona. Abbiamo recentemente pubblicato un breve testo, dal titolo “Norme e Normalità. Standard per l’esecuzione penale detentiva degli adulti”, che contiene le raccomandazioni che abbiamo fatto agli istituti nel corso di questo primo anno e mezzo di attività. Nel testo ci sono anche raccomandazioni relative alle sezioni dove sono ospitate persone radicalizzate o sotto attenta osservazione per comportamenti che hanno a che vedere con il rischio di radicalizzazione. Una delle raccomandazioni fondamentali che abbiamo formulato per tali sezioni è che ogni supervisione o controllo dei contatti, delle comunicazioni o delle visite a questi detenuti “rispetti il criterio di proporzionalità e gli standard nazionali e internazionali, così come stabilito dalle Linee guida per i servizi penitenziari e di probation sulla radicalizzazione e l’estremismo violento adottate dal Consiglio d’Europa e dalla Regola 24 delle Regole penitenziarie europee”. Come Garante nazionale, inoltre, ho ricordato poi in questo testo che “il migliore strumento per sconfiggere il rischio di radicalizzazione è la normale applicazione delle regole dell’istituzione nel rigoroso rispetto della dignità e dei diritti delle persone”. Da qui, quindi, la raccomandazione a “porre particolare attenzione al rispetto delle prescrizioni religiose relativamente all’alimentazione, non solo relativamente alla preparazione e alla distribuzione del vitto, sia nei tempi ordinati che in periodi particolari, ma anche ridefinendo i prodotti del sopravvitto in modo che includano anche eventuali alimenti preparati secondo le specifiche prescrizioni religiose”. Non punibile l’uso personale del cellulare di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 14 marzo 2018 Corte di cassazione - Sentenza 11378/2018. La particolare tenuità del fatto lascia impunito il reato di peculato - commesso dal dipendente di una società partecipata - per l’ uso personale del telefono di servizio. La Cassazione (sentenza 11378) respinge il ricorso del Pubblico ministero contro la scelta del Gup di applicare al dipendente di una società che aveva avuto in concessione dal comune i servizi cimiteriali, l’articolo 131-bis del Codice penale, considerando le chiamate limitate nel tempo e non lunghe. Il Pm chiedeva l’annullamento del verdetto, adottato in violazione proprio di quanto prescritto dall’articolo 131-bis, che taglia fuori dal suo raggio d’azione i reati abituali. Secondo la pubblica accusa, infatti, anche il reato continuato configura un’ipotesi di reato abituale e la causa di esclusione della punibilità non può essere dichiarata in caso di più reati legati dal vincolo della continuazione. La Suprema corte premette di aderire all’orientamento maggioritario, affermato dall’accusa, sui reati continuati come segnale di una devianza non occasionale, ma nega che sia questa l’ipotesi che si che si configura nella causa esaminata. I giudici, in considerazione della peculiarità del reato contestato, ritengono le condotte addebitate all’imputata, visto “l’unitario contesto spazio- temporale, nel quale si collocano” un’unica azione inscindibile. La Corte ricorda il principio consolidato in base al quale, è considerato peculato d’uso il reato commesso dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio, che utilizzi il telefono d’ufficio per scopi personali al di fuori di un ok preventivo e dei casi d’urgenza. Considerato che il peculato d’uso - ricorda il collegio - implica l’immediata restituzione della cosa, la valutazione va fatta sulle singole azioni, salvo che queste possano essere considerate non “separabili” “per l’unitario contesto spazio-temporale”. Per i giudici è questo il caso. Il telefono è stato usato per un periodo decisamente ristretto: le singole telefonate rientrano dunque in un’unica condotta, che esclude la continuazione. E anche l’offesa prodotta al bene giuridico protetto è particolarmente lieve. Quindi aveva ragione il Gup. Bancarotta: amministratore colpevole anche se è il commercialista a gestire la contabilità di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 14 marzo 2018 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 13 marzo 2018 n. 11053. Doppia stoccata della Cassazione in tema di bancarotta. La Corte con la sentenza n. 11053/18 ha sancito in prima battuta la responsabilità dell’amministratore di fatto in merito alla bancarotta documentale. La vicenda - L’imputato si era detto innocente contando sul fatto che ci fosse un commercialista a occuparsi della compilazione e gestione della contabilità. Ma sul punto la Cassazione è stata ferma nel ritenere che l’amministratore non possa “permettersi il lusso” di essere ignorante sulla gestione di carte decisive per il corretto andamento dell’azienda. E a tal proposito è stato ricordato come la bancarotta documentale proprio in funzione dell’impossibilità di poter ricostruire il patrimonio e il movimento di affari dell’impresa possa essere di due tipologie. E così si parla di bancarotta fraudolenta documentale quando ci sia un dolo specifico da parte dell’amministratore di muoversi in modo tale da impedire oggettivamente la ricostruzione patrimoniale (il tutto prevede un facere mirato alla distruzione o occultamento dei documenti). Viceversa si parla di bancarotta semplice ex articolo 217 della legge fallimentare quando l’amministratore - per semplice negligenza - non abbia ottemperato all’obbligo di tenere in ordine le scritture contabili obbligatorie per legge nei tre anni antecedenti alla dichiarazione di fallimento. Ora si legge nella sentenza la circostanza che l’amministratore abbia affidato a un professionista la gestione della contabilità disinteressandosene completamente perché a suo dire ignorante in materia è una circostanza che non lo esime affatto da responsabilità. L’imputato, infatti, può avere una culpa in eligendo per non aver scelto un professionista all’altezza, ma può avere anche una culpa in vigilando se abbia omesso di effettuare le verifiche su quanto gestito dal professionista. Da qui il principio di diritto secondo cui “l’imprenditore individuale o gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori di una società non vanno esenti da responsabilità per il fatto che le operazioni contabili siano state affidate a un commercialista o a un dipendente, dovendosi logicamente presumere anche per il principio del cui prodest, che i dati siano trascritti secondo le indicazioni suggerite nei documenti messi a disposizione dai predetti soggetti che restano, quindi, sempre, responsabili della tenuta di una regolare e veritiera contabilità”. Quando c’è distrazione - Secondo punto di estrema importanza affrontato dalla decisione riguarda la bancarotta fraudolenta per distrazione e, in particolare, quando si realizza. La Corte precisa che la fattispecie si qualifica per l’appunto in una distrazione, quindi in un’alienazione di beni con specifico valore economico e che l’operazione costituisca reale pregiudizio per i creditori della fallita. Nel caso, pertanto, di una cessione di un ramo d’azienda su cui il giudice di merito non abbia verificato la presenza di rapporti economici oltre che giuridici il reato non può dirsi integrato proprio per la mancanza di alienazione di un bene suscettibile di valutazione economica. In questo caso al giudice spetterà accertare la presenza di distrazione economicamente rilevante con pregiudizio per i creditori. La crisi di liquidità dell’imprenditore non giustifica l’omesso versamento Iva di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 14 marzo 2018 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 13 marzo 2018 n. 11035. L’omesso versamento Iva anche a processo iniziato se non supera l’importo di 250mila euro non assume rilevanza penale. La Cassazione con la sentenza n. 11035/18 ha riconosciuto il favor rei previsto dall’articolo 8 del Dlgs 158/2015 che ha modificato l’articolo 10 ter del Dlgs 74/2000 nel senso di attribuire rilevanza penale, elevando il precedente limite, unicamente alle condotte di omesso versamento dell’imposta per un ammontare superiore a 250mila euro per ciascun periodo d’imposta. Il principio del favor rei - Nel caso concreto poiché l’ammontare non versato a titolo di Iva per il 2008 era pari a 221mila euro non poteva essere riconosciuta una rilevanza penale alla condotta. Su un fronte più generale, invece, si legge nella sentenza che il contribuente non può invocare l’impossibilità di fare fronte al debito tributario per insufficienti liquidità. Nel caso concreto la società aveva eccepito come l’inadempimento fosse derivato dal mancato incasso di numerosi crediti vantati con soggetti terzi. Sul punto la decisione, tuttavia, ha precisato che perché il contribuente non abbia una responsabilità civile o penale a seconda del quantum non versato deve dimostrare di essere stato costretto all’inadempimento da una causa di forza maggiore. Il reato in questione viene chiarito è punibile a titolo di dolo generico e consiste nella coscienza e volontà di non versare all’Erario le ritenute effettuate nel periodo considerato, non essendo richiesto che il comportamento illecito sia dettato dallo scopo specifico di evadere le imposte. Onere dell’imprenditore - Quindi l’imprenditore deve dimostrare che non sia stato altrimenti possibile reperire le risorse economiche e finanziarie necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di un’improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e a egli non imputabili. In conclusione nella decisione viene ricordato come anche in passato la Cassazione abbia puntualizzato e al tempo stesso escluso che le difficoltà economiche in cui versa il soggetto agente possano integrare la forza maggiore penalmente rilevante. Vicenza: riforma delle carceri, legali in sciopero Corriere del Veneto, 14 marzo 2018 Secondo giorno di sciopero degli avvocati vicentini, oggi, per protestare contro la mancata riforma dell’ordinamento penitenziario. Due giorni di astensione dalle udienze, ieri e oggi appunto, indetti dall’Unione delle Camere Penali Italiane, “per non lasciar cadere nel nulla il decreto legislativo adottato il 22 dicembre scorso”. Una protesta, spiegano i legali berici, “contro quella colpevole disinformazione che ha presentato la riforma come una “svuota carcere” creando timore e confusione in un’opinione pubblica che giustamente chiede sicurezza ma non trova risposte adeguate”. E per questa mattina, dalle 11 alle 12, la Camera penale vicentina con presidente Rachele Nicolin ha organizzato un presidio, davanti al carcere di Vicenza, “volto a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità del completamento della riforma sull’ordinamento penitenziario”. Un’iniziativa, questa, che si svolgerà contemporaneamente anche davanti alle carcere di altre città venete. Brescia: avvocati in sciopero “approvate subito la riforma Orlando” di Lilina Golia Corriere di Brescia, 14 marzo 2018 Astensione dalle udienze e sciopero della fame. “Bisogna incentivare le misure alternative alla detenzione”. Ma soprattutto, affermano gli avvocati della Camera penale di Brescia, “va approvato il decreto previsto in materia penitenziaria dalla riforma Orlando”. Il timore è che non si trovi modo, prima che si insedi il nuovo Governo, di definire quanto rimasto in sospeso. Dal carcere di Verziano - “luogo simbolo della protesta, sostenuta dalla direzione del carcere e dal Garante dei detenuti”, spiega Andrea Cavaliere, presidente della Camera penale di Brescia - parte la due giorni di sciopero (ieri e oggi), ma anche l’appello “perché si metta mano alla riforma, per garantire condizioni di civiltà a chi deve scontare una pena - dice Eustacchio Porreca, presidente della Camera penale della Lombardia Orientale - per tutelare la dignità dei detenuti e permettere loro di mettere a frutto l’esperienza del carcere”. L’attenzione si sofferma sulla necessità del recupero della funzione rieducativa della pena. “Se si continua a vedere il carcere come una discarica sociale e non si offre un adeguato percorso di recupero, esiste un pericolo di recidiva che arriva al 40% per chi esce dal carcere”, spiega Gianluigi Bezzi, dell’Osservatorio Carcere. E “dare al giudice di sorveglianza la facoltà di decidere se concedere le misure alternative - precisa Stefania Amato, consigliere della Camera penale di Brescia - non vuol dire attuare un decreto svuota carceri. L’idea di fondo è “meno carcere, meno recidiva”, alla luce anche dei dati del Viminale che evidenziano il calo dei delitti”. L’appello trova il sostegno dell’onorevole Pd Alfredo Bazoli, membro della commissione Giustizia della Camera. “Questa riforma garantisce più sicurezza e assicura che ogni condannato sconti la sua pena, offrendo un range di soluzioni che va oltre la scelta tra detenzione e sospensione condizionale. Spero in un colpo di scena e che si arrivi all’approvazione”. Bergamo: protesta degli avvocati per lo stop alla riforma Orlando Corriere di Bergamo, 14 marzo 2018 “Più sicurezza con le pene alternative”. Oggi nella Bergamasca ci sono 557 persone condannate che stanno scontando la pena fuori dal carcere e altre 596 che hanno chiesto di farlo. Ma non è uno scandalo: “Se una persona trascorre in prigione la sua pena, commette di nuovo reati nel 69,4% dei casi, mentre tra chi ha accesso a forme alternative la recidiva è solo del 19%”. Il calcolo è dell’avvocato Monica Di Nardo, presidente della Camera penale di Bergamo, che con i suoi colleghi ha proclamato uno sciopero contro lo stop alla riforma Orlando che semplifica le norme di accesso alle misure alternative. “Purtroppo i partiti vincitori delle ultime elezioni sono contrari, dicono solo: chi sbaglia paga - continua Di Nardo. Ma se conoscessero i dati sarebbero d’accordo con la riforma. Chi sbaglia deve pagare, ma se non gli si fa capire l’errore non si fa altro che parcheggiare il problema del delinquente. Mentre se gli si insegna un lavoro gli si tolgono ragioni per delinquere ancora. È nell’interesse di tutti”. A Bergamo vengono aperti tremila fascicoli l’anno. In questo momento ci sono 557 persone con affidamento in prova o messa alla prova, 148 ai domiciliari e 167 impegnati in lavori di pubblica utilità. Poi ci sono imputati con pene sotto i 4 anni che hanno chiesto l’accesso alla messa alla prova. Lucca: avvocati in sciopero per la riforma dell’Ordinamento penitenziario luccaindiretta.it, 14 marzo 2018 Gli avvocati penalisti lucchesi hanno aderito in massa alla astensione nazionale proclamata dall’Unione delle camere penali italiani “in quanto - spiegano i promotori - è fonte di preoccupazione di tutta l’avvocatura la decisione del Consiglio dei ministri del 22 febbraio che ha sostanzialmente rinviato l’approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario a dopo le elezioni”. “In tal modo, infatti - spiegano gli avvocati lucchesi - si pone a rischio l’effettiva realizzazione di una riforma fondamentale nell’ambito dell’esecuzione penale e dell’ordinamento penitenziario che ha creato grandi e giustificate aspettative di adeguamento del sistema ai principi costituzionali che finalmente vedeva tornare, dopo oltre quaranta anni, la centralità al principio di rieducazione e reinserimento sociale del condannato nella legislazione penale nella luce dei principi affermati dalla Costituzione Italiana. Il continuo sovraffollamento delle carceri e le conseguenti condizioni di vivibilità continuano a diminuire rendendo di fatto impossibile ogni forma di trattamento e di effettiva tutela della dignità del detenuto. Dato quanto mai allarmante tenuto conto che in media 55 detenuti l’anno tentano il suicidio”. Gli avvocati della Camera Penale di Lucca durante il primo giorno di astensione hanno convocato una assemblea degli iscritti in cui ancora una volta è stato affrontato il problema del carcere San Giorgio di Lucca, del suo sovraffollamento e delle condizioni logistiche in cui versa tutta la struttura carceraria in cui non vivono solo i detenuti ma anche la polizia penitenziaria sempre più duramente colpita dai continui tagli alla spesa. “Una spinta verso la risocializzazione dei detenuti - dicono dalla Camera Penale - deve essere fatta anche nel carcere di Lucca in quanto secondo l’avvocatura una mera detenzione senza lo svolgimento delle attività lavorative e di insegnamento di un lavoro non porta altro che ad un facile rientro degli ex detenuti negli istituti carcerari. A tal fine la Camera Penale di Lucca ha in programma una ispezione già autorizzata da parte dei componenti del proprio Osservatorio Carcere, inoltre, in collaborazione con il Miur, ha intenzione di organizzare una visita per gli studenti delle quinte classi delle scuole superiori affinché i ragazzi possano prendere coscienza della realtà carceraria che sempre più spesso pare un “buco nero” di cui la società non si vuole occupare. Per il direttivo della Camera Penale questo rappresenta un progetto importante verificato che l’età media dei detenuti di Lucca che si aggira intorno ai 27 anni di età e pertanto i ragazzi potranno verificare con i loro occhi le condizioni di vita dei giovani detenuti”. Cremona: stallo riforma carceri “si alle misure alternative, efficaci per rieducare” Sara Pizzorni Cremona Oggi, 14 marzo 2018 Processi penali saltati, ieri e oggi, per il “congelamento” della riforma dell’ordinamento penitenziario. L’astensione è stata proclamata dall’Unione delle Camere Penali a cui aderisce la Camera Penale di Cremona e Crema “Sandro Bocchi” che ha indetto per oggi anche una giornata di sciopero della fame alla quale hanno aderito anche gli esponenti del Partito Radicale Sergio Ravelli, Gino Ruggeri, Ermanno de Rosa e Tommaso Caracappa. Questa mattina, anche a Cremona, come è successo nelle città del distretto Bergamo, Brescia e Mantova, all’interno del carcere è stata organizzata una conferenza stampa alla quale hanno partecipato gli avvocati Maria Luisa Crotti, presidente della sezione di Cremona e Crema della Camera Penale, Alessio Romanelli, in rappresentanza del consiglio direttivo, e Micol Parati, delegata alla Commissione carcere. “Ciò che non è in discussione”, ha subito chiarito la presidente Crotti, “è che la pena sia certa. Ma deve essere anche una pena efficace. Un modo essenziale, questo, sempre rispettando la Costituzione, per far riabilitare le persone e quindi renderle meno pericolose una volta reinserite nella società. Era a questo che puntava la riforma che non è entrata in vigore”. “La pena certa ed efficace”, ha insistito la presidente Crotti, “è quella che rieduca, non va bene sempre il carcere”. “L’aver organizzato questa conferenza qui in carcere ha anche un valore simbolico”, ha detto a sua volta l’avvocato Romanelli, che ha ringraziato la direttrice Maria Gabriella Lusi per aver trasmesso al Ministero questa richiesta da parte dei rappresentanti della Camera Penale. “Ovviamente valutando caso per caso e decidendo se esista la possibilità di usufruire o meno di una misura alternativa, bisogna far sì che la pena abbia una finalità rieducativa”. Più carcere, infatti, non vuol affatto dire meno reati. Anzi. Come ha ricordato l’avvocato Parati, il 67% dei detenuti che hanno visto solo il carcere è risultato recidivo, mentre lo è stato solo il 19% di coloro che invece hanno potuto usufruire di misure alternative. “Non si tratta di buonismo”, ha precisato la presidente Crotti, “ma di studi seri da cui risulta che le alternative al carcere sono efficaci. Qui si parla non solo del futuro dei detenuti, ma del futuro della società”. Un’altra considerazione che induce alla riflessione è arrivata dall’avvocato Parati che ha ricordato il problema dell’affollamento carcerario. “Tra il 2011 e il 2012 la situazione era drammatica, tanto che è pure arrivata una condanna da parte dell’Europa. Poi c’è stata la legge svuota carceri, ma già dall’anno scorso è stato registrato un numero di 3000 detenuti in più all’anno. Se si va avanti così, nel 2020 torneremo alla situazione del 2011. Senza contare che per i detenuti spendiamo 130/140 euro al giorno”. “Bisogna optare per misure alternative”, hanno concluso la presidente Crotti e l’avvocato Romanelli, “come i lavori di pubblica utilità, o i lavori all’interno del carcere. Misure che non vengono certo regalate, ma che bisogna meritarsi. Noi non perdiamo la speranza”. Belluno: avvocati fermi due giorni, presidio Cgil nelle carceri Corriere delle Alpi, 14 marzo 2018 Gli avvocati si tolgono la toga. Due i giorni di sciopero, meglio astensione, proclamati dall’Unione Camere Penali: oggi e domani. Le aule del tribunale di Belluno potrebbero ritrovarsi senza difese: “È il nostro modo di protestare contro la mancata riforma dell’Ordinamento penitenziario”, spiega il presidente bellunese Marco Cason, “il nostro modo per chiedere al Governo di non lasciar cadere nel nulla il decreto legislativo adottato il 22 dicembre scorso”. Si discute della riforma, che era arrivata a un passo dal varo definitivo con l’approvazione dello schema di decreto legislativo e che adesso rischia una definitiva battuta d’arresto a causa della fine della legislatura: “Negli anni passati, abbiamo più volte fatto sentire la nostra voce contro il sovraffollamento delle carceri, per difendere la dignità di chi non ha voce. Crediamo che lo Stato abbia il diritto e il dovere di giudicare e condannare, ma non può mai togliere la dignità a colui che è stato condannato. Proviamo rabbia e vergogna di fronte alle condanne della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, perché siamo convinti che la civiltà di un paese si misura dalle sue carceri”. Le Camere Penali raccolgono l’adesione del sindacato Cgil Funzione pubblica. Nella giornata di domani, ci sarà un presidio davanti alle case circondariali della regione, compresa quella cittadina di Baldenich: “Siamo convinti che l’ordinamento penitenziario debba essere aggiornato e reso più aderente al mandato costituzionale, in maniera da favorire l’effettività di un trattamento volto al reinserimento sociale e alla contestuale attenzione alla vittima del reato”, si legge in un comunicato, “La battuta d’arresto subita dalla riforma, dopo il grande lavoro svolto dagli stati generali, segna la perdita di un’importante occasione di aggiornamento del nostro sistema dell’esecuzione penale, che non può essere ostacolato da preoccupazioni elettorali”. Salerno: avvocati in sciopero “ridotti i colloqui con i detenuti” La Città di Salerno, 14 marzo 2018 Le istanze locali si affiancano alle motivazioni nazionali nell’astensione che oggi e domani vede i penalisti salernitani incrociare le braccia. Ieri mattina, nell’assemblea convocata dal presidente Michele Sarno, gli avvocati della Camera penale hanno discusso della protesta nazionale per la mancata approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario ma anche di alcuni problemi registrati nel carcere di Fuorni e, ancora, nelle organizzazione delle udienze nel vecchio tribunale e nella cittadella giudiziaria. Riguardo alla gestione della casa circondariale è stata lamentata una contrazione del numero di colloqui tra detenuti e avvocati. Per le udienze si segnala che il protocollo con la scansione degli orari non sempre è rispettato e che la previsione di tempi differenziati per il trasloco di Corte d’appello e Tribunale nella nuova cittadella rischia di creare problemi agli avvocati, costretti a “sdoppiarsi”. Sui temi dell’astensione nazionale l’Unione delle Camere penali ha fissato per oggi a Roma un convegno manifestazione. “Il principio costituzionale volto alla rieducazione e al reinserimento sociale rischia di restare ancora una volta inattuato - spiegano i penalisti - Serve una tempestiva inversione di rotta”. Torino: carceri, avvocati in protesta a difesa dei diritti costituzionali giornalelavoce.it, 14 marzo 2018 “La nostra non è una protesta corporativa. Difendiamo principi sanciti dalla Costituzione. E vogliamo che la cittadinanza sia informata correttamente”. Così il presidente della Camera penale del Piemonte occidentale, Roberto Trinchero, ha illustrato, a Torino, i motivi dell’astensione dalle udienze proclamata a livello nazionale dall’Ucpi per la mancata approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario. “Se il governo non ha approvato i decreti delegati dopo tutto il lavoro di questi anni - ha spiegato Trinchero - è per ragioni elettorali: c’erano parti politiche che spingevano in senso contrario, evocando inesistenti norme svuota-carceri o sconti ai delinquenti. E allora è mancato il coraggio. Ha prevalso il timore di andare contro un’opinione pubblica male informata. Ma noi non possiamo condividere questo atteggiamento”. “Lo spirito della riforma - spiegano alla Camera penale - è semplicemente dire ‘più pene alternativè rispetto al carcere; favorendo, inoltre, i percorsi che conducono al recupero del condannato e al suo reinserimento nella società. Non ci sono regali ai detenuti. Ed è una riforma resa necessaria dalle condanne inflitte all’Italia dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo per la situazione dei penitenziari”. Davide Mosso, dell’Osservatorio carceri dell’Ucpi, ha affermato che le polemiche di questi mesi “sono sganciate dalla realtà. Un solo esempio: a uno degli articoli della legge in vigore, che risale al 1975, si è soltanto aggiunto che il trattamento del condannato o dell’internato si avvale della formazione professionale e della partecipazione a progetti di pubblica utilità. È questa la rivoluzione che fa tanta paura?”. Catania: i penalisti incrociano le braccia, ecco i motivi della protesta di Laura Distefano livesicilia.it, 14 marzo 2018 Astensione dalle udienze per protestare contro la mancata riforma dell’ordinamento penitenziario. I penalisti catanesi, come quelli di tutta Italia, oggi hanno aderito allo sciopero indetto dalle Camere Penali contro la mancata riforma dell’ordinamento penitenziario. Oggi al Tribunale di Catania si sono svolte, dunque, le udienze con imputati detenuti mentre gli altri processi hanno subito un rinvio. Sono due i giorni di astensione, oggi e domani. La protesta è stata deliberata il 23 febbraio scorso dalla Giunta dell’Unione delle Camere Penali (Ucpi). I penalisti hanno incrociato le braccia per manifestare il dissenso per “la mancata attuazione da parte del Governo dei decreti attuativi della delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario, “ultimo tassello della riforma Orlando (Legge n. 103/2017) che il Governo Gentiloni non è riuscito ad approvare”. “Nonostante le reiterate rassicurazioni del Ministro della Giustizia Orlando e del Presidente del Consiglio Gentiloni circa la volontà politica e la sussistenza dei tempi tecnici e delle condizioni per approvare in tempo la riforma entro la fine della legislatura - si legge nel comunicato dell’Unioni Camere Penali - il ministro della Giustizia Orlando ed al Presidente del Consiglio Gentiloni “hanno dimostrato la propria debolezza, facendo di fatto prevalere i propri timori in tema di consenso elettorale, rispetto alla concreta realizzazione delle condivise scelte valoriali che avevano determinato l’approvazione della delega da parte del Parlamento e la susseguente convocazione degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale e la istituzione dei Tavoli per la elaborazione dei decreti attuativi, con il contributo di oltre 200 giuristi”. I penalisti alzano i riflettori sul tema delle carceri: in particolare sul sovraffollamento e sulle condizioni di vivibilità ridotte al minimo. “Condizioni che rendono di fatto impossibile ogni forma di trattamento e di effettiva tutela della dignità del detenuto”, si legge nella nota delle Camere Penali. Lecce: mancata riforma delle carceri, due giornate di astensione per i penalisti lecceprima.it, 14 marzo 2018 Anche la Camera penale di Lecce ha aderito all’astensione dalle udienze penali, per i giorni del 13 e 14 marzo. La Camera penale di Lecce aderisce all’astensione dalle udienze penali, indetta dall’Unione camere penali italiane per il 13 e 14 marzo 2018. Una protesta con cui i penalisti italiani esprimono il proprio sconcerto per il comportamento del Governo uscente, che per ragioni elettorali non ha approvato la riforma dell’ordinamento penitenziario, frutto del lavoro degli avvocati, dei magistrati e del mondo accademico e pronta per essere adottata. L’Ucpi pone all’attenzione dei nuovi parlamentari il tema di una nuova esecuzione penale, rispettosa dei diritti dei detenuti ed in linea con le indicazioni dell’Unione europea, che già nel 2013 ha sanzionato l’Italia. In particolare, la riforma prevede norme specifiche a tutela delle donne e madri detenute, condizioni detentive più umane, incentivazione del volontariato dei soggetti detenuti, semplificazione dell’accesso alle misure alternative alla detenzione, che se approvate porrebbero l’Italia all’avanguardia in tema di diritti umani e civiltà giuridica. “È inaccettabile - sostengono i penalisti - che la finalità rieducativa della pena venga sistematicamente sacrificata dalla politica, sensibile solo al populismo imperante, a presunte esigenze di sicurezza, smentite dai dati del ministero della Giustizia, secondo cui in Italia, nel 2017, i reati sono diminuiti. Gli avvocati penalisti, dunque, si battono e si sacrificano, ancora una volta, per i diritti di tutti e per i principi di civiltà giuridica sanciti nella nostra Costituzione”. Rovigo: Fp-Cgil “le priorità sono diritto alla salute e lavoro per i detenuti” Rovigo Oggi, 14 marzo 2018 La nota di Fp-Cgil traccia le linee guida di quella che dovrà essere l’attività del nuovo esecutivo in tema di giustizia e riabilitazione. Un intervento del sindacato Fp Cgil, che rappresenta anche i lavoratori della polizia penitenziaria, al centro della vicenda, che spiega le priorità alle quali dovrebbe attenersi il prossimo esecutivo per realizzare una positiva riforma dell’ordinamento penitenziario “Fp Cgil è stata fra i promotori degli Stati generali dell’esecuzione penale e ha partecipato attivamente alle loro commissioni. Quale organismo che rappresenta i lavoratori del settore ha continuato l’interlocuzione col ministro della Giustizia e con la cittadinanza attraverso due campagne informative: #dentroametà, del 2016, realizzando numerose clip sul lavoro in carcere e #fuoriametà del 2017 che ha prodotto tre video informativi sull’ esecuzione penale al di fuori delle mura e le misure alternative”. Lo ricorda la nota stampa del sindacato. “Siamo convinti che l’ordinamento penitenziario del 1975 debba essere aggiornato - prosegue la nota - e reso più aderente al mandato costituzionale, in maniera da favorire l’effettività di un trattamento volto al reinserimento sociale e alla contestuale attenzione alla vittima del reato. La battuta d’arresto subìta dall’azione di riforma, dopo il grande lavoro svolto dagli stati generali, segna la perdita di un’importante occasione di aggiornamento del nostro sistema dell’esecuzione penale che non può essere ostacolato da preoccupazioni elettorali”. Il riferimento è al decreto che non è stato possibile emanare prima delle elezioni politiche dello scorso 4 marzo. “Le misure contenute nel decreto di riforma dell’ordinamento penitenziario - prosegue infatti l’analisi del sindacato - sono importanti in quanto garantire il diritto alla salute del detenuto e maggiori opportunità di lavoro e di reinserimento per le persone in esecuzione penale produce una minor recidiva e garantisce quindi maggior sicurezza ai cittadini”. “Incrementare l’esecuzione penale esterna - continua quindi il sindacato - richiede tuttavia un forte investimento sul versante delle professionalità impegnate in questo settore e la disponibilità di risorse da condividere con gli enti territoriali per la realizzazione dei progetti di reinserimento e dei percorsi di riparazione a favore delle vittime del reato”. Forlì: un rosario davanti al carcere per sostenere la riforma penitenziaria di Piero Ghetti forlitoday.it, 14 marzo 2018 “La riforma - precisa Loris Fantini, presente alla recita del Rosario mariano - non contiene nessun afflato buonista, nessuna “liberatoria” per pericolosi delinquenti - tanto meno per mafiosi e terroristi”. Una decina di esponenti della Comunità Papa Giovanni XXIII si ritroveranno mercoledì mattina, davanti al carcere di Forlì, in via Della Rocca, per recitare un rosario in solidarietà con i tanti detenuti che in questi giorni, in tutt’Italia, stanno facendo lo sciopero della fame per chiedere che venga approvata la legge sulla riforma penitenziaria. “Il cammino della legge di cui al decreto legislativo adottato il 22 dicembre 2017 - si legge in un appello sottoscritto da Associazione italiana dei professori di diritto penale, Associazione tra gli studiosi del processo penale, Unione Camere penali italiane, Consiglio Nazionale Forense, Magistratura democratica, Area democratica per la giustizia, Associazione Antigone, Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia - rischia di avere una definitiva battuta di arresto. Ci rivolgiamo con forza al Governo perché, mantenendo fede all’impegno assunto ed esercitando almeno nella sua parte fondamentale la delega conferita con la legge n. 103/17 votata dal Parlamento, approvi in via definitiva, pur dopo le elezioni politiche, la riforma dell’ordinamento penitenziario, riportando l’esecuzione penale entro una cornice di legalità costituzionale e sovranazionale dopo le umilianti condanne europee. La riforma rappresenta niente più che il rifiuto, ideale prima ancora che giuridico, di presunzioni legali di irrecuperabilità sociale, dal momento che nessuna pena deve rimanere per sempre indifferente all’evoluzione personale del condannato, ed affida alla magistratura, cui per legge è assegnata istituzionalmente la realizzazione del finalismo rieducativo dell’art. 27 della Costituzione - la magistratura di sorveglianza - la piena valutazione sulla meritevolezza delle misure alternative e il bilanciamento degli interessi in gioco”. La mancata approvazione della riforma, votata solo dalla Camera, offuscherebbe quella “messa a punto costituzionale” del sistema penitenziario che, a quarant’anni dall’ultimo organico intervento, impone lo spostamento del baricentro dell’esecuzione penale verso le sanzioni di comunità, accompagnato dalla selettiva rimodulazione dei presupposti per la concessione delle stesse e delle modalità per assicurare l’effettività del rispetto delle prescrizioni imposte. “Crediamo - continua il comunicato congiunto delle associazioni firmatarie dell’appello, che prendono le difese degli oltre 10.000 detenuti ristretti nelle 190 carceri italiane - che solo in questo possa consistere la “certezza della pena”, che nella sua effettività rieducativa e nell’efficace abbattimento della recidiva, statisticamente dimostrato, è l’unica ragionevole risposta ad un’opinione pubblica confusa e impaurita dal clima di insicurezza alimentato, troppo spesso, dagli organi dell’informazione”. “La riforma - precisa il cesenate Loris Fantini, presente alla recita del Rosario mariano - non contiene nessun afflato buonista, nessuna liberatoria per pericolosi delinquenti - tanto meno per mafiosi e terroristi, nessun insensato ed indulgenziale svuota-carceri: semmai preserva la comunità da gravi forme di recidiva criminale attraverso la proposta di un impegnativo cammino di rientro rivolta a chi voglia e sappia intraprenderlo. È per questo che chiediamo che l’impegno di varare la riforma sia mantenuto, perché uno Stato il quale sa offrire una speranza alle persone che ha legittimamente condannato deve concedere loro l’opportunità di diventare buoni cittadini e rendere così un utile servizio alla collettività intera”. “Chiediamo - conclude il comunicato - di non far cadere nel nulla la riforma delle misure di sicurezza personali, secondo le indicazioni espresse dal Parlamento nella legge delega: una riforma a sua volta in grado di recare un rilevante contributo di civiltà in un settore dell’ordinamento penale nel quale pure sono in gioco diritti fondamentali dell’uomo”. Cuneo: il 41bis torna al Cerialdo “non c’è trattamento del detenuto” targatocn.it, 14 marzo 2018 Critiche le posizioni che Maria Brucale e Bruno Mellano hanno tenuto ieri (13 marzo) all’incontro di riflessione sul carcere speciale: al Cerialdo sono intanto attesi i primi 21 detenuti. Si è parlato di 41bis (a seguito dell’imminente ritorno all’interno del carcere di Cuneo) nel corso dell’incontro tenutosi nel pomeriggio di ieri, martedì 13 marzo, nella sala Giolitti della provincia di Cuneo. Presenti in veste di relatori Maria Brucale (avvocato penalista esperta di carcere speciale e membro del cd dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”) e Bruno Mellano (garante dei detenuti della Regione Piemonte). Presente anche il vicesindaco Patrizia Manassero. Bruno Mellano ha aperto la discussione: “Da tempo volevamo approfondire il tema e la riapertura del padiglione del Cerialdo ci ha permesso di farlo. La chiusura delle sezioni speciali era stata fatta in vista di interventi strutturali e con l’ottica del riuso: avrei però preferito una destinazione diversa dal 41bis, perché questo tipo di carcere speciale pone in essere ostacoli di livello costituzionale.” “In questi giorni è atteso l’arrivo dei primi 21 detenuti - ha sottolineato ancora Mellano. Il Cerialdo mette in campo progetti significativi con la cittadinanza che il 41bis, “carcere dentro il carcere”, non ostacolerà; è certo però che la sua esistenza condiziona la vita di qualunque istituto”. Ha preso quindi la parola la dottoressa Brucale. “Il senso del 41bis era recidere il legame tra i capimafia e i loro sodali: doveva essere soluzione temporanea ma con il tempo ha perso il proprio scopo originario. Il 41bis è diventato il regime dei “più cattivi”, che devono essere i “più puniti”. Ogni tipo di carcerazione dovrebbe puntare al reinserimento e non dimenticare il senso di umanità”. L’avvocato Brucale ha poi sottolineato le specifiche della circolare inviata lo scorso ottobre dal Capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ai provveditori regionali, che pur non aprendosi alla questione dei diritti del detenuto speciale ha permesso il raggiungimento di una sostanziale parità di trattamento negli istituti di pena che lo ospitano. La circolare regola la vita dei detenuti in 41bis (per esempio) dalle dimensioni delle pentole e del mobilio alla natura degli oggetti personali, al numero e alle dimensioni delle fotografie. Il detenuto in 41bis non può spendere più di 500 euro mensili e 150 settimanali e non può inviarne più di 350 alla famiglia al mese. Le visite non possono sussistere più di una volta al mese e per più di un’ora ciascuna, e sempre attraverso un vetro divisorio (a meno che i visitatori abbiano età inferiore ai 12 anni). I detenuti non possono acquistare quotidiani al di fuori di quelli nazionali, prendere in prestito dalla biblioteca del carcere più di quattro libri al mese e non possono utilizzare computer personali. “Quel che colpisce del 41bis è il silenzio profondo dei padiglioni: nessuno può parlare con i detenuti, le cui interazioni tra vicendevoli sono molto limitate - ha concluso la Brucale. Bisogna decidere da che parte stare, se quella della Costituzione oppure quella di uno Stato che decide di farsi Dio”. A margine dell’incontro è stata illustrata una tabella a carattere regionale con riportata la presenza degli ergastolani (non dei soli in regime di 41bis) nelle carceri: la nostra provincia ne vede un totale di 38, presenti per la maggior parte (37) nel “Rodolfo Morandi” di Saluzzo. Santa Maria Capua Vetere (Ce): rete idrica da 2 milioni per il carcere di Luella De Cianmpis Il Mattino, 14 marzo 2018 La Regione Campania ammette a finanziamento il progetto di costruzione di una condotta idrica a servizio della casa circondariale, “Generale Giuseppe Uccella”, di Santa Maria Capua Vetere e delle sue aule bunker, per un impegno di spesa complessivo di 2.190.000 euro. Il provvedimento mette la parola fine alla questione assai controversa del carcere che, nel corso degli anni, è stato oggetto di forti contrasti in ambiti istituzionali, politici e sindacali, perché, la mancanza di una rete idrica con accesso all’acqua corrente, già dal 1996, anno di apertura della struttura, ha creato problemi di gravissima carenza di acqua, per 21 anni consecutivi, durante il periodo estivo. Nel mese di agosto del 2016 fu sottoscritto un protocollo d’intesa tra gli organi regionali e il sindaco del comune della provincia casertana, Antonio Mirra, per la realizzazione della condotta idrica, decisamente necessaria, a causa della mancanza di una rete autonoma che soddisfacesse le reali necessità del carcere. Si parla di una “cittadella carceraria” che ha una capienza di 883 unità, nella quale il progetto di costruzione originario non ha tenuto conto dell’allacciamento dell’acqua, alla cui carenza, la direzione dell’istituto ha sopperito con l’utilizzo di pozzi artesiani, che ne consentono l’utilizzo razionato e intermittente. Questo comporta la necessità di ricorrere a turnazioni per le docce dei detenuti e non esonera dalle sospensioni improvvise di acqua nel corso della giornata. Sulla questione, in varie fasi, oltre ai rappresentanti del Partito Democratico e dei 5Stelle, sono intervenute le organizzazioni sindacali, chiedendo l’intervento dei Ministeri della Giustizia, delle Infrastrutture e dell’amministrazione, per risolvere l’incresciosa questione, che ha, tra l’altro, un’urgenza di carattere igienico-sanitario, che non coinvolge solo i detenuti, ma anche la polizia penitenziaria, che vive per molte ore al giorno all’interno del carcere. Si diceva che si parla di ima “cittadella carceraria”, con una sezione scolastica, due aule bunker, utilizzate per i maxi processi e per i collegamenti in video conferenza con altre strutture di detenzione, che attualmente ospita 940 detenuti, nono-stante abbia una capienza di 833 posti, suddivisi in otto reparti, che comprendono una sezione femminile, per detenute in regime di alta sicurezza, il reparto Nilo che ospita, tra l’altro, un’articolazione sanitaria per l’osservazione e l’accertamento delle infermità psichiche e per i tossicodipendenti, il reparto Danubio, riservato ai sex offenders e una sezione per l’isolamento. La Casa circondariale, da dicembre 2017 è gestita dal direttore Elisabetta Palmieri, con cui collaborano 478 agenti di Polizia penitenziaria, 7 educatori, 15 medici, circa 30 infermieri e 41 impiegati amministrativi. Il decreto regionale rappresenta un primo importantissimo passo verso la risoluzione definitiva del problema di carenza d’acqua della struttura carceraria di Santa Maria Capua Vetere, che, in tempi ragionevolmente brevi, quelli della gara d’appalto e della realizzazione materiale dei lavori, dovrebbe poter usufruire di una con-dotta idrica totalmente autonoma. Ferrara: Galeorto, l’orto del carcere apre a Interno Verde estense.com, 14 marzo 2018 Visita guidata al campo coltivato dai detenuti in via Arginone. Reclusi e soci di viale K spiegheranno il progetto. L’orto più segreto di Ferrara, quello coltivato dai detenuti che abitano il carcere dell’Arginone, aprirà eccezionalmente le porte al pubblico di Interno Verde. Il festival dedicato ai giardini più suggestivi e curiosi della città - che quest’anno si terrà sabato 12 e domenica 13 maggio - inaugura la terza edizione con un evento decisamente inusuale, organizzato in collaborazione con la casa circondariale e la polizia penitenziaria. Una visita guidata che, nella mattina di venerdì 11 maggio, permetterà ai ferraresi di scoprire la natura che cresce all’ombra delle torrette di guardia e del filo spinato, curata e coltivata grazie a un progetto educativo di notevole impatto e significato, intitolato ironicamente Galeorto, coordinato dall’associazione Viale K. “Interno Verde già dalla prima edizione ha cercato di favorire, attraverso la meraviglia suscitata dal giardino, lo sviluppo di una socialità spontanea e vicina, in un’atmosfera inclusiva, di scambio e condivisione”, raccontano i soci de Il Turco, l’associazione che ha ideato Interno Verde. Questa intenzione si è esprime tanto nell’organizzazione della manifestazione, che certifica per le persone disabili l’accessibilità degli oltre 60 giardini a disposizione dei visitatori, quanto nella selezione dei luoghi da coinvolgere, tra i quali già l’anno scorso spiccava la presenza della Residenza Santa Chiara, uno dei luoghi più delicati di Ferrara per la fragilità degli utenti a cui presta le proprie cure. “In un momento in cui purtroppo le carceri italiane vengono citate dai mass media soprattutto per le criticità di cui si fanno carico, l’apertura straordinaria dell’orto di via Arginone crediamo rappresenti non solo un’importante occasione formativa per le persone che avranno occasione di partecipare - tanto per i detenuti quanto per i visitatori accolti - ma anche un importante segnale per la comunità”. La visita al GaleOrto - disponibile solo su prenotazione, per un gruppo di massimo 30 persone - si terrà venerdì 11 maggio alle 10. All’interno della struttura i soci di Viale K, assieme ad alcuni detenuti impegnati volontariamente nella coltivazione di frutta e verdura, spiegheranno la nascita e lo sviluppo del progetto - che comprende sia un campo dedicato alla produzione per il consumo interno, dove crescono diverse varietà vegetali, sia un campo di sole zucche violine, la cui eccedenza è destinata alla vendita. Per partecipare è necessario essere maggiorenni, non avere familiari detenuti, non avere carichi penali pendenti. La prenotazione deve essere inviata tramite mail entro domenica 15 aprile all’indirizzo info@internoverde.it, allegando la scansione del proprio documento di identità. Per maggiori informazioni è possibile rivolgersi all’associazione Il Turco - la cui sede si trova in via del Turco 39, aperta dal lunedì al venerdì, dalle 9 alle 19 - o telefonare al coordinamento di Interno Verde: 3391524410. Genova: multe a chi rovista nei cassonetti in cerca di cibo di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 14 marzo 2018 Sanzione di 200 euro prevista da una serie di norme varante dalla giunta di centrodestra. L’opposizione: “Ingiusto punire chi si umilia”. L’assessore: “Applicheremo il regolamento con umanità”. Una multa anche per chi rovista nei cassonetti dell’immondizia in cerca di avanzi di cibo. Sono destinate a fare discutere - anzi, la polemica è già cominciata - le modifiche che il Comune di Genova ha apportato alle norme di polizia urbana. Oltre a recepire una serie di regole già attuate anche in altre città italiane (ad esempio il pacchetto Minniti) il governo di centrodestra in carica da meno di un anno ha introdotto nuovi “paletti” tra cui la sanzione di 200 euro per i clochard o gli indigenti a caccia di qualcosa da mangiare nei bidoni dell’immondizia. “Ma la applicheremo con criterio e con rispetto nei confronti delle persone indigenti” assicura l’assessore alla sicurezza Stefano Garassino. Le nuove norme e il decreto Minniti - Il dilemma che Genova ha dovuto affrontare è il medesimo che altre città italiane si sono trovate sul tavolo: come far convivere rispetto del decoro urbano e argine alla povertà e all’emarginazione? Gli amministratori di Palazzo Tursi - il municipio del capoluogo ligure - nelle scorse settimane hanno dato il via a una sorta di “pacchetto sicurezza” che si muove su più fronti. Da un lato vengono recepite le novità del decreto Minniti che dà facoltà ai sindaci di chiedere il Daspo per commercianti abusivi, parcheggiatori non autorizzati, questuanti molesti. Inoltre vengono introdotte multe per chi vende merce contraffatta. Ma la norma contestata e che dà il via alle polemiche è un’altra: il Comune di Genova ha deciso di multare chi viene sorpreso a cercare cibo e avanzi all’interno dei bidoni dell’immondizia sparsi per la città. Duecento euro il prezzo da pagare, che difficilmente chi non riesce a mettere insieme pranzo e cena riuscirà mai a sborsare. I no alla multa e il dossier povertà - Immediate le polemiche contro la regola “no cassonetto”. “Inutile interrogarsi sull’efficacia della deterrenza di una multa nei confronti di chi è costretto a umiliarsi rovistando nella spazzatura; sono persone che esprimono un disagio estremo” fa sapere il Pd dai banchi dell’opposizione. Su Facebook è nato anche un gruppo, “Genova che osa” il quale, oltre a manifestare il netto dissenso al regolamento ha diffuso un dossier sulla povertà a Genova nel quale si mettono in evidenza alcuni dati: la città ha perduto nell’ultimo decennio 7.000 posti di lavoro e la fascia della popolazione esposta la rischio povertà (cioè che potrebbe non essere più in grado di garantirsi un reddito minimo di mantenimento) è passata dal 2007 al 2016 dal 21,3 al 23,9%, il dato più alto di tutto il Nord Italia. L’assessore: “Non puniremo chi ha bisogno” - Sulla polemica interviene però anche l’assessore alla sicurezza della giunta cittadina di centrodestra, Stefano Garassino: “In buona sostanza ci siamo limitati ad applicare come fanno altre amministrazioni italiane, di ogni colore politico, il pacchetto Minniti, per questioni di sicurezza e decoro urbano. Sono temi di particolare rilevanza in una città che vuole essere turistica come la nostra”. Ma in più è arrivata la norma sui cassonetti...”La ratio del provvedimento è di natura igienica - spiega Garassino - chi cerca cibo finisce per lasciare rifiuti a terra e questo è un richiamo per i ratti”. Certo, ma chi ha fame ed è senza denaro forse non pensa a queste cose. “Ci rendiamo perfettamente conto che chi si riduce a procurarsi da mangiare in quel modo vive una situazione di disagio. E infatti, in accordo con la polizia municipale, la regola verrà applicata “cum grano salis”, e con umanità. Le persone in stato di bisogno non saranno certo multate ma al contrario aiutate”. Bari: “Oltre il carcere”, seminario nazionale Epale in giugno, iscrizioni entro il 6 aprile di Martina Blasi indire.it, 14 marzo 2018 A Bari si parlerà di educazione in carcere, una delle tematiche prioritarie dell’educazione degli adulti e del piano di lavoro dell’Unità Epale. Il seminario nazionale “Oltre il carcere”, in programma dall’11 al 13 giugno, intende presentare iniziative concrete per rendere possibile una progressiva ritessitura dei legami relazionali tra carcere e collettività, aspetto essenziale del disegno di riforma dell’ordinamento penitenziario. Il legame tra carcere e collettività, decisivo per un effettivo recupero del detenuto, sarà affrontato attraverso tre prospettive: il ruolo dell’istruzione, della formazione e del lavoro penitenziario sia intramurario sia esterno, la responsabilizzazione del detenuto nei confronti del progetto educativo di cui è protagonista, e i percorsi di giustizia riparativa. Una prospettiva, quest’ultima, molto ambiziosa che supera la logica del castigo e mette il detenuto davanti al dolore provocato alle vittime o alla comunità e che richiede forme di riparazione del danno provocato. Il seminario è rivolto a 150 partecipanti tra educatori carcerari, operatori e personale penitenziario, insegnanti, volontari e associazioni che agiscono sul percorso di reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti. Durante il seminario saranno presentate esperienze di buone pratiche multidisciplinari selezionate in Italia e Europa, anche grazie alla partecipazione di Epea - European Prison Education Association. È previsto il keynote speech iniziale di Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone detenute e private della libertà personale. A seguire, tre sessioni coordinate da esperti, lavori di gruppo fra partecipanti e visite sul campo. I partecipanti potranno inoltre assistere alla performance teatrale Il combattimento di Tancredi e Clorinda, a cura degli attori-detenuti del Teatro Casa Circondariale “C. Satta” di Ferrara, diretto da Horacio Czertok, del Teatro Nucleo. La tre giorni di Bari rappresenta per Epale il secondo convegno nazionale dedicato all’educazione in carcere, dopo il seminario “Liberi di apprendere” svoltosi a Napoli il 4 e 5 aprile 2016, dedicato all’istruzione degli adulti ristretti, di cui sono disponibili risultati e materiali. Il seminario di Bari è riservato agli iscritti alla piattaforma Epale. La partecipazione è su invito previa candidatura online e per i candidati selezionati le spese saranno a carico di Epale Italia. Le iscrizioni sono aperte fino al 6 aprile. Lecce: arte in carcere, protocollo d’intesa tra Kalòs e Casa Circondariale leccesette.it, 14 marzo 2018 Protocollo d’intesa tra l’associazione “Kalòs Arte & Scienza” e la Casa Circondariale di Lecce per portare arte e bellezza all’interno delle mura carcerarie. Il documento è stato firmato questa mattina presso la sala riunioni della Casa Circondariale di Borgo San Nicola dalla direttrice della Casa Circondariale Rita Russo e dalla presidente dell’ Associazione di Promozione Sociale e Culturale Kalòs Arte & Scienza, la scrittrice Giovanna Politi. “Kalòs Arte & scienza” ha elaborato un progetto teso a promuovere a come strumento utile al recupero della devianza e alla riabilitazione del detenuto, a perseguire l’umanizzazione dei rapporti tra personale carcerario e detenuti, a migliorare gli ambienti carcerari attraverso l’arte, a creare in questi ambienti uno spazio che possa diventare cantiere di bellezza. Le parti, per il raggiungimento delle finalità contenute nel protocollo d’intesa, assumono di volta in volta iniziative coordinate ed efficaci e definiscono i criteri e le modalità operative per la realizzazione delle stesse. Era presenti all’incontro anche una delegazione di Kalòs composta da Salvatore Cosentino, Silvia Grasso, Francesco Grasso, Federica Quarta e Antonella Santi. Bologna: “Leporello”, la voce dei detenuti del minorile in musica Redattore Sociale, 14 marzo 2018 Per 2 ore, una volta alla settimana, un team di musico-terapeuti entra in carcere per tenere un laboratorio di song-writing con i ragazzi, dando loro la possibilità di tradurre in canzoni il loro vissuto. I brani, i video e il reportage fotografico saranno diffusi il 14 marzo in alcuni locali di via del Pratello. “Sono poche le cose davvero importanti, apprezzare la vita trattarla con i guanti. Un pensiero va agli amici che ora sono distanti. Andiamo avanti, andiamo avanti”. È il ritornello di “Andiamo avanti”, uno dei tre brani scritti e musicati (gli altri si intitolano “Diamanti” e “Horea” ovvero libertà) durante il Laboratorio di song-writing Leporello promosso dall’Associazione Mozart14 all’interno dell’Istituto penale minorile di Bologna. “I ragazzi partono dal loro vissuto, dal loro stato d’animo, dalle loro problematiche e vi danno forma espressiva attraverso la musica - racconta Marco Paganucci, uno dei musico-terapeuti del laboratorio - Nelle canzoni si parla di libertà, della famiglia, di amicizia, di amore”. Partito nel 2015, il laboratorio si svolge una volta alla settimana per 2 ore e vede la presenza di non meno di 7/8 ragazzi a ogni incontro. “Ovviamente, i partecipanti sono cambiati nel corso del tempo, ma le richieste sono sempre state superiori alla possibilità di frequentare il laboratorio - ha affermato Paola Ziccone, direttore del servizio tecnico del Centro per la giustizia minorile di Bologna - Il maestro Abbado diceva ‘la musica ti cambia la vità e davvero la vita di questi ragazzi può cambiare perché nei momenti in cui si suona insieme o si ascolta la musica è come se la musica si prendesse cura di te. E se c’è qualcuno che si prende cura di te, tu cambi”. I brani scritti e musicati dai ragazzi insieme al team di musico-terapeuti, i video (realizzati da Marinella Rescigno e Davide Pastorello) e il reportage fotografico di Manuel Palmieri saranno diffusi il 14 marzo in alcuni locali di via del Pratello, la strada in cui si trova il carcere minorile. “Un valore aggiunto perché dà la possibilità ai ragazzi di farsi incontrare anche da chi in carcere non entra”, continua Ziccone. Obiettivo del Laboratorio Leporello è dare ai detenuti, giovani di età compresa tra 14 e 24 anni, lo strumento per tradurre prima in testi e poi in canzoni il loro vissuto. “Nei testi e nella musica i ragazzi hanno l’occasione di esprimere tutto il loro disagio, le forti emozioni di ribellione, rabbia e di elaborare in forma creativa la propria condizione”, ha affermato Alessandra Abbado, presidente dell’associazione Mozart14. “La scrittura delle canzoni è una tecnica di musicoterapia - spiega Fabrizio Cariati, musico-terapeuta del Laboratorio - Dà la possibilità alla persona di vedere concretizzate le proprie emozioni. La scrittura e la musica richiedono poi lo sviluppo di determinate abilità, come la capacità di ascolto e l’esperienza relazionale”. Per arrivare al prodotto finito, infatti, c’è la necessità di ragionare in gruppo, “perché il risultato sia condiviso e condivisibile - continua Cariati - Nel gruppo c’è chi è più portato per la scrittura, chi ha doti vocali. In uno dei brani, ad esempio, c’è un ritornello in arabo. Si tratta di condividere questo lavoro”. Non tutti i ragazzi che hanno realizzato le canzoni sono ancora al Minorile, ma, come racconta Francesca Casadei dell’associazione Mozart14, “anche quelli nuovi le conoscono. C’è stata una sorta di auto-appropriazione di qualcosa che fa parte dell’istituto, che è una voce collettiva”. I locali coinvolti per l’iniziativa del 14 marzo (dalle 19 a fine serata) sono Il Piratello (la proiezione dei videoclip sul muro del Tribunale dei Minori), la Trattori Baraldi (esposizione di foto), il Mutenye (foto e canzoni), Il Barazzo (foto e canzoni), Mozzabella, (foto), Al Pradel (foto, video e canzoni). Busto Arsizio: entrare in carcere per scoprire il teatro, iscrizioni aperte varesenews.it, 14 marzo 2018 Diversi gli appuntamenti in programma da aprile a maggio con l’associazione Oblò e l’amministrazione penitenziaria. In occasione della quinta edizione della Giornata Nazionale del Teatro in Carcere, indetta il 27 marzo 2018 in concomitanza con la Giornata Mondiale del Teatro (World Theatre Day), anche la Casa Circondariale di Busto Arsizio aderisce all’evento. (Nella foto uno spettacolo di qualche anno fa). L’associazione L’Oblò Onlus per il teatro in carcere, che opera nel carcere bustocco, ha previsto diverse attività per l’occasione. l periodo di rappresentazione degli spettacoli promossi per la Giornata del teatro in carcere è esteso dal 20 marzo al 30 aprile. Il programma: 10 aprile: rappresentazione dello spettacolo “Pirandello Remix”, per gli studenti del Liceo M. Curie di Tradate, nel teatro interno. Lo spettacolo nasce dal mix di due note novelle pirandelliane, La Giara e La Patente, già riscritte da Pirandello per il teatro come atti unici. Le abbiamo unite in una trama inedita, in cui i personaggi e le azioni si intrecciano e si giustificano a vicenda, con l’esito di una commedia ironica che affronta con leggerezza il tema dell’esclusione e del “tirare a campare” in modo insolito. Lo spettacolo ha debuttato nel 2017 al Teatro Sociale di Busto Arsizio ed è stato replicato all’Auditorium Gaber di Milano, Palazzo della Regione. In entrambe le occasioni i detenuti attori in scena hanno potuto godere del permesso speciale di uscita per rappresentare lo spettacolo al di fuori del Carcere. 14 - 28 aprile: i primi due appuntamenti del progetto Contamin-Azioni, Seminari teatrali all’interno del Carcere per liberi e diversamente liberi. Laboratori espressivi per detenuti ed esterni interessati al progetto. Temi tratti dal libro “Essere esseri umani” della psicoterapeuta Marta Zighetti, Ed. D’Este. Cosa significa “essere esseri umani”? Cosa significa essere in relazione? I laboratori vogliono riflettere e agire in questa corrente: saranno momento di integrazione, realizzati all’interno della Casa Circondariale di Busto Arsizio, destinati un gruppo di “attori amatoriali” composto da persone detenute e persone “non ristrette” (studenti universitari, interessati, giovani, adulti), che accederanno alla Casa Circondariale e lavoreranno insieme ai detenuti al progetto teatrale. Il saggio della Zighetti vuole porre particolare attenzione al tema della compassione umana che deve guidare le nuove politiche sociali ed economiche verso la cooperazione e la ridistribuzione e non verso la competizione e l’accumulo. Con il sostegno di Fondazione Comunitaria del Varesotto Onlus. Gli altri seminari (sabato mattina ore 9-12): 14 e 28 aprile: scrittura creativa con la drammaturga Laura Tassi. 5 maggio: voce con il cantautore Marco Belcastro. 19 maggio: movimento espressivo con la danzatrice Francesca Cervellino. Iscrizione entro il 6 aprile. Con “Scelte di classe”, il cinema entra a scuola e nelle carceri minorili di Alessia Tripodi Il Sole 24 Ore, 14 marzo 2018 È partito in via sperimentale in cinque città - Roma, Firenze, Pisa, Cagliari e Bologna - il progetto “Scelte di classe - Il cinema a scuola”, il percorso interattivo di educazione all’immagine per scuole e carceri minorili ideato da Alice nella città (la sezione della Festa del Cinema di Roma dedicata ai giovani) e presentato oggi nella Capitale. L’iniziativa mette a disposizione di studenti e docenti una piattaforma web con una selezione di 28 film, organizzata per fasce d’età, che comprende successi del passato e titoli più recenti per un’ampia varietà di generi, dal documentario all’animazione, al cinema classico ai cortometraggi. Il percorso di visione sarà composto da sette film: quattro visibili in classe e tre in sala, a cui si affiancheranno i tutor che nelle città coinvolte coordineranno le discussioni in classe e gli incontri con gli autori. Tanti gli attori e autori del cinema italiano che hanno dato la loro adesione al progetto: tra questi Paola Cortellesi, Michele Riondino, Riccardo Milani, Paola Minaccioni, Claudio Amendola, Michela Cescon, Matteo Garrone, Paolo Genovese, Jonas Carpignano, Massimiliano Bruno, Thomas Trabacchi. “Filo comune con insegnanti e studenti” - Il progetto sperimentale coinvolge 20 istituti scolastici e quattro istituti penali minorili: il Meucci di Firenze, Quartucciu di Cagliari, il Pratello di Bologna e il Casal del Marmo di Roma. “Sentivamo l’esigenza, oltre i dieci giorni ogni anno di Alice nella città alla Festa di Roma, di tenere un filo comune con insegnanti e ragazzi - spiega Gianluca Giannelli, direttore di Alice nella città con Fabia Bettini -. Abbiamo cercato una formula per proporre una serie di film di vari generi, dal documentario all’animazione, arricchiti con vari strumenti, dalle schede critiche alle video recensioni”. Tra le pellicole anche i candidati a Ciak Alice Giovani - I dieci film italiani all’interno della “library”, inoltre, concorreranno per il Ciak Alice Giovani, un Ciak d’oro che premia i film che si rivolgono ai ragazzi. Tra i film selezionati figurano Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, A ciambra di Jonas Carpignano, Il ragazzo invisibile - Seconda generazione di Gabriele Salvatores, Tutto quello che vuoi di Francesco Bruni, ma anche I figli della notte di Andrea de Sica, My Name Is Adil di Adil Azzab e Balon di Pasquale Scimeca. I titoli in lizza saranno votati fino al 21 maggio, dalle scuole, dai lettori di Ciak e dal pubblico di Alice nella città. Il vincitore riceverà la targa durante la cerimonia di premiazione dei Ciak d’oro. Scelte di classe è realizzata in collaborazione con la Fondazione Cinema per Roma e MyMovies, grazie al supporto del Mibact e con il patrocinio di Rai Istituto Luce, Apt, Fapav, Italian Film Commission, e la collaborazione dei ministeri dell’Istruzione e della Giustizia. Migranti. Eritreo 22enne muore di fame dopo lo sbarco Il Fatto Quotidiano, 14 marzo 2018 Il sindaco di Pozzallo: “Scene come quelle degli ebrei nei lager”. Un migrante di 22 anni è morto per malnutrizione e problemi respiratori subito dopo essere sbarcato a Pozzallo dalla nave dell’Ong spagnola Proactiva Open Arms. Il giovane, eritreo, era in un gruppo di 91 persone recuperate domenica. Appena sceso dalla nave è stato trasferito in ospedale a Modica; dopo qualche ora le sue condizioni sono peggiorate e il giovane è morto per fame e per la malnutrizione che da mesi ha contribuito a peggiorare il suo già precario quadro clinico. Secondo il racconto del fondatore di ProActiva, Oscar Camps il giovane si chiamava Segen ed era stato imprigionato in Libia per 19 mesi”. “Lo abbiamo salvato domenica - ha aggiunto Camps su twitter - Lo abbiamo trasferito in ospedale subito dopo l’arrivo in porto in Sicilia. Oggi è morto per una grave malnutrizione”. Malnutrito da mesi e affetto da tubercolosi, era riuscito a sopravvivere al deserto e poi alla traversata in mare. Le condizioni del ragazzo sono subito apparse disperate: accusava problemi respiratori e non si reggeva in piedi. Aveva la magrezza di un anoressico, ma la letteratura medica precisa che la sindrome di cui soffriva il giovane africano non ha nulla a che vedere con la patologia del disagio alimentare: il 22enne è morto per fame, anche se il linguaggio medico copre la locuzione con il velo del lessico scientifico che parla di “cachessia”, come è scritto sulla cartella clinica. I sanitari le hanno provate tutte, ma per il giovane non c’è stato nulla da fare. Ora il suo corpo si trova nella camera mortuaria dell’ospedale, in attesa che la procura decida se disporre l’autopsia. Un episodio al quale si aggiungono le dichiarazioni di Roberto Ammatuna, il sindaco di Pozzallo: “Quello che mi impressiona è che sembra di tornare a 70 anni fa, quando abbiamo visto quelle drammatiche scene di un campo di concentramento e quegli esseri umani, gli ebrei, ridotti pelle e ossa” racconta a Effetto Giorno, su Radio24. Ammatuna è anche primario del pronto soccorso dell’ospedale Maggiore di Modica, dov’era stato ricoverato il 22enne eritreo. “E questa è la sensazione che io ho avuto per l’ultimo sbarco con persone malnutrite, morte di fame e di sete, alcune di loro sono decedute per stenti fisici. La situazione peggiora e ci vuole una strategia europea. Noi, come città, vogliamo continuare con l’accoglienza perché in un Paese civile non ci si può tirarsi indietro. Speriamo in un maggiore coinvolgimento dell’Europa e voglio ribadire che abbiamo accanto a noi il ministero dell’Interno e il governo italiano”. Soltanto tre giorni fa tre fratelli erano stati soccorsi nel Canale di Sicilia dalla stessa nave della ong spagnola: fuggivano dalla Libia per arrivare in Italia e trovare un ospedale che potesse curare uno dei tre ragazzi, il quattordicenne Allah, malato di leucemia. Viaggiavano su un piccolo gommone con una scorta di 200 litri di benzina. Anche il ragazzo eritreo, probabilmente, avrà pensato che una volta in Italia avrebbe potuto ricevere le cure di cui necessitava, ma è arrivato troppo tardi. Migranti. Chiusura temporanea dell’hotspot di Lampedusa Il Dubbio, 14 marzo 2018 Condizioni drammatiche di vita e sistematiche violazioni dei diritti umani. È la situazione riscontrata all’interno dell’Hotspot di Lampedusa da una delegazione composta da avvocati, ricercatori e mediatori culturali della Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili (Cild), Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi) e Indie-Watch che nei giorni scorsi si sono recati sull’isola e hanno raccolto numerose testimonianze di migranti ospitati nel centro anche da oltre due mesi. Anche il Garante nazionale per i detenuti, Mauro Palma in un dossier aveva denunciato alcune violazioni all’interno della struttura. E così il Viminale ha deciso un “progressivo e veloce svuotamento” e la “chiusura temporanea” dell’hotspot di Lampedusa per consentire i lavori di ristrutturazione, dopo il recente incendio doloso che ha reso inagibile un padiglione. All’incontro erano presenti il capo Dipartimento per l’immigrazione, il direttore centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere e il sindaco di Lampedusa. In caso di emergenza saranno assicurate le esclusive operazioni di primissimo soccorso ed identificazione, in vista della conseguente distribuzione territoriale dei migranti. “La nostra delegazione - dicono Gennaro Santoro di Cild e Giulia Crescini di Asgi - ha potuto appurare come nell’hotspot non esista una mensa e il cibo, che gli ospiti devono consumare in stanza o all’aperto, sia di scarsissima qualità; i water alla turca e le docce sono senza porte e i materassi sporchi e malmessi. Difficoltà esistono poi nel formalizzare le domande di protezione internazionale e ai richiedenti asilo non viene rilasciato alcun titolo di soggiorno, cosa che impedisce agli stessi di lasciare l’isola e li costringe a vivere nell’hotspot. Tutto ciò avviene nonostante queste strutture fossero pensate per foto-segnalare i migranti entro pochissimo tempo dal loro arrivo”. “A destare particolare preoccupazione aggiunge Fabrizio Coresi di IndieWatch - sono poi le condizioni di sicurezza praticamente inesistenti che determinano una gravissima lesione dei diritti fondamentali dei nuclei familiari e delle persone più vulnerabili, in particolare dei minori accompagnati e non che si trovano a condividere spazi con cittadini adulti, per la maggior parte di genere maschile”. In questo momento sono trattenute nel centro circa 180 persone, di cui circa 165 uomini adulti. “Come legali di alcuni trattenuti nell’hotspot, abbiamo formalmente chiesto al Prefetto ed al Questore di Agrigento l’immediato trasferimento di alcuni nuclei familiari e di minori non accompagnati e malati in strutture idonee ad ospitarli. Tuttavia, nessuno ci ha contattati come difensori dei nuclei familiari. Non è stato peraltro consentito il pronto accesso dei legali alla struttura per conferire con i propri assistiti, nè alcun altro tipo di riscontro è pervenuto dalle Autorità a cui ci siamo rivolti”, concludono Santoro e Crescini. Droghe. A Vienna prove di cambiamento di Hassan Bassi e Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 14 marzo 2018 Due anni dopo l’appuntamento della Sessione Speciale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (Ungass) dedicata alle politiche sulle droghe, questa settimana a Vienna i rappresentati degli Stati aderenti alle convenzioni Onu sugli stupefacenti tornano ad incontrarsi. La 61esima Commission on Narcotic Drugs (CND) servirà a fare il punto e preparare i lavori del prossimo Meeting di Alto Livello, già convocato per il 2019 sempre a Vienna. Dall’aprile del 2016 molte cose sono cambiate, anche se il bilancio complessivo è in chiaroscuro. Altri quattro Stati Usa si sono espressi a favore della regolamentazione legale della cannabis attraverso il referendum, mentre uno, il Vermont l’ha legalizzata con voto del Parlamento. Il Canada si avvia verso la legalizzazione e il 7 giugno con il voto del Senato potrebbe essere il primo paese del G8 a legalizzare l’uso ricreativo della cannabis. Norvegia e Francia, ma anche la Thailandia, hanno annunciato processi di depenalizzazione. Si è aperta una stanza del consumo a Parigi e se ne apriranno due a San Francisco. Le condanne a morte per droghe eseguite nel mondo sono in diminuzione, 280 nel 2017 ovvero meno della metà di quelle del 2015. D’altro canto l’offensiva - per ora solo annunciata - del ministro della Giustizia Sessions contro la cannabis legale Usa, con il ritiro del “Memorandum Cole”, il provvedimento di Obama che metteva al riparo da ingerenze federali gli stati riformatori, rischia di innescare altre gravi misure. È arrivato da poco l’annuncio di Trump di valutare aumenti di pena, con l’introduzione della pena di morte per i trafficanti, per contrastare l’epidemia di morti per l’uso di oppiacei che sta sconvolgendo gli Stati uniti. Il Presidente americano ha detto di voler seguire l’esempio di quei paesi che “hanno molti meno problemi di noi con le droghe e quindi anche noi avremo pene molto dure”. Un riferimento inquietante, visto che Trump in passato ha già lodato le politiche repressive del Presidente filippino Duterte, che secondo le Ong hanno provocato oltre 12.000 morti in meno di due anni. Harm Reduction International nel suo rapporto sulla pena di morte legata alle droghe ha fatto esplicito riferimento ai “preoccupanti segnali che l’Indonesia stia adottando un’analoga risposta violenta e il sostegno esplicito alla “guerra alla droga” del presidente Duterte espressa da altri paesi della regione e non solo, sollevano serie preoccupazioni sul fatto che stiamo assistendo a una nuova tendenza che potrebbe normalizzare l’uccisione di persone per fatti di droga e annullare anni di progressi costanti”. Forum Droghe sarà presente ai lavori della CND co-promuovendo un side event della società civile proprio attorno alle esecuzioni extragiudiziali nelle Filippine. Sarà anche l’occasione per presentare i contenuti espressi nella lettera aperta inviata al nostro governo dalle Ong italiane che sono impegnate per la riforma delle politiche sulle droghe. È necessario che l’Italia sostenga in sede Onu la necessità di proseguire il dibattito aperto durante Ungass 2016, che ha messo in evidenza il fallimento della war on drugs approvata nel 1998 e sollecitando l’urgenza di una inversione di rotta attraverso una lettura flessibile delle Convenzioni internazionali. La Riduzione del danno va inclusa nelle politiche globali bilanciando l’eccessivo investimento in misure penali a favore invece di interventi sociali e sanitari. Sulle droghe l’Italia deve “riprendere a giocare un ruolo in linea con una radicata cultura della democrazia, dell’approccio umanitario, della solidarietà sociale e dei diritti”. Droghe. Condannato perché coltivava cannabis per uso terapeutico, Mattarella lo grazia di Umberto Rosso La Repubblica, 14 marzo 2018 Pensionato sessantenne avrebbe dovuto scontare cinque mesi di carcere, ma il Presidente della Repubblica ha accolto il suo appello. Coltivava cannabis per uso terapeutico, ma era stato condannato in Cassazione. Ora, il presidente della Repubblica ha accolto la sua domanda di grazia: Sergio Mattarella ha firmato il decreto che cancella la pena a cui l’uomo era stato sottoposto, cinque mesi di carcere e 800 euro di multa. Esulta l’avvocato che ha condotto una lunga battaglia, il radicale Fabio Valcanover: “Bravo presidente, ha riconosciuto che si è trattato solo e soltanto di ragioni di salute”. Non dovrà scontare neanche un giorno dietro le sbarre dunque il pensionato sessantenne della provincia di Trento che, invalido, sieropositivo e gravemente malato, e non potendo ricorrere ai farmaci tradizionali per i gravi effetti collaterali, si cura da anni attraverso la cannabis. Sotto controllo medico della Asl della provincia autonoma di Trento, come previsto dalla legge del 2015. Però, prima dell’approvazione della nuova normativa, faceva da sé: coltivandosi le piantine in un campo, dove vennero scoperte dalla polizia. Da qui la condanna definitiva in Cassazione, dopo un travagliato iter: assolto in primo grado, condannato in appello, e poi il verdetto finale a suo sfavore. Il suo avvocato, che è anche una figura di spicco dei radicali, non si è arreso e nel luglio scorso ha presentato la domanda di grazia al capo dello Stato. Sollevando il caso e mettendolo all’attenzione del Quirinale. “Si è sempre trattato - ricostruisce adesso il legale nel suo studio - di una coltivazione di qualche piantina, da cui il mio assistito ha ricavato prodotti che grazie ai principi attivi della cannabis hanno avuto effetti terapeutici. E dunque senza mai fini di spaccio o di cessione a terzi”. Mini-coltivazione casalinga a cui il pensionato ha fatto ricorso per potersi curare prima che entrasse in vigore il progetto pilota del ministero della Sanità, recepito poi dalla giunta provinciale trentina nel 2016. La legge che consente appunto in casi precisi la somministrazione gratuita della cannabis per scopi terapeutici, attraverso le strutture sanitarie pubbliche. L’uomo, oggi, difatti ormai è assistito dalla Asl con la somministrazione gratuita dei farmaci a base di cannabis, i cui principi attivi (Thc e Cbd) funzionano laddove invece la terapia tradizionale si è rivelata controproducente. Il pensionato - da anni sieropositivo, malato di diabete, epatite e cirrosi - non può assumere altri farmaci per i dannosi effetti collaterali. E per curarsi decise di coltivarsi le piante di canapa. Cosa vietata dalla legge, all’epoca, così come lo è del resto tuttora (la proposta di depenalizzazione in questo caso non è mai arrivata in discussione in Parlamento). Il primo grado il giudice ha riconosciuto le buone ragioni dell’uomo che, piuttosto che rivolgersi ad uno spacciatore per procurarsi la marijuana, decise di autoprodurla. Verdetto rovesciato in appello e anche davanti alla Suprema Corte. All’avvocato Valcanover a questo punto non era rimasto altro da fare che rivolgersi al tribunale di sorveglianza per chiedere misure alternative al carcere per scontare la pena, e al contempo di rivolgersi a Mattarella. Oggi è arrivata la buona notizia: il decreto di grazia firmato dal presidente Mattarella che ferma per sempre la condanna. Un provvedimento di clemenza, arrivato dopo uno scrupoloso iter di accertamenti da parte degli uffici giuridici del Colle che, ovviamente, cancella la pena in questo singolo caso. Non modifica in alcun modo la normativa, la coltivazione di cannabis resta un reato. Egitto. Osservatori internazionali al Cairo: pene di morte maggiori dei dati ufficiali di Ezio Menzione* Il Dubbio, 14 marzo 2018 Nel rapporto relativo al 2016 di Amnesty International sulla pena di morte nel mondo, l’Egitto compare con 44 condanne capitali eseguite nell’anno, ma si dà atto che il numero probabilmente è maggiore per la difficoltà che vi è nel tenere la tragica contabilità delle esecuzioni, tanto più che esse possono essere comminate sia da corti militari (a allora si procede con fucilazione) che da corti penali civili (ed allora si procede con impiccagione). Se il dato corrispondesse al reale, l’Egitto sarebbe il quinto stato nella malefica classifica delle pene di morte eseguite nel 2016, dopo l’Iran (567), l’Arabia Saudita (154) l’Iraq (88) e il Pakistan (87) e lasciando stare la Cina, le cui cifre in proposito sono considerate segreto di stato e non vengono divulgate, nemmeno parzialmente, ma che certo attingono al primo o secondo posto. 44 sentenze capitali eseguite in un anno sono certo una cifra ragguardevole oltreché raccapricciante, ma a noi osservatori internazionali dell’Ucpi, sembrava che, purtroppo, essa peccasse per difetto a fronte delle sia pur frammentarie notizie circa le moltissime condanne capitali comminate negli ultimi anni in quel paese. Abbiamo deciso dunque di recarci là per attingere a dati più realistici attra- verso confronti con colleghi, anche impegnati in organizzazioni per la difesa dei diritti umani. Arrivati al Cairo, proprio il giorno in cui affrontavamo questo tema con colleghi esperti, è giunta la notizia che al mattino erano state eseguite 15 condanne a morte per impiccagione. Sei giorni dopo ne sarebbero seguite altre 4, così totalizzando 19 esecuzioni in una settimana: la cifra più alta che si ricordi. Si calcola che le condanne a morte comminate negli ormai 4 anni di regime di El Sisi, salito al potere con un colpo di stato militare nell’estate 2014, siano 923, più di 200 ogni anno. Su quelle effettivamente eseguite vi è molta meno certezza, perché le notizie sulle esecuzioni filtrano poco e si tende a tenerle segrete. Secondo il prudente apprezzamento dei nostri interlocutori le condanne eseguite dovrebbero ammontare a circa 100 l’anno. Il che, già di per sé, farebbe schizzare l’Egitto al terzo posto dell’infame classifica, sempre senza tener conto della Cina. Teniamo presente che le sentenze di morte definitive sono un numero di gran lunga inferiore a quelle comminate dai giudici di merito perché la Corte di Cassazione, rilevando spessissimo errori o carenze nel processo di primo grado (per i reati più gravi nel sistema egiziano non vi è appello), ha una funzione “calmieratrice” rispetto proprio alla pena di morte. Altrimenti, stando ai primi giudici, sarebbe una strage. E ciò, si badi, nonostante che i primi giudici, ove intendano comminare la pena di morte, debbono sottoporre prima il caso al Gran Mufti - la massima autorità della giustizia islamica - per avere da lui un parere non vincolante, ma autorevole. Il Gran Mufti studia le carte del caso e poi si esprime sul punto se la morte sia giustificata alla luce del Corano, che prescrive che ogni morte debba essere motivata. Ma, evidentemente, dati i numeri delle sentenze capitali comminate, nemmeno il sacro testo costituisce un deterrente. I reati per cui si arriva alla pena capitale? Quelli gravissimi: reati di sangue aggravati. Ma anche reati di terrorismo, anche se non aggravati dall’omicidio, in spregio alle convenzioni internazionali sul tema. E si sa che fra reati di terrorismo e reati di opinione il confine spesso è labile e tenue. Anche il momento dell’esecuzione della sentenza lascia perplessi. Esso non consegue direttamente alla condanna definitiva, ma è lasciato sospeso indefinitamente e volutamente. L’esecuzione avverrà su disposizione del Presidente (il quale detiene anche il potere di grazia) in corrispondenza di fatti politici che, secondo lui, meritano l’esecuzione di punizioni esemplari. Così, se avviene, come è avvenuto, che ci sia un attentato nel Sinai, si ripescano i condannati a morte per un precedente attentato nel Sinai e li si impicca o li si fucila. Ma in Egitto non si muore solo a seguito di condanna capitale. Si muore anche senza processo. E noi italiani col caso Regeni lo abbiamo tragicamente imparato. Non vi sono ovviamente cifre ufficiali su quante persone (egiziane, ma non solo) spariscono ogni anno. Nemmeno rappresentanti della Ong che ha come scopo sociale il rintracciare chi sparisce, sono in grado di stabilirlo con precisione. Si parla di 5.500 sparizioni negli ultimi quasi 4 anni di regime di El Sisi; altri si attestano più prudentemente su circa 1000 l’anno. Ma ciò che più fa orrore è che secondo le stime di molte Ong osservatrici delle violazioni dei diritti umani, del numero complessivo circa il 60% ricompare dopo settimane o mesi, o come imputato in un processo o ripresentandosi in famiglia: sempre facendo lo stesso orribile racconto di sequestro, tortura, confessioni estorte. C’è poi un 35% che non ricompare mai più. E c’è infine un 5% che ricompare sì, ma cadavere, proprio come Regeni. Se si applicano queste percentuali al numero delle sparizioni avvenute durante il regime di El Sisi, siano esse 5500 o quasi 4000, i cadaveri ritrovati ammontano a più di 200, gli scomparsi definitivamente si aggirano sui 2000. Una pena di morte applicata senza processo, che avviene per così dire a lato del percorso giudiziale: nelle camere di sicurezza, nei centri della polizia o militari, o in sezioni speciali di carceri speciali, come la sezione Scorpio del carcere di Tora, non lontano dal Cairo. E la magistratura cosa fa? Indaga su queste sparizioni? Neanche per idea. Come ci dicono i colleghi della Ong addetta proprio al ritrovamento degli scomparsi, quando i familiari di uno sparito si rivolgono a loro, essi interpellano gli ospedali per vedere se sia ricoverato, poi interpellano le varie carceri, e già qui è difficilissimo avere risposta soddisfacente, infine si rivolgono al Pm perché compia determinate indagini. I Pm, regolarmente, non rubricano nemmeno la denuncia. *Osservatore internazionale per l’Ucpi Pena di morte per Shawkan nell’Egitto del silenzio di Stato di Pino Dragoni Il Manifesto, 14 marzo 2018 Il fotoreporter in carcere dal 2013 per aver documentato il massacro di Rabaa, privato delle cure mediche e spesso costretto all’isolamento. Il mondo si sta mobilitando: online campagne di amici, colleghi e egiziani della diaspora. Per Mahmoud Abou Zeid (detto Shawkan), trent’anni da poco compiuti in cella, il prossimo 17 marzo sarà l’udienza numero 52. Il 3 marzo la procura ha chiesto la pena di morte per lui e gli altri 738 co-imputati in un maxi-processo politico che va avanti ormai da anni a colpi di infiniti rinvii. Shawkan è stato arrestato il 14 agosto 2013, durante l’attacco al sit-in di Rabaa al-Adaweiya. In quello che è stato l’atto fondativo della nuova repubblica di al-Sisi, l’esercito aprì il fuoco su una folla per lo più inerme, uccidendo in un solo giorno almeno 600 persone, quasi tutti sostenitori dei Fratelli Musulmani che si opponevano al colpo di Stato. Di quel massacro Shawkan è stato un testimone. Da giovane fotografo era lì per documentare i fatti di quella piazza per conto dell’agenzia di Londra Demotix. “Chiedere la pena di morte per un fotografo che semplicemente seguiva una manifestazione dell’opposizione è una punizione politica - è il commento di Reporters Sans Frontières - L’unico crimine di Shawkan è quello di aver fatto il suo lavoro di fotografo”. Della sua storia hanno parlato in tanti. Il suo volto e i suoi lunghi capelli ricci, la sua macchinetta fotografica, mimata anche da dietro le sbarre, hanno fatto il giro del mondo grazie alla campagna portata avanti dai suoi amici e colleghi egiziani e da tanti solidali. Del caso si è occupato nel 2016 anche il gruppo di lavoro Onu sulle detenzioni arbitrarie. Il suo arresto in custodia cautelare ha infatti di gran lunga superato i due anni previsti dalla legge egiziana. L’accanimento nei confronti di Shawkan ha fatto scandalo. Lui stesso in alcune lettere dal carcere denuncia un trattamento peggiore di quello riservato ai Fratelli Musulmani o ai membri dell’Isis. Continue le ispezioni in cella (due metri per quattro, per tredici persone), restrizioni alle visite di amici e parenti, periodi di isolamento e soprattutto il diniego delle cure mediche: affetto da anemia e epatite C, finora gli è stato sempre negato il ricovero in ospedale. L’Egitto è il terzo paese al mondo per numero di giornalisti in carcere, secondo solo a Turchia e Cina. Se ne contano più di venti e da quando al-Sisi a gennaio ha annunciato la sua candidatura alle presidenziali altri quattro reporter sono finiti dietro le sbarre. Da agosto 2016 sono stati bloccati 500 siti internet, compresi la maggior parte dei media indipendenti, che si sono visti costretti a chiudere i battenti o a ridimensionare fortemente la loro attività. Molti dei migliori giornalisti egiziani sono stati così semplicemente ridotti alla fame, spesso costretti all’esilio, ma cosa ancora peggiore privati del proprio mestiere di scrivere. La condanna a morte chiesta per Shawkan e gli altri getta luce su un altro tragico aspetto del regime di al-Sisi. Il ricorso alla pena capitale, minacciata e sempre più spesso eseguita, è diventato routine negli ultimi anni. Dal 26 dicembre sono già 39 le condanne eseguite per impiccagione. Altre 29 persone attendono nel braccio della morte. Nella maggior parte dei casi si tratta di civili condannati da corti militari senza il minimo rispetto delle garanzie per un processo equo. Lo denuncia la campagna “Basta pena di morte!” lanciata proprio in questi giorni dall’Egitto per “rompere il silenzio” sul tema, dicono gli organizzatori, e portare “solidarietà umana e legale” alle vittime e alleo famiglie. È un fenomeno relativamente nuovo, di cui si parla troppo poco, denunciano in un comunicato su Facebook. Per questo vogliono coinvolgere il maggior numero possibile di movimenti e individui, per “aprire un dibattito pubblico” sull’abolizione della pena di morte. E anche nella diaspora parte una nuova iniziativa di denuncia e sensibilizzazione sulle violazioni dei diritti umani in Egitto. Questa settimana una sessantina di attivisti si riunirà a Washington per una due giorni in cui verranno definite le strategie per una vera e propria attività di lobby rivolta ai membri del Congresso Usa. “Invece di continuare a sentirci impotenti senza sapere cosa fare possiamo usare i meccanismi democratici e tentare di influenzare i parlamentari affinché facciano pressione sull’Egitto in tema di diritti umani”, ha dichiarato ad Al Jazeera Mohamed Soltan, uno dei promotori. Soltan, doppia cittadinanza americana ed egiziana, che ha vissuto in prima persona la prigionia in Egitto ed è stato scarcerato nel 2015 dopo più di un anno di sciopero della fame, una volta tornato negli Usa ha fondato un’organizzazione a sostegno dei prigionieri politici. “Speriamo di mettere insieme un po’ di persone fuori dall’Egitto, nella diaspora… per essere la voce di quelli che non hanno voce, o di quelli per cui il costo di avere una voce è semplicemente troppo alto da sostenere”. Brasile. Estradizione Battisti, ora la decisione spetta a Temer di Emiliano Guanella La Stampa, 14 marzo 2018 “L’ultima parola spetta al presidente Temer”. Sembra sempre più vicina l’estradizione di Cesare Battisti, l’ex terrorista dei Proletari Armati per il Comunismo (Pac), da oltre 30 anni latitante in Brasile dopo la condanna all’ergastolo in Italia per quattro omicidi commessi durante gli Anni di piombo. Ieri il procuratore generale della Repubblica, Raquel Dodge, ha inviato un parere al Supremo tribunale federale, la Corte costituzionale brasiliana, in cui ribadisce che la decisione finale sull’estradizione di Battisti in Italia “è politica, non giudiziaria, ed attiene esclusivamente al presidente della Repubblica”. Spetterebbe a Temer, dunque, decidere, anche se il condizionale è d’obbligo perché la corte suprema potrebbe comunque dichiarare incostituzionale la decisione del presidente. Se così non fosse Temer potrebbe ribaltare la decisione del suo predecessore Luiz Inacio Lula da Silva che, il 31 dicembre 2010, come ultimo atto del suo secondo mandato presidenziale, concesse lo status di rifugiato politico a Battisti nonostante il Supremo tribunale federale avesse dato parere positivo all’estradizione. L’arrivo del conservatore Temer al palazzo di Planalto ha rilanciato le possibilità per l’Italia di far estradare Battisti. La richiesta, presentata nel settembre scorso dal governo italiano, ha infatti messo in agitazione l’ex terrorista rosso al punto che, non sentendosi più al sicuro in Brasile, ha tentato di fuggire in Bolivia. La polizia federale lo ha però fermato e successivamente arrestato perché in tasca aveva 6 mila dollari e 1.300 euro non dichiarati. Tre giorni dopo l’arresto, Battisti venne rilasciato, con l’obbligo di dimora. In quella occasione, il ministro della Giustizia Torquato Jardim affermò che l’ex terrorista “ha violato la fiducia” concessagli dal Brasile. Battisti, oggi 63enne, vive nello Stato di San Paolo con un braccialetto elettronico in attesa della decisione sulla sentenza per l’accusa di traffico di valuta. Filippine. Nella lista nera del governo leader indigene e relatrici Onu di Francesco Martone Il Manifesto, 14 marzo 2018 Il ministero di Giustizia di Manila chiede di dichiarare terroriste 649 persone. Tra loro la Relatrice Onu per i diritti dei popoli indigeni, Vicky Tauli-Corpuz, e Joan Carling, leader della Cordillera Peoples Alliance. La notizia sta rimbalzando nelle reti di solidarietà internazionale, tra le organizzazioni di popoli indigeni di tutto il mondo. Il ministro di Giustizia delle Filippine ha chiesto a un tribunale di Manila di dichiarare - ai sensi dell’Human Security Act - “terroriste” 649 persone, tra cui presunti leader e aderenti al Partito Comunista delle Filippine e al suo braccio armato, l’Npa (New Peoples’ Army). Nella lista anche leader indigene quali l’attuale Relatrice speciale Onu per i diritti dei popoli indigeni, Vicky Tauli-Corpuz, e Joan Carling, già direttrice dell’Asia Indigenous Peoples Pact (Aipp) e leader della Cordillera Peoples Alliance (Cpa). Secondo Human Rights Watch, l’inclusione di Tauli-Corpuz nella “lista nera” equivale a una minaccia per la sua sicurezza e incolumità, visto che in passato molti di coloro “bollati” come aderenti all’Npa sono stati assassinati da forze governative o paramilitari. La richiesta del ministero avviene a pochi mesi dal fallimento dei negoziati di pace tra governo e ribelli, in seguito alla decisione del primo di interrompere le trattative. In una sua dichiarazione la Relatrice rigetta ogni accusa: “Non sono connessa in alcuna maniera con le organizzazioni in questione, né sono al corrente o tanto meno ho partecipato agli atti citati nella petizione”. Accuse rigettate pubblicamente anche da Carling. Tauli-Corpuz in questi mesi sta lavorando a un rapporto sulla criminalizzazione dei difensori dei diritti dei popoli indigeni che presenterà poi alle Nazioni Unite. I relatori speciali dell’Onu per i difensori dei diritti umani, Michel Forst, e per gli sfollati interni, Cecilia Jimenez-Damary, hanno definito la sua inclusione nella lista nera del ministero di Giustizia un atto di rappresaglia: lo scorso dicembre Tauli-Corpuz e Jimenez-Damary in un comunicato congiunto avevano denunciato l’espulsione di migliaia di indigeni Lumad come conseguenza del conflitto tra forze governative e ribelli a Mindanao, una situazione che potrebbe degenerare ulteriormente a causa dell’estensione della legge marziale fino a fine 2018. Almeno 2.500 indigeni sono stati espulsi dalle loro terre dall’ottobre scorso e alcuni di loro uccisi da militari il 3 dicembre nel villaggio di Barangay Ned, nella provincia di South Cotabato. “L’attacco contro la Relatrice Speciale avviene in un contesto di esecuzioni extragiudiziali diffuse, e di attacchi contro chiunque sia critico nei confronti del governo attuale, inclusi difensori dei diritti umani”, hanno sottolineato Forst e Jimenez-Damary. FrontLine calcola che l’80% dei 312 casi di omicidio di difensori e difensore nel 2017 siano avvenuti in Brasile, Colombia, Messico e Filippine. Il governo Duterte non è nuovo a minacce nei confronti di relatori speciali Onu. In passato minacciò pesantemente la relatrice sulle esecuzioni extragiudiziali Agnes Callamard, rea di aver condannato più volte le migliaia di omicidi commessi nella campagna del governo contro il consumo e commercio di droga. Vicky Tauli-Corpuz sarà a Roma il 22 marzo a un incontro pubblico organizzato dalla rete In Difesa Di - per i diritti umani e chi li difende (indifesadi.org) assieme a Nara Baré, neoeletta presidente della Confederazione delle Organizzazioni dei Popoli Indigeni dell’Amazzonia Brasiliana (Coiab). Il 24 marzo sarà al dibattito di chiusura del Festival dei Diritti Umani.