Carceri, passato il voto la riforma va recuperata di Giovanni Fiandaca Il Mattino, 13 marzo 2018 Dovremo annoverare la riforma penitenziaria tra le grandi occasioni mancate del governo Gentiloni, nonostante le plurime promesse fatte dallo stesso premier e dal guardasigilli Orlando fino a pochi giorni prima del voto del 4 marzo? Quanti avevamo confidato che la seduta del Consiglio dei ministri del 22 febbraio scorso potesse davvero segnare il punto di svolta, abbiamo dovuto prendere atto di aver nutrito un eccesso di ottimismo contrastante con la prudenza tipica del realismo politico. Avevamo cioè sottovalutato la preoccupazione che approvare nell’imminenza della competizione elettorale i decreti attuativi della riforma, e in particolare quello che estende i presupposti di applicabilità delle misure alternative al carcere, avrebbe potuto comportare una perdita di voti specialmente a favore della destra. Mentre, ad una settimana dalla battaglia elettorale e dalla sonora sconfitta del Pd, vale a dire il principale partito promotore della revisione ammodernatrice dell’ordinamento penitenziario, c’è adesso da chiedersi se la partita sia definitivamente chiusa o restino spazi di intervento per lo stesso governo Gentiloni ancora in carica (tanto più che esso sembra destinato a durare per il tempo verosimilmente non brevissimo necessario a dar vita a quel nuovo governo, del quale rimangono allo stato ancora oscuri i possibili tratti identitari e i possibili scopi programmatici). Come studioso di diritto penale ormai di lungo corso, e soprattutto nel mio ruolo operativo di garante siciliano dei diritti dei detenuti, non posso non auspicare che l’attuazione della riforma carceraria continui a essere perseguita come un obiettivo, ideale prima che politico, meritevole di essere realizzato in ogni caso. Ciò a dispetto di possibili valutazioni di opportunità contingente. E anche a dispetto - aggiungerei - di eventuali dubbi di persistente legittimazione (sostanziale prima che formale) a condurre in porto un’impresa riformistica pur sempre riconducibile a un partito e a una compagine governativa non certo premiati dal voto recente. Infatti, al di là degli attuali rapporti di forza e delle difficili dinamiche politiche nel frattempo innestatesi, un punto è fuori discussione: la necessità di modificare in senso migliorativo, e più adeguato ai tempi il sistema penitenziario, corrisponde all’interesse generale. Diversamente da quanto una cattiva e interessata propaganda ha cercato di far credere, alimentando le paure collettive per facile tornaconto elettorale, il carcere così com’è non costituisce l’unica o più efficace risposta contro la criminalità. Tutt’altro. Un carcere come luogo di reclusione senza speranza, destinato a isolare il condannato e a escluderlo dalla società come un nemico da bandire, lungi dal riabilitare, incattivisce i delinquenti e provoca effetti per un ver so ulteriormente desocializzanti e, peraltro verso, criminogeni. Migliorare le condizioni di vita penitenziaria, promuovere i percorsi rieducativi ed estendere l’accesso alle misure extra detentive, m realtà, non equivale affatto a sposare un clemenzialismo buonista. Vuol dire, al contrario, puntare in modo più intelligente e credibile al rafforzamento della stessa sicurezza collettiva. Come le statistiche criminali mettono infatti in evidenza, sia in Italia sia all’estero, i condannati che scontano tutta la pena in carcere tendono a ricadere nel delitto in percentuale molto maggiore rispetto a quelli che sperimentano anche misure alternative alla detenzione (come, ad esempio, l’affidamento in prova al servizio sociale). E sempre le indagini statistiche, altresì, attestano che tornano a delinquere di meno quei condannati che durante l’espiazione della pena beneficiano di opportunità lavorative, anche intramurarie. Se così è, una seria riforma penitenziaria richiede dunque non soltanto uno svecchiamento della disciplina normativa, ma anche un rilevante incremento di risorse pubbliche finalizzate a promuovere i corsi di formazione professionale e le offerte lavorative all’interno delle stesse carceri. D’altra parte, non è neppure vero - come ha obiettato in modo affrettatamente allarmistico qualche esponente della magistratura d’accusa che alcune novità rischierebbero di indebolire la lotta al crimine organizzato e ammorbidirebbero il cosiddetto carcere duro. Come è stato con onestà rilevato anche dall’interno del mondo giudiziario, dalla riforma sono infatti esclusi i reati di mafia e terrorismo e da essa non viene per nulla intaccato il regime speciale del 41bis (tra le prese di posizioni più lucide ed efficaci a difesa della riforma ad opera di magistrati, cfr. ad esempio quella di Piergiorgio Morosini sul Fatto del 21 febbraio scorso). L’esigenza di non vanificare il meritorio impegno speso dal ministro Andrea Orlando, prima con la creazione degli “Stati generali” dell’esecuzione penale, e successivamente con l’emanazione della legge - delega e la preparazione dei conseguenti decreti delegati, ha già sollecitato alcuni appelli pubblici per la definitiva approvazione della riforma carceraria firmati da numerosi intellettuali, professori universitari di diritto e magistrati. Nella medesima scia si collocano i due giorni di astensione dalle udienze deliberati per il 13 e il 14 marzo dall’Unione Camere penali, unitamente a una manifestazione nazionale a Roma (13 marzo). È costituzionalmente improprio o politicamente illusorio sperare che il governo Gentiloni, ancorché in scadenza, non smentisca le molte promesse vanificando il tanto lavoro già fatto, e (almeno) tenti di portare a compimento l’attuazione di una riforma di civiltà, che gli viene a tutt’oggi richiesta - oltre che da una popolazione carceraria da tempo in attesa e dall’insieme dei Garanti nazionale e territoriali - da ampi settori del mondo della cultura e dell’università, dall’avvocatura e da larga parte della stessa magistratura? Oggi è l’ultimo giorno utile per ripristinare la legalità nelle carceri di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 marzo 2018 Oggi è l’ultimo giorno disponibile per licenziare, da parte del Consiglio dei ministri, il decreto attuativo della riforma dell’Ordinamento penitenziario. Si tratta del decreto già esaminato dalle commissioni giustizia delle camere, che il Consiglio dei ministri potrebbe licenziarlo oggi. Perché è l’ultima data utile? Se il governo non intende conformarsi ai pareri parlamentari, dovrà trasmettere nuovamente gli schemi alle Camere con i necessari elementi informativi e le motivazioni delle scelte legislative. Le Commissioni dovranno poi esprimersi nei successivi 10 giorni. Decorso tale termine, i pareri potranno comunque essere adottati. Ecco perché è importante che il governo si riunisca oggi. Sono i 10 giorni che fanno la differenza. Basterebbe un giorno in più è il decimo giorno scade esattamente quando si è già insediato il nuovo Parlamento. A livello teorico, ci sarebbe ancora un margine di circa cinque giorni dall’insediamento della nuova legislatura e il Consiglio dei ministri attualmente in carica potrebbe avere una remota possibilità per dare l’ok definitivo. Però si entra nel campo dell’improbabilità. A fare pressione al governo, come già annunciato, è l’Unione delle camere penali italiane. Nelle giornate di mobilitazione e di astensione dalle udienze di oggi e domani contro la mancata riforma dell’Ordinamento penitenziario, i penalisti sono in prima fila per esprimere il forte dissenso nei confronti di una politica che calpesta i diritti fondamentali dei detenuti e nega il principio costituzionale di rieducazione e reinserimento sociale del condannato. Questa mattina ci sarà a Roma (dalle ore 9,30), presso la Residenza di Ripetta (via Ripetta 231), la manifestazione organizzata dall’Ucpi contro la mancata riforma dell’Ordinamento penitenziario. La mobilitazione, si legge nel comunicato dell’Unione, “vuole essere un ulteriore forte richiamo al governo affinché, prima dell’oramai prossima scadenza, approvi il testo già sottoposto al vaglio del Consiglio dei ministri, dando voce a tutti coloro che autorevolmente si sono in questi mesi espressi a favore della riforma”. La riforma dell’Ordinamento penitenziario voluta dal ministro Orlando, ricorda l’Ucpi, è “stata salutata dall’avvocatura penale come una grande riforma organica dell’esecuzione penale con la quale, dopo oltre quaranta anni, si è tornati a porre la finalità rieducativa ed il reinserimento sociale del condannato al centro della legislazione penale nella luce dei principi affermati dall’art. 27 c. 3 della Costituzione”. La riforma “pone ancora una volta l’Italia all’avanguardia nella elaborazione dei più avanzati strumenti di recupero e di trattamento penitenziario”, affermano i penalisti, secondo i quali “i pareri non vincolanti espressi dalle Commissioni giustizia del Parlamento non possono costituire un ostacolo all’iter di approvazione definitiva della legge, dovendo il governo restare fedele allo spirito della riforma ed alla lettera della delega”. La manifestazione si apre alle 9,30 con i saluti dell’avvocato Cesare Placanica, presidente della Camera penale di Roma. Alle ore 10 c’è l’appello al governo per la riforma penitenziaria con gli interventi del professor Giovanni Fiandaca, già Ordinario di diritto penale, Università di Palermo; la dottoressa Laura Longo, già magistrato di sorveglianza del Tribunale di Roma; il professore Giovanni Maria Flick, già presidente della Corte costituzionale; Patrizio Gonnella, presidente di Antigone e l’avvocato Riccardo Polidoro, responsabile osservatorio carcere dell’Unione delle camere penali. A concludere gli interventi c’è il presidente dell’Ucpi Beniamino Migliucci. Alle ore 11:30 si discute del libro Uno sguardo nel carcere - Un ambasciatore a Regina Coeli. Ad introdurlo c’è l’avvocato Gianluca Tognazzi, del direttivo della Camera penale di Roma, e se ne discute con l’autore del libro Claudio Moreno, la coordinatrice presidenza del Partito Radicale Rita Bernardini, il già procuratore generale Vitaliano Esposito, Piero Sansonetti. Marisa Laurito leggerà alcuni brani del libro che narra di una penosa detenzione con descrizioni appassionate delle modalità di vita in carcere, delle regole non scritte, delle drammatiche condizioni di sovraffollamento, dei suicidi e di tanti altri gravi problemi che affliggono i giovani e gli adulti detenuti. Una descrizione meticolosa in tutti i suoi aspetti quotidiani delle giornate trascorse in carcere raccontate dall’autore anche attraverso ritratti di personaggi reclusi di diverse provenienze territoriali. Carceri, tensione al top ma la riforma è bloccata di Gigi Di Fiore Il Mattino, 13 marzo 2018 Contro lo stop del governo Gentiloni oggi manifestazione a Roma. Sono 7.574 i detenuti in più di quanti le 190 carcerari italiane ne potrebbero accogliere. Un dato ufficiale, di fine febbraio, del ministero della Giustizia. E ancora emergenza sovraffollamento, ancora condizioni detentive proibitive, che scatenano tra le celle episodi di insofferenza e alimentano tensioni. Nel carcere di Ariano Irpino, un detenuto con problemi psichici ha distrutto due celle e si è scagliato contro due agenti penitenziari. Commenta Ciro Auricchio, segretario regionale dell’Unione sindacati di polizia penitenziaria: “Ci sono troppi detenuti con evidenti disturbi psichiatrici, assistiti con pochi strumenti. Il sovraffollamento e le nostre carenze di organico aggravano le cose”. Anche a Foggia un agente di polizia penitenziaria è stato aggredito da un detenuto. E anche in questo caso l’episodio è stato segnalato dai sindacati: “A Foggia, quindici agenti vigilano su 400 detenuti. Ci risulta che in Italia oltre mille agenti sono stati aggrediti da detenuti”. Nelle carceri italiane, con spazi risicati di vivibilità e assistenza sanitaria carente, i numeri del 2017 parlano chiaro: 9.510 gesti di autolesionismo, 1.135 tentati suicidi, 7.446 aggressioni, 1.175 ferimenti. Cifre da tensioni perenni, che confermano la necessità di interventi per migliorare le condizioni carcerarie. Ma il 22 febbraio scorso, il governo Gentiloni ha rinviato l’approvazione della riforma penitenziaria, che doveva scattare su delega legislativa del Parlamento. Un rinvio dettato da realismo politico, a pochi giorni dalle elezioni, che non ha attuato una delega che scadrà a luglio. Dice Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione delle camere penali: “La riforma contribuirebbe a migliorare le condizioni di chi è detenuto, rendendo più rapido il ricorso a misure alternative della pena. Il governo ha avuto paura, dopo una campagna politica che, sulla base di false informazioni, parlava di provvedimento svuota carceri. Non è così”. Oggi e domani, i penalisti si asterranno dalle udienze per sollecitare l’approvazione della riforma che sarebbe sempre possibile fino a luglio. Oggi, a Roma, alla Residenza di Ripetta è stata organizzata anche una manifestazione voluta dalle Camere penali, da Rita Bernardini coordinatrice della presidenza del Partito radicale, dal movimento Antigone e anche da Magistratura democratica, la corrente di sinistra dell’Associazione nazionale magistrati. Spiega l’avvocato Riccardo Polidoro, responsabile dell’Osservatorio carcere delle Camere penali che sarà tra i relatori di oggi: “Lo schema del provvedimento aveva già superato i pareri del Parlamento. Bastava un sì del consiglio dei ministri. La parte che ha spaventato il governo è quella che abolisce gli automatismi e le preclusioni sulla concessione delle pene alternative. Una modifica positiva che darebbe ai giudici di sorveglianza la possibilità di decidere valutando la storia e i comportamenti del singolo detenuto, senza steccati precostituiti”. Nel provvedimento, c’è anche l’aumento da tre a quattro armi come massimo di condanna su cui è possibile ottenere la sospensione della pena nella sentenza. E poi i maggiori controlli sulla gestione e il comportamento del detenuto cui si applica la pena alternativa. A fine febbraio, sono state 49629 le misure alternative concesse. Significano affidamento in prova ai servizi sociali, semilibertà, detenzione domiciliare, lavoro di pubblica utilità, messa alla prova, libertà vigilata, libertà controllata, semidetenzione. Aggiunge l’avvocato Polidoro: “Sono modalità di responsabilizzazione del detenuto, strade per la rieducazione e il reinserimento che la sola detenzione in carcere rende sempre più difficile. Qualcuno parla strumentalmente, alimentando paure, di svuotamento della carceri. Da qui il timore a decidere della politica”. Ai benefici delle pene alternative, concesse dai magistrati di sorveglianza, sono esclusi i reati più gravi, come mafia e terrorismo. Ma è facile constatare dalle statistiche ufficiali che, se non si fossero applicate le misure alternative, la popolazione carceraria sarebbe il doppio dell’attuale, arrivando a quasi centomila detenuti. Una follia. Anche dopo la sentenza, l’otto gennaio del 2013, della Corte europea dei diritti di Strasburgo. Una sentenza di condanna dell’Italia per “trattamento inumano e degradante di sette detenuti” nel carcere di Busto Arsizio e Piacenza. Altri 550 ricorsi sono in attesa. Sotto accusa è il sovraffollamento delle carceri italiane, stimato con un tasso del 142,5 per cento. La media europea è del 99,6 per cento. Su questo, non esistono differenze tra nord e sud. Lombardia, Liguria, Veneto, anche per l’aumento di detenuti stranieri, risultano avere un tasso di affollamento carcerario superiore al 170 per cento, uguale a quello pugliese. Ma nella sentenza europea del 2013, è contenuto anche un passaggio che suona come un’ulteriore critica alla mancata approvazione della riforma. Una raccomandazione “affinché gli Stati prevedano adeguate misure alternative alla detenzione, riducendo il ricorso alla carcerazione”. Che poi è proprio lo spirito della riforma che si è arenata il 22 febbraio scorso in Consiglio dei ministri. Dice Samuele Ciambriello, garante dei detenuti in Campania dallo scorso settembre: “Il sovrannumero carcerario crea condizioni di invivibilità. Inoltre, dopo la chiusura degli Opg, i detenuti psichiatrici si sono riversati nelle carceri comuni ed è nata un’altra emergenza da affrontare. E stato accertato, poi, che nel 2016 oltre 40mila detenuti italiani soffrivano di disagi psichici, sfociati in patologie depressive e psicosi. Patologie che possono portare a gesti estremi e comportamenti autolesionistici”. Lo scorso anno, 50 detenuti si sono suicidati nelle carceri italiane. Quattro in Campania. Situazioni difficili, su cui la riforma annunciata e sospesa poteva diventare un primo tentativo di soluzione. “Occasione storica sprecata”, commenta Rita Bernardini. E conclude l’avvocato Polidoro: “Il sovraffollamento rende difficile il rispetto delle norme e, dietro l’angolo, c’è sempre il ricorso all’indulto che è istituto emergenziale immediato, che allontana però dalla ricerca di vere soluzioni”. Carceri, Fp-Cgil Veneto aderisce a iniziativa del 14 marzo delle Camere penali rassegna.it, 13 marzo 2018 La Fp-Cgil Veneto aderisce all’iniziativa delle Camere penali del Veneto del 14 marzo per la riforma dell’ordinamento penitenziario, con presidio davanti agli istituti penali della regione per ribadire l’importanza di approvare la riforma delle carceri. Fp-Cgil, si legge in una nota, “è stata fra i promotori degli Stati generali dell’esecuzione penale e ha partecipato attivamente alle loro commissioni. Quale organismo che rappresenta i lavoratori del settore ha continuato l’interlocuzione col ministro della Giustizia e con la cittadinanza attraverso due campagne informative: #dentroametà, del 2016, realizzando numerose clip sul lavoro in carcere e #fuoriametà del 2017 che ha prodotto tre video informativi sull’ esecuzione penale al di fuori delle mura e le misure alternative. Siamo convinti che l’Ordinamento Penitenziario del 1975 debba essere aggiornato e reso più aderente al mandato costituzionale, in maniera da favorire l’effettività di un trattamento volto al reinserimento sociale e alla contestuale attenzione alla vittima del reato”. “La battuta d’arresto subìta dall’azione di riforma, dopo il grande lavoro svolto dagli stati generali, segna la perdita di un’importante occasione di aggiornamento del nostro sistema dell’esecuzione penale che non può essere ostacolato da preoccupazioni elettorali. Le misure contenute nel decreto di riforma dell’ordinamento penitenziario sono importanti in quanto garantire il diritto alla salute del detenuto e maggiori opportunità di lavoro e di reinserimento per le persone in esecuzione penale produce una minor recidiva e garantisce quindi maggior sicurezza ai cittadini. Incrementare l’esecuzione penale esterna richiede tuttavia un forte investimento sul versante delle professionalità impegnate in questo settore e la disponibilità di risorse da condividere con gli enti territoriali per la realizzazione dei progetti di reinserimento e dei percorsi di riparazione a favore delle vittime del reato”, conclude il comunicato. Carceri, fotografia dagli istituti: numeri, rischi e insicurezza di Silvia Mari Dire, 13 marzo 2018 Il 3 marzo era pronto ad uscire dal carcere romano di Regina Coeli. Gli erano stati appena riconsegnati documenti ed effetti personali. Originario del Gambia, era finito dentro per rapina. Alle quattro del pomeriggio un diverbio e una colluttazione con due poliziotti della Penitenziaria. Viene di nuovo arrestato. Un trauma alla testa e 10 giorni di convalescenza per un agente e una prognosi di 30 giorni per una frattura alla mano per l’altro. Nella mattina di quello stesso giorno, alle 10, un altro poliziotto era stato aggredito con un pugno in pieno volto da un detenuto italiano con problemi psichiatrici. Le Rems, con cui la legge ha sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari, non riescono ad assorbire tutta la domanda e questi episodi sono frequenti. E ancora due giorni fa un’altra brutale aggressione nel penitenziario di Ariano Irpino con un poliziotto finito in ospedale in codice rosso. “La situazione - racconta l’agente della Penitenziaria in servizio a Regina Coeli il 3 marzo - è sempre più difficile. Lavoriamo in condizioni impossibili, sia per noi che per l’incolumità dei detenuti. Le carceri, in tutta Italia, sono edifici storici, spesso ex monasteri con lunghi corridoi, strutture ormai inadeguate e il principio della “sorveglianza dinamica” - poliziotti più telecamera - è ormai riconosciuto come fallimentare. Con uno o due poliziotti a sezione - spiega ancora alla Dire - dove ci sono centinaia di detenuti, è impossibile controllare la situazione. Come si può impedire il proselitismo e la radicalizzazione islamica? Diventa difficile monitorare”. Gli agenti in tutta Italia sono 46.411. I detenuti 58.163, stranieri 19.765. La regione con più istituti penitenziari è la Sicilia (23), seguita da Lombardia (18), Toscana (16), Campania (15), Lazio (14) e Piemonte (13). Il Lazio è al terzo posto con 6.228 detenuti, mentre è al secondo per numero di stranieri. I numeri dati dalla Polizia penitenziaria, riferiti a maggio 2017, denunciano l’allarme del sovraffollamento: 131 carceri su 194 vivono in questo stato di rischio, sottovalutato, dove un nulla può generare una protesta di massa. A Regina Coeli a fronte dei 622 detenuti previsti, ve ne sono 898. Ci sono 434 poliziotti operativi, mentre ne servirebbero 610. A disposizione della sicurezza e del controllo vi è quindi solo il 69,51% dell’organico previsto. “Gli stranieri - continua il poliziotto - sono circa la metà dei prigionieri a Regina Coeli. I reati più comuni sono quelli legati alla droga e allo spaccio, anche rapina, ma sono in aumento quelli per maltrattamento, atti persecutori e stalking”. La fotografia dei reati comuni ha anche una sua connotazione geografica. I georgiani finiscono dentro soprattutto per furti in appartamento, gli albanesi per traffico di droga, i romeni per clonazione e ricettazione, i reati tipici degli italiani sono un po’ più articolati, dalla rapina al traffico di droga. Avere a disposizione un utensile che possa essere trasformato in un’arma contro un agente - conclude il poliziotto - non è cosi difficile come si crede”. La campagna elettorale appena conclusa non ha nemmeno sfiorato la questione delle carceri, pur riproponendo il semplice proclama della “certezza della pena” e di un sistema giudiziario più efficiente. Se le carceri come luoghi di pena e riabilitazione sono al collasso, se chi vi lavora denuncia l’impossibilità di fare bene il proprio dovere e di temere per la propria incolumità, a pagarne il prezzo, prima o dopo, è la sicurezza dell’intera società. “La voce di un filosofo è troppo debole contro il tumulto e le grida di tanti che son guidati dalla cieca consuetudine, ma i pochi saggi che sono sparsi sulla faccia della terra mi faranno eco nell’intimo dei loro cuori”. Lo sapeva molto bene Cesare Beccaria nel XVIII secolo. Uno sforzo per ridurre i veleni reciproci di Valerio Onida Corriere della Sera, 13 marzo 2018 L’Italia di oggi forse richiede la ricerca di obiettivi, magari limitati ma precisi, che possano essere accettati come comuni, in attesa che sia più chiaro agli italiani e agli stessi partiti su quali basi si possano delineare in futuro convergenze e divergenze In questi giorni post-elettorali si moltiplicano le analisi sulla situazione di “stallo” in cui sembra trovarsi il sistema politico italiano. Sembra quasi che le preoccupazioni riguardino, più che il contenuto delle politiche da adottare, la difficoltà o addirittura l’impossibilità di dare vita a una qualsiasi maggioranza a sostegno di un Governo. I risultati delle elezioni mostrano un Parlamento e un Paese divisi in tre “fette” non uguali, ma tutte inferiori al 50 per cento, con una rappresentanza, per di più, che riflette, in prevalenza, tre diverse aree territoriali. Un Paese diviso, dunque, anche geograficamente. Forse per ritrovare la “fotografia” di una analoga netta divisione territoriale espressa nel voto - in quel caso solo in due parti - dobbiamo risalire addirittura al referendum istituzionale del 1946, in cui tutto il Centro-Nord votò in maggioranza per la Repubblica, tutto il Centro-Sud, da Roma in giù, votò in maggioranza per la Monarchia. A sua volta l’Assemblea Costituente, eletta contemporaneamente, vedeva al suo interno tre gruppi maggiori (Dc, Psi e Pci), nessuno dei quali, e nessuno dei due blocchi in cui essi potevano essere distinti (Dc e sinistre) aveva da solo la maggioranza. Ma la Repubblica, nata dal referendum, si consolidò come Repubblica di tutti gli italiani (come apparve in modo anche simbolicamente visibile quando l’Assemblea scelse come Capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola, napoletano e monarchico). A sua volta la Costituzione fu approvata in un contesto e in un clima che, nonostante le forti divisioni politiche fra i maggiori partiti, furono di unità nazionale. Lungi da noi naturalmente l’idea di paragonare il prodotto costituente a quelli oggi richiesti alla politica e che la politica sembra in grado di dare. Anzi una delle ragioni che sconsigliano al momento di mettere mano a eventuali revisioni della Costituzione è proprio il clima politico conflittuale nel Paese. Per fortuna la Costituzione c’è, ed è, come è stato detto, lo strumento che un popolo si dà nel momento della saggezza a valere per il momento della confusione. Ogni voto popolare esprime delle scelte: fra due sole alternative, nel caso del referendum, fra più alternative possibili, nel caso dell’elezione del Parlamento. Ma in una democrazia sana le scelte compiute non escludono che vi sia e che resti un terreno comune sul quale tutti o quasi tutti possono e debbono riconoscersi. Questo è anzitutto, ma non solo, il terreno della Costituzione. Poi, in vista delle scelte politiche, di breve e di lungo periodo, si creano maggioranze e minoranze. Ora, se in un sistema bipartitico o almeno bipolare la maggioranza riflette normalmente la prevalenza nel voto di uno schieramento sull’altro, quando i poli sono più di due e nessuno di essi ottiene la maggioranza è indispensabile la convergenza di due o più di essi su un programma condiviso, che può essere più ampio o ristretto a pochi punti, più o meno proiettato avanti nel tempo. L’importante è che la convergenza non si cerchi su semplici prospettive di spartizione del potere, ma nasca dallo sforzo di individuare un denominatore comune, che rifletterà necessariamente solo in parte i desideri e i propositi di ciascuno dei protagonisti, ma consentirà comunque di dare vita a una azione di governo. Nell’Italia di oggi, per di più, linee di divisione anche profonde passano non solo fra le forze politiche e le coalizioni che si sono affrontate nel voto, ma anche al loro interno: la “gara” fra Lega e Forza Italia ha costituito un elemento non secondario della competizione elettorale; a sinistra la divisione è stata più esplicita; lo stesso Movimento 5 Stelle appare lontano dal proporsi come una forza compatta rispetto alle scelte politiche più rilevanti da effettuare. Così che appare difficile anche individuare con chiarezza le distanze e le vicinanze rispettive di ognuno dei tre poli rispetto a ciascuno degli altri due. In queste condizioni sembrerebbe naturale che la ricerca dell’unità possibile sia effettuata a tutto campo, coinvolgendo tutti tre i “poli” o almeno parti di essi. Un Governo di “unità nazionale”, come si diceva un tempo, dove però il termine “nazionale” non sta per nazionalista, bensì esprima un terreno sul quale ognuno dei tre possa ritrovare qualcosa che riconosce come proprio ma anche comune a tutti. Di solito si pensa che siano le situazioni di emergenza (come le guerre) che consigliano Governi di unità nazionale. Ma non è detto che l’Italia di oggi non richieda un analogo sforzo di ricerca di obiettivi, magari limitati ma precisi, che possano essere accettati come comuni, in attesa che si renda più chiaro agli italiani e agli stessi partiti su quali basi e su quali linee si possano delineare in futuro convergenze e divergenze. Se non altro con l’intento di ridurre il tasso di veleni reciproci che caratterizza oggi troppo spesso il modo e lo stile del confronto politico e di quello elettorale. Vent’anni di paura: “Il crimine dilaga...”. Anzi, no: sta sparendo di Paolo Delgado Il Dubbio, 13 marzo 2018 I reati sono al minimo storico ma la politica continua ad alimentare la retorica dell’emergenza. Quando è cominciata? Perché? Come contrastarla? Non si parla dell’ondata di criminalità che terrorizza e asserraglia nelle case i concittadini, protetti da porte blindate e sofisticati sistemi di sicurezza, sempre più spesso con la pistola a portata di mano. Quell’ondata rifluisce di anno in anno già di per sé, e giusto nel 2017 ha toccato il minimo storico: 355 omicidi. Nel 1991, quando si poteva girare per le strade senza incontrare quella gente arrivata da lontano che basta guardarla per sospettarla colma di pessime intenzioni, gli omicidi registrati erano 1901. Da allora il tasso non ha mai smesso di scendere progressivamente, accelerando la discesa negli ultimi tre anni. Sul fronte dei furti e delle rapine la linea è più frastagliata. La discesa si è interrotta negli anni in cui la crisi ha martellato più forte per poi riprendere vigorosamente con un calo dei furti rispettivamente del 20,4% e del 23,4% negli ultimi 3 anni. Insomma, nel complesso l’Italia è uno dei paesi più sicuri d’Europa: su 27 Paesi della Ue in 18 ci sono più fondati motivi di timore, e anche il paragone con i Paesi in condizioni simili, come la Germania, è nettamente favorevole. Quella che deve essere fermata, ma vai a capire come, non è l’insicurezza ma la percezione della stessa. Importa fino a un certo punto che una sensazione sia infondata e smentita dai dati se è in compenso radicata e crescente. Capita che da noi la percezione del pericolo sia inversamente proporzionale al pericolo stesso, e detti l’agenda della politica, influenzi le scelte elettorali, si alimenti da sola in una spirale viziosa e crescente. Vale dunque davvero la pena di chiedersi quando è cominciata, quando i fantasmi hanno iniziato a rimpiazzare la realtà e la paura si è sostituita ai fatti. Una data, volendo, la si può rintracciare: il 1999, quando il governo presieduto da Massimo D’Alema vota il primo “pacchetto sicurezza” con misure mirate a contrastare la microcriminalità. Il tasso di criminalità era già in picchiata, anche se lontano dal raggiungere gli attuali livelli raso terra. La “gente” però se ne rendeva conto fino a un certo punto. Troppi furtarelli, troppi scippi, troppi piccoli reati che, si sa, spaventano più delle ammazzatine perché colpiscono un po’ ovunque. Alla ministra degli Interni Rosa Russo Jervolino, che squadernava dati rassicuranti, pare che il premier coi baffetti rispondesse: “Uno scippo a Milano crea più insicurezza di tre omicidi in Sicilia”. La seconda tappa arrivò quasi dieci anni dopo, quando a Roma, il 30 ottobre 2007, Giovanna Reggiani, 47 anni, fu aggredita, stuprata e uccisa alla fermata della linea ferroviaria Tor di Quinto da un muratore rumeno. Il sindaco di Roma e leader del Pd Walter Veltroni organizzò una conferenza stampa sui due piedi, parlando con i cronisti nei giardinetti limitrofi alla stazione. Chiese, o più precisamente ordinò, una stretta sulla sicurezza. Il governo Prodi, con Giuliano Amato primo ministro, rispose a strettissimo giro con un decreto che facilitava le espulsioni degli stranieri, in particolari rumeni, già il giorno dopo. Il salto rispetto al “pacchetto” del 1999 era vistoso. Quello del governo D’Alema era un tentativo, un po’ sgangherato e molto provinciale, di agganciarsi alla fase aurea della “tolleranza zero” adottata dal sindaco di new York Rudy Giuliani negli anni 90. L’intemerata di Veltroni aveva un obiettivo preciso e chiamato per nome. Prendeva di mira apertamente “i romeni”. Legittimava di fatto la marea montante del panico da immigrazione che avrebbe travolto l’anno seguente sia la capitale, dove proprio grazie a una campagna elettorale centrata sulla sicurezza Alemanno sconfisse Rutelli, sia il Paese intero, con la vittoria della destra alle elezioni politiche. Il nuovo ministro degli Interni, Bobo Maroni, non dimenticò a chi e a cosa doveva il trionfo elettorale del 2008. Il decreto che varò all’inizio del 2009, definito subito decreto anti- stupro, inaspriva le pene per stalking e violenza sessuale, ma introduceva anche le ronde, sia pure, bontà del ministro, disarmate. Il decreto, che la Corte costituzionale avrebbe parzialmente bocciato l’anno successivo proibendo le ronde “in situazioni di disagio sociale”, rafforzava drasticamente anche il potere dei sindaci. Da allora, per quasi dieci anni, una campagna sulla sicurezza sempre più apertamente sconfinate in guerra contro i poveri è stata gestita più dai sindaci e dalle amministrazioni locali, dunque con enormi differenze tra le varie città, che dal governo centrale. Quanto all’obiettivo dichiarato del decreto Maroni, basta guardare i dati attuali, che registrano 140 morti per questioni di famiglia sui 355 complessivi, per verificarne l’inefficacia. Sul fronte delle norme anti-stalker, altro capitolo saliente del pacchetto, in compenso è andata anche peggio: si è dimostrato del tutto inutile. L’ultima svolta è arrivata con il duro del Pd, il ministro Minniti. Il decreto per la sicurezza e il decoro urbani del marzo 2017 riprende quasi alla lettera le basi del vecchio decreto Maroni. Aumenta ulteriormente i poteri dei sindaci. Concentra il fuoco non più sulla microcriminalità ma sul “decoro urbano” con una quantità di proibizioni destinate peraltro a restare quasi tutte lettera morta. In fondo i pacchetti che da vent’anni puntualmente invocano più sicurezza in un paese tra i più sicuri del mondo hanno essenzialmente valenza propagandistica. E altrettanto probabilmente i governi che li varano e che sono perfettamente al corrente delle dimensioni reali del problema solo la propaganda hanno in mente. La logica furbesca è però miope: perché ognuno di quei decreti ha confermato la percezione errata della sicurezza, ha pavimentato la strada in discesa di un’emergenza irresolubile per il semplice fatto che non si può in alcun modo superare un’emergenza che non c’è. La Commissione europea dichiara guerra alla “disinformazione” di Federico Fubini Corriere della Sera, 13 marzo 2018 Specialisti a confronto per preparare le “raccomandazioni”. Con una premessa comune: meglio non parlare più di contro “fake news”. Il primo punto sul quale ci siamo trovati tutti d’accordo, nel cuore dell’inverno, è che bisognava smettere di parlare di “fake news”. Quel termine ormai era stato preso in ostaggio dai politici, non solo Donald Trump, che lo usano come una clava sulla testa degli avversari. Il problema non sono le “fake news”, è la “disinformazione”: quel flusso di notizie false, distorte, parziali, sempre messe in giro soprattutto sui social network o sulle piattaforme di messaggi per distruggere i nemici o semplicemente per guadagnare denaro. La Commissione Ue aveva invitato 37 persone da molti Paesi e diversi settori della società per preparare “raccomandazioni” in vista delle elezioni europee fra quindici mesi. L’obiettivo era cercare di limitare la proliferazione di falsi profili su Facebook o Twitter capaci di distorcere il dibattito, com’era accaduto nel 2016 negli Stati Uniti. Non conoscevo quasi nessuno fra gli altri componenti. Le grandi piattaforme digitali - Facebook e Twitter, poi Google e Mozilla Firefox - avevano mandato i loro rappresentanti anche perché percepivano che rischiavano di finire sotto accusa e sotto pressione. Lo stesso ha fatto l’organizzazione europea dei consumatori, Beuc, perché capiva che questa era un’occasione per mettere pressione sul Big Tech. C’erano poi i delegati delle grandi reti tv del mondo e altri. Non è stato facile. Non solo, ma anche, per il grande potere di lobby del Big Tech. Google per esempio finanzia il Reuters Institute for International Journalism di Oxford (presente nel gruppo) o una cattedra del Collegio d’Europa. Alla fine ci siamo messi d’accordo su impegni di buona condotta, ma con un artiglio nascosto nell’ovatta: se non basta, la Commissione Ue è chiamata a usare tutti i suoi poteri Antitrust contro il Big Tech. Dalla Commissione Europea una bussola per fermare le notizie false di Gianni Riotta La Stampa, 13 marzo 2018 Non chiamiamole più “fake news”, false notizie, chiamiamole per quel che sono davvero, “disinformazione”, manovre globali per creare in quantità industriale, con l’appoggio di Stati, lobby e poteri occulti nascosti nel web, campagne di menzogne ad hoc per inquinare il libero dibattito delle nostre democrazie: questa la scelta del Rapporto finale dell’High Level Group convocato dalla Commissione Europea per combattere il fenomeno. Il Rapporto, presentato ieri dalla Commissaria Digitale Ue Mariya Gabriel e dalla presidente Madeleine de Cock Buning, non è punto d’arrivo ma di partenza, e vale la pena di esaminarlo, dopo le elezioni Usa e Brexit 2016, la Francia 2017 e certi focolai sospetti in Italia 2018. Il commissario speciale Usa Mueller, che indaga sulla disinformazione russa, ha già incriminato i capi dell’Agenzia Ricerca Internet che, da San Pietroburgo, diffondono odio online, come denunciato per prima da “La Stampa”. Oggi “fake news” è slogan che avversari politici e media usano come clava, uno contro l’altro. Per il presidente Trump sinonimo di giornali e tv ostili, per il presidente Putin irrisione delle democrazie, per tanti bloggers quel che pensa il vicino di casa. Giusto quindi lasciare da parte una definizione che fa evocare censure e ministeri della Verità. Nessuno ministro ha il diritto di decidere se una notizia sia vera o falsa, di imporre il metro ufficiale ai fatti. La libertà di parola - anche per la nostra Costituzione - non vieta di credere alle fole: scrivere online che i vaccini danno autismo mette a rischio tanti bambini, ma non è reato. Le leggi correnti invece penalizzano le campagne di calunnie ad arte, sostenute con documenti fasulli, false identità digitali, cyberwar, perfino in America, dove il Primo Emendamento alla Costituzione sulla libertà di parola è limitato dalla sentenza della Corte Suprema 1964, “New York Times versus Sullivan”, che vieta “sfrenata malafede” nel diffondere notizie false. Il rapporto dell’High Level, prodotto con giorni di discussioni serrate, riconosce che le “fake news”, male pur ancora limitato per dimensioni, sono sindrome fondata nella crisi di sfiducia che oppone opinione pubblica, élite, intellettuali, polarizzando contro ogni idea, o evento, che contraddica il credo del momento (il lettore troverà nelle cronache politiche italiane in corso abbondante materiale documentario in questo senso). La malattia è il rancore e la sfiducia tra noi, che uno studio Rand chiama con amarezza “decadenza della verità”, il sintomo la disinformazione. Per questo il Rapporto Ue parla di e-education, ripartire dalle scuole per insegnare come informarsi, criticamente, online, chiedendo ai media trasparenza, per esempio su bilanci e pubblicità (troppi siti lucrano pubblicità per padroni occulti), offrendo così ai cittadini e ai giornalisti (anche con corsi di formazione su Big Data e reti) le informazioni necessarie per fiutare e sradicare le notizie false, difendendo un ecosistema aperto all’informazione. Le grandi piattaforme, Facebook, Google, Twitter, Apple, non devono prosciugare le voci minori, né moltiplicare a pagamento la disinformazione, ma promuovere la diversità e le fonti autentiche. È una originale battaglia, il XXI secolo digitale contro la Seconda Guerra Fredda, una tecnologia nata per il dialogo presa in ostaggio dall’intelligence militare. Il Rapporto cita, in un delicato passaggio, come la prima linea di difesa sia all’Est europeo, ai confini con la Russia, esposto, vedi paesi Baltici ed Ucraina, alla disinformazione aggressiva. Al Rapporto l’Italia ha dato un suo contributo con i membri Gina Nieri, Oreste Pollicino, Federico Fubini e me. Abbiamo discusso, tra accordi e disaccordi, le esperienze di Mediaset, Bocconi, Corriere della Sera, Stampa, Luiss, e con i dirigenti Ue che affiancavano la Commissaria Gabriel - Roberto Viola, Giuseppe Abbamonte, Paolo Cesarini, Alberto Rabbachin - provato ad accorciare le distanze tra giganti multinazionali del web e combattivi blogger Lillipuziani, mediando tra interessi e culture diverse. Quando il Rapporto è stato approvato, ho ripensato al filosofo Frank Plumpton Ramsey, genio giovinetto morto a 26 anni: la realtà ci rimanda inesorabile alla verità, la verità inesorabile alla realtà. E la verità prevale sulle menzogne, per doloroso che sia il nostro comune cammino di apprendimento. Per lo stalking necessario il dolo di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 13 marzo 2018 Corte d’appello di Roma - Sentenza 537/2018. Non può essere condannato per stalking l’uomo che perseguita la ex compagna con l’obiettivo di poter tornare a vedere la figlia. Lo chiarisce la Corte d’appello di Roma con la sentenza n. 537 del 2018. Infatti, osserva la sentenza della I sezione penale, il dolo del delitto di atti persecutori è integrato dalla consapevolezza di chi agisce sulla idoneità delle proprie condotte alla produzione di uno degli eventi dal Codice penale. E cioè a provocare nella persona offesa il fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto, oppure a costringere la stessa ad alterare le proprie abitudini di vita. Il dolo, peraltro, avendo ad oggetto un reato abituale di evento, “deve essere unitario, esprimendo un’intenzione criminale che oltrepassa i singoli atti che compongono la condotta tipica, anche se può realizzarsi in modo graduale, non essendo necessario che l’agente si rappresenti e voglia fin dal principio la realizzazione della serie degli episodi in concreto verificatisi”. Nel caso concreto lo stalking è stato escluso, perché la condotta dell’uomo, pur concretizzata in una serie di episodi collegati tra loro, nasceva dalla sua volontà di esercitare, seppure con modalità assai discutibili, il diritto di visita della figlia minorenne e non intendeva realizzare un reale intento persecutorio a danno della ex convivente. Determinante, sottolinea la Corte d’appello, il contesto logorato, conflittuale ed esasperatamente litigioso che ha fatto seguito allo scioglimento della coppia e fa da sfondo “all’alterato tentativo da parte del X di esercitare il diritto a frequentare e tenere con sé la propria figlia. Non emerge di contro alcun elemento di prova che induca a ritenere che la condotta del X fosse volutamente diretta a creare attorno alla ex convivente un clima di paura per la propria incolumità personale o a costringerla a mutare le proprie abitudini di vita”. Episodi come la presenza costante nei pressi dell’abitazione della donna, i calci alla porta, ma non la rottura della stessa, le telefonate particolarmente frequenti non possono essere ritenuti, nel quadro complessivo dei rapporti fra i soggetti del reato, solo riconducibili ad un intento persecutorio, essendo alternativamente ipotizzabile che l’atteggiamento dell’uomo fosse diretto ad avere contatti visivi con la figlia allorché ciò non gli veniva consentito. Il cambiamento di residenza da parte della donna in realtà nel contesto post-separazione può essere letto come un avvicinamento, anche per ragioni logistiche e di opportunità, alla casa dei propri genitori e non a sfuggire alle condotte persecutorie dell’ex convivente, il quale avrebbe potuto ripetere anche nel nuovo domicilio (facilmente individuabile) le proprie condotte intimidatrici con analoghe visite indesiderate o attraverso cellulare. Imputabilità, il disturbo di personalità vale se c’è nesso causale con il reato di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 13 marzo 2018 Corte d’appello di Taranto - Sezione penale - Sentenza 18 settembre 2017 n. 540. In tema di imputabilità, il disturbo di personalità è processualmente rilevante solo se, da una parte, sia di consistenza, intensità e gravità tali da incidere sulla capacità d’intendere di volere; dall’altra, sussista un nesso di causalità tra il medesimo disturbo e la condotta penalmente rilevante posta in essere dal soggetto. Ad applicare la regola della rilevanza e dell’incidenza concreta della capacità di intendere e di volere in sede penale è la Corte d’appello di Taranto con la sentenza 540/2017. Il caso - Protagonista della vicenda è un uomo che esercitava abusivamente la professione di commercialista in alcuni paesi della provincia di Lecce e Taranto, il quale era stato denunciato per truffa da un gioielliere. Questi, rivoltosi al finto professionista per problemi con il Fisco su consiglio di un collega, si era accorto di essere stato raggirato, dopo aver anticipato 3 mila euro di parcella, in quanto il suo collega aveva subito un sequestro della sua attività, nonostante le rassicurazioni ricevute dal falso commercialista con tanto di decreti contraffatti della Commissione tributaria provinciale. Tratto a giudizio per rispondere di numerosi reati, ex articoli 348, 640 e 476 c.p., l’imputato, per il tramite del suo difensore, chiedeva l’accertamento della sua incapacità di intendere e di volere, in quanto all’epoca dei fatti lo stesso era affetto da “sindrome da conversione” e da “sindrome di Marfan” con episodi sincopali da fibrillazione atriale. La decisione - Sia in primo grado che in appello, tuttavia, i giudici non ritengono che possa assumere rilievo nella fattispecie la presunta non imputabilità del soggetto, nonostante dalla consulenza emergeva che costui nel periodo della commissione dei fatti contestati “si trovava in una condizione di deficienza psichica tale da ridurre il suo potere di critica, di indebolire la sua capacità volitiva, rendendolo vulnerabile alla suggestione altrui, sicché la sua capacità di intendere e volere erano fortemente attenuante”. Nel giudizio dinanzi al Tribunale, infatti, i consulenti avevano accertato che, in effetti, l’imputato soffriva delle patologie indicate, caratterizzate “dalla presenza di sintomi somatici o deficit riguardanti le funzioni motorie volontarie o sensitive”, aggiungendo, inoltre, che lo stesso “aveva sofferto di balbuzie sin dall’infanzia, sicché si era determinata la strutturazione di una personalità insicura, necessitante di riconoscimento, in virtù della quale era concreto il rischio di una sua esposizione altrui manipolazione e alla circonvenzione”. Ciò però non basta per i giudici a riconoscere un vizio totale o parziale di mente. È vero che anche i disturbi di personalità “che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di infermità, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente”. Tuttavia, è pur sempre necessario che sussista tra tale condizione e la condotta criminosa posta in essere un nesso eziologico “per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale”. In sostanza, il disturbo, le alterazioni o qualsivoglia disarmonia della personalità non hanno alcun rilievo, ai fini dell’imputabilità, se non incidono causalmente sulla commissione del reato. Nel caso di specie, dunque, il disturbo riscontrato nell’imputato è totalmente privo di idoneità causale con le condotte contestate. Anzi, chiosa la Corte, “la riscontrata insicurezza di personalità ed esposizione alla circonvenzione depongono in senso opposto alle condotte fraudolente compiute”. Omesse ritenute, condanne da revocare di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 13 marzo 2018 Corte di cassazione - Sentenza 10810/2018. Le nuove soglie di punibilità previste per i reati di omesso versamento delle ritenute e dell’Iva hanno comportato un’abrogazione parziale dei due precedenti delitti, restringendone l’ambito applicativo. Ne consegue che anche le condanne divenute definitive devono essere revocate. A confermare questo interessante principio è la Corte di cassazione, con la sentenza 10810/2018. Un contribuente era stato condannato in via definitiva per i reati di omesso versamento delle ritenute e omesso versamento Iva. Per entrambe le fattispecie gli illeciti si collocavano al di sotto delle nuove soglie di punibilità (150mila euro per le ritenute certificate e 250mila euro per l’Iva). Richiedeva così la revoca delle condanne divenute definitive. Il tribunale rigettava la richiesta, evidenziando che in realtà le modifiche configuravano una successione di leggi penali nel tempo con applicazione del trattamento più favorevole al reo solo in assenza del passaggio in giudicato. Va evidenziato che l’articolo 2 del codice penale (sulla successione delle leggi penali) opera un distinguo a seconda che la nuova norma più favorevole al reo abbia abrogato o solo modificato la precedente. Così, se vi è stata condanna per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce più reato, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali. Se, invece, la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applicano le disposizioni più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile. Nella specie il tribunale ha ritenuto applicabile il disposto del comma 4 con la conseguenza che, essendo la nuova norma diversa e più favorevole rispetto a quella precedente, essa trovava applicazione solo in assenza di pronuncia definitiva. L’interessato ricorreva per cassazione, evidenziando che le modifiche ai due delitti in esame non configuravano una semplice successione di leggi penali nel tempo, ma avevano introdotto una vera e propria “abolitio criminis”, dal momento che l’elemento quantitativo dell’evasione (ossia il superamento della soglia) originariamente previsto era stato abolito e pertanto il fatto non costituiva più reato. La Suprema corte ha accolto il ricorso rilevando che la citata soglia dei due reati, al di sotto della quale operano soltanto sanzioni amministrative, rientra nell’abrogazione parziale dei due delitti. Trova conseguentemente applicazione il comma 2 (e non il comma 4) dell’articolo 2 del codice penale con la conseguenza che il giudice (articolo 673 Cpp), in presenza dell’abrogazione della norma incriminatrice, deve dichiarare che il fatto non è previsto dalla legge come reato ed adottare i provvedimenti conseguenti. La correlazione tra accusa e sentenza è condizione necessaria per l’esercizio del diritto di difesa Il Sole 24 Ore, 13 marzo 2018 Sentenza - Correlazione tra imputazione contestata e sentenza - Definizione giuridica del fatto diversa rispetto all’accusa - Condizioni - Identità del fatto - Tutela del diritto di difesa. La facoltà riconosciuta al giudice di dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione deve conformarsi a due criteri fondamentali, tra loro connessi indissolubilmente (oltre a quelli di tenore procedurale previsti al comma 1 dell’art. 521 c.p.p.): l’identità del fatto ritenuto in sentenza rispetto a quello contestato e l’assenza di ogni pregiudizio in punto di esercizio del diritto di difesa rispetto allo stesso. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 12 febbraio 2018 n. 6733. Sentenza - Correlazione tra accusa e sentenza - Attribuzione in sentenza di una diversa qualificazione al fatto contestato - Violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza - Esclusione - Condizioni - Fattispecie. L’attribuzione in sentenza al fatto contestato di una qualificazione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione non determina la violazione dell’art. 521 cod. proc. pen., qualora la nuova definizione del reato appaia come uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio, secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile, o, comunque, l’imputato e il suo difensore abbiano avuto nella fase di merito la possibilità di interloquire in ordine alla stessa. (Nell’affermare il principio indicato, la Corte ha escluso la violazione del diritto al contraddittorio in una fattispecie in cui l’imputato era stato condannato in primo grado e in appello per il reato di cui all’art. 571 cod. pen., a fronte dell’originaria contestazione di maltrattamenti). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 13 marzo 2017 n. 11956. Sentenza - Correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza - Art. 521 c.p.p.- Rapporto di incompatibilità/eterogeneità - Violazione del diritto di difesa. Sussiste violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza quando il fatto ritenuto in sentenza si trovi, rispetto a quello contestato, in rapporto di incompatibilità ed eterogeneità, verificandosi un vero e proprio stravolgimento dei termini dell’accusa, a fronte dei quali l’imputato è impossibilitato a difendersi. (Nel caso di specie, l’imputato era stato condannato per il reato di cui all’art. 9 della legge n. 1423 del 1956, valorizzando ai fini della abitualità, un episodio di frequentazione con pregiudicati non espressamente menzionato nel capo di imputazione). • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 8 luglio 2013 n. 28877. Sentenza - Correlazione tra accusa e sentenza - In genere - Mutamento del fatto - Nozione - Violazione del principio di correlazione - Ambito dell’accertamento del giudice - Contenuto - Indicazione - Fattispecie. In tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione. (Fattispecie relativa a contestazione del delitto di bancarotta post-fallimentare qualificato dalla S.C. come bancarotta pre-fallimentare). • Corte di cassazione, sezioni Unite penali, sentenza 13 ottobre 2010 n. 36551. Napoli: quella mazza da baseball nella stanza degli interrogatori... di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 marzo 2018 La denuncia del Garante nazionale dei detenuti dopo la visita nell’Unità Operativa Tutela Emergenze Sociali e Minori della Polizia municipale di Napoli. Mazza da baseball in bella vista nella stanza degli interrogatori, camere di sicurezza prive di finestre e luce, in condizioni igieniche inaccettabili. Parliamo delle strutture dell’unità operativa tutela emergenze sociali e minori (Uotesm) della Polizia municipale di Napoli. A descrivere il quadro desolante di tali uffici è il rapporto redatto dalla delegazione del Garante Nazionale dei detenuti Mauro Palma composta dai membri del consiglio Daniela de Robert e Emilia Rossi, compresi i componenti dell’ufficio Vincenzo Abbondante, Massimiliano Bagaglini, Daniela Bonfirraro, Raffaele De Filippo, Raffaele De Filippo, Maria Antonietta Donati, Gilda Losito, Fabrizio Leonardi, Claudia Sisti e Armando Vincenti. La visita risale al giorno 27 marzo del 2017. Il rapporto - che esamina la visita complessiva di tutte le strutture contenitive della regione Campania - è stato pubblicato questo mese e le risposte che giungeranno dalle Amministrazioni verranno pubblicate non appena disponibili. Nel rapporto si legge che all’interno della struttura del comando della polizia municipale era presente una waiting room, con implicita funzione temporanea di camera di sicurezza, priva di finestre, priva di luce elettrica, senza pulsante interno per chiamare, in condizioni di mantenimento e igiene inaccettabili, senza disponibilità di coperte. Nel rapporto viene riportato che la delegazione del Garante ha riscontrato “con stupore e disappunto che mancava un qualsiasi registro delle presenze di persone in questa stanza: il tempo trascorso all’interno di tale ambiente è, quindi, privo di una credibile certificazione, né si ha alcuna documentazione degli avvenimenti che possano essersi verificati durante tale periodo di permanenza”. Mauro Palma denuncia nel rapporto che tale stato dei fatti è inaccettabile. Stigmatizza, infatti, la mancanza di rispetto di regole minime, sia per quanto riguarda le condizioni complessive della stanza a cui si è precedentemente riferito, che per quanto attiene l’assenza di registrazione e la conseguente impossibilità di analisi puntuale delle operazioni. Sollecita, quindi, una messa a norma della stanza e l’attivazione dei registri. La delegazione ha inoltre rinvenuto nell’ufficio ove si svolgono le operazioni di primo accesso e anche gli interrogatori l’inaccettabile presenza di una mazza da baseball, appesa al porta abiti e ben visibile. Di fronte alle perplessità sollevate dalla delegazione, gli operatori si sono giustificati adducendo il fatto che tale oggetto era un “ricordo” di uno degli operatori di polizia municipale e hanno comunque riassicurato che sarebbe stato immediatamente rimosso. Senza preavviso, però, la delegazione è tornata dopo due giorni e la mazza da baseball era ancora allo stesso posto. Questa volta l’operatrice presente cambia versione dei fatti e dice che si sarebbe trattato di un “reperto sequestrato”. Il capo della delegazione del Garante ha ufficialmente ribadito l’inaccettabilità della presenza di un simile oggetto all’interno dell’ambiente dove le persone sono condotte dopo il loro fermo e a volte interrogate. Il Garante nazionale scrive sul rapporto che vuole ricevere una conferma scritta dove viene detto che nessun oggetto simile è attualmente presente presso i locali del Comando della Polizia municipale di Napoli ove le persone fermate sono portate, trattenute o interrogate. “La presenza di una mazza di baseball appesa al porta abiti nella stanza dove si effettuano anche gli interrogatori - ribadisce Mauro Palma nel rapporto - è del tutto inaccettabile, così come poco credibili appaiono le diverse giustificazioni addotte per spiegare la sua stessa presenza”. Ora non resta che attendere le risposte da parte del Comune di Napoli. Civitavecchia (Rm): zero suicidi in carcere, intervista al direttore generale dell’Asl Roma4 di Vanessa Seffer L’Opinione, 13 marzo 2018 La situazione delle carceri italiane è sempre più drammatica, il tasso di sovraffollamento del 113,2 per cento (secondo il rapporto di Antigone sulle carceri presentato alla Camera dei deputati il 27 luglio del 2017) di cui solo sporadicamente si parla, è argomento che finisce poi per un certo tempo nel dimenticatoio perché non è pregnante durante le campagne elettorali. Ma è un altro l’aspetto su cui ci vogliamo concentrare: i suicidi nelle carceri, poiché i numeri sono preoccupanti ed è un argomento di cui è doveroso doversi occupare. Dal 2008 si contano 500 suicidi, nonostante il Piano nazionale per prevenirli. Da allora il Sistema sanitario nazionale (Ssn) è impegnato nel ricercare formule per ridimenzionare questi fenomeni di disperazione insieme all’amministrazione penitenziaria, che è comunque titolare del funzionamento delle carceri e della gestione dei detenuti. A farne le spese sono anche le donne e gli uomini della polizia penitenziaria, perché trascorrere molte ore dentro a un carcere per lavorare non è facile. Durante il XII Congresso Nazionale della Sips (Società Italiana di Psichiatria) su “Le nuove frontiere della psichiatria sociale: clinica, public health e neuroscienze”, tenutosi lo scorso gennaio a Napoli, riguardo agli eventi critici in ambito carcerario, sono stati messi a confronto i dati proposti da fonti autorevoli come Antigone, Ristretti Orizzonti, Dap, che analizzavano gli atti di autolesionismo, i tentati suicidi e i suicidi nelle carceri italiane negli anni 2015, 2016 e 2017. Questi dati ci hanno rivelato che in questi tre anni, fra le tante carceri italiane, nella Casa circondariale di Civitavecchia non ci sono stati casi di suicidio. Sappiamo già che in questo Istituto si svolgono tante attività socio-ricreative che certamente contribuiscono positivamente. Abbiamo chiesto al direttore generale della Asl Roma 4, Giuseppe Quintavalle, che cosa fa della Casa circondariale di Civitavecchia (dove sono reclusi circa 400 detenuti uomini e 40 detenute donne), un posto così particolare. Abbiamo iniziato a studiare fra il 2010/2011 i bisogni e le necessità di questo Istituto. La prima cosa che emergeva fino a quella data era che le responsabilità dei bisogni sanitari si riferivano al direttore dell’Istituto penitenziario e all’ordinamento del ministero di Grazia e Giustizia. Da quel momento iniziammo a creare il modello di sinergia, integrazione e formazione multidisciplinare, cioè dei tavoli di lavoro che focalizzavano obiettivi precisi: parlare tutti lo stesso linguaggio e iniziare a comprendere le dinamiche per lavorare al meglio. Così è stato consolidato con la mia nomina a commissario un tavolo centrale tecnico-politico che si riunisce ogni mese a cui partecipa il direttore dell’Istituto, il comandante degli agenti di Polizia penitenziaria, i referenti della Asl che stanno all’interno dell’Istituto penitenziario e il Garante dei detenuti, figura fondamentale che ho sempre ritenuto dovesse essere presente in tutte le attività. A latere si parla di salute mentale, dal momento che le attività carcerarie di tipo sanitario rientrano nelle attività di distretto. Ho voluto fortemente che all’interno del carcere ci fosse un Centro di salute mentale e che fossero direttamente i nostri medici che si occupavano di salute mentale nella nostra Asl ad andare a lavorare lì, dove c’era bisogno, in sintonia col mondo della psichiatria che già esisteva all’interno del carcere, con gli assistenti sociali, gli psichiatri, gli psicologi, gli educatori che facevano parte del vecchio ordinamento, costituendo il team insostituibile che c’è oggi, effettuando un grandissimo lavoro di cooperazione. Successivamente, con la partecipazione a dei tavoli regionali dove venne deciso che la Casa circondariale di Civitavecchia avesse come finalità quella di essere capofila per la salute mentale, iniziammo a sperimentare all’interno dei progetti pilota in materia di prevenzione a rischio suicidario. Abbiamo adottato all’interno un modello che era stato condiviso e concordato da tutti i Dipartimenti di salute mentale della Regione; modello che ha portato a dei benefici e dei risultati. Con questo modello sono venute delle ipotesi di lavoro che oggi si sono concretizzate con i “peer supporters”, che è alla seconda edizione. In pratica abbiamo formato dei detenuti tenendo dei corsi di formazione di tipo socio-sanitario e psicologico; detenuti che non sono utilizzati come delle badanti, ma sono persone che avendo già vissuto prima di altri una carcerazione o che sono già stati trasferiti da un carcere a un altro (poiché anche un trasferimento dà luogo a una forma di stress) possono individuare e segnalare un possibile rischio di suicidio, individuando qualche caso limite fra i compagni. Come vengono individuati i soggetti indicati, hanno personalità dalle caratteristiche precise? Non particolarmente, vengono scelti da un team multidisciplinare, da educatori, da assistenti, dal team del vecchio ordinamento, da psicologi e psichiatri della Asl, ne viene fuori un gruppo sempre più nutrito, bravo e capace in grado di segnalare delle situazioni a rischio. Il suicidio non si può prevedere, bisogna ricordare che i casi esistono all’interno come all’esterno, sappiamo che il suicida non sempre è un soggetto psichiatrico e che spesso i soggetti non sono mai ricorsi alla psichiatria e che si può trattare della debolezza di un momento o di un momento pregresso. Questo schema si potrebbe riprodurre anche in altre case circondariali del Lazio? Sì, il tavolo delle Regioni e il ministero hanno sancito un decreto in base al quale si inizia un lavoro che è in linea con ciò che abbiamo iniziato, ovvero con la stesura di piani locali per la prevenzione a rischio suicidario che attraverso varie azioni porteranno a ciò che vogliamo, cioè ad avere un occhio attento e una visione formativa condivisa da parte di tutti gli attori che entrano in campo, finalizzata alla migliore cura e al miglior trattamento. La Regione Lazio dovrà costituire un osservatorio per seguire tutti i piani locali per la prevenzione che sono in fase di stesura e che mi auguro porteranno a un discorso di insieme. Voglio ricordare che ogni struttura ha delle problematiche differenti; ogni struttura ha delle dinamiche contestuali da valutare. Non esiste un modello tout court, ma esistono dei modelli generalisti che poi devono essere applicati in maniera specifica. Quanto ha inciso nelle sue decisioni sulla scelta di un Centro di Salute Mentale dentro il carcere, il fatto che lei è fra le altre cose uno psichiatra? Il Centro di salute mentale di Civitavecchia, anticipando di 6/7 anni il sistema attuale, era già stato pensato, si stava già arrivando a questo. Mi viene in mente Rebibbia con le sue quattro strutture quasi autonome e indipendenti l’una dall’altra e la cui gestione non sempre è scevra di difficoltà. Quindi bisogna fare ancora molto, però si è iniziato un percorso virtuoso che mi auguro possa portare a un concetto di salute mentale nuovo. I fondi ci sono per questi progetti? Noi abbiamo lavorato su fondi regionali del Lazio. I fondi servono nella misura in cui devi adottare il reclutamento del personale. Il sistema organizzativo prescinde dai fondi, l’organizzazione nasce dalle persone. Anche nei momenti di vacche grasse i sistemi non è che funzionavano meglio. Io sono dell’avviso che non è tanto una questione di fondi. A volte lo è, ma a volte è una questione di organizzazione di sistemi. La cosa difficile è mettere a lavorare personalità diverse e soprattutto abituate a lavorare in maniera diversa. Brescia: tornare alla vita a “180 Gradi”, detenuti al lavoro tra i fornelli di Lilina Golia Corriere della Sera, 13 marzo 2018 Viaggio tra i detenuti al lavoro nel ristorante annesso al Gran Teatro Morato. Bandita la parola “assistenzialismo”: tra sala e cucina si lavora duramente. All’ingresso c’è il maître di sala. Con piglio elegante e gentile accoglie i clienti. In cucina invece c’è chi sta sfornando il pane da servire insieme alle prelibatezze di giornata. È ora di pranzo e il 180 Gradi Verso Gusto comincia a riempirsi. “Consiglio il riso saltato con calamari, gusto molto delicato”, suggerisce in maniera garbata il maitre. Qualcuno cede alla tentazione dei tagliolini al Bagòs. Per il secondo, filetto di sgombro su crema di peperoni. Si annaffia tutto con un Chiaretto del Garda. Il menù risulta una guida alla perdizione del palato. Porzioni abbondanti e gusto garantito dalla qualità dei prodotti selezionati. Si apre solo a pranzo e la sera soltanto per gli eventi, ma si fanno anche catering e banqueting. Una “food experience”, riporta la brochure, che inizia dallo spirito con cui la cooperativa Alborea - presieduta da Mario Fappani - ha avviato questa impresa nel campo della ristorazione. Dalle sbarre ai fornelli - Buona parte dei dipendenti del ristorante del Gran teatro Morato di via Ziziola, si destreggia tra i tavoli e lavora ai fornelli, ma soprattutto ricostruisce un’esistenza, trascorsa per molti anni dietro le sbarre. “Dopo l’esperienza del carcere li formiamo professionalmente per garantirsi un futuro (ci sono statistiche secondo le quali, senza prospettive, un ex detenuto può tornare a delinquere entro quaranta giorni dalla scarcerazione), ma soprattutto per vincere i pregiudizi e le etichette che sono un ostacolo al lavoro”, spiega il direttore Angelo Maiolo, che precisa: “Vogliamo essere giudicati per quello che facciamo, non per quello che siamo”. Bandita la parola “assistenzialismo”. Tra sala e cucina si lavora duramente. Regole, orari e mansioni definite. “Cerchiamo di far emergere le attitudini di ognuno per metterle a frutto nel modo migliore”. All’inizio c’era chi proprio non pensava di poter riuscire a tirare una sfoglia o a presentare in modo professionale i piatti del giorno. Ma in pochi mesi cuochi e camerieri sono riusciti a scrollarsi di dosso un passato ingombrante per chi - che delinquente più o meno seriale non è - si è ritrovato, per scelte sbagliate o spinto dalla disperazione, a commettere reati anche molto gravi. E il passo più difficile è stato quello di fare i conti con la propria coscienza che, pur avendo ormai pagato il conto alla giustizia (sono tutti a fine pena), non permetteva di andare oltre. Alborea ha dato la prospettiva di una nuova vita a undici detenuti, alcuni in affidamento, altri in semilibertà o in articolo 21. C’è anche un ex detenuto. “Non con tutti ci riusciremo, ma ci proveremo tutti i giorni. Non vogliamo educare nessuno, diamo un’opportunità”, dice Maiolo. La ristorazione per rientrare nella società - Il progetto, avviato da poco, parte dal laboratorio di pasticceria gestito da Alborea che deve alla cooperativa Genesi esperienza e nascita. “Qui, mentre si farciscono i dolci, si fa la prima valutazione, poi si passa all’inserimento nel contesto formativo al 180 Gradi. L’obiettivo è quello di collocare i nostri ragazzi in imprese del territorio entro tre o quattro anni”. Il ristorante diventa un ponte solido verso il reinserimento sociale che dalla fine di questo mese avrà un prolungamento con la riapertura, sempre sotto la gestione di Alborea, del ristorante della Cascina del parco Gallo, dove lavoreranno due detenuti, freschi di formazione nel laboratorio di pasticceria. L’ampliamento segue la filosofia di integrazione con il territorio (dove per la ristorazione si lavora anche con Copan) da cui si attinge per l’approvvigionamento della dispensa. “Abbiamo scelto eccellenze della zona - il vino della cascina Belmonte, il Caffè Cartapani o l’Amaro 030 - proprio per ringraziare quelle aziende sane che hanno fatto crescere il territorio che ora rende possibile il nostro progetto”. Cultura d’impresa a tutto tondo, anche se sono i 180 gradi (di qui il nome del ristorante) a segnare la strada del non ritorno in carcere. E si festeggia con la cheese-cake con marmellata di amarene preparata nella cucina di via Ziziola. Palermo: i detenuti del Malaspina restaurano reperti archeologici di Marta Occhipinti La Repubblica, 13 marzo 2018 Al traguardo il progetto promosso dal museo Salinas con l’istituto penale. In mostra sette vasi punici recuperati dai ragazzi assieme agli esperti. Restauratori, archeologi e antropologi lavorano in carcere con i detenuti minorenni per recuperare sette reperti archeologici risalenti alla necropoli punica di Palermo. Dal loro lavoro nasce il progetto “Mettiamo insieme i cocci”, promosso dal museo archeologico Salinas, in collaborazione con l’istituto penale Malaspina. Si tratta del primo laboratorio di restauro in Italia avviato all’interno di un istituto penitenziario. Sette ospiti del carcere minorile hanno lavorato per tre mesi sotto la guida degli esperti, impegnandosi in laboratori settimanali. Hanno studiato la storia delle migrazioni puniche, greche e romane nell’Isola, per poi imparare le basi delle tecniche di restauro. Alcuni di loro sono stranieri, e l’approccio con l’arte e la storia è stato un modo per imparare a confrontarsi con i coetanei italiani. I reperti restaurati sono tutti vasi di corredi funebri del sesto e quinto secolo avanti Cristo, appartenenti alla necropoli punica di Palermo. I vasi erano conservati al Salinas, ma in attesa del completamento dei lavori di restauro erano stati separati dal resto della collezione. Da mercoledì saranno visibili nella sala d’ingresso del museo, in una mostra a ingresso gratuito che resterà aperta fino a domenica 25. “È un progetto di cui siamo molto orgogliosi e che dà un senso di responsabilità sociale al museo - dice la direttrice, Francesca Spatafora - Affidando alle mani dei ragazzi oggetti di oltre duemila anni fa abbiamo raccontato una storia antica ma al contempo attuale. Una storia fatta di arrivi, di incontri, di mediazioni, di integrazione, suscitando una partecipazione attiva e un sincero interesse, utile ad accorciare quelle distanze culturali, religiose, razziali che oggi, a volte, alimentano separazioni e intolleranze. Portare i reperti in carcere significa farli interagire con i giovani fruitori e dargli nuova vita in contesti dove l’arte è ai margini, ma può anche farsi strumento di riscatto. In una seconda tappa del progetto porteremo la mostra al Malaspina, dedicandola ai detenuti”. I lavori di restauro sono stati documentati dai videomaker del museo, assieme agli ospiti dell’istituto penale che hanno partecipato alle fasi di realizzazione del breve documentario. Il video sarà proiettato mercoledì alle 16,30, durante l’inaugurazione della mostra. Ferrara: volontari del carcere sempre più numerosi e qualificati di Francesca Gallini Redattore Sociale, 13 marzo 2018 Successo per il corso sul volontariato penitenziario coordinato dal Csv Agire Sociale. Una forma di solidarietà già vivacissima, con numerose associazioni e attività come gestione di orti e biblioteche, corsi di lingua, teatro, sport, riparazione di biciclette. Dalla gestione degli orti ai corsi di lingua italiana, dal teatro alle attività sportive, dalla gestione della biblioteca fino al laboratorio di riparazione delle biciclette. Dentro e fuori dal carcere di Ferrara il volontariato in campo penitenziario è una realtà in crescita che vuole diventare sempre più qualificata. Si è infatti da poco concluso, con una buona partecipazione, il percorso formativo promosso dal comune, dalla casa circondariale e dal Csv di Ferrara “Agire Sociale”, nell’ambito della sua Università del volontariato, che ha avvicinato volontari e aspiranti tali alle buone pratiche di solidarietà e giustizia riparativa. Il corso fa parte del progetto “Cittadini sempre” finanziato dal comune di Ferrara all’interno dei Piani di zona e su indicazione del Comitato locale esecuzione penale adulti. Tra i partecipanti solo il 35% era rappresentato da volontari già impegnati in organizzazioni di terzo settore, il 32% erano studenti universitari, il 13% cittadini aspiranti volontari e l’8% operatori di enti pubblici che si occupano di sociale. Le loro principali motivazioni sono state la curiosità e l’interesse a conoscere l’ambiente carcerario e la vita dei detenuti, in particolare approfondendo le tematiche educative e di relazione, il desiderio di portare un contributo positivo a chi sta scontando la pena, ma anche la voglia di qualificare il proprio impegno e migliorare le proprie competenze professionali. Durante i cinque incontri hanno tra l’altro approfondito le normative e le misure di esecuzione penale esterna, e hanno potuto orientarsi tra le realtà pubbliche e del terzo settore presenti nella casa circondariale, alle quali sono stati invitati ad affiancarsi per almeno un anno, condividendone i tempi. All’interno del carcere di Ferrara le attività con i detenuti prevedono infatti fasce orarie che è necessario rispettare, a cui si associano anche gli accompagnamenti esterni. Le opportunità per fare volontariato dentro e fuori dal carcere coprono vari campi di attività. Ci sono i laboratori teatrali del Teatro Nucleo diretto da Horacio Cztertock, espressione ferrarese del teatro in carcere dal 2005 all’interno di una rete regionale, una bella esperienza che ha fatto nascere insieme sette compagnie teatrali in altrettanti istituti penitenziari tra i dodici dell’Emilia-Romagna. Invece i volontari dell’Associazione Viale K da circa un anno collaborano nella gestione di tre orti: due sono interni e impegnano 22 detenuti, l’altro più piccolo 10 detenuti collaboratori di giustizia, mentre una zona di circa tre ettari che percorre la cinta muraria più esterna è coltivata da tre detenuti in semilibertà. Sempre all’interno della casa circondariale di Ferrara la Cooperativa sociale Il Germoglio gestisce un laboratorio sui rifiuti e ne sta avviando uno per riparare le biciclette a partire dalle camere d’aria, con l’obiettivo di creare un ponte con il resto della comunità ferrarese. Ci sono poi la redazione del periodico Astrolabio, la promozione della lettura animata dall’associazione Amici della Biblioteca Ariostea e i corsi di pittura del pittore Raimondo Imbrò. I volontari dell’associazione “Noi per Loro” conducono incontri di catechesi e gestiscono un piccolo emporio con distribuzione di vestiario, alimenti e prodotti per l’igiene. Attivi anche i corsi di lingua italiana del Centro provinciale per l’istruzione degli adulti (Cpia) e di recupero anni scolastici, mentre l’Agesci di Ferrara, in collaborazione con il Centro per le famiglie, si occupa dell’intrattenimento dei bambini durante i colloqui in carcere dei famigliari e dell’organizzazione di feste e altri momenti conviviali. E ancora il gruppo della Uisp di Ferrara che promuove diversi tipi di sport a favore dei detenuti, in particolare la pallavolo e iniziative di podismo, tra cui una maratona per sensibilizzare la cittadinanza sulla realtà carceraria. Roma: dai volontari del carcere un progetto per stare accanto alle vittime di reato di Alessio Nannini romasette.it, 13 marzo 2018 Parte dai volontari di Regina Coeli l’idea di uno sportello finalizzato all’assistenza psicologica e legale di chi ha subito violenze e truffe. Motore dell’impegno, il cappellano padre Vittorio Trani. Di sé dice di essere un “ergastolano di fatto”, e in un certo senso è vero; perché padre Vittorio Trani aiuta la popolazione carceraria di Roma da quarant’anni. “Noi francescani - racconta - abbiamo la cura pastorale delle carceri per adulti di Roma dal 1947. Io sono subentrato al cappellano di Regina Coeli, morto nel 1978, e da allora sono cambiate molte cose”. Padre Vittorio è il fondatore del Vo.Re.Co., acronimo che sta per “Volontari Regina Coeli”, un’associazione che ora conta centodieci iscritti. “Ma quando sono arrivato c’erano tre o quattro operatori, che si davano da fare per tutte le carceri romane. Con il tempo ci siamo strutturati, il gruppo è cresciuto e ha preso questo nome. Adesso abbiamo ristretto la nostra attività soltanto a Regina Coeli”. Oggi, all’età di 74 anni, Trani non solo prosegue la sua attività pastorale, ma inaugura altre iniziative: una di queste, nata meno di un mese fa, è dedicata alle vittime di reati: violenze, rapine, ma non solo. L’iniziativa ha preso avvio da qualche settimana ed è il “Progetto Santa Chiara”. Si deve alla psicologa Adele Macrini, lei stessa volontaria di Vo.Re.Co. da anni: “Abbiamo pensato di dedicarci alle vittime, allargando la nostra utenza anche a chi è estraneo al carcere - dice Macrini - e ci occuperemo di tutti: dal vecchietto truffato dai finti poliziotti alle famiglie di chi è affetto dalla ludopatia, e anche bullismo scolastico e stalking. Garantendo a tutti assistenza psicologica e legale”. Ovviamente gratuita. La ricchezza di questi volontari è in un quotidiano impreziosito dai rapporti umani. Essenziali in un ambiente come questo. Regina Coeli è un carcere particolare perché di prima accoglienza. Vale a dire che si rimane lì fino al primo processo, cioè difficilmente oltre i tre mesi, quindi si viene destinati altrove. Il carcere, come spesso è stato, è uno specchio della società e dei suoi mutamenti. “La droga - sottolinea Trani - ha cambiato la struttura psicologica delle persone; i detenuti sono principalmente persone che provengono da quel mondo, per consumo o spaccio; prima invece c’erano i colpevoli di reati comuni, e talvolta membri della criminalità organizzata. Anche la nazionalità è diversa. Negli anni Ottanta c’era una prevalenza di italiani, poi la maggioranza è diventata straniera: prima nordafricani, poi albanesi. Oggi è preponderante l’elemento rumeno, ma l’intera popolazione carceraria raccoglie persone da sessanta o settanta Paesi diversi. Una specie di piccolo Onu”. Padre Vittorio lavora ogni giorno insieme ai suoi volontari. Meno di venti sono sacerdoti, poi catechisti, e il resto volontari. Ogni anno, in primavera, ci sono i corsi per la formazione, e a settembre si inizia a lavorare. Chiediamo a padre Vittorio del rapporto con i carcerati e delle attività svolte, che vanno dal sostegno morale a quello materiale, attraverso attività culturali e ricreative. Ci dice che in prigione l’ozio è uno spettro da combattere: “Noi siamo una parrocchia, e certamente una parrocchia sui generis. Con ovvia cautela facciamo catechismo, sport, corsi vari. E dal 21012 abbiamo un centro esterno di appoggio al carcere, per chi è uscito ma ha ancora bisogno di sostegno”. Il centro Vo.Re.Co., che ha sede in via della Lungara, impegna però altri spazi e si amplia ad altre missioni. Due in particolare, entrambe nella parrocchia di Santa Dorotea: la prima è lo sportello per le vittime di reato, di cui abbiamo parlato all’inizio, e l’altra è la “Casa dei Papà”, aperta in ottobre, che accoglie le famiglie in difficoltà con bambini ricoverati all’ospedale Bambino Gesù. Reggio Calabria: “Marinella Garcia”, un pool di avvocati dalla parte dei deboli Avvenire di Calabria , 13 marzo 2018 Sarà lanciata nel corso di una conferenza stampa, indetta per oggi, 13 marzo, alle ore 16:00, nella Sala Avvocati della Corte di Appello di Reggio Calabria, l’attività del Gruppo di Avvocati della “Marianella Garcia”. Gli stessi costituiscono un gruppo di professionisti, all’interno del Centro Comunitario Agape, che assume pro bono la tutela giuridica delle fasce deboli e svantaggiate presenti sul territorio della Città Metropolitana di Reggio Calabria, che non detengono i requisiti per poter accedere ai benefici statali. L’attività della “Marianella Garcia”, nata nel dicembre 1994 a Reggio Calabria, fu d’avanguardia e di tutela per tutti i coloro che non avevano la possibilità di essere assistiti da un legale, in un momento storico in cui il patrocinio a spese dello Stato non era ancora contemplato. Marianella Garcia Villas, di cui ricorre proprio il 13 marzo il 35.mo anniversario della scomparsa, ha ispirato l’attività dei Legali del Foro reggino, fu una donna rivoluzionaria, un’avvocatessa impegnata nella lotta al sistema distorto del suo Paese, che fondò la Commissione per i diritti umani del Salvador. Allora come oggi, il Gruppo di Avvocati sostiene gratuitamente le persone più fragili e promuove l’idea di uno stato di diritto che valorizzi i principi fondamentali riconosciuti ad ogni individuo e sui quali si fonda la democrazia. Molteplici le iniziative in cantiere, di formazione e consulenza, tra le quali si menziona il supporto allo Sportello Minori e Diritti in collaborazione con il Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria, Save The Children, Unicef e Camera Minorile di Reggio Calabria. Lo stesso Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Reggio Calabria ha deliberato il patrocinio morale al Gruppo di Avvocati della M.G. considerato “l’alto valore morale dell’iniziativa che nobilita la professione di avvocato, coerente con la funzione che la Costituzione assegna all’Avvocatura”. E ancora la Fondazione Lelio e Lisli Basso ha patrocinato l’attività dei Legali reggini ritenendo “ammirevole e tanto più necessario l’impegno di quanti operano per la difesa e l’effettiva attuazione del principio di uguaglianza… e nel nome di Marianella Garcia”. Alla presentazione dell’importante iniziativa interverranno il Presidente della Corte d’Appello di Reggio Calabria, Luciano Gerardis, il Coordinatore della “Marianella Garcia”, l’Avv. Lucia Lipari, il Vicepresidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di RC, l’Avv. Carlo Morace, l’Avv. Demetrio Battaglia e l’Avv. Nicola Santostefano, che hanno tenuto a battesimo la “Marianella Garcia” e don Antonino Iachino, assistente spirituale del centro Comunitario Agape. Messina: “Quello che ho dentro”, poesie, racconti, storie di alunni-detenuti di Rosaria Brancato tempostretto.it, 13 marzo 2018 Da un progetto straordinario che ha visto insieme l’istituto Minutoli, la Casa circondariale di Gazzi, la Caritas e D’aRteventi di Daniela Ursino è scaturito un libro da leggere tutto d’un fiato. Per imparare la vita. C’è Teodoro che nei ricordi di bambino si nascondeva nell’armadio per farsi cercare dai fratelli ma un giorno da quel rifugio uscì per finire in collegio. Troppo grande il disagio economico della famiglia, troppo profondo il suo dolore di bimbo che sognava di diventar ricco per comprare mille armadi alla mamma. C’è Enea cresciuto con un padre a metà perché in carcere e poi in carcere anche lui, che in versi scrive “il mio compito è trasmettere l’amore” perché solo così fiorirà il suo deserto. Ci sono le poesie di Giuseppe e Giovanni “la felicità è la quotidianità dei nostri sentimenti”, c’è Vincenzo che definisce il teatro come una magia e Antonio che aggiunge “ti fa scoprire il bello che abbiamo tutti dentro” e la parola “dentro” è quel dentro fatto di mura e di celle non solo interiori. Ci sono Roberto e Angelo che in modi diversi raccontano le ore più belle della loro vita, quando sono nate le loro figlie. C’è Andrea, il muratore che amava il giardinaggio e la pesca. E che ama la sua donna, conosciuta a 18 anni e che ancora illumina i suoi giorni di carcere con lettere piene di gioia. C’ è Sebastiano che in poesia scrive “aspetto te, come la chiave che apre la prigione, come il sole che sorge domani”. E Luciano che ha scritto un testo teatrale in un atto unico, dialogo in una cella. E ancora Orazio “se avessi ascoltato le tue parole non avrei preso tante botte dalla vita. Eppure è stato meglio così perché adesso capisco quanto amore avevano le tue parole”. C’è Antonino che scrive una lettera alla sua amata, incontrata ad 11 anni e che trova bellissima come se fosse il primo giorno. C’è Autunno e la Piccola Stella di Giovanni e Le mille combinazioni del teatro di Giuseppe. C’è la storia di Caio che ha ucciso per vendicare l’omicidio del fratello o la poesia di Santo “non chiedere mai se un raggio di sole scalda una cella”. La storia dell’amore ritrovato di Francesco o il Dolore di un padre di Aurelio con l’angoscia di non poter stare accanto alla figlia nei momenti della malattia. C’è il cammino verso dio di Salvatore. Sono le storie degli alunni speciali delle classi II G, III G, IV G dell’istituto Minutoli sezione casa Circondariale, anno scolastico 2017-2018. Sono i detenuti del carcere di Gazzi che grazie al progetto di Daniela Ursino con la collaborazione della casa circondariale e del dirigente La Tona e dei docenti e studenti hanno realizzato uno straordinario libro, che raccoglie frammenti di anime, di sogni, di speranze, candele accese dentro le celle. È un progetto coraggioso che apre gabbie e parla di libertà e cambiamento. Scrive Rosamaria Migneco, docente di Italiano e storia che ha seguito il progetto: “Gli adulti che vivono in condizioni particolari, come l’esperienza carceraria, non hanno del tutto chiare le proprie emozioni e relazioni con gli altri e molti di loro non riescono ad andare oltre le sensazioni di rabbia e frustrazione. L’attività proposta ha puntato sulla promozione delle capacità degli studenti di dare senso alla varietà delle loro esperienze, per acquisire competenze linguistiche più sicure, per conoscere e rappresentare i diversi aspetti della propria personalità. L’attività ha previsto delle tappe necessarie prima di giungere alla scrittura: in una prima fase gli alunni hanno avuto modo di leggere sensazioni e stati d’animo presenti in racconti di scrittori noti; quindi hanno cercato di manifestare ed esprimere i loro sentimenti in modo orale, infine per iscritto hanno descritto se stessi, esternando esperienze, suggestioni e relazioni. È nato così il libro, il cui titolo - “Quello che ho dentro” - evidenzia il lavoro di rielaborazione personale che ciascun alunno ha fatto, puntando sul positivo che aveva al suo interno ed estrinsecandolo nel modo che gli veniva più congeniale. Poesie, lettere, ricordi del passato, vita presente, questo si può leggere nel piccolo libro scritto dai detenuti e curato dai docenti del Corso, in cui anche le illustrazioni che accompagnano i racconti sono state realizzate da chi tra gli alunni sa disegnare bene. Tali disegni sono stati realizzati su fogli di carta in modo semplice e improvvisato dagli studenti. Alla fine di ogni racconto sono scritte alcune frasi significative in lingua inglese, rielaborate con l’aiuto della docente della disciplina, espressione di un lavoro condiviso”. Gran parte dei racconti è frutto dell’esperienza fatta dagli alunni attraverso la partecipazione al Laboratorio teatrale “Il Teatro per Sognare”, ideato dall’associazione D’aRteventi, promosso dalla Caritas e condiviso con l’Istituto Minutoli e la Direzione della Casa Circondariale. Nella copertina gli alunni-detenuti dedicano il libro “a chi amiamo” e poi ringraziano quanti a diverso titolo hanno contribuito al dono più grande: la riscoperta di ciò che hanno dentro. Dott. Calogero Tessitore, Direttore della Casa Circondariale, Prof. Pietro Giovanni La Tona, Dirigente dell’ I.S. “Minutoli”, i professori del Minutoli Ivonne Cannata, Michele Monte, Caterina Romeo, Salvatore Morreale, tutto il personale della Casa Circondariale, Daniela Ursino e l’associazione “D’aRteventi”. Il Minutoli ha infatti partecipato attivamente al progetto “Il teatro per sognare” che ha portato nei giorni scorsi all’inaugurazione del Piccolo Shakespeare, teatro all’interno del carcere di Gazzi. Gli studenti dell’indirizzo “costruzioni, territorio, ambiente” hanno partecipato ai rilievi all’interno del teatro affinché poi gli alunni del Basile potessero creare le quinte e i tendaggi. Nelle classi sono state fatte lezioni di storia del teatro, con particolare attenzione a Dostoevskji ed al suo romanzo “i fratelli Karamazov” che è stato portato in scena dai detenuti del laboratorio magistralmente diretti da Flavio Albanese. Docenti, studenti e detenuti hanno studiato insieme il copione. Un lavoro di squadra, anzi, come ha detto in occasione della cerimonia d’inaugurazione del teatro Daniela Ursino “più che una squadra siamo una famiglia”. Ed è questo che significa fare comunità. Siena: “Soluzioni a pennello”, in mostra le opere realizzate dai detenuti ilcittadinoonline.it, 13 marzo 2018 Sabato 17 marzo alle ore 17.30 si terrà presso il complesso di San Marco l’inaugurazione della mostra d’arte “Soluzione a pennello” nella quale saranno esposte le opere pittoriche realizzate dai detenuti della casa circondariale nell’ambito del laboratorio d’arte gestito da Monica Minucci, volontaria della Croce Rossa Italiana, sezione di Siena. La mostra che raccoglie dipinti di vario genere, alcuni ispirati a grandi artisti, altri di ambientazione paesaggistica e raffiguranti soggetti familiari, giunge al termine di un intenso percorso formativo che nel recente passato aveva già consentito la donazione al reparto di pediatria neonatale dell’ospedale Santa Maria alle scotte di Siena di numerose opere realizzate dai detenuti. I lavori eseguiti dimostrano come, attraverso l’arte, i detenuti siano in grado di recuperare o di mettere a frutto la loro capacità espressiva; l’attività artistica in carcere funge, infatti, da stimolo all’espressione dell’identità personale e alla sua evoluzione. L’evento è inserito nel cartellone del festival della cultura “Siena città aperta”; dopo l’inaugurazione le opere resteranno in esposizione sino al 31 marzo con ingresso libero dal lunedì al venerdì dalle ore 15 alle ore 18. Ferrara: in carcere si gioca ancora a volley estense.com, 13 marzo 2018 Sfida in Arginone tra i detenuti e i pallavolisti amatoriali provenienti da Castello d’Argile e Ferrara. “Riaprono” le porte della Casa circondariale di Ferrara con la prima partita del 2018 di volley. Sabato 10 marzo si è svolta, infatti, una sfida in carcere tra la squadra di detenuti allenati puntualmente ogni giovedì da Michele Testoni e un gruppo di pallavolisti amatoriali provenienti da Castello d’Argile e Ferrara. Dopo la consueta sfida tra le due formazioni, gli atleti si sono mescolati per creare nuove squadre e confrontarsi amichevolmente in nuovi set. “In queste partite conta poco il dato tecnico, chiunque partecipi è vincitore - precisa Testoni, più rilevante è il dato umano. “Dentro” e “fuori” si incontrano, due mondi diversi ma grazie a queste occasioni meno distanti e a facilitare questo incontro c’è lo sport, una rete, una palla e la voglia di giocare”. L’evento, che si ripete mediamente cinque o sei volte l’anno, rientra nelle attività del progetto “Le porte aperte”, coordinato da Davide Guietti di Uisp Ferrara. L’attività motoria in carcere è resa possibile da un protocollo d’intesa a livello nazionale fra Uisp e il ministero della giustizia e a livello locale grazie ad una convenzione con il Comune di Ferrara avviata nel 2003 e rinnovata in questi anni. Anche il contributo del progetto, stanziato fin dal 2003, è stato rinnovato per i prossimi tre anni. A garanzia della buona riuscita dell’iniziativa vi è l’instancabile impegno della commissione sportiva, composta dalle educatrici e dai rappresentanti dei detenuti. Milano: il calcio all’interno del carcere minorile “Beccaria” di Francesca Cassi blastingnews.com, 13 marzo 2018 I ragazzi del Beccaria di Milano si preparano al debutto nel campionato del Csi. Qual è l’utilità dello sport all’interno del carcere? Il carcere Beccaria di Milano ha annunciato che tra un mese ci sarà la presentazione ufficiale con conferenza stampa, pubblico, domande e ammiratori per dare avvio alla prima squadra di calcio del Carcere per i minorenni. Il presidente del Csi Achini, in passato già allenatore, ha esposto alla direttrice l’intenzione di creare una squadra solida all’interno del Beccaria. Il debutto ufficiale in carcere è avvenuto attraverso un’amichevole con le giovanili dell’Inter. Il presupposto era quello di entrare in campo per misurarsi con dei rivali meritevoli e non per fare una passerella di beneficenza. Fino ad ora si sono svolte numerose partite sia all’interno che all’esterno del carcere, tuttavia erano tutte amichevoli, infatti la vera iscrizione al campionato del Csi, nella categoria calcio a cinque deve ancora avvenire. La rieducazione sportiva - Le attività svolte all’interno delle strutture penitenziarie acquisiscono un valore aggiunto poiché permettono di mantenere una quotidianità anche all’interno delle sbarre. Certamente lo sport in carcere è importante tanto quello praticato fuori per il benessere psico-fisico, per la possibilità di conoscere gli altri, di imparare cosa sia la fiducia, rispettare le regole, condividere i successi e gli insuccessi, impegnarsi per raggiungere uno scopo. Per i detenuti oltre a questi obiettivi comuni ce ne sono altri ancora più importanti. Prima di introdurli bisogna ricordare che in Italia la pena è concepita come rieducativa e non come punitiva. Il fine ultimo del carcere non è quindi punire, ma riabilitare. In quest’ottica, grazie alla possibilità di formare una squadra e di scendere in campo, i detenuti hanno la possibilità di ricreare contatti umani positivi, di rivivere il mondo esterno, di reinserirsi nella quotidianità della vita, di impegnarsi in qualcosa che non danneggi la loro vita. Quindi mentre all’interno del mondo lo sport ha scopo educativo, nel carcere la pratica sportiva acquisisce uno scopo rieducativo che spoglia il detenuto della visione che lo lega solamente al reato commesso, vestendolo nuovamente di caratteristiche e capacità che riscopre. Un altro elemento positivo a favore dello sviluppo di progetti sportivi all’interno degli istituti è l’incanalamento dell’energia fisica in attività sportive evitando così di scaricare i sentimenti negativi sull’istituzione non sempre presente ed efficiente. Le criticità - Tuttavia, benché lo sport acquisisce un ruolo fondamentale nella rieducazione, questo non garantisce le necessità fondamentali delle persone che escono dal carcere: lavoro, casa, reinserimento famigliare. Il reinserimento mette in campo numerosi sentimenti, sia quelli dei detenuti sia quelli della società che li attende fuori. Mentre in carcere attraverso numerose attività il detenuto riacquisisce una stima e una conoscenza di sé positive, durante il reinserimento questi sentimenti vengono messi in dubbio da una società che continua a condannare le persone per i loro reati commessi. L’ergastolo raccontato da un detenuto condannato al “fine pena mai” quicosenza.it, 13 marzo 2018 Annino Mele, in carcere da 30 anni, presenta il suo ultimo libro “Mai. L’ergastolo nella vita quotidiana” narrando l’incubo della detenzione infinita. Sabato a Cosenza in via Galluppi, presso l’Acquario Bistrot a partire dalle 17.30, si parlerà dell’incubo di vivere da ergastolani. A descrivere la vita di chi è ristretto in un penitenziario con un “fine pena mai” sarà uno detenuto sardo. “Sono stato condannato all’ergastolo. Così, mia cara, - scrive nel suo ultimo libro che sarà presentato durante l’incontro - voglio raccontarti qualcosa su questo mio compagno di viaggio. Il più assiduo. Questo mostro che mi ha ghermito gli anni più belli. Se potessi almeno vederlo saprei come combatterlo”. A scrivere queste pagine amare è Annino Mele, protagonista e autore di “Mai. L’ergastolo nella vita quotidiana”. Detenuto ininterrottamente da oltre 30 anni, tra i capi dell’Anonima Sarda, latitante nella regione barbaricina per lungo tempo si narra che le forze dell’ordine cercarono di comprare la sua resa offrendo un miliardo ai suoi familiari affinché si costituisse. Il suo nome viene accostato anche a quello della Barbagia Rossa, formazione politica vicina alle Brigate Rosse. In “Mai”, narra della sua libertà interiore e dell’inutilità del carcere pagando un prezzo altissimo all’interno del sistema penitenziario. Da circa un anno Annino beneficia di permessi che sta utilizzando prevalentemente per presentare le sue opere. È autore di diversi testi tutti editi da Sensibili alle Foglie (La sorgente delle pietre rosse, 2007; Strabismi, 2009) che narrano della Sardegna, del carcere e del senso delle cose e del tempo. Sabato sarà a Cosenza per presentare il suo ultimo libro insieme a Domenico Bilotti ricercatore di diritto ecclesiastico e canonico all’Umg e Sandra Berardi presidente dell’Associazione Yairaiha Onlus. Pino Roveredo: “droga e carcere, i temi dei miei libri si adattano bene al palcoscenico” di Simone Mosca La Repubblica, 13 marzo 2018 L’amore di Marina che denuncia il figlio tossicodipendente, Gianluca, è una storia di sacrificio e una prova di forza al femminile. È l’intreccio semplice e universale di Caracreatura, libro che Pino Roveredo, scrittore triestino dalla vita complicata che ha provato l’alcolismo e il carcere sulla propria pelle, pubblicava nel 2007 con Bompiani. Stasera arriva la riduzione al Teatro Cooperativa e la regia è sua. “Il risultato non cambia, Roveredo non fa ridere neppure in scena, sono fatto così”. Roveredo, al carcere dedica la maggior parte del tempo. “Sono l’unico Garante regionale delle persone private dalla libertà ad essere un ex detenuto. È il mio vanto e se mi arrestano ancora so a chi rivolgermi. Scherzo per sdrammatizzare. Così come sono messe, le carceri sono illegali. Più del 70% di chi esce torna a delinquere, le tossicodipendenze - e penso anche a quelle dei migranti che la miseria spinge nel giro della droga - non sono curate. Ogni detenuto ci costa 150 euro al giorno. Non sarebbe saggio investirli per insegnare ai reclusi cosa fare una volta usciti? Io ci provo”. In carcere è nata anche la sua vena teatrale. “Sì, ho firmato molti spettacoli con la “Compagnia instabile” dove ho accanto ragazzi dalle storie difficili almeno quanto la mia. A volte mi arrestano gli attori cinque minuti prima che si alzi il sipario. Ma si tratta di regie corsare, stavolta è una specie di esordio con tutti i crismi. Sono stato attento ai particolari, mi sono fatto guidare dal confronto con Maria Grazia Plos, straordinaria”. “Caracreatura” era un libro già pronto per il teatro. “Come quasi tutti gli altri. Sono cresciuto nel collegio dei poveri di Trieste, a modo suo il primo carcere. I miei genitori entrambi sordomuti, non potevano provvedere a me. Mi facevano compagnia alla radio le commedie di Edoardo. Non capivo nulla ma ne assorbivo tempi e musicalità. La mia scrittura ne è sempre rimasta influenzata, anche nel metodo. Non sto mai più di cinque minuti alla scrivania, ho bisogno di urlarmi le parole, di parlarle, sentirle, magari giorni. Solo dopo mi siedo al computer”. Dopo la popolarità del Maurizio Costanzo e il Campiello nel il 2005, non ha mai pensato a un libro leggero? “Costanzo non l’ho più visto e nella vita privata farei pure molto ridere. Rispondo con un aneddoto. Un giorno, un critico triestino mi confessò dopo il Campiello di aver pensato “ecco, adesso perdiamo Pino”. Anni dopo, leggendo il mio ennesimo libro pesante, disse “ho sbagliato, sei ancora tu”. Non mi sento uno scrittore ma uno destinato a sistemare le parole così come me le sento arrivare”. Lei ha vissuto anche la dipendenza. “Le droghe sono l’attualità, sempre più chimiche, sempre più efficienti nel generare rapida dipendenza. Quello che ci salva è da sempre il coraggio delle donne”. Come quello della protagonista, Marina. “Noi uomini non l’abbiamo, le donne nei consultori e nei Sert sono la maggioranza degli operatori. E sono donne quelle che a fine spettacolo mi dicono di aver denunciato il figlio. Sfinite da troppo amore”. Franca Leosini, fredda analista dei delitti, ma icona dell’empatia di Aldo Grasso Corriere della Sera, 13 marzo 2018 I leosiners (i fan della giornalista e conduttrice) amano l’enfasi retorica consacrata alla vittima, ma amano ancor più il personaggio, vagamente démodé eppure affascinante. È tornata Franca Leosini con le sue “Storie Maledette” per dedicare due puntate all’omicidio di Sarah Scazzi, la giovane di Avetrana uccisa a 15 anni il 26 maggio 2010. Lei si definisce un’instancabile indagatrice di anime, narratrice di persone che cadono nel buio della coscienza: “Capire, dubitare, raccontare: mai come in questo caso i miei verbi, quelli che frequento di più, come scelta narrativa, etica e di rigore, si sono confermati importanti”. Anche in Dino Buzzati c’era sempre questa tensione al tragico attraverso il patetico (ogni delitto che raccontava era patetico, letteralmente un’esplosione di sofferenza), questo bisogno di tradurre l’angoscia più cupa dell’esistenza in un teatro del quotidiano. Per questo la sua scrittura cercava continuamente una mediazione estetica per non cedere al dolorismo, per non assecondare la nostra morbosità nei confronti dell’orrore. Qual è lo stile di Franca Leosini? Uno stile, per altro, ormai così riconosciuto che le ha meritato un invito al Festival di Sanremo di Claudio Baglioni (la gag è stata alquanto modesta, in verità). La Leosini è una sgobbona, bisogna ammetterlo: prima di incontrare Sabrina Misseri e Cosima Serrano, cugina e zia della vittima, condannate all’ergastolo e recluse nel carcere di Taranto, la giornalista napoletana ha studiato tutte le carte del processo. Poi scrive, scrive e in trasmissione legge tutto (più radio che tv): è il suo modo di fare letteratura, anche se ho molti dubbi sulla tenuta stilistica della sua prosa, piena di barocchismi (“ardori lombari”, “bipede sgualcito”), e sul suo marcato sociologismo (il vero colpevole è sempre il contesto). I leosiners (i suoi numerosi fans) amano l’enfasi retorica consacrata fatalmente alla vittima, ma amano ancora di più il personaggio, vagamente fuori moda eppur affascinante, fredda analista dei delitti eppur icona dell’empatia. Allarme Censis: 5,7 milioni di giovani a rischio povertà entro il 2050 di Paolo Baroni La Stampa, 13 marzo 2018 Focus sui Millennials: precari e “Neet” penalizzati da carriere discontinue, lavoretti e stipendi troppo bassi. Gardini (Confcooperative): “È una vera bomba sociale, così rischiamo di perdere un’intera generazione”. I giovani di oggi? Saranno (in larga parte) i poveri di domani. Parliamo di precari, neet e lavoratori ingabbiati in occupazioni a bassa qualità e bassa intensità, un esercito di 5,7 milioni di lavoratori, secondo un focus Censis Confcooperative dedicato a “Millennials, lavoro povero e pensioni” per i quali si prevede un futuro tutt’altro che roseo. Il ritardo nell’ingresso nel mondo del lavoro, la discontinuità contributiva, la debole dinamica retributiva che caratterizza molte attività lavorative rappresentano infatti “un pericoloso mix di fattori che proietta uno scenario preoccupante sul futuro previdenziale e la tenuta sociale del Paese, dove le condizioni di nuove povertà, determinate da pensioni basse, saranno aggravate, inoltre, dall’impossibilità, per molti lavoratori, di contare sulla previdenza complementare come secondo pilastro pensionistico”. Pensioni falcidiate - La prima frattura si registra nel campo della previdenza, dove si assiste ad una evidente discriminazione tra generazioni. Il fenomeno è noto, ma i risultati sono sempre preoccupanti e spiegano molto della situazione italiana. Già oggi infatti, il confronto fra la pensione di un padre e quella prevedibile del proprio figlio secondo il Censis segnala una decisa divaricazione del 14,6%. Il sistema previdenziale obbligatorio attuale garantisce infatti a un ex dipendente con carriera continuativa, 38 anni di contributi versati e uscita dal lavoro nel 2010 a 65 anni, una pensione pari all’84,3% dell’ultima retribuzione. A un giovane che ha iniziato a lavorare nel 2012 a 29 anni, per il quale si prefigura una carriera continuativa come dipendente, 38 anni di contribuzione e uscita dal lavoro nel 2050 a 67 anni, il rapporto fra pensione futura e ultima retribuzione si dovrebbe fermare al 69,7%, quasi quindici punti percentuali in meno nella migliore delle ipotesi. Neet e working poor - Rischia di andare molto peggio a 5,7 milioni di persone che nel 2050 potrebbe andare ad ingrossare le fila dei poveri. Secondo il focus del Censis sono infatti “oltre 3 milioni i Neet (18-35 anni) che hanno rinunciato a ogni tipo di prospettiva a causa della mancanza di lavoro. A questi si aggiungono 2,7 milioni di lavoratori, tra working poor e occupati impegnati in “lavori gabbia”, ovvero confinati in attività non qualificate dalle quali, una volta entrati, è difficile uscirne e che obbligano a una bassa intensità lavorativa pregiudicando le loro aspettative di reddito e di crescita professionale. A tutto ciò si aggiunge un problema di adeguatezza del “rendimento economico” del lavoro che espone al rischio della povertà”. Lavorare non basta - Un altro dato che emerge dalla ricerca è che lavorare può non bastare. Per i giovani, in particolare, “lo slittamento verso il basso delle remunerazioni, in assenza in Italia di minimi salariali, segnala in maniera ancora più marcata la separazione che sta avvenendo fra i destini dei lavoratori e la sostenibilità a lungo termine dei sistemi di welfare. Questo effetto di “sfrangiamento” del lavoro rispetto al passato è poi messo in evidenza dalle tipologie di lavoro a “bassa qualità” e a “bassa intensità” che si stanno via via diffondendo”. Sono, infatti, 171.000 i giovani sottoccupati, 656.000 quelli con contratto part-time involontario e 415.000 impegnati in attività non qualificate. “La scelta obbligata di lavorare meno ore rispetto alla propria volontà - puntualizza lo studio - evidenzia una situazione di inadeguatezza del lavoro svolto come fonte di reddito, tanto da diventare causa di marginalità rispetto alla potenziale disponibilità del lavoratore”. Il dramma del Sud - Il dettaglio regionale fa emergere la forte differenza socioeconomica tra Nord e Sud. Anche solo guardando al fenomeno dei Neet, nella fascia 25-34 anni (totale 2 milioni), i giovani che non lavorano e non studiano che vivono nelle sei regioni del Sud sono oltre la metà, ben 1,1 milioni, di cui 700mila circa concentrati in sole due regioni: Sicilia (317mila) e Campania (361mila). Doppia emergenza - “È una vera bomba sociale che va disinnescata - sostiene Maurizio Gardini, presidente di Confcooperative. Lavoro e povertà sono due emergenze sulle quali chiediamo al futuro governo di impegnarsi con determinazione per un patto intergenerazionale che garantisca ai figli le stesse opportunità dei padri. Non sono temi di questa o di quella parte politica, ma riguardano il bene comune del paese. Sul fronte della povertà il Rei con un primo stanziamento di 2,1 miliardi che arriverà a 2,7 miliardi nel 2020 fornirà delle prime risposte, ma dobbiamo recuperare 3 milioni di Neet e offrire condizioni di lavoro dignitoso ai 2,7 milioni di lavoratori poveri. Rischiamo di perdere un’intera generazione”. Un giovane su tre rischia di diventare un adulto povero di Valentina Conte La Repubblica, 13 marzo 2018 In Italia vivono 13 milioni e 800 mila persone con meno di 830 euro al mese. Parliamo del 23% della popolazione, uno su quattro, a rischio di povertà. Un livello “molto elevato”, lo definisce Bankitalia nella nuova indagine campionaria sui bilanci delle famiglie, relativa al 2016. E non solo perché cresciuto di oltre tre punti percentuali in dieci anni, massimo storico. Ma soprattutto perché colpisce i giovani più degli anziani: il 30% degli under 35, solo il 15% degli over 65. Al Sud più che al Nord: 40 contro 15%. Gli stranieri più degli italiani: 55 contro 20%. Trovare in questi numeri una spiegazione al terremoto elettorale è quasi banale. Il livello della disuguaglianza, misurato dall’indice di Gini, è aumentato di un punto e mezzo tra 2006 e 2016. E, racconta ancora Bankitalia, si è riportato ai livelli toccati alla fine degli anni Novanta. L’asimmetria nella distribuzione dei redditi è tale che il 5% delle famiglie detiene il 40% delle ricchezze nazionali, in media 1,3 milioni di euro. Mentre il 30% appena l’1%: 6.500 euro in media. Tre quarti di questi nuclei sono a rischio di povertà. Una polarità che si è accentuata negli anni più duri della crisi. “Colgo quattro dati eclatanti nel rapporto di Bankitalia, che confermano quanto sapevamo e in parte accolto negli indicatori Bes inseriti nella legge di Bilancio”, osserva Enrico Giovannini, già presidente Istat e ministro del Lavoro nel governo Letta. “C’è una ripresa leggera del reddito delle famiglie. Continuano a crescere le disuguaglianze. Le disparità territoriali restano enormi. E la ricchezza continua a calare, tranne che per gli ultra 65enni e per il 10% più abbiente. Ma l’aspetto che deve far riflettere è uno solo, come rileva l’Istat: nel 2017 il reddito delle famiglie è salito dello 0,7% a fronte del +1,5% messo a segno dal Pil. Vuol dire che solo metà della ripresa è finita nelle tasche degli italiani. Molti non l’hanno percepita. E chi se n’è accorto, ne ha beneficiato in modo davvero lieve. Se vogliamo capire la propensione a chiedere un cambio di politiche, emersa nelle urne, dovremmo partire da qui”. I dati di Bankitalia rimettono al centro della scena gli italiani che non ce la fanno. Quelli che si sentono abbandonati. Ma evidenziano pure con lucidità un dato sin troppo trascurato dalla politica: la questione generazionale. In dieci anni, il rischio povertà si è drasticamente spostato sui giovani e le giovani famiglie. I working poors, lavoratori poveri, quasi un paradosso. Ebbene nel 2006 solo il 23% degli under 35 era a rischio povertà. Nel 2016 siamo a 29,7%. Ancora peggio per i capofamiglia tra 35 e 45 anni: siamo passati dal 19 al 30%. Nello stesso arco temporale la situazione degli over 65 è addirittura migliorata: dal 20 al 15,7%. Anche a livello territoriale le sorprese non mancano. L’Italia è spaccata, come sappiamo. Ma al Sud la percentuale di individui a rischio povertà è rimasta la stessa, seppur pesante: 39%. Mentre al Nord quasi raddoppia: da 8 a 15%. E al Centro passa dal 10 al 12%. Una condizione peggiorata soprattutto per gli stranieri: il 34% sfiorava l’indigenza nel 2006, il 55% dieci anni dopo. Quando gli italiani restano inchiodati al 19%. Non basta dunque dire che il reddito medio è salito del 3,5% tra 2014 e 2016 - a 18.600 euro - se poi le disparità sono queste. Bullismo. “Umiliato e offeso da tutti. Così si è ucciso il mio Miki” di Lodovico Poletto La Stampa, 13 marzo 2018 La mamma: “Voglio giustizia”. Il figlio è morto a 17 anni. Miki appoggiato al termosifone del salotto di casa: “Sai mamma, mi hanno lasciato da solo un’altra volta”. Miki che in tavernetta prepara i bignè. E poi sale e li porta ad assaggiare: “Sono bravo, eh”. Miki che non riesce a tenere in mano bene un bicchiere perché la vita gli ha dato una brutta menomazione, ma non si arrende e va a scuola, si impegna. Prepara le torte. Miki che da solo nella sua camera scrivere lettere infinite ad amici che non ha mai visto. E in un giorno qualunque cerca la pace dentro con un salto nel vuoto. Aveva 17 anni Michele quando si lasciò cadere da un ponte ad Alpignano. Era il pomeriggio di venerdì 23 febbraio. E quando un figlio di quell’età muore non ci sarà mai più pace per chi rimane. “Ma chi gli ha fatto del male adesso deve pagare. Era fragile quel figlio mio. E lo hanno ucciso. E io sento un fuoco dentro che mi fa dire che non debbo più tacere. Miki è stato bullizzato” si sfoga mamma Maria. “Hanno fatto di tutto per farlo sentire diverso, lo hanno offeso. Gli hanno rovinato la vita”. Villetta in un quartiere elegante di Rivoli, sulla collina. Nani di gesso nelle aiuole del giardino. Fiori che aspettano il caldo. Tutto ordinato, perfetto. E dentro fotografie di Miki ovunque: sui tavoli, appese al muro, sullo schermo della tv. Silenzio. Qui viveva Michele Ruffino. Era arrivato lì non molti anni fa, dopo che un tribunale aveva dato ragione alla mamma e il ministero della Salute aveva pagato: tanti soldi, per un vaccino scaduto, un antipolio, una vaccinazione fatta quando aveva pochi mesi. Miki è cresciuto più gracile dei suoi coetanei. Miki cadeva camminando, senza un perché. Miki aveva bisogno d’aiuto. Sempre. Così dopo le elementari la vita si complica. Perché la crudeltà spesso sta dietro a piccoli gesti di tutti i giorni. “Lo bullizzavano” ripete mamma Maria. Ma forse è più una storia di cattiveria gratuita che di bullismo, perché quando sei bambino non vedi la sofferenza degli altri. Crescendo, le cose avrebbero potuto cambiare in meglio. Invece no. “ehi handicappato!” gli hanno detto alle medie. Gli hanno sputato in faccia. Gli hanno sussurrato parole orribili. Sono episodi di qualche anno fa, non una costante. Poi Miki migliora, non cade più camminando. Va all’alberghiero inseguendo il suo sogno. Lo amano i professori. Lo stimano in classe. Ha due amici con cui condivide la passione per i comics. Ma se esce da quel mondo si sente rifiutato. A scuola ride e fa ridere. Ma nel chiuso della sua camera scrive lettere a Eren, uno youtuber: “Ho iniziato a fumare per farmi degli amici”. “Ho iniziato ad odiarmi a vedere tutte le cose negative”. “Gli altri non lo sanno, ma dentro di me c’è anche tanto amore, tanta gioia, felicità”. Esagera cercando comprensione: “Ho tentato il suicidio 21 volte”. Non è vero. Ma Miki è disperato. Si fa i tagli sulle braccia. Si sente escluso dal mondo fuori, dai ragazzi della sua età. “Lo emarginavano fingendosi amici” insiste la mamma. Chi? “I ragazzi di Rivoli: gente che veniva anche qui, la scorsa estate, a fare le grigliate”. Le uscite serali annullate all’ultimo. WhatsApp sempre muto. “Io gli controllavo il telefono la notte. Era fragile, non volevo che gli facessero del male. Ma quelli lo isolavano”. Nessun insulto, adesso. Soltanto quel senso di solitudine che a 17 anni non sai come superare. Scrive di sé in terza persona: “Lui avrebbe bisogno di un come stai in più, e qualche urla in più per farlo parlare. Ma dovreste armarvi di pazienza e di qualche orecchia in più perché ve le frantumerebbe a forza di dire”. Mamma Maria ha portato le lettere e il computer dai carabinieri. Invoca giustizia. Vuole che qualcuno paghi per quel suo figlio che non c’è più. Vuole che chi lo ha isolato sia punito. Che chi ha detto che era brutto, anche il giorno del funerale, finisca alla gogna. Lo vuole perché dice: “Era fragile Miki. E lui non ce l’ha fatta più ed è saltato nel vuoto”. India. “Le bambine salvate”: il dramma dell’infanticidio, tra superstizione e povertà di Federica Tourn e Stefano Stranges La Stampa, 13 marzo 2018 C’è una ragazza in un villaggio, nel cuore dell’India del sud, che prende appunti sui muri di casa: operazioni, scritte, numeri e frecce che si inseguono fino alla soluzione del problema. Harini ha diciannove anni e studia ingegneria civile; ogni mattina, dopo aver aiutato la madre in casa, fa un’ora di strada in bus per raggiungere l’università. Vive con i genitori in due stanze senza finestre costruite sul retro della bottega da barbiere del padre, ma nella piccola corte c’è anche un pezzo di terra dove il cane prende il sole contento e c’è spazio per sognare in grande. Harini ha una figura sottile, i capelli intrecciati e un sorriso gentile che non nasconde il desiderio di diventare governatrice del distretto, un giorno: studiare, passare gli esami e superare i concorsi non è certo un’impresa facile, soprattutto per chi proviene da una famiglia umile come la sua, ma lei non ha intenzione di farsi scoraggiare dalle difficoltà. Forse non è un caso che sia devota a Narayani, forma della Dea madre, uno dei nomi con cui nell’induismo viene chiamata Durga, simbolo di forza indomabile e incarnazione della Shakti, l’energia creativa femminile. La parete della stanza dove dorme è completamente tappezzata di immagini di divinità compiacenti, su cui Harini poggia delicatamente il palmo delle mani. “Dio ci ha benedetti quando ci ha fatto cambiare idea e non ha permesso che la uccidessimo appena nata”. Chokkamali, la madre di Harini, racconta in una frase il destino che si è capovolto all’improvviso, per volontà di un uomo sconosciuto che per cinque giorni di fila si è seduto davanti al padrone di casa e lo ha letteralmente pregato di risparmiare sua figlia. Harini infatti è una delle bambine salvate dal progetto “Poonthaleer” - che in lingua tamil signica “sbocciare” - inaugurato vent’anni fa da Terre des Hommes Core a Idappadi, nel distretto di Salem, Tamil Nadu, per fermare la pratica dell’infanticidio femminile. “Le bambine salvate” è anche il tema di una mostra del fotografo Stefano Stranges, membro del collettivo fotogiornalistico Walkabout-ph, che dal 20 al 24 marzo sarà esposta in anteprima alla Triennale di Milano durante la terza edizione del Festival dei diritti umani, quest’anno dedicato alla devastazione ambientale e alle sue conseguenze. Stranges è uno dei due vincitori del contest #ioalzolosguardo 2017 del Festival e ha documentato proprio come la “seconda vita” di queste ragazze e delle loro madri abbia avuto ricadute positive su tutta la comunità. Dal 1998 al 2009, infatti, grazie al sostegno di Terre des Hommes Italia, “Poonthaleer” ha riscattato 1.558 neonate dalla morte: di queste, il 90% è rimasto con la famiglia e il 10% è stato dato in adozione. È Chezhian Ramu, il direttore di Terre des Hommes Core, lo sconosciuto che alla fine degli anni ‘90 batteva le campagne intorno alla città di Salem accompagnato da un’infermiera, attraversando i villaggi dove non c’erano né acqua potabile né strade asfaltate, a cercare le donne incinte per assicurarsi che le neonate indesiderate non venissero avvelenate con erbe tossiche nel latte o soffocate sotto un asciugamano bagnato. Secondo uno studio dell’allora commissaria per il Maternal and Child Health and Welfare del Tamil Nadu, Sheela Rani Chunkat - che per il suo impegno a favore della salute delle donne e delle bambine ha ricevuto riconoscimenti internazionali - la zona di Salem era il secondo distretto per numero di infanticidi dell’intero stato del Tamil Nadu: nel 1997 si registravano 1033 neonate uccise, il 50,2% del numero complessivo di femmine morte dopo il parto. Una percentuale allarmante dovuta, secondo il direttore di Tdh Core, anche ad un fattore storico: è di queste zone, infatti, l’influenza dei guerrieri Vanniyar del primo secolo dopo Cristo. “Mandati in prima linea a combattere, morivano in gran numero, creando una disparità fra maschi e femmine: è in quel periodo che comincia l’usanza di uccidere le neonate”, spiega. Alla storia si intrecciano la religione e la cultura patriarcale, che hanno tramandato fino ai giorni nostri la terribile consuetudine dell’infanticidio delle bambine. “Crescere una femmina è come innaffiare la pianta del vicino”, recita un detto popolare indiano. Le figlie infatti, una volta sposate, sono destinate a lasciare la casa dei genitori per quella del marito. La terza figlia, in particolare, come nel caso di Harini, è spesso condannata: troppe femmine da allevare, senza contare la dote per il matrimonio, vietata per legge dal 1961 ma di fatto ancora in vigore in tutto il paese. Se poi il quarto nato è una femmina, una superstizione popolare afferma che sia segno di sventura e non possa vivere. È quello che sarebbe successo a Indhumathi, nata nel ‘99 dopo un maschio e due femmine, se non fosse intervenuto “Poonthaleer”. Padre e madre lavorano nei campi a giornata, la sera si ritrovano in sei fra quattro mura, appena lo spazio vitale per stendere le stuoie per terra e dormire. Indhumathi oggi va all’università per diventare insegnante e dedicarsi ai bambini poveri. È molto orgogliosa della sua storia personale: “l’uccisione delle bambine non deve accadere mai più”, dice. Una volta cresciute, le “bambine salvate” si sentono impegnate a difendere i diritti delle loro sorelle, figlie e nipoti. Jothika ha 17 anni ed è la terza di quattro sorelle: studia informatica e vorrebbe trovare un impiego in banca. Le piace cucinare; la piccola casa è ingombra di grossi contenitori per l’acqua, che nel villaggio arriva soltanto una volta alla settimana. “I maschi e le femmine devono avere le stesse opportunità - afferma convinta. Se in futuro avrò una figlia la tratterò come una cosa preziosa”. Tutte le sorelle studiano; la più grande, 20 anni, aspetta di aver finito l’università per sposarsi: le stanno già cercando un marito. Subathra, la madre, sospira: “è stata la volontà di Dio ma ancora mi manca non aver partorito almeno un maschio”. Sono i figli maschi, infatti, che si occuperanno dei genitori da vecchi e che contribuiranno al loro mantenimento, anche grazie al lavoro e alla dote della moglie; è il primogenito, poi, che nella religione indù, al momento della morte accompagna il padre alla pira funebre. Nei villaggi intorno a Idappadi, l’infanticidio è stato ormai praticamente azzerato. Una delle ultime bambine salvate è Dhanalakshmi, che oggi ha 9 anni, la minore di otto fratelli e sorelle, nata in una famiglia poverissima in cui solo il padre, falegname, lavora saltuariamente per poco più di 200 rupie (3 euro) al giorno. L’azione di “Poonthaleer” è stata determinante anche nel sollecitare lo Stato a intervenire: adesso far sparire le neonate non è più così facile come vent’anni fa, le donne incinte sono monitorate e ogni villaggio ha una responsabile che si assicura che a tutte le gravidanze corrisponda poi effettivamente un nuovo nato. Problema risolto? Piuttosto insabbiato: “la mentalità non è cambiata, è diverso il modo di intervenire sulla figlia non desiderata - spiega K. Kalpana, responsabile del progetto Life Line Salem per bambini in difficoltà di Terre des Hommes Core - infatti, se l’infanticidio è monitorato e sanzionato severamente, ora si può ricorrere all’aborto selettivo. Anche nei villaggi ormai si trovano facilmente scanner in grado di determinare il genere del nascituro e l’esame costa poco, dalle 600 alle 1000 rupie (da 7 a 12 euro)”. Rivelare il sesso durante la gestazione è vietato, ma medici compiacenti (e ben ricompensati) trovano lo stesso il modo di farlo sapere ai futuri genitori, fornendo anche la motivazione medica per l’interruzione della gravidanza. Costo dell’operazione circa duemila rupie (25 euro), un prezzo accessibile anche per i meno abbienti. Le istituzioni cercano di mettere un freno a questa prassi anche con misure estreme: è attivo un programma governativo che incoraggia le giovani madri a farsi sterilizzare dopo il secondo figlio; in particolare lo Stato elargisce 25mila rupie in caso una coppia abbia soltanto due femmine - 50mila per un’unica figlia. Naturalmente i genitori devono garantire che provvederanno alla crescita e all’istruzione delle bambine. Anche Karthika, 18 anni, un bimbo di 4, ha deciso che si farà sterilizzare: non desidera avere più di due figli. Si è sposata con il ragazzo della porta accanto e ha dovuto interrompere gli studi. Ha fatto quel che da queste parti definirebbero “un buon matrimonio”: il marito lavora in banca e la sua famiglia possiede una bella casa e dei terreni agricoli. Se non le manca da mangiare, non vuol dire che non debba lavorare: la sua giornata si divide fra il bambino, le mansioni domestiche e il vitello da accudire, sotto la supervisione attenta della suocera. Karthika è una delle prime bambine salvate da Chezhian: è suo il faccino serio che sorride dalla fotografia nell’ufficio di “Poonthaleer”, nel centro di Idappadi. “Il nostro lavoro non finisce con la nascita, ci impegniamo a seguire le ragazze fino alla maggiore età, assicurandoci che studino e siano accudite allo stesso modo dei fratelli - spiega Chezhian Ramu - Salvare una bambina significa operare per un cambiamento di mentalità”. Qualche segnale si vede, se si considerano i dati del Census of India, che nel 1998 registrava una sex ratio alla nascita (il rapporto numerico tra maschi e femmine nati in uno specifico arco di tempo) di 902 neonate ogni 1.000 maschi, cresciuta nel 2011 a 918 femmine su 1.000 maschi (995 su 1000 in Tamil Nadu). Sempre troppo poco, ma la trasformazione culturale da fare è enorme, perché tocca l’organizzazione sociale di un paese ancora in gran parte rurale, in cui la mentalità patriarcale è profondamente radicata. Con le donne non è difficile: sono sempre felici di non dover uccidere le figlie. Con i maschi la questione è più complessa, ma succede. Come al padre di Harini, il barbiere che tanto fece resistenza, prima di capitolare davanti alla tenacia dell’uomo di città venuto a pregarlo per la figlia che lui voleva sacrificare e che oggi ama più delle altre. La Gran Bretagna costruirà una prigione a Lagos per il rimpatrio dei detenuti nigeriani di Fausto Biloslavo Il Giornale, 13 marzo 2018 A finanziarla i fondi per il contrasto dell’immigrazione illegale. Così il risparmio è di 40mila euro a detenuto. Il governo inglese costruirà un’ala di una prigione a Lagos per spedire in patria i criminali nigeriani ospiti delle carceri di Sua maestà. E lo farà con i fondi per contrastare l’immigrazione illegale. In Italia è praticamente impossibile rimandare a casa gli stranieri dietro le sbarre, che sono un detenuto su tre. Nigeriani, marocchini, tunisini, albanesi e romeni considerano il Belpaese un “paradiso penale”, come ha denunciato a fine gennaio il procuratore generale presso la Corte d’Appello di Bologna, Ignazio De Francisci. Il ministro degli Esteri inglese, Boris Johnson, ha annunciato al Parlamento la costruzione di una nuova ala del carcere Kiri-Kiri nella capitale nigeriana con 122 posti letto per i detenuti rimpatriati da Londra. La prigione di massima sicurezza nigeriana ha una storia controversa per sovraffollamento, violenze e alta mortalità fra i carcerati. Per questo motivo Londra ha deciso di mettere in piedi una nuova ala che rispetti le condizioni di vivibilità previste dalle Nazioni Unite. L’obiettivo è rispedire in patria i 270 condannati nigeriani delle carceri britanniche. L’investimento è di 788mila euro, ma ogni straniero detenuto in patria costa circa 40mila euro all’anno. Ed il bello è che le autorità britanniche utilizzeranno, senza battere ciglio, i fondi per il ritorno a casa dei migranti illegali. Johnson ha sottolineato che “aiutare la Nigeria a migliorare le condizioni penitenziarie permetterà di trasferire un maggiore numero di detenuti nigeriani liberando posti nelle carceri del Regno Unito”. Gli inglesi hanno chiuso accordi per il trasferimento di detenuti anche con Albania, Ruanda, Giamaica e Libia. Nel nostro Paese un detenuto su tre è straniero. Le 190 carceri italiane “ospitano” 57.608 persone. A dicembre 2017, gli stranieri erano 19.745, il 34,3% della popolazione carceraria. Il nostro sistema penitenziario è sempre sovraffollato e riuscire a mandare a casa loro gli stranieri servirebbe a ridurre costi e liberare posti in cella. “Il sovraffollamento delle nostre carceri è figlio della presenza di detenuti stranieri, che potrebbero scontare la pena nei loro Paesi di origine” dichiarava lo scorso anno il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Santi Consolo. L’Italia ha già mosso i prima passi con l’Algeria, ma si punta anche sul Marocco e la Tunisia. I marocchini in carcere sono 3703 seguiti da romeni e albanesi. Poi ci sono i tunisini (2112) ed i nigeriani (1125), quasi quattro volte i numeri inglesi. Il problema è che il Belpaese è “un paradiso penale” per i criminali stranieri. De Francisci, procuratore a Bologna, ha puntato il dito contro “certa giurisprudenza” che “ostacola il trasferimento dei detenuti stranieri perché scontino la pena nei Paesi d’origine”. In pratica si asseconda “la preferenza degli stranieri per le carceri italiane anche quando non ve ne sarebbero i presupposti”. Non sono gli unici ostacoli: Paesi come la Tunisia tendono a non riconoscere il criminale che dovrebbe venire espulso. Così il condannato sconta la pena, a carico del contribuente, con tutti i benefici di legge previsti in Italia ben superiori a quelli della sua nazione d’origine. La Romania non risponde sulle condizioni delle loro carceri. Il risultato è che il delinquente romeno resta in cella da noi o viene liberato perché a casa sua non vengono rispettati gli standard penitenziari previsti da Bruxelles. Myanmar. Dopo la pulizia etnica i militari si prendono le terre dei Rohingya di Riccardo Noury Corriere della Sera, 13 marzo 2018 “Nello stato di Rakhine è in corso un’appropriazione delle terre da parte dell’esercito di Myanmar su vasta scala e la costruzione di nuove basi destinate a ospitare quelle stesse forze di sicurezza che hanno commesso crimini contro l’umanità contro i Rohingya”. Questa la denuncia contenuta in un rapporto diffuso ieri da Amnesty International: da gennaio la militarizzazione delle terre una volta appartenenti ai Rohingya va avanti a ritmo incalzante, a colpi di bulldozer: si radono al suolo i resti dei villaggi dati alle fiamme ad agosto e a settembre, si elimina anche la vegetazione circostante e si costruiscono strade e infrastrutture a uso militare. L’analisi delle immagini satellitari effettuata da Amnesty International mostra come da gennaio nello stato di Rakhine siano state costruite almeno tre nuove basi: due nel distretto di Maungdaw e una in quello di Buthidaung. In questo modo, il tanto annunciato ritorno volontario e in condizioni di sicurezza e dignità dei 670.000 Rohingya rifugiatisi in Bangladesh diventa una prospettiva ancora più lontana. Le autorità di Myanmar stanno creando le condizioni perché non tornino più, che era l’obiettivo finale della campagna di pulizia etnica avviata la scorsa estate. Non solo bulldozer, non solo militarizzazione. Nello stato di Rakhine è in corso anche una campagna di “sostituzione etnica”, per riprendere un’espressione tanto e impropriamente usata in Italia: sui terreni agricoli dove sorgevano i villaggi Rohingya dati alle fiamme, sono stati edificati nuovi villaggi in cui vivono ora popolazioni di altri gruppi etnici. Per blandire la comunità e i paesi donatori, che dovrebbero decidere una volta per tutte se è accettabile assistere un sistema basato sull’apartheid, le autorità di Myanmar fanno però vedere di essere disponibili a collaborare a un ritorno ancora del tutto possibile. Tuttavia, dalle immagini dal satellite si vede come i nuovi centri di accoglienza - destinati ad “accogliere” i Rohingya di ritorno dal Bangladesh - siano circondati da recinzioni e situati nei pressi di zone pesantemente militarizzate. Nella parte più alta di un villaggio Rohingya dato alle fiamme nel distretto di Maungdaw, in mezzo a strutture rafforzate di sicurezza, si trova un nuovo centro di transito per alloggiare provvisoriamente i rifugiati tornati dal Bangladesh. In centri del genere si trovano già decine di migliaia di Rohingya costretti a lasciare le loro terre durante le ondate di violenza del 2012, oggi confinati in squallidi centri per sfollati, vere e proprie prigioni a cielo aperto.