Chiunque governerà non abbia paura di un po’ di affetto in più nelle carceri Il Mattino di Padova, 12 marzo 2018 Forse una telefonata non salva la vita, come diceva un tempo una efficace pubblicità, ma in carcere è davvero un modo per trovare la forza di non lasciarsi sopraffare dalla sofferenza e dalla paura di vivere. Ci sono ancora pochi giorni di tempo per approvare un nuovo Ordinamento penitenziario, più rispettoso della dignità delle persone recluse, speriamo succeda il miracolo, e almeno si ripartirebbe con un po’ di umanità in più nelle carceri, e poi si potrebbe sperare nell’approvazione di un nuovo Regolamento, che dia spazio alle relazioni e ai legami affettivi. A chiunque governerà questo Paese, e a tutti quelli che già governano le carceri, ricordiamo intanto che poter sistematicamente contare su un po’ di affetto, qualche telefonata e qualche ora di colloquio in più e magari sull’uso di Skype, come succede a Padova per chi è lontano dalla famiglia, sarebbe un beneficio enorme, a costo zero, per tutti quei famigliari, che non hanno colpe e già pagano abbastanza per le colpe dei loro cari detenuti. Quelli che pagano il prezzo più alto per i reati commessi da me sono i miei famigliari Il tema degli affetti per i detenuti è sempre molto difficile da affrontare, forse perché è uno dei tasti più dolenti della perdita della libertà. Nel carcere di Padova però si è fatto un grande lavoro per cercare di accorciare le distanze tra “vita ristretta” e mondo esterno, ma il rapporto con la famiglia resta il più delicato. La mia situazione è molto complessa, quello che vorrei cercare di spiegare oggi è quanto sono importanti i legami e i rapporti interpersonali per un ragazzo entrato in carcere a 21 anni, privato innanzi tutto degli affetti che sono i più importanti per qualunque persona sulla faccia della terra, anche per i peggiori criminali. Di certo io non sono uno dei migliori, a soli 23 anni sono riuscito a farmi condannare all’ergastolo, oggi ne sto pagando le conseguenze e devo dire che, anche non riuscendo ad accettare la pena che mi è stata inflitta, ho imparato a conviverci, ma quello che non riuscirò mai a capire è com’è possibile che in Italia ad oggi quelli che veramente pagano il prezzo più alto per i reati commessi da me sono i miei famigliari, soprattutto mia madre che non vedo da più di un anno a causa della mia lontananza dal luogo in cui lei risiede, la Calabria. Ad oggi solo grazie alla sensibilità di direttori molto attenti riesco a parlare con lei per otto volte al mese (20 minuti a settimana circa), per me è l’unico modo per poter mantenere vivo un rapporto cosi importante come quello tra madre e figlio. Lei non può farlo, non può prendere mai il telefono e chiamare il figlio per sapere come sta, se ha mangiato o un centinaio di altre cose che le mamme chiedono continuamente, specialmente quando hanno i figli lontani, a volte anche cose assurde. Per fare un esempio nella telefonata di ieri mi ha chiesto dove sono andato, visto che ho chiamato con sette minuti di ritardo, è ovvio che lei faceva riferimento ad attività all’interno del carcere, ma la mia risposta d’impulso è stata: “Dove vuoi che vada? Sono sempre qui in carcere”, me ne sono pentito subito perché ho percepito una sorta di dispiacere nella sua voce, come se volesse scusarsi per avermi fatto quella domanda, ma questo non significa niente, quello che mi ha colpito di più è il fatto che, da come mi ha puntualizzato i minuti che aspettava la telefonata, io ho capito che lei ha contato ogni singolo minuto, ogni ora, ogni giorno dall’ultima telefonata della scorsa settimana. Io sono condannato all’ergastolo, il tempo per me non ha ragione di esistere, uso il calendario solo per appuntare i giorni che posso chiamare mia madre per cercare un po’ di conforto che solo una madre ti può dare, adesso le quattro telefonate in più, rispetto a quelle regolamentari, che sono concesse a Padova saranno “in scadenza” a fine marzo e di conseguenza un po’ tutti i detenuti ultimamente convivono con il timore che vengano di nuovo dimezzate. Se devo dire la mia io sono convinto dell’opposto, sono convinto anzi che in tutte le altre carceri verranno concesse queste telefonate “supplementari”, anche per affrontare seriamente il tema dei suicidi in carcere, che un po’ di affetto in più contribuisce senz’altro a prevenire. A tal riguardo vorrei aggiungere il racconto di una situazione che sfortunatamente mi sono ritrovato a vivere qualche anno addietro. Avevo circa 25 anni e mi trovavo in un altro carcere in isolamento per aver commesso delle infrazioni all’interno dell’istituto, ero stato trovato in possesso di un telefono cellulare; ad un certo punto si avvicina alla mia cella un ragazzo straniero che sapeva il motivo per cui io ero in punizione e mi dice: “Giuliano per piacere aiutami, cerca di trovarmi un telefono cellulare per poter chiamare a casa perché mia madre sta male”. Io non avevo più il cellulare, mi era stato sequestrato pochi giorni prima, e a malincuore dovetti dirgli che non potevo in alcun modo aiutarlo. Forse l’avrebbe fatto ugualmente, forse è stata una tragica coincidenza, ma quel detenuto poche ore dopo si è impiccato nella sua cella, e da quel giorno io mi chiedo cosa sarebbe successo se quel ragazzo avesse avuto la possibilità di ricevere qualche parola rassicurante o di conforto da sua madre. Giuliano Napoli Mio padre è malato di SLA, vorrei poterlo sentire spesso Mi chiamo Kleant, sono detenuto dal lontano 2006, sono entrato in carcere che avevo 21 anni. Mi trovo dal 2011 in carcere a Padova, dove ho iniziato un bel percorso di inserimento lavorando presso la pasticceria Giotto come pasticcere. Giocavo anche come portiere nella squadra di calcio Pallalpiede e frequentavo la redazione di Ristretti Orizzonti, avevo conosciuto delle persone che mi avevano dato fiducia e avevano creduto in me. Uso il verbo al passato perché nell’anno 2016 sono riuscito a deludere tutti e rovinare me stesso. Tutto è accaduto da quando il mio papà è stato colpito da sindrome di SLA e non è più autonomo. Io ero in ansia e lontano dalla famiglia, in quanto loro vivono tuttora in Albania, così ho violato il divieto del regolamento interno di usare il telefono cellulare chiamando tutti giorni per sapere il suo stato di salute, alla fine sono stato scoperto e in quel momento è crollato tutto il castello che avevo costruito con fatica e speranza. Ho perso tutte le chances che avevo ottenuto: il lavoro, il posto nella squadra di calcio, la redazione e soprattutto la fiducia delle persone che avevano creduto in me ed è questo che fa più male. Sono stato murato vivo, so di avere sbagliato e se potessi avere una bacchetta magica cancellerei tutto, ma purtroppo non è possibile. Oggi so di avere sbagliato, ma mi domando anche se c’è qualcosa di sbagliato a sentire il bisogno di stare vicino alla propria famiglia, specialmente quando qualcuno di loro sta male. Non ho commesso nessun reato, semplicemente ho fatto una enorme stupidaggine, dettata dal mio cuore di figlio e dall’angoscia per mio padre, un gesto di cui ancora oggi sto pagando le conseguenze anche se sono già passati 2 anni Se avessi avuto la possibilità, come ho ora, di chiamare i miei otto volte al mese e in più un colloquio Skype di 15 minuti alla settimana, non sarei stato così stupido. Per poter fare i colloqui Skype con mio padre malato io rinuncio a vedere i miei fratelli che vivono qui in Italia da tanti anni con le loro famiglie, giacché è possibile utilizzare questo tipo di colloqui con Skype soltanto se non si sono ricevute visite per almeno tre mesi. Spero che un giorno non lontano siano concessi a tutti i detenuti d’Italia come oggi avviene nel carcere penale di Padova e in pochi altri istituti. Ma perché non si possono concedere delle telefonate anche più frequenti, visto che abbiamo delle condanne lunghe e definitive, senza tutta la pratica burocratica e le lunghe attese per le varie autorizzazioni, considerando che tutte le telefonate sono registrate e se uno sbaglia commettendo dei reati ne paga le conseguenze? Questo aiuterebbe molto, nel percorso del detenuto, a responsabilizzarsi, aiuterebbe a ridurre i suicidi ed eviterebbe tanti gesti di autolesionismo, dovuti anche al fatto che tante persone detenute non hanno niente da fare tutto il giorno e si imbottiscono di psicofarmaci perché non hanno modo di impegnare il tempo, e si sentono anche in colpa con la propria famiglia perché non possono essere di nessun conforto. Kleant Sula La riforma del carcere non può attendere di Agnese Moro La Stampa, 12 marzo 2018 A volte sembra che la nostra vita pubblica assomigli alla storia di Penelope, che tesseva di giorno e di notte disfaceva il lavoro fatto. È quello che rischia di succedere alla riforma penitenziaria su cui governo, Parlamento, studiosi, operatori, addetti ai lavori, volontariato e società hanno lavorato intensamente negli ultimi anni. Per cercare di scongiurare una simile eventualità diverse associazioni - in rappresentanza dei mondi dell’università, dell’avvocatura, della magistratura e del volontariato, nonché autorevoli giuristi e personalità della società civile - si sono rivolte con un appello (su giurisprudenzapenale.com) al Governo perché l’approvi, in attuazione della delega ricevuta con la legge n. 103/2017. Cosa che ancora può fare. “Sarebbe amaro - si legge - se il destino di questa stagione riformatrice, iniziata nel 2015 con la felice intuizione degli Stati generali dell’esecuzione penale, si concludesse con la beffarda presa d’atto che solo il carcere e non anche - e soprattutto - le misure di comunità svolgono efficacemente la funzione di garantire la sicurezza dei cittadini e riducono la recidiva. Siamo convinti che la vittima del reato riceva maggior risarcimento morale da un’assunzione di responsabilità del colpevole, al quale chiedere di più sotto il profilo di condotte materialmente e psicologicamente riparatorie nei confronti suoi e della collettività, piuttosto che da una pena ciecamente afflittiva”. E precisano: “La riforma non contiene nessun afflato buonista, nessuna “liberatoria” per pericolosi delinquenti - tanto meno per mafiosi e terroristi, espressamente esclusi dall’intervento riformatore - nessun insensato ed indulgenziale “svuota-carceri”: semmai preserva la comunità da gravi forme di recidiva criminale attraverso la proposta di un impegnativo cammino di rientro rivolta a chi voglia e sappia intraprenderlo. È per questo che chiediamo che l’impegno di varare la riforma sia mantenuto, perché uno Stato il quale sa offrire una speranza alle persone che ha legittimamente condannato deve concedere loro l’opportunità di diventare buoni cittadini e rendere così un utile servizio alla collettività intera”. Per aderire all’appello si può scrivere a redazione@giurisprudenzapenale.com. Speriamo che il Governo abbia quel po’ di coraggio che serve per non disfare tanto lavoro e tante speranze. Avvocati penalisti in sciopero fino a mercoledì per sollecitare la riforma delle carceri di Marina Crisafi studiocataldi.it, 12 marzo 2018 Deliberata dall’Unione delle Camere penali italiane l’astensione dalle udienze e dalle altre attività giudiziarie per i giorni 13 e 14 marzo 2018. Martedì manifestazione a Roma per la riforma delle carceri. Avvocati penalisti in sciopero domani e martedì. L’Unione delle Camere penali ha deliberato infatti l’astensione dalle udienze e da ogni altra attività giudiziaria del settore penale per i giorni 13 e 14 marzo 2018. Martedì l’appuntamento è a Roma, presso la residenza di Ripetta, per invocare l’approvazione immediata della riforma delle carceri. Avvocati, domani e martedì astensione dalle udienze - Contro la “politica esclusivamente carcerogena e carcerocentrica” che ponendosi in contrasto con il principio costituzionale dell’art. 27 e occorrendo “dare ulteriore appoggio e solidarietà alla lunga e civile protesta di Rita Bernardini e di oltre 10mila detenuti che stanno attuando lo sciopero della fame”, l’avvocatura penale attua un’immediata presa di posizione per unificare e coordinare gli sforzi di coloro che vogliono l’attuazione della riforma penitenziaria. È quanto si legge nella delibera della giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane che ha proclamato la giornata di mobilitazione nazionale il 27 febbraio e l’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale per i giorni 13 e 14 marzo 2018, per invocare a gran voce l’approvazione immediata dei decreti attuativi e dunque l’intera riforma penitenziaria. Avvocati penalisti: appuntamento martedì a Roma - Non solo. Martedì si terrà a Roma (dalle ore 9,30), presso la Residenza di Ripetta, la manifestazione organizzata dall’Ucpi contro la mancata riforma dell’ordinamento penitenziario. La mobilitazione, si legge nel comunicato dell’Unione, “vuole essere un ulteriore forte richiamo al Governo affinché, prima dell’oramai prossima scadenza, approvi il testo già sottoposto al vaglio del Consiglio dei Ministri, dando voce a tutti coloro che autorevolmente si sono in questi mesi espressi a favore della riforma”. La riforma dell’ordinamento penitenziario voluta dal ministro Orlando, ricorda l’Ucpi, “è stata salutata dall’avvocatura penale come una grande riforma organica dell’esecuzione penale con la quale, dopo oltre quaranta anni, si è tornati a porre la finalità rieducativa ed il reinserimento sociale del condannato al centro della legislazione penale nella luce dei principi affermati dall’art. 27 c. 3 della Costituzione”. La riforma “pone ancora una volta l’Italia all’avanguardia nella elaborazione dei più avanzati strumenti di recupero e di trattamento penitenziario”, affermano i penalisti, secondo i quali “i pareri non vincolanti espressi dalle Commissioni giustizia del Parlamento non possono costituire un ostacolo all’iter di approvazione definitiva della legge, dovendo il Governo restare fedele allo spirito della riforma ed alla lettera della delega”. La Costituzione ora faciliti la certezza di un governo di Carlo Nordio Il Messaggero, 12 marzo 2018 I due pilastri di un sistema democratico sono, o dovrebbero essere, la rappresentatività e la governabilità: cioè la presenza in Parlamento di tutte le forze politiche in ragione del loro consenso elettorale, e la possibilità per il potere esecutivo di attuare il proprio programma in tempi e modi ragionevoli. Se questi due princìpi sono di facile comprensione, in realtà sono di attuazione difficile, perché tanto maggiore è la frammentazione dei partiti tanto minore è la possibilità di una loro aggregazione. Un po’ come la libertà e la giustizia sociale: un liberismo estremo crea insopportabili ineguaglianze, mentre un livellamento radicale sopprime le libertà individuali. Sono come due vasi comunicanti: se si alza il livello di uno, diminuisce quello dell’altro. La saggezza istituzionale risiede nel trovare il giusto equilibrio. Quando, nel 1993, crollò la prima repubblica, l’onda riformatrice travolse non solo i vecchi partiti, ma anche il sistema elettorale che li aveva generati: il cosiddetto proporzionale puro, con sterminate liste di candidati per ogni singola formazione. Al primo si addebitava una effimera volatilità governativa, e alle seconde un vergognoso commercio di voti. I rimedi si trovarono, o si credette di trovarli, nel sistema maggioritario e nei collegi uninominali, con un piccolo correttivo proporzionale. Il sistema funzionò. Ma ciò avvenne non tanto per merito suo, quanto perché, venuta meno la “conventio ad excludendum” del Pci e il lazzaretto politico del Msi, si erano formate di fatto due sole coalizioni, e l’elettore era alla fine invitato, o costretto, a votare per l’una o per l’altra. Di conseguenza, malgrado le loro litigiosità interne, godemmo di un periodo di quasi miracolosa stabilità. Poi le leggi elettorali sono cambiate: quella attuale è la peggiore di tutte, ma è un grave errore addebitarle colpe che non ha. Se infatti il nostro Parlamento si trova ora in uno stallo insolubile, ciò non deriva dal “Rosatellum”, ma da una circostanza affatto nuova: che i blocchi sono diventati tre, e nessuno vuole né può allearsi con gli altri due. E ciascuno ha le sue buone ragioni di pretendere ciò che pretende: Di Maio e Salvini, che chiedono l’incarico, perché rappresentano rispettivamente il primo partito e la prima forza di coalizione: e il Pd che si isola in una sdegnosa opposizione perché diversamente, dopo aver perso le elezioni, perderebbe anche la faccia. E allora? Allora bisognerà fare una profonda riflessione sulla nostra impalcatura costituzionale: se cioè privilegiare la rappresentatività, che di fronte a tre grandi formazioni incompatibili rende quasi impossibile la formazione di un governo duraturo, oppure la stabilità, che però sacrificherebbe la voce di una grossa fetta di elettorato. Questi princìpi sono quasi banali, e sono noti a tutti le democrazie parlamentari, a cominciare dal Regno Unito che ne è stato l’artefice: e dove il Partito Liberale, con un venti per cento di elettori, spesso ha ottenuto ai Comuni solo una manciata di deputati. Oppure in Francia, dove Macron - come i suoi predecessori - governa con il consenso di circa un terzo dei francesi. Ma si può fare questo da noi? No, non si può fare. E non si può fare non per colpa del Porcellum, del Rosatellum o di altre fantasiose alchimie, ma semplicemente perché la nostra Costituzione, enfatizza la rappresentatività a scapito della stabilità, rendendo difficile la formazione di un governo che governi. E infatti i due tentativi di porvi rimedio, cioè l’introduzione del premio di maggioranza e del ballottaggio, sono stati bocciati dalla Corte Costituzionale con due sentenze, rispettivamente del 2014 e del 2017, proprio perché, favorendo troppo i vincitori, violavano il principio di rappresentatività. La Corte ha fatto bene, perché ha bene interpretato la Costituzione. Se però quest’ultima interpreti ancora bene le nostre attuali esigenze, è tutto da vedere. In Italia calano i reati, ma ci sono più armi in casa di Milena Gabanelli Corriere della Sera, 12 marzo 2018 A proposito di fake news: il tema più cavalcato in campagna elettorale dal centrodestra è stato quello della sicurezza, sempre abbinato a quello dell’immigrazione. Dichiarazioni come: “L’Italia è in piena emergenza sicurezza!”, oppure: “C’è da aver paura, anche nelle nostre case!”, non sono mai state supportate da un dato, ma buona parte degli italiani ci ha creduto. I numeri del 2017, che il Corriere presenta in anteprima, dimostrano esattamente il contrario: rispetto al 2016 gli omicidi sono diminuiti dell’11,2%, le rapine dell’8,7%, i furti del 7%. Se questi dati, forniti dal Ministero dell’Interno e non ancora consolidati, fossero stati disponibili un mese fa, avrebbero modificato il filo narrativo della propaganda? Forse no, perché quando si mette in moto una psicosi collettiva, nulla riesce più a fermarla. Eppure tutti i partiti sanno che in Italia, la tendenza alla diminuzione dei reati con maggiore allarme sociale si è innescata ben quattro anni fa, ma hanno preferito ignorarla. I numeri sono significativi: al netto del calo della popolazione (0,34%), dal 2014 al 2017 gli omicidi sono scesi del 25,3%, i furti del 20,4% e le rapine del 23,4%. Quindi negli ultimi anni l’Italia è diventata via via più sicura, nonostante l’aumento del numero di immigrati. Più sicure le strade, meno sicure le mura di casa - Tornando ai numeri, si scopre che a essere meno sicure non sono le strade, ma le mura di casa: delle 355 vittime di omicidi commessi nel 2017, 140 sono donne. A ucciderle è sempre un familiare e, nel 75% dei casi, il partner o l’ex. Il dato purtroppo è stabile negli anni: 155 le vittime nel 2014, 143 nel 2015, 150 nel 2016. Lo dice l’ultimo rapporto sul femminicidio pubblicato dall’Eures, l’Istituto di Ricerche economiche e sociali. Analizzando il rapporto del Viminale, relativo agli anni 2014/2016, nelle Regioni dove c’è stato un aumento di omicidi, la percentuale è quasi completamente assorbita proprio dai delitti commessi in famiglia. Il dato del Trentino per esempio è impressionante: +200%. Se si guardano i numeri, però, si scopre che si è passati da 1 omicidio nel 2014 a 3 del 2016, e i 2 morti in più non sono imputabili a un fatto di ordinaria criminalità (e quindi ad una mancanza di sicurezza), ma ad un padre impazzito che ha ucciso la moglie e il figlio. Lo stesso discorso vale per l’Abruzzo (+50%), per il Veneto (+62%), Friuli Venezia Giulia (+600%): una crescita pressoché attribuibile ai femminicidi. Italia campionessa europea dei furti - Secondo Eurostat, nei principali Paesi europei, esclusi gli atti di terrorismo, si nota invece una tendenza all’aumento dei reati. Sia nel caso dei furti sia in quello degli omicidi volontari. La società più violenta è quella tedesca con 9,22 omicidi per milione di abitanti nel 2016, mentre l’Italia è imbattibile nei furti, con un indice di 20.163 furti per milione di abitanti. Un indice che tuttavia nel nostro Paese è in costante calo, mentre in Francia, Germania e Spagna è in aumento. L’aumento delle licenze di porto d’armi - Insomma, le dichiarazioni allarmanti, spesso innescate da un fatto di cronaca, riprese da giornali e tv, alla fine hanno insinuato nella testa di molti italiani la percezione di vivere in un Paese poco sicuro. E come si difendono? Armandosi? La fotografia del Viminale è chiara: un aumento del 41.63% delle richieste di licenze di porto d’armi a uso sportivo negli ultimi 4 anni. Solo nel 2017 le licenze in più, rispetto al 2016, sono state 80.416. Forse non proprio tutti appassionati di tiro al piattello o di tiro a segno, mentre è sicuro che questo tipo di licenza è la più facile da ottenere. In calo del 12,01% invece la licenza per difesa personale, dove la procedura è più complessa e viene concessa solo in casi gravi e comprovati ( di solito a chi esercita professioni a rischio rapina); mentre i numeri relativi alla caccia sono stabili negli anni. Le Regioni in cui si sono registrate il maggior numero di licenze di porto d’armi sportivo dal 2014 al 2016 (i dati regionali 2017 non sono ancora disponibili) sono: Lombardia +43,1%, Marche +42,4%, Molise +52,6%, Basilicata +46,1%. In molte di queste (Lombardia, Molise, Marche) tutte le attività criminali hanno registrato una flessione. Meglio una porta blindata di un’arma in casa - Non ci sono dati significativi connessi alla reale utilità di girare armati, e all’analisi dei delitti, perché non esiste un monitoraggio nazionale. L’unico andamento collegato e parallelo è quello relativo agli omicidi commessi tra le mura di casa, a causa della presenza di un’arma. Secondo l’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere di Brescia, nel 2017 ci sono stati 36 casi di omicidio, 19 tentati omicidi, 37 minacce di morte e 37 incidenti legati ad armi legalmente detenute. In conclusione: la sicurezza è un tema sul quale sarebbe bene non barare per scopi politici. Meglio placare la paura dei furti con una porta blindata e l’installazione di sistemi di allarme. Anche questo è un mercato in crescita: dal 2015 il fatturato sta aumentando di 200 milioni di euro l’anno, mentre la diciannovesima edizione della fiera sui sistemi di sicurezza che si tiene ogni anno a Milano, si è chiusa lo scorso novembre con un incremento del 35% dei visitatori e del 40% degli espositori. Cybercrime, aziende senza difese di Roxy Tomasicchio Italia Oggi, 12 marzo 2018 Secondo il dodicesimo rapporto Clusit gli investimenti in sicurezza restano al palo. Il 47% spende in modo saltuario. Marciano a doppia velocità gli investimenti in innovazione tecnologica e quelli in sicurezza. Una volta toccato il fondo della crisi globale dell’economia, lo scenario volge verso la ripresa con riflessi anche sulle prospettive di spesa per il 2018, circa il 78% delle imprese prevede un budget sostanzialmente stabile, il 16% intravede una crescita, mentre soltanto il 6% segnala una ulteriore razionalizzazione della capacità di spesa. Ma il passaggio successivo, dalla formazione del budget Ict alla definizione di un budget per la sicurezza informatica, non è assolutamente scontato. È quanto si legge nel contributo di IDC Italia relativo a “Il mercato italiano della Sicurezza IT”, contenuto all’interno della dodicesima edizione del rapporto sulla sicurezza Ict redatto da Clusit (Associazione Italiana per la sicurezza informatica), che sarà presentato al pubblico martedì 13 marzo, in apertura della decima edizione del Security summit (convegno che si propone di analizzare lo stato dell’arte della cyber security). Proprio nell’anno peggiore dal punto di vista della sicurezza, infatti, circa il 47% delle imprese spende in modo del tutto saltuario per mettere al riparo i propri sistemi, quasi il 48% spende esclusivamente nel budget generale dell’It, mentre meno del 5% delle imprese considera la sicurezza It una spesa strategica a cui riservare un budget specifico e dedicato nel 2018. Gli esperti Clusit stimano che l’Italia nel 2016 abbia subito danni derivanti da attività di cyber crimine per quasi 10 miliardi di euro, un valore dieci volte superiore a quello degli attuali investimenti in sicurezza informatica, che arrivano oggi a sfiorare il miliardo di euro. Non sorprende, quindi, che tra le varie voci che formano il budget di information technology la sicurezza molto spesso ha peso marginale: circa il 30% delle imprese italiane vi assegna meno dell’1% del budget complessivo, il 24% si spinge fi no al 3% e meno del 5% delle imprese supera tale soglia. Da segnalare non solo una attribuzione ridotta di valore, ma anche un rapporto quasi direttamente proporzionale tra queste spese e l’andamento di variabili fondamentali come il fatturato Ict: quando fatturato o budget sono stabili o in riduzione, oltre il 70% delle imprese riserva meno dell’1% del budget alla sicurezza It; viceversa, quando le previsioni sono positive, il 45% delle imprese spende ben oltre tale soglia, quasi il doppio rispetto agli altri casi. Tutto ciò, appunto, proprio a dispetto di dati allarmanti. Gli esperti del Clusit, lo hanno definito un “salto quantico”: l’andamento della cyber insicurezza ha toccato nel 2017 livelli inimmaginabili ancora pochi anni fa, sia a livello quantitativo, che qualitativo. Nell’ultima edizione del rapporto, si evidenzia un trend inarrestabile di crescita degli attacchi e dei danni conseguenti: 1.127 sono stati gli attacchi “gravi” registrati e analizzati nel 2017 da Clusit a livello mondiale, ovvero con impatto significativo per le vittime in termini di perdite economiche, di danni alla reputazione, di diffusione di dati sensibili. Di questi, il 21% è stato classificato di impatto “critico”. In termini numerici, si assiste a una crescita del 240% degli attacchi informatici rispetto al 2011, anno a cui risale la prima edizione del rapporto Clusit, e del 7% rispetto al 2016; tuttavia, a preoccupare gli esperti, è il vero e proprio “cambiamento di fase” nel livello di cyber insicurezza globale, con interferenze pesanti tanto nella geopolitica e nella finanza, quanto sui privati cittadini, vittime nel 2017 di crimini estorsivi su larghissima scala. La sicurezza non è una priorità per molti. Pur posizionando la spesa in Itc in vetta tra le priorità tecnologiche delle imprese italiane, spesso questa rilevanza si traduce in una dichiarazione di principio più che in una effettiva prerogativa di spesa. La cyber security viene indicata come priorità per il 2018 da circa il 28% delle imprese sopra i 10 addetti. Sebbene il dato dello scorso anno facesse riferimento a un perimetro di indagine più ristretto, che comprendeva solo le imprese sopra i 50 addetti, comunque si osserva un certo ridimensionamento rispetto ad altri indirizzi strategici rispetto allo scorso anno, in modo particolare rispetto a obiettivi di automazione e di consolidamento dei sistemi. Più in dettaglio, le imprese con obiettivi legati alla Sicurezza It sono ampiamente più orientate sull’automazione e sull’ottimizzazione dei processi (55% nel gruppo Sicurezza It rispetto a un dato del 32% sul totale campione). La differenza è ancora più marcata in merito al miglioramento dei servizi It e dei tempi di delivery (39% contro il 13% del campione generale) e rimane comunque molto elevata nella dimensione relativa all’innovazione e al rinnovamento delle infrastrutture It-datacenter (26% versus 9%). Tutti indizi che inducono a ritenere che l’investimento in Sicurezza preceda processi di trasformazione più generali, legati sia alla trasformazione digitale nelle sue differenti sfaccettature sia all’Internet delle cose e all’Industria 4.0 sia ad appuntamenti normativi importanti, come la fi ne del periodo transitorio di adeguamento al Gdpr. Gli attacchi nel 2017. Il rapporto Clusit 2018 evidenzia il cyber crime (la cui finalità ultima è sottrarre informazioni, denaro, o entrambi), quale prima causa di episodi gravi a livello mondiale (76% degli attacchi complessivi, in aumento del 14% rispetto al 2016). Crescono del 20% rispetto allo scorso anno gli attacchi di Information Warfare (la guerra delle informazioni) e il Cyber Espionage, in salita del 46% (lo spionaggio con scopi geopolitici o di tipo industriale, come per esempio il furto di proprietà intellettuale). Importanti le cifre in gioco: secondo gli esperti Clusit dal 2011 al 2017 i costi generati globalmente dalle sole attività del cyber crime sono quintuplicati, arrivando a toccare quota 500 miliardi di dollari nel 2017. Lo scorso anno, truffe, estorsioni, furti di denaro e dati personali hanno colpito quasi un miliardo di persone nel mondo, causando ai soli privati cittadini una perdita stimata in 180 miliardi di dollari. Sono esclusi da questa quantificazione i danni causati dalle attività di Cyber Espionage e le conseguenze sistemiche generate dalle crescenti attività di Information Warfare, i cui impatti sono difficilmente calcolabili, ma sicuramente crescenti. Una novità, nel 2017, è rappresentata dalla tipologia e distribuzione delle vittime: è infatti la categoria dei “Multiple Targets” la più colpita: rispetto al 2016 c’è un incremento a tre cifre (353%), a conferma del fatto che nessuno può ritenersi escluso dall’essere un obiettivo e che gli attaccanti sono sempre più aggressivi. A questo proposito, è il malware prodotto industrialmente e a costi sempre decrescenti il principale vettore di attacco nel 2017, in crescita del 95% rispetto al 2016 (quando già si era registrato un incremento del 116% rispetto all’anno precedente). Si tratta, cioè, di quei software “cattivi” che infettano i server aziendali per raccogliere informazioni, creare malfunzionamenti o criptare dei dati. Software e big data a caccia di terroristi e criminali di Andrea Carobene Il Sole 24 Ore, 12 marzo 2018 Possibile prevedere come le organizzazioni reclutano affiliati. Il terrorismo non si sconfigge solamente con le armi, ma anche servendosi dei bit. L’intelligenza artificiale costituisce infatti un nuovo strumento per la lotta al crimine organizzato e ai network del terrore. L’analisi automatica dei big data, la capacità di prevedere i comportamenti di gruppi di persone, la mappatura delle relazioni di un network criminale, sono esempi di una nuova forma di lotta all’illegalità che si spinge fino a individuare le probabilità di arruolamento nei network terroristici. Ernesto Savona, professore di criminologia alla Cattolica di Milano e Direttore del centro studi internazionale Transcrime, è il coordinatore del progetto europeo Proton, nato con lo scopo di analizzare i processi che favoriscono il reclutamento all’interno delle organizzazioni criminali e terroristiche. Il programma, “nato quasi per caso durante un viaggio in aereo” come spiega lui stesso, oggi è cresciuto perché rispondeva a una necessità precisa. Finanziato dall’Unione Europea nell’ambito di Horizon 2020, coinvolge attualmente 21 partner di 10 Paesi, ed è co-diretto, oltre che da Milano, anche dall’Università ebraica di Gerusalemme che studia la parte dedicata al terrorismo. L’obiettivo è di costruire un modello di simulazione che permetta di capire quali sono gli effetti che determinate politiche possono avere sui percorsi di reclutamento. “Sulla base dei risultati costruiremo un tool informatico che permetterà alle polizie o ai decisori politici di prevedere cosa avviene a seguito delle loro scelte”. L’analisi del contesto sociodemografico, lo studio delle etnie presenti, i fattori economici, sono tutti elementi che entrano nell’analisi informatica per capire cosa può accadere. “In un caso come quello di Macerata - ad esempio - sarebbe possibile capire quali azioni possono essere messe in campo per prevenire fenomeni di radicalizzazione”. Il progetto si basa su una banca dati eccezionale, in quanto il ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria hanno messo a disposizione del team di Proton i dati di tutti i detenuti per criminalità organizzata dal 1982 a oggi. “Questi dati ci sono stati forniti in forma anonima e la privacy è garantita”, specifica Savona. “Le informazioni avute permetteranno di ricostruire i percorsi di carriera criminali, capendo quali sono le strade seguite nel reclutamento di nuovi affiliati”. Oggi il progetto, che durerà tre anni, è a metà del percorso, e il modello di simulazione è quasi pronto. Nel frattempo, un altro progetto Horizon 2020 punta a realizzare un sistema automatico di data-mining e di soluzioni di analisi per capire come funzionano i network terroristici, seguendone le loro attività sul web in chiaro, nonché sul deep e dark web. Questo programma è chiamato Dante, acronimo di “Detecting and ANalysingTErrorist- related on line contents and financing activities”, ossia “Analisi e rilevazione dei contenuti online riferiti a terroristi e alle loro attività di finanziamento”. Al programma partecipano 18 organizzazioni di 10 Paesi europei, tra cui il comando generale dell’arma dei Carabinieri, il vicentino RiSSC - Centro ricerche e studi su sicurezza e criminalità, nonché le società Engineering - Ingegneria Informatica - e Ciaotech. Il progetto, che ad aprile ha avviato una collaborazione con Proton, ha tra i suoi obiettivi quelli di seguire le attività di fund raising del network del terrore. Le tecniche automatiche consentiranno anche di rilevare e monitorare gruppi o individui particolari. L’analisi automatica di diverse fonti di dati permette di ottenere risultati utili anche dal semplice web in chiaro. Un esempio è offerto dalla ricerca eseguita all’Università di Tolosa dal team di Dima L. Shepelyansky che si è servito del metodo di indicizzazione di Google per studiare le interazioni tra 95 gruppi terroristici che agiscono su 64 Paesi. Gli studiosi, che hanno pubblicato i loro risultati a gennaio sull’European Physical Journal, sono partiti da Wikipedia. Nonostante l’uso di una fonte assolutamente aperta, la ricerca ha permesso di misurare “l’influenza di specifici gruppi terroristici sui paesi del mondo”. Secondo i ricercatori questo approccio apre “ad ulteriori applicazioni importanti nelle analisi dei network del terrore utilizzando database più avanzati e dettagliati”. L’Università di Stanford, nell’ambito del suo programma “Mapping Militants Project” offre già online la visione di alcune mappe sulle relazioni tra i gruppi del terrore. Sul loro sito è possibile così studiare ad esempio i rapporti tra gli affiliati di Al-Qaeda, ma anche quelli tra i gruppi terroristici italiani fino agli anni ottanta. Analisi di questo genere possono essere completate dall’applicazione di tecniche Osint, acronimo di Open Source Intelligence, ossia intelligenza da fonti aperte. Questa tecnica di indagine analizza le informazioni presenti sul web, ad esempio sfruttando i social network, per raccogliere dati su singole persone. In questo caso si parte dallo studio delle attività dei gruppi, realizzate con tecniche di data mining e analisi automatica, per spingersi poi a seguire gli individui. È quanto ad esempio sta realizzando all’Università del Missouri, a San Louis, Maurice Dawson, che utilizza l’Osint per affinare i risultati dell’analisi dei network applicata alle attività dei terroristi. Metodologie di questo tipo potrebbero rivelarsi preziose per intervenire su specifiche tipologie di rischio, come quelle legate al noleggio o ai furti di camion usati per travolgere i civili. Corsi Ue per giudici e avvocati di Maria Adele Cerizza Il Sole 24 Ore, 12 marzo 2018 Sostenere attività di formazione giuridica in materia di diritto civile e penale. Questo è l’oggetto di un invito a presentare progetti a cura del Programma giustizia dell’Unione europea. Le attività di formazione sono destinate al personale della giustizia: giudici, procuratori, funzionari dei tribunali, avvocati, notai, ufficiali giudiziari, mediatori, interpreti e traduttori presso i tribunali. Il budget disponibile è pari a 5,35 milioni di euro. I progetti possono essere proposti - entro il 25 ottobre 2018 - da una partnership costituita da almeno due organizzazioni di due diversi Paesi. Si deve trattare di organizzazioni pubbliche e private legalmente costituite e aventi sede in uno degli Stati Ue, esclusi Danimarca e Regno Unito. Il contributo Ue può coprire fino all’80% dei costi totali ammissibili del progetto. Le attività possono essere realizzate nel quadro di una formazione iniziale o continua. I progetti dovrebbero mirare anche a incoraggiare gli operatori a seguire una formazione in una lingua straniera, sia attraverso la traduzione simultanea di alta qualità nella loro lingua madre sia attraverso una formazione linguistica mirata. I progetti possono riguardare scambi multilaterali fra operatori della giustizia; creazione di contenuti formativi, realizzati su misura per una formazione frontale, in e-learning o mista, che possono essere utilizzati dai formatori o dai professionisti per l’autoapprendimento e strumenti per i fornitori di formazione. Le priorità del 2018 concentreranno i finanziamenti sulle attività di formazione finalizzate a ridurre le lacune del personale giudiziario in generale, compreso quello delle carceri e delle libertà vigilate. A questo riguardo verranno organizzati seminari con un facile accesso linguistico al fine di attrarre anche i professionisti legali che sono riluttanti a partecipare a un seminario in lingua straniera. Sentenze in ritardo, il giudice paga di Cenzio Di Zanni La Repubblica, 12 marzo 2018 Secondo la Corte dei conti violata la ragionevole durata. Il legale: “Aveva mille fascicoli da smaltire”. Il giudice Roberto Meda aveva depositato due sentenze del tribunale civile di Bari con un ritardo di “oltre quattro anni”. Un tempo che supera la “ragionevole durata del processo”, stabilita dalla cosiddetta legge Pinto: “È vero”. “Ma il mio assistito avrebbe dovuto smaltire un carico giudiziario di mille processi pendenti in cinque anni. Mille fascicoli, mille cause, anche complesse, che nella maggior parte dei casi si trascinavano da circa 15 anni. Numeri alla mano, significa che Meda avrebbe dovuto pronunciare una sentenza al giorno: una follia. Per questo è stato condannato, ma la stessa procura regionale ha capito la sua posizione”. È la difesa che l’avvocato Dario Durso ha fatto di Meda davanti ai giudici della Corte dei conti della Puglia, presieduta da Mauro Orefice. Lui, il giudice barese Roberto Meda, classe 1936, oggi ottantaduenne in pensione e un tempo applicato alla prima sezione stralcio del tribunale di piazza Enrico De Nicola, è stato condannato a risarcire il ministero della Giustizia. Esattamente 1.500 euro a fronte dei cinquemila euro chiesti dalla procura contabile per la prima sentenza “ritardataria”, deposita depositata il 30 settembre 2003. Poi altri 2.400 euro contro gli ottomila chiesti dall’accusa per l’altra sentenza fuori tempo massimo, depositata il 6 novembre 2006. Cifre pari a un 70 per cento di sconto sulla condanna richiesta, anche grazie al rito abbreviato scelto dalla difesa. “È previsto dalla riforma del codice della giustizia contabile, che però vuole che ci sia l’accordo con il pubblico ministero: l’abbiamo ottenuto, perché - aggiunge l’avvocato Durso - il procuratore generale Carmela de Gennaro ha capito le nostre ragioni”. Almeno tre. L’esperienza fallimentare delle sezioni stralcio, innanzi tutto. Poi le responsabilità degli altri giudici sul cui tavolo sono finiti gli stessi fascicoli, prima che finissero sulla scrivania di Meda. E, ancora, le condizioni di salute del magistrato, oggi più che ottantenne. L’avvocato torna a snocciolare le sue ragioni. Spiega, argomenta, tiene il punto. “Le sezioni stralcio avrebbero dovuto smaltire, dico smaltire come si fa coi rifiuti, un carico giudiziario in alcuni casi ventennale. Cioè, uno arriva dopo altri giudici, non conosce l’istruttoria e deve decidere facendo un reset. Tabula rasa. E il tutto a scapito della qualità della giustizia”. Meda, ricorda il suo legale, è stato un Goa, cioè un giudice onorario aggiunto. Non un magistrato di carriera, quindi, ma un avvocato seduto sullo scranno più alto dell’aula di giustizia chiamato a spingere l’acceleratore nei processi lumaca. Ecco il punto. “E gli altri giudici togati, quelli che hanno istruito e trattato le due cause prima di lui, non sono responsabili? Paga solo lui perché lui ha dovuto firmare la sentenza?”, chiede Durso. La risposta è sì. Ma, anche per questo, la stessa procura che aveva citato Meda in giudizio ha chiuso l’accordo con la difesa. Consentendo di celebrare il processo contabile con il rito abbreviato. E di avere uno “sconto” sul risarcimento da versare a titolo di responsabilità da parte della Corte. Che ha dato all’ex giudice 25 giorni per pagare. Tempi rispettati. Ed è così che sono arrivate le due sentenze contabili. Partita chiusa. Intanto, il ministero della Giustizia ha già pagato oltre 20mila euro per la prima sentenza in ritardo e oltre 18mila per l’altra, dopo che la Corte d’appello di Lecce ha riconosciuto il “danno non patrimoniale sofferto dalle parti”. Ma questa è un’altra storia. Mandato di arresto europeo: i presupposti per il rilascio di Antonio Di Tullio D’Elisiis diritto.it, 12 marzo 2018 Corte di Cassazione - sez. VI penale - sentenza n. 8916 del 26-02-2018. Per poter emettere il mandato di arresto europeo occorre accertare il concreto rischio che il soggetto, di cui è chiesta la consegna, possa trovarsi esposto alla sottoposizione a trattamenti inumani o degradanti. Ricorso accolto mediante annullamento con rinvio. Orientamento confermato. Normativa di riferimento: L. 22-04-2005, n. 69, art. 18, c. 1, lett. h). Il fatto - La Corte di appello di Napoli, in esecuzione di mandato di arresto Europeo processuale emesso in data 25/13/2017 dal Tribunale di Primo Grado di Hainaut (Belgio) e relativo a ordinanza di custodia cautelare in pari data emessa dal medesimo Tribunale in relazione a quattro rapine consumate ed una tentata commesse in diverse località belghe in periodo compreso tra il (omissis) e il (omissis), disponeva la consegna dell’autore di questi reati alle autorità giudiziarie belghe per il titolo e i reati sopra indicati, alla condizione che costui, dopo essere stato ascoltato, fosse rinviato in Italia per scontarvi la pena eventualmente pronunciata nei suoi confronti. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione- Avverso questa decisione ricorreva il destinatario di questo provvedimento per il tramite del suo difensore. In particolare, il ricorrente deduceva i seguenti motivi di ricorso: a) inosservanza o erronea applicazione della legge penale con riferimento all’art. 18, comma 1, lett. h) della legge n. 69/2005 e vizi di motivazione, avendo la Corte territoriale omesso ogni dovuta verifica circa le condizioni carcerarie nello Stato di emissione e la loro compatibilità con i diritti fondamentali dell’individuo nonostante il ricorrente avesse concretamente allegato il rischio di trattamento inumano o degradante in caso di consegna, desumibile dalla sentenza della Corte e.d.u. Vasilescu c. Belgio in data 25/11/2014 e dalla dichiarazione pubblica del Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio di Europa (CPT) in data 13/7/2107; b) violazione della L. n. 69 del 2005, artt. 20 e 24, e vizi di motivazione circa la ritenuta insussistenza dei presupposti per il rinvio della consegna a giustizia italiana soddisfatta, non avendo la Corte territoriale tenuto conto a tale proposito che il ricorrente, il quale all’epoca dei fatti era detenuto in espiazione della pena pari a un anno di reclusione a lui inflitta per il delitto di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, (fine pena massimo 14/4/2018), avrebbe dovuto altresì scontare condanna, anch’essa irrevocabile, alla pena di otto mesi di reclusione per il reato di evasione essendo altresì sottoposto a processo per il reato di insolvenza fraudolenta mentre invece la sentenza impugnata si era limitata a valutare l’esistenza del solo provvedimento relativo alla violazione della normativa sugli stupefacenti, ora passato in giudicato, sicché viziato avrebbe dovuto ritenersi il giudizio in base al quale la Corte territoriale aveva ritenuto connotati da maggiore gravità i reati ipotizzati nel mandato di arresto Europeo rispetto a quelli oggetto delle condanne riportate dal ricorrente e del processo al quale egli risultava essere sottoposto in Italia. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Corte di Cassazione - La Corte di Cassazione accoglieva il suddetto ricorso, e in particolar modo il primo motivo summenzionato prima, rilevando come la Corte territoriale aveva respinto la doglianza riguardante il rischio di sottoposizione a trattamenti inumani o degradanti correlati alla situazione carceraria in Belgio senza disporre l’acquisizione di informazioni e accertamenti integrativi ai sensi della L. n. 69 del 2005, art. 16 avendo essa ritenuto come: a) la sentenza della Corte e.d.u. del 25/11/2014, Vasilescu contro Belgio si riferisse a condizioni rilevate nel 2011 in due specifici penitenziari (Anversa e Merksplas) e che quelle condizioni negative devono ritenersi allo stato bonificate, stante l’assenza di ulteriori indicazioni in proposito provenienti da organismi Europei o internazionali, ovvero da qualificate organizzazioni non governative; b) fossero inidonee a dimostrare l’esistenza del suddetto rischio le allegazioni del ricorrente in ordine a situazioni conseguenti a scioperi del personale addetto alla custodia dei detenuti in Belgio, poiché risultanti da fonti giornalistiche non attendibili e non controllabili nel loro contenuto. Oltre a ciò, gli ermellini giungevano a siffatto esito decisorio sulla scorta di plurime argomentazioni. Veniva prima di tutto osservato in via preliminare che, secondo quanto chiarito dalla medesima Corte di legittimità sulla scorta delle indicazioni della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella sentenza 5 aprile 2016, C404/15, Aaranyosi e C659/15, Caldararu, il motivo di rifiuto della consegna correlato al “serio pericolo” che la persona venga sottoposta alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti, impone di verificare, dopo aver accertato l’esistenza di un generale rischio di trattamento inumano da parte dello Stato membro (basandosi su “elementi oggettivi, attendibili, precisi e opportunamente aggiornati” sulle condizioni di detenzione vigenti nello Stato membro emittente e comprovanti la presenza di carenze sia sistemiche o comunque generalizzate, sia limitate ad alcuni gruppi di persone o a determinati centri di detenzione), se, in concreto, la persona oggetto del M.A.E. potrà essere sottoposta ad un trattamento inumano, sicché a tal fine può essere richiesta allo Stato emittente qualsiasi informazione complementare necessaria (Sez. 6, n. 23277 del 01/06/2016, omissis, Rv. 267296). Chiarito il modo attraverso il quale può essere addotto il motivo di rifiuto a norma dell’art. 18, c. 1, lett. h), legge n. 69/2005, valutando nello specifico la situazione delle carceri del Belgio, si osservava come la stessa Cassazione avesse già affermato nel passato che, in tema di mandato di arresto Europeo emesso dall’Autorità Giudiziaria belga, la condizione di rischio connessa a problemi di tipo strutturale che possono tradursi nella sottoposizione dei detenuti a trattamenti inumani o degradanti, evidenziata dalla sentenza Vasilescu c. Belgio del 25/11/2014 della Corte Europea dei diritti dell’uomo, impone all’autorità giudiziaria richiesta della consegna di verificare in concreto la sussistenza di tale rischio, correlata alla condizione degli istituti carcerari dello Stato di emissione, attraverso la richiesta di informazioni individualizzate allo Stato richiedente relative al tipo di trattamento carcerario cui sarebbe, specificamente, sottoposto il soggetto interessato (Sez. 6, n. 22249 del 03/05/2017, omissis, Rv. 269920). Posto ciò, la Corte, nel ribadire il principio summenzionato prima ossia che, a fronte di informazioni provenienti da fonti autorevoli e accreditate e prima di tutto alla luce di quanto rilevato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo in sentenze riguardanti lo Stato di emissione del M.A.E., deve essere verificato e ponderato il concreto rischio che il soggetto, di cui è chiesta la consegna, possa trovarsi esposto all’eventualità della sottoposizione a trattamenti inumani o degradanti, correlati alle condizioni degli istituti carcerari del Paese di emissione, in ragione del sovraffollamento o di altri strutturali e non puramente contingenti problemi, evidenziava altresì che, in presenza di una situazione di allarme, originato dall’accertata esistenza di condizioni di rischio, la necessaria verifica implica che siano acquisite specifiche assicurazioni dallo Stato di emissione le quali a loro volta non possono solo concernere profili di carattere generale, ma devono essere individualizzate in relazione alla situazione riguardante il soggetto interessato alla procedura di consegna. In sostanza, secondo i giudici di legittimità ordinaria, un onere di questo tipo incombe allo Stato emittente e non a carico di colui nei cui confronti viene emesso il mandato di arresto europeo. Chiarito ciò, si stigmatizzava l’operato dei giudici di merito non avendo essi dato il giusto rilievo alla sentenza della Cedu succitata, vale a dire la sentenza Vasilescu contro Belgio che, secondo la Corte, pur non avendo assunto la forma della sentenza c.d. pilota, aveva tuttavia posto in luce, tanto più con riguardo a taluni stabilimenti penitenziari, problemi che definiva di tipo strutturale, cui sono riconducibili situazioni che possono tradursi nella sottoposizione dei detenuti a trattamenti inumani e degradanti. Infatti la Corte di Cassazione censurava quella parte dell’ordinanza sottoposta al suo scrutinio di legittimità proprio perché la Corte territoriale aveva svalutato tale sentenza ritenendo in maniera del tutto congetturale e indimostrata - e senza procedere ai necessari accertamenti integrativi previsti dalla L. n. 69 del 2005, art. 16 - che i problemi strutturali rilevati dalla Corte e.d.u. fossero stati risolti. Proseguendo ad esaminare il ragionamento decisorio che connota la sentenza qui in commento, veniva censurata la decisione impugnata anche sotto un altro profilo avendo stimato come illogica e infondata la svalutazione da parte della Corte territoriale in ordine all’allegazione del ricorrente circa il concreto rischio di sottoposizione a trattamenti inumani o degradanti derivante dalle gravi conseguenze prodotte nelle carceri belghe a seguito di scioperi o altre azioni collettive degli agenti penitenziari trattandosi di situazioni più volte segnalate dal Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa e che avevano recentemente condotto il Comitato, in mancanza dell’adozione di misure idonee, a emettere in data 13/7/2017, ai sensi dell’art. 10(2) della Convenzione istitutiva di detto Comitato, una Dichiarazione Pubblica con la quale si denuncia il rischio di assoggettamento di un gran numero di detenuti a trattamenti inumani e degradanti, ovvero all’aggravamento di condizioni detentive già intollerabili e all’esposizione dei detenuti a pericolo per la loro salute e la loro stessa vita. I giudici di Piazza Cavour, alla luce di queste considerazioni, pertanto, stimavano sussistente la violazione della L. n. 69 del 2005, art. 16, in relazione all’art. 18, lett. h) della stessa legge e del denunciato vizio di motivazione della sentenza impugnata e di conseguenza, consideravano necessario l’annullamento della sentenza in esame con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Napoli perché procedesse a nuovo giudizio circa l’eventuale sussistenza del motivo di rifiuto di cui al citato art. 18, lett. h) in relazione al tipo di trattamento carcerario cui sarebbe specificamente sottoposto il ricorrente e e alle misure adottate dal Belgio per eliminare i rischi segnalati dal Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa con Dichiarazione Pubblica emessa in data 13/7/2017 ai sensi dell’art. 10(2) della Convenzione istitutiva di detto Comitato. Per quanto invece concerne l’altro motivo, questo si riteneva assorbito dall’altro dovendo la valutazione delle condizioni per l’eventuale rinvio della consegna ai sensi della L. n. 69 del 2005, art. 24, essere svolta alla stregua della concreta situazione esistente al momento del giudizio di rinvio, anche, eventualmente, sulla base della documentazione di cui si rendesse necessaria l’acquisizione (Sez. 6, n. 14764 del 27/03/2013, omissis, Rv. 257020) dato che la facoltà riconosciuta alla Corte d’appello di rinviare la consegna per consentire alla persona richiesta di essere sottoposta a procedimento penale in Italia per un reato diverso da quello oggetto del mandato d’arresto, implica una valutazione di opportunità che deve tener conto non solo dei criteri desumibili dalla L. n. 69 del 2005, art. 20, (ossia, la gravità dei reati e la loro data di consumazione), ma anche di altri parametri, quali, ad esempio, lo stato di restrizione della libertà, la complessità dei procedimenti, la fase o il grado in cui essi si trovano, l’eventuale definizione con sentenza passata in giudicato, l’entità della pena da scontare e le prevedibili modalità della sua esecuzione (Sez. 6, n. 26877 del 25/05/2017, P.G. in proc. omissis, Rv. 270164; Sez. 6, n. 10892 del 05/03/2014, B., Rv. 259340). Conclusioni - La sentenza impugnata è giuridicamente ineccepibile in quanto si pone nell’ottica di una corretta applicazione dell’art. 18, c. 1, lett. h) della legge n. 65 del 2009. Soltanto infatti la garanzia di specifiche assicurazioni da parte dello Stato richiedente che faccia chiarezza sul tipo di trattamento carcerario cui sarebbe specificamente sottoposta la ricorrente (così: Cass. pen., sez. VI, n. 22249/2017) consente di accertare concretamente se vi sia o meno un serio pericolo che la persona ricercata venga sottoposta alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti. Stupefacenti: per la prova dell’accordo associativo bastano i fatti concludenti di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 12 marzo 2018 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 21 dicembre 2017 n. 57181. Ai fini della configurabilità del reato di cui all’articolo 74 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990 n. 309, la prova del vincolo permanente, nascente dall’accordo associativo, può essere data anche per mezzo dell’accertamento di fatti concludenti, quali i contatti continui tra gli spacciatori, i frequenti viaggi per il rifornimento della droga, le basi logistiche, le forme di copertura e i beni necessari per le operazioni delittuose, le forme organizzative, sia di tipo gerarchico che mediante divisione dei compiti tra gli associati, la commissione di reati rientranti nel programma criminoso e le loro specifiche modalità esecutive. Questo il principio espresso dalla sezione quarta penale della Cassazione con la sentenza 57181/2017. In termini sulla valorizzazione di fatti concludenti per la dimostrazione dell’esistenza dell’associazione, tra le altre Sezione V, 13 febbraio 2008, Mahzar e altro. In tema cfr anche Sezione VI, 6 novembre 2013, Proc. Rep. Tribunale Napoli in proc. Lentino e altro, laddove si è affermato che, ai fini della configurabilità dell’associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, non è richiesto un patto espresso fra gli associati, potendo desumersi la prova del vincolo dalle modalità esecutive dei reati-fine e dalla loro ripetitività, dalla natura dei rapporti tra i loro autori, dalla ripartizione di compiti e ruoli fra i vari soggetti in vista del raggiungimento del comune obiettivo di effettuare attività di commercio di stupefacenti. Pertanto, la prova del reato può essere data anche per mezzo dell’accertamento di facta concludentia, quali i contatti continui tra gli associati, i frequenti viaggi per il rifornimento della droga, le basi logistiche, le forme di copertura e i beni necessari per le operazioni delittuose, le forme organizzative, sia di tipo gerarchico che mediante divisione dei compiti tra gli associati, la commissione di reati rientranti nel programma criminoso e le loro specifiche modalità esecutive. In questa prospettiva valendo anche i rapporti parentali o coniugali, che, sommandosi al vincolo associativo, lo rendono ancora più pericoloso. Igiene e sicurezza lavoro, multe cancellabili se c’è stata regolarizzazione spontanea di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 12 marzo 2018 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 25 gennaio 2018 n. 3671. Nelle contravvenzioni in materia di igiene e sicurezza del lavoro, punite con pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda o con la sola ammenda, la procedura estintiva in sede amministrativa mediante il pagamento nei termini di una sanzione amministrativa previa regolarizzazione (quando sia possibile e necessaria) delle situazioni che avevano dato luogo all’infrazione, non può non trovare applicazione anche nella situazione in cui il contravventore abbia spontaneamente e autonomamente provveduto a eliminare le conseguenze dannose o pericolose della contravvenzione prima o, comunque, indipendentemente dalle prescrizioni dell’organo di vigilanza. Lo sostengono i giudici della Cassazione penale con la sentenza n. 3671del 2018. Nella specie, il contravventore, chiamato a rispondere di alcune contravvenzioni relative a un istituto scolastico, aveva rimosso le irregolarità provvedendo a spostare le attività scolastiche in altra sede. In termini, di recente, sezione III, 15 settembre 2015, Eheim, laddove si è affermato, in generale, che nelle contravvenzioni in materia di igiene e sicurezza del lavoro punite con pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda o con la sola ammenda, la procedura estintiva in sede amministrativa mediante il pagamento nei termini di una sanzione amministrativa previa regolarizzazione (quando sia possibile e necessaria) delle situazioni che avevano dato luogo all’infrazione, si applica anche nelle ipotesi in cui la fattispecie è “a condotta esaurita” e in quelle in cui il trasgressore abbia autonomamente provveduto all’adempimento degli obblighi di legge precedentemente all’emanazione della prescrizione, ove si consideri che la finalità dell’istituto della regolarizzazione, oltre a interrompere l’illegalità e a ricreare le condizioni di sicurezza previste dalla normativa a tutela dei lavoratori, consiste soprattutto nel consentire in via generale l’estinzione del reato anche quando non vi siano regolarizzazioni da effettuare perché il reato è istantaneo o perché la regolarizzazione è già spontaneamente avvenuta. Secondo questa decisione, quindi, anche rispetto a tali ipotesi, sarebbe necessario che venga fissato un termine al contravventore per la definizione in via amministrativa, alla cui inosservanza è condizionata la punibilità in sede penale. Sotto quest’ultimo specifico profilo, dissente però la decisione in rassegna, che, richiamando altro orientamento giurisprudenziale (di recente, Sezione III, 13 gennaio 2017, Bonanno), sostiene che la violazione della procedura amministrativa estintiva da parte dell’organo di vigilanza, non può condizionare l’esercizio dell’azione penale, anche perché, in ogni caso, pur in caso di mancato perfezionamento della procedura, il contravventore ben potrebbe fruire dell’estinzione del reato in sede giudiziaria nella stessa misura agevolata. Veneto: Camere Penali, il 14 marzo una conferenza stampa davanti ad ogni carcere Ristretti Orizzonti, 12 marzo 2018 L’Unione Camere Penali del Veneto ha indetto per mercoledì 14 marzo alle ore 11 una conferenza stampa davanti ad ogni carcere per protestare contro la mancata riforma dell’ordinamento penitenziario. A Padova si terrà davanti alla Casa di Reclusione. Sono stati invitati organi istituzionali e associazioni. Foggia: detenuto collassa e muore, la Procura dispone l’autopsia La Gazzetta del Mezzogiorno, 12 marzo 2018 Era in infermeria per dolori a un dente, parla il legale della famiglia. La Procura di Foggia ha disposto l’autopsia per chiarire le cause della morte di un detenuto, rinchiuso nel carcere di Foggia per scontare una lunga condanna per reati in materia di stupefacenti e contro il patrimonio e che si è sentito male ed è collassato dopo essere stato portato nell’infermeria della casa circondariale del capoluogo dauno pare per problemi ad un dente. Anche l’avvocato Giuseppe Perrone, che assiste i familiari del defunto, ha nominato un proprio consulente medico che assisterà all’esame autoptico affidato dai medici dell’istituto di medicina legale dell’università di Foggia. La vittima è Matteo Curci, 57 anni li avrebbe compiuti il prossimo ottobre, cerignolano, detenuto da qualche anno e con fine pena nel 2026 (la difesa contava di avere uno sconto di 4 anni ottenendo la continuazione tra i reati) per scontare condanne diverse per furto, sostituzione di valori, estorsione, detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti e resistenza a pubblico ufficiale. “La famiglia non vuol colpevolizzare nessuno, bene chiarirlo, ma intende che si faccia chiarezza sulle cause del decesso” commenta l’avv. Perrone: “dalle prime informazioni pare che Curci fosse stato portato nell’infermeria del carcere per problemi ad un dente, gli sarebbe stata praticata una iniezione dopo di che si è sentito male ed è collassato e i tentativi di rianimarlo si sono rivelati inutili”. Il decesso risale alla fine di febbraio anche se soltanto adesso se n’è avuto notizia. “Devo dare atto al sostituto procuratore Vincenzo Bafundi di essersi immediatamente attivato e d’aver disposto l’autopsia che dovrà far luce sulle cause del decesso. Ho scelto” prosegue il legale “di nominare un mio consulente medico che assista all’autopsia: l’interesse dei familiari di Curci, ribadisco, è capire come mai all’improvviso il loro caro sia morto, visto che le sue condizioni di salute erano ottime, non soffriva di alcuna patologia particolare, tanto meno di problemi cardiaci che potrebbero averne causato il decesso. Voglio anche rimarcare come Curci è sempre stato un detenuto modello, comportandosi in maniera corretta, rispettosa ed anche laboriosa all’interno del carcere, tant’è che da diversi mesi lavorava in cucina come aiuto cuoco”. L’esame autoptico, i cui risultati si conosceranno nei prossimi mesi, dovrà innanzitutto chiarire le cause del decesso e quindi stabilire se la morte del detenuto sia conseguenza di un qualche ipotetico errore. Saranno ascoltati (se già non è successo, l’inchiesta è coperta dal segreto istruttoria) i detenuti compagni di cella e chi era con Curci nelle ultime ore e minuti di vita per verificare se avesse manifestato qualche problema particolare. Milano: muore da detenuto il boss dei Casalesi, Giuseppe Papa cronachedellacampania.it, 12 marzo 2018 È morto in carcere il boss dei Casalesi, Giuseppe Papa, condannato all’ergastolo per un omicidio e prima ancora a 12 anni nell’ambito del famoso processo Spartacus I. Papa, 70 anni nativo di Villa Briano è stato stroncato da un male incurabile nel reparto detenuti dell’ospedale San Paolo di Milano. Lui era detenuto nel carcere di Opera. La sua morte è avvenuta qualche giorno fa e la sua salma è stata già sepolta nel cimitero di Sparanise. Secondo le accuse della Dda, Giuseppe Papa avrebbe comandato l’agro Caleno insieme ad altre due note famiglie della zona per conto del clan dei Casalesi. Fu arrestato nel 2005, come ricorda Il Mattino, dopo due anni di latitanza mentre era nell’abitazione di una donna di Sparanise, incensurata ma ancora prima era stato localizzato proprio a Villa di Briano. Era ricercato all’epoca per essere stato complice nell’omicidio di Ubaldo Scamperti avvenuto il 7 agosto del 1995 a Bellona e di Maurizio Scamperti avvenuto nello stesso giorno a Casal Di Principe. Una condanna per associazione camorristica a 12 anni l’aveva ricevuta anche dalla Corte di Assise del processo Spartacus mentre la detenzione all’ergastolo era scattata nel 2006 per il delitto di Giovanni Mandesi, commesso nel 1990 a Vairano Patenora, in quanto la vittima era affiliata al contrapposto clan facente capo ai Bardellino. Roma: il birrificio dei detenuti che recupera gli scarti di cibo di Angela Gennaro Il Fatto Quotidiano, 12 marzo 2018 “AranCoella come Regina Coeli, no?”. Mirko sorride mentre mostra le etichette che sta per mettere sulle bottiglie di birra. È uno dei ragazzi che lavorano al birrificio “Vale La Pena”, un progetto di inclusione e di inserimento lavorativo per detenuti realizzato a Roma dalla Onlus Semi di Libertà. Inizialmente finanziato dal ministero dell’Istruzione e da quello di Giustizia, ha alla base l’idea di avviare un’impresa “che si autosostenti”. “Abbiamo scelto questo settore anche perché ha un trend in crescita nel nostro Paese”, dice Paolo Strano, presidente e fondatore della Onlus. I nomi delle birre li scelgono insieme, oppure condividendo l’idea su Facebook: GattaBuia, Buona Condotta, Amara Femmina, RecuperAle, Sèntite Libbero, Gnente Grane, Ora D’Aria. “Da qui sono passate fino ad oggi dodici persone”, dice Paolo. Sono detenuti ammessi al lavoro esterno, provenienti dal carcere romano di Rebibbia come Mirko, che è in semi-libertà e lavora qui dal 4 agosto scorso, o dai domiciliari come Daniele. L’obiettivo, quindi, è contrastare le recidive. “Vengono formati e avviati all’inclusione professionale nella filiera della birra”, dice Paolo Strano. Anche attraverso la collaborazione con altre associazioni. “La sede del nostro birrificio è in un istituto agrario frequentato da diverse persone diversamente abili che facciamo lavorare insieme ai nostri ragazzi”, dice il presidente. “Anche loro mettono a mano le etichette delle nostre birre. Le etichette sono magari imperfette, a volte leggermente storte o con qualche bolla, ma per noi hanno un valore speciale. Mettersi in rete è un valore aggiunto”. Con EquoEvento, poi, si produce una nuova linea di birra con cibo recuperato, la RecuperAle: anche il pane dell’Hilton e di Eataly destinato a essere sprecato viene donato qui e trasformato in birra. “Gli diamo una seconda possibilità. Come ai nostri ragazzi”. “Ora puntiamo alla commercializzazione diretta delle birre”, conclude Paolo. “Apriremo a breve, qui a Roma, un punto vendita diretto non solo delle nostre birre ma di tutti i prodotti dell’economia carceraria. E poi stiamo studiando altre possibilità come la presenza in mercati o un sistema di vendita itinerante”. Vigevano: le detenute di partecipano alla #copertacollettiva Ristretti Orizzonti, 12 marzo 2018 Chi volesse donare a questo scopo lana, ferri o uncinetti può portarli a L’Antina, in Via del Popolo 8 a Vigevano. Grazie alla collaborazione tra il Carcere, L’Antina e Kore Centro Antiviolenza - Laboratorio A Casa di Maru le detenute potranno lavorare alla creazione di quadrati di lana 10x10 che verranno trasformati in coperte calde di solidarietà. Anche il Carcere di Vigevano ha deciso di diventare parte attiva del progetto della #copertacollettiva, avviato a fine 2016 dal negozio L’Antina insieme con Kore Centro Antiviolenza - Laboratorio A Casa di Maru. Alle detenute verrà infatti data la possibilità di lavorare alla creazione di quadrati di lana 10x10 e di vederli poi trasformati, insieme con i quadrati prodotti dalla cittadinanza, in coperte calde di solidarietà. Il materiale da utilizzare non verrà acquistato. È infatti partita nei giorni scorsi presso L’Antina una campagna di raccolta solidale di lana di recupero, ferri e uncinetti: chiunque lo desidera può portare quello che ha presso il negozio, nei suoi consueti orari di apertura. “Questo progetto rappresenta un altro tassello messo nella costruzione di quel ponte tra carcere e territorio, grazie alla partecipazione dell’istituto penitenziario a questa bellissima attività di volontariato che vede coinvolti L’Antina e Kore Centro Antiviolenza - Laboratorio A Casa di Maru, ed in particolare il nostro reparto femminile che non è nuovo alla partecipazione a quel mondo del volontariato che opera alacremente sul territorio vigevanese” ha dichiarato Davide Pisapia, Direttore del Carcere. “Questa collaborazione è un’ulteriore prova dell’ingresso dell’istituzione carcere nel circuito del mondo del volontariato, rendendo così più concreta ed incisiva la rieducazione, fine ultimo della pena detentiva, sensibilizzando la realtà esterna a poter considerare la popolazione detenuta una vera risorsa per il territorio circostante. Una collaborazione di tale sorta non poteva che essere accolta con entusiasmo dalle ospiti del reparto femminile della nostra Casa di Reclusione, che così hanno potuto cogliere l’opportunità, tra le altre, di poter continuare ad affermare - seppur da dietro le sbarre - la sensibilità del loro universo femminile e l’importanza della tutela della genitorialità. Pertanto, auspichiamo che la città di Vigevano ci aiuti così a proseguire nella costruzione di quel difficile ponte tra carcere e territorio, difficile, ma non impossibile”. “La solidarietà tra donne” ha aggiunto Nicla Spezzati, Presidente di Kore Centro Antiviolenza - Laboratorio A Casa di Maru, “è davvero una grande opportunità perché crea sempre qualcosa di nuovo ed unisce attraverso gesti e oggetti semplici legati al quotidiano tre grandi prospettive: sentirsi parte viva di un unico progetto che non esclude nessuno ma si arricchisce di esperienze diverse e valorizza la persona; combattere insieme la dimensione dello spreco e ritornare a far vivere cose buttate e inutilizzate nella dimensione educativa del riciclo, riflettendo insieme su come imparare a vivere meglio usando con intelligenza quanto abbiamo a disposizione; promuovere incontri e conoscenza delle varie realtà del nostro territorio che possono diventare un dono reciproco, combattendo stereotipi comuni che ancora resistono e imprigionano cuore e pensiero. Ci auguriamo che questa iniziale collaborazione possa trasformarsi nel tempo in realtà concreta, capace di unire due mondi che hanno molto da comunicarsi e da testimoniare insieme”. La #copertacollettiva, a cui oggi partecipano moltissimi cittadini, è una catena di solidarietà che lo scorso 4 ottobre ha vinto il contest nazionale #DonareMiDona promosso dall’Istituto Italiano della Donazione (IID) in occasione del Giorno del Dono. Dall’avvio della raccolta sono state realizzate 23 coperte con oltre 3000 quadrati, ed 1 coperta con 7 maglioni infeltriti. Queste le organizzazioni della zona che le hanno ricevute in dono ad oggi: Associazione Butterfly, A Casa di Boaz, Casa Miriam, Centro Aiuto alla Vita, Comunità Madre Amabile, Il Fileremo, Il Focolare, la San Vincenzo. Contatti: L’Antina - Via del Popolo 8, Vigevano (PV). www.lantina.it - info@lantina.it; 333/7376278 (Maddalena Cassuoli). L’Antina è anche su Facebook e Instagram #copertacollettiva. Farmaci come droga tra i giovani: “hanno la molecola dell’eroina” di Elisabetta Andreis e Gianni Santucci Corriere della Sera, 12 marzo 2018 Il nuovo sballo low cost. Meno care degli stupefacenti le medicine oppiacee, sono ordinabili online, mixabili e stanno entrando, nei circuiti dello spaccio. Piccoli chimici di 16-17 anni, mettono in rete i loro cocktail. Adulti distratti. La foto è stata postata qualche settimana fa. Profilo Instagram di un adolescente milanese. Una scrivania. Un campionario di farmaci: sciroppi alla codeina, Xanax. E due confezioni di OxyContin, una medicina con una storia nera: oppioide, “parente” della morfina, utilizzato per la terapia del dolore. Negli Stati Uniti è arrivato sul mercato nel 1995 ed è stato pompato dai produttori come antidolorifico “comune”. Per molti malati, è stato un sollievo. Ma dal 1999, 200 mila americani sono morti per overdose da OxyContin e farmaci simili. Quattro eroinomani su 5 hanno iniziato la loro storia di dipendenza da antidolorifici di quel genere. E gli Stati Uniti, oggi, stanno affrontando la più drammatica e devastante epidemia di eroina nella storia del mondo occidentale. Ecco perché trovare scatole di OxyContin nella stanza di un ragazzino di Milano è un segnale: di un abuso sommerso, di un rischio per il futuro. Riflette Luigi Cervo, farmacologo del “Mario Negri”: “Esiste una tendenza impressionante all’utilizzo di farmaci oppiacei senza prescrizione, al di fuori di un trattamento terapeutico. L’abuso di questi farmaci, tipicamente antidolorifici, finora è stato sottovalutato. Rischiamo di svegliarci di colpo e scoprire una deriva già avanzata”. Gli sciroppi per la tosse che contengono codeina, mescolati alla “Sprite”, sono una moda da anni. I farmacisti svizzeri hanno cercato di arginare la transumanza di ragazzini lombardi che attraversavano il confine per acquistarli (in vendita libera). In Italia serve la prescrizione: una ragazza minorenne, per conto del Corriere, nei giorni scorsi ha però provato a comprarli in tre farmacie di zona Loreto. Due farmacisti hanno venduto lo sciroppo senza ricetta. Test comunque non significativo, perché il grosso dello smercio avviene online. In un video postato in Rete, si sente l’”esultanza” di un adolescente mentre filma il furgone di uno spedizioniere: gli ha appena consegnato un pacco di medicine. Racconta Simone Feder, responsabile della comunità per minori “La casa del giovane” di Pavia, che assiste tanti giovani milanesi: “Per lo sballo vogliono spendere meno. Iniziano a preferire i farmaci alle droghe: primo, perché sono mixabili a loro piacimento, con l’illusione di poter gestire l’effetto; secondo, perché sono “legali” e “facilmente” reperibili. Per comprare, usano quasi sempre Internet. A 16-17 anni, sono dei chimici. Si informano in Rete, sanno quali molecole assumere, mescolate a cosa, per ottenere ottundimento (più raramente eccitazione). I genitori, in quest’ambito, sono su un altro pianeta”. Sensazione diffusa tra i pochi esperti che interpretano il cambiamento: per il mondo degli adulti (dalle istituzioni, alla politica, alle scuole) il tema droga sta chiuso in un confine tra cannabis e cocaina. Il resto è ignoto (pur se dilagante). Riflette Paola Sacchi, psichiatra, direttore del Sert territoriale: “Ragazzini sempre più giovani mescolano farmaci e alcol. Le classi di farmaci più utilizzate per raggiungere effetti psicotropi, sballare o “sfinirsi”, sono gli oppiacei e le benzodiazepine. I genitori di solito si accorgono che “qualcosa non va”, ma lo attribuiscono al “fumo” (spinelli, hashish), non sospettano una dipendenza più forte e impegnativa, sia dal punto di vista fisico, che psichico”. Chi ha memoria storica della strage dell’eroina negli anni Ottanta, dovrebbe invece considerare con preoccupazione questa nuova confidenza dei ragazzi con farmaci oppioidi. I canali di approvvigionamento e smercio sono poco o nulla indagati. Nei mesi scorsi una farmacia di Treviglio (Bergamo) segnala un gruppo di ricette falsificate con un timbro rubato a un medico dell’ospedale “Sacco”: prescrizioni per OxyContin e tramadolo (altro oppioide sintetico). Un anno fa i carabinieri di San Donato arrestano due iracheni, 25 e 37 anni, che vendevano compresse di ossicodone fuori dalle scuole di Segrate e Peschiera (avevano 2 mila pillole). A inizio 2017 i poliziotti del commissariato “Porta Genova” fermano due egiziani che spacciano farmaci, tra cui il “solito” OxyContin. Inchieste significative, ma isolate. E che lasciano ipotizzare un sommerso non ancora definibile. L’abuso emerge più dalla Rete (le foto in queste pagine sono comparse sui profili social di adolescenti milanesi): “C’è una crescente tendenza a mostrare i propri “sballi” - spiega Fabiola Minoletti, studiosa di writing vandalico e di devianze giovanili - un’abitudine che si è impennata con i video live, che permettono di “esibirsi” senza lasciare traccia”. Le medicine entrano anche nei circuiti di spaccio più “classici”. Conclude Pietro Farneti, presidente dell’associazione servizi ambulatoriali per le dipendenze: “Il ricorso ai farmaci è spesso in alternativa all’eroina. Per quello che osserviamo, si comprano certamente a Rogorego, che è diventato “centro commerciale low cost” per la droga, ma anche per i farmaci, in particolare il tramadolo, oppioide sintetico che in Medio Oriente si vende in farmacia senza ricetta. Né i genitori, né l’opinione pubblica, politica in testa, si rendono conto di cosa sta succedendo”. Egitto. Il killer condannato a morte che divide l’Italia e il Cairo di Sandro De Riccardis La Repubblica, 12 marzo 2018 Poche ore dopo l’omicidio, era già in volo verso il Cairo per sfuggire all’arresto. Ma la fuga in Egitto non lo ha salvato dall’ergastolo, arrivato quattro anni dopo da parte di un tribunale italiano, e potrebbe costargli anche la vita in patria. La storia di Mohamed Attia, egiziano, oggi 31enne, rischia ora di caricare di tensione i rapporti tra Italia ed Egitto, già messi a dura prova dal caso Regeni, e di diventare un nuovo caso diplomatico tra i due paesi. Per la giustizia italiana Attia è l’assassino di Parviz Gorjian, commerciante ebreo iraniano, 79 anni, che dopo aver gestito un negozio di tappeti, una volta in pensione ha continuato l’attività in un piccolo magazzino in piazza Tripoli, prima periferia di Milano. Qui accoglieva ancora i clienti storici, che ancora si rifornivano da lui. Anche il giorno dell’omicidio, il 12 settembre 2013, Gorjian è come ogni mattina in magazzino. Il suo cadavere viene ritrovato solo a tarda sera. Il corpo è sul pavimento, martoriato da una decina di fendenti di forbice, trovata lì vicino sporca di sangue, e da diversi colpi alla testa. Secondo la sentenza, il movente del delitto è la rapina: alla vittima vengono sottratti il cellulare e poche centinaia di euro dal portafoglio. Attia, intanto, è già in Egitto. Compra un biglietto di solo andata per il Cairo, parte da Malpensa con il volo delle 18.25. E scompare per sempre. Da allora, il governo egiziano non ha mai risposto alle richieste di estradizione partite dall’Italia. E ora - a quasi cinque anni dal delitto - arriva dal Cairo la notizia che ha allertato procura di Milano e ministero della Giustizia: Attia sarebbe stato condannato a morte (in primo grado) dalla Corte d’assise di Zagazig, a nord del Cairo, per la rapina e l’omicidio di piazza Tripoli. Una condanna per un fatto già giudicato in Italia con sentenza diventata definitiva a gennaio, che sarebbe arrivata senza l’acquisizione del fascicolo d’indagine, delle prove e delle testimonianza, e senza la necessaria traduzione degli atti in arabo. Per questo il pm Grazia Colacicco, il magistrato della procura di Milano che ha ottenuto la condanna all’ergastolo, ha chiesto informazioni e chiarimenti all’ufficio Cooperazione internazionale del ministero della Giustizia. “La possibilità di processare in patria lo straniero che ha commesso un reato in Italia in astratto esiste - spiega Stefano Opilio, direttore dell’ufficio Cooperazione Internazionale del ministero - ma può esserci solo dopo che la nostra richiesta di estradizione sia stata respinta. Questo non è mai avvenuto”. In più, tra Italia ed Egitto non esiste alcun trattato bilaterale. “In caso di richiesta, noi valutiamo con l’autorità giudiziaria italiana la fattibilità di un processo all’estero, ma innanzitutto verifichiamo il rispetto nell’ordinamento straniero di tutte le garanzie per l’imputato che ci sono in Italia - precisa Opilio. Nulla di tutto questo è avvenuto, né poteva avvenire con l’Egitto, dov’è prevista la pena di morte. Siamo in attesa di sapere dall’ambasciata cos’è successo”. Attia, che lavorava nel negozio di sartoria dei genitori, poco distante dal luogo del delitto, è stato incastrato dalle testimonianza di un amico, a cui chiede di comprare un biglietto aereo per il nord Africa, subito dopo il delitto. È a lui che confida la sua agitazione. “Mi ha detto: ho litigato con una persona e devo tornare subito in Egitto”, dice il testimone ai carabinieri. Ma a inchiodare Attia ci sono soprattutto una sua impronta digitale nel magazzino, le tracce di sangue della vittima sui pantaloni e le chiavi del magazzino sequestrate nella sartoria di famiglia. Prove mai arrivate davanti a un tribunale egiziano. “Lascia perplessi questa condanna, di cui poco si sa. Soprattutto non si capisce sulla base di che cosa sia stata emessa - commenta anche il legale della famiglia Gorjian, l’avvocato Paolo Tosoni - Noi insistiamo con ministero, procura e ambasciata perché si riesca a far estradare questa persona”. Auspicio che è anche dei familiari della vittima, che chiedono che la sentenza venga rispettata. Che Attia venga estradato e sconti la pena. Stati Uniti. Cani e gatti fanno “evadere” anche gli ergastolani di Oscar Grazioli Il Giornale, 12 marzo 2018 Nei penitenziari americani sono una terapia contro l’isolamento. Cha a qualcuno ha cambiato la vita. Oggi quasi tutti sanno che cos’è la pet therapy, l’aumento del benessere umano attraverso l’utilizzo degli animali. Solo poche decine d’anni sostenere che l’ingresso di un cane o un gatto nel reparto di pediatria di un ospedale potesse comportare dei benefici per i bambini, avrebbe dato luogo alla chiamata di un paio di robusti infermieri muniti di camicia di forza. Se si dovesse pensare a una data certa in cui collocare l’inizio della pet therapy credo che chiunque sarebbe in enormi difficoltà. Probabilmente questa forma di “cura” inizia subito dopo l’incontro dell’uomo con il cane e il loro straordinario sodalizio. Senza sprofondare nel vortice del tempo, un esempio di sollievo dalla solitudine e dalla depressione, attraverso la frequentazione con gli animali ci viene dall’ambiente carcerario. Gli ergastolani, gli imprigionati per lunghi anni in carceri dove non veniva concesso il contatto con altre persone, trovavano nei pochi animaletti che frequentavano la cella un diversivo e talvolta una ragione di vita. In uno dei tanti capolavori di Stephen King, mirabilmente trasposto sullo schermo da Frank Darabont (Il miglio verde) il detenuto Eduard”Del” Delacroix si affeziona a un topolino che ha chiamato Mr. Jingles di cui si preoccupa più che della sua stessa vita che sta per concludersi sulla sedia elettrica. Un altro film che ha preso lo spunto da una storia vera è L’uomo di Alcatraz del 1962, interpretato da Burt Lancaster e basato sullo scritto di un giornalista che incontrò “l’uccellino di Alcatraz” solo nel 1959, dopo 50 anni dallo svolgimento dei veri fatti che coinvolsero Robert Stroud. Lancaster e il regista, impegnati entrambi sul versante sociale, ne fecero una pellicola agiografica completamente diversa dalla realtà. Robert Stroud fu arrestato nel 1909 per avere sparato su un uomo disarmato a terra, durante una rapina. L’uomo era probabilmente uno psicopatico e non diede segno di alcun rimorso per quell’ omicidio. Condannato a 12 anni sull’isola di Mc Neil, Stroud ha presto pugnalato un prigioniero ed è stato trasferito nel penitenziario di Leavenworth. Dopo poco tempo fece pugnalare, davanti a 1100 prigionieri, un ufficiale della prigione, reo di avere annullato un incontro con il fratello. A questo punto Stroud fu condannato a morte, ma il presidente Woodrow Wilson commutò la sua pena alla “vita in solitudine” a Leavenworth. Nel 1920 uno strano evento cambia la vita di Stroud. L’ergastolano trova un nido di passeri nel cortile e lo solleva. Da qui un amore intenso per gli uccelli, soprattutto canarini, assecondato da un direttore di carcere generoso. Stroud arrivò ad avere oltre 300 uccelli e due piccole celle comunicanti, una per lui e una per i volatili. Nel 1933, senza sapere nulla di virus e batteri, pubblica un libro sulla cura degli uccelli che vende numerose copie. Diviene una celebrità, ma, pur non commettendo più reati maggiore, viene pescato a fare alcol in cella e spedito alla Roccia (Alcatraz), senza i suoi uccelli. Nel 1959 Stroud viene trasferito nella prigione medica di Springfield (Illinois) dove muore il 21 novembre del 1963, il giorno prima dell’omicidio di JFK. Al di fuori delle versioni edulcorate e immaginarie Stroud è stato un omicida psicopatico ma la vicinanza e lo studio dei suoi canarini ne ha forse mitigato la follia criminale fino a sposarsi in prigione. Pet therapy o no, sicuramente i suoi canarini lo hanno aiutato nella sua lunga (e giusta) detenzione. Nella Cecenia piegata da Putin che cancella i diritti umani di Giuseppe Agliastro La Stampa, 12 marzo 2018 A Grozny denaro da Mosca e potere senza limiti di Kadyrov. Attivisti nel mirino: arresti arbitrari e sedi delle Ong in fiamme. Il luogotenente di Putin in Cecenia, Ramzan Kadyrov, ha deciso di sbarazzarsi dei difensori dei diritti umani. Li considera un intralcio al proprio potere incontrastato, e in questo turbolento angolo del Caucaso la sua parola è legge. Memorial, la principale organizzazione russa per la tutela dei più deboli, è stata costretta a chiudere i battenti, e il suo capo locale, Oyub Titiyev, è finito in galera. “Gli hanno trovato della marijuana in macchina. Con ogni probabilità ce l’hanno messa gli stessi agenti che l’hanno fermato” spiega Oleg Orlov, il responsabile del programma “Punti caldi” dell’Ong, sottolineando che la polizia cecena dipende direttamente da Kadyrov ed è accusata di rapimenti, torture e persino esecuzioni sommarie. Dopo l’arresto sono partite le azioni intimidatorie. A Nazran, 80 chilometri dalla capitale cecena Grozny, c’è la sede di Memorial che è stata data alle fiamme. “L’incendio è stato sicuramente doloso, abbiamo trovato una bottiglia di benzina e le telecamere di sicurezza mostrano chiaramente che i colpevoli sono due uomini che hanno agito a volto coperto”, racconta il direttore di Memorial in Inguscezia, Timur Akiev, indicando il soffitto completamente annerito. Il fuoco ha divorato ogni cosa: documenti, computer, mobili. Adesso si lavora per ricostruire. Secondo Timur, il rogo è senza dubbio collegato al caso Titiyev. “Il 15 gennaio - ricorda - avvocati e vertici di Memorial sono venuti qui per cercare di aiutare Oyub. Un giorno e mezzo dopo, nella notte tra il 16 e il 17, quei due sconosciuti hanno incendiato tutto. Sono arrivati su una Lada Priora senza targa: hanno tirato fuori una scala, sono saliti al primo piano, hanno rotto il vetro della finestra e hanno iniziato lo scempio”. Ma le minacce non sono finite. Passano pochi giorni e in Daghestan viene incendiata anche la macchina di uno degli avvocati che seguono la vicenda. Poi gli attivisti di Memorial ricevono un sms minatorio: “State camminando sull’orlo del baratro. La prossima volta vi bruceremo con il vostro ufficio”. Oyub Titiyev, il capo di Memorial in Cecenia, è stato arrestato la mattina del 9 gennaio. “Stava andando al lavoro quando l’hanno fermato tre agenti, e uno di loro evidentemente gli ha messo sull’auto un pacchetto con oltre 200 grammi di marijuana”, dice Oleg Orlov. Ora Titiyev è accusato di traffico di stupefacenti. “Lo hanno portato in una stazione di polizia, e lì - spiega sempre Orlov - gli hanno intimato di confessare che trasportava droga sulla sua auto e di metterlo nero su bianco. Gli hanno detto che, se non avesse fatto come gli ordinavano, avrebbero sbattuto al fresco suo figlio accusandolo di essere un terrorista”. Titiyev però non cede e contesta l’arresto e il sequestro della marijuana: sono avvenuti senza testimoni, quindi violando la legge. “In Russia - rimarca Orlov - è molto facile falsificare le inchieste penali, ma in Cecenia basta uno schiocco di dita. E così gli agenti hanno rimesso Oyub al volante della sua auto, ma con uno di loro seduto accanto. Lui ha messo in moto e in men che non si dica è stato fermato di nuovo da un’altra pattuglia. E di nuovo gli hanno trovato la marijuana in macchina. Questa volta però con dei testimoni già belli e pronti”. Il ricatto - La polizia per sei ore ha negato ai legali di Memorial di aver arrestato Titiyev. E in quel lasso di tempo degli agenti sono andati a casa dell’attivista a cercare i suoi familiari per ricattarlo. Ma quelli avevano già fatto in tempo a fuggire dalla Cecenia. La ciliegina sulla torta arriva il 19 gennaio, quando la sede di Memorial a Grozny viene perquisita e gli agenti trovano sulla terrazza due spinelli intatti e una lattina tagliata a mo’ di posacenere. “A quanto pare siamo una banda di spacciatori, e siamo così furbi che teniamo la droga in ufficio dopo che uno dei nostri è stato arrestato per narcotraffico”, dice tra rabbia e sarcasmo Orlov, pronto a giurare che dietro questo ritrovamento ci sia ancora una volta lo zampino della polizia cecena. Un gioco da ragazzi per loro mettere la marijuana su una terrazza a cui si può accedere da tre appartamenti. Lo Stato vassallo - La Cecenia fa formalmente parte della Federazione Russa. Ma de facto è uno Stato vassallo di Mosca dove l’uomo di Putin, Ramzan Kadyrov, regna come un sovrano assoluto. Un suo ritratto giganteggia al confine tra Inguscezia e Cecenia, dove la polizia di Grozny controlla coi kalashnikov la strada che da Nazran porta nella capitale cecena. Grozny oggi ricorda solo lontanamente quella che le due guerre tra gli Anni 90 e i primi Anni Duemila avevano reso “la città più devastata della Terra”. Il denaro del Cremlino ha lanciato la ricostruzione, ma è stato anche uno strumento di corruzione e pare che parte dei fondi sia finita direttamente nelle tasche di Kadyrov. In centro i grattacieli del complesso residenziale Grozny City hanno sostituito gli edifici sventrati dalle bombe. Per strada una vecchietta col capo coperto dal velo - come tutte le donne qua - vende magneti ai pochi turisti: molti raffigurano Ramzan Kadyrov in mimetica. Qualche centinaio di metri più in là, attraversando un ponte sul fiume Sunzha, ci si trova davanti al Cuore della Cecenia: la moschea più grande d’Europa con i suoi quattro minareti alti 62 metri. Il tempio si ispira alla Moschea Blu di Istanbul ed è dedicato al padre di Ramzan Kadyrov, Akhmad, un ex separatista poi passato dalla parte dei russi e diventato leader della Cecenia. Fu ucciso nel 2004 in un attentato. Adesso il suo volto fa capolino a ogni angolo, come quelli del figlio Ramzan e di Vladimir Putin. Il centro di Grozny è tappezzato dei loro ritratti, e il culto della personalità riservato a questo trio stupisce subito un osservatore occidentale. Le strade dei leader - Ad Akhmad Kadyrov è intitolata una delle due vie principali della città. L’altra porta invece il nome di Putin. Ma all’ex presidente ceceno è dedicato persino un museo. Si sviluppa su due piani e tra colonne di marmo e stucchi dorati presenta Kadyrov senior come padre della patria, devoto musulmano e uomo di pace. Praticamente cancellati invece gli anni da separatista. Mentre ampio spazio è destinato al rapporto col figlio Ramzan per legittimarne il potere da signore feudale. Il leader ceceno difende poligamia e delitti d’onore, ignorando nel suo Califfato le leggi di uno Stato laico come la Russia. E soprattutto conta su migliaia di pretoriani pronti ad arrestare, torturare e uccidere. Come avvenuto nella caccia alle streghe contro gli omosessuali lo scorso anno. Se Kadyrov non esita a minacciare di morte i suoi avversari, i suoi scagnozzi - i kadyrovtsy - ammazzano anche fuori dalla Cecenia. Molti dei condannati per l’omicidio dell’oppositore Boris Nemtsov - freddato a colpi di pistola a due passi dal Cremlino - erano militari della guardia di Kadyrov. E anche per l’assassinio della giornalista Anna Politkovskaya tutti gli elementi portano in Cecenia.