Penalisti: il governo rispetti l’impegno e approvi la riforma delle carceri Ansa, 11 marzo 2018 Sciopero nazionale di due giorni e il 13 manifestazione a Roma. Due giorni di astensione dalle udienze e nel primo giorno della protesta, il 13 marzo, una manifestazione nazionale a Roma. L’Unione delle Camere penali torna così a rivolgere un “forte richiamo” al governo perché rispetti i “propri impegni” e approvi, “prima dell’oramai prossima scadenza”, il testo della riforma dell’ordinamento penitenziario già sottoposto al vaglio del Consiglio dei Ministri. La riforma dell’ordinamento penitenziario voluta dal Ministro Orlando “è stata salutata dall’avvocatura penale come una grande riforma organica dell’esecuzione penale con la quale, dopo oltre quaranta anni, si è tornati a porre la finalità rieducativa ed il reinserimento sociale del condannato al centro della legislazione penale nella luce dei principi affermati dall’art. 27 c.3 della Costituzione”, ricordano i penalisti in una nota. E gli stati generali dell’esecuzione penale voluti dal Ministro per riunire l’accademia, l’avvocatura e la magistratura, attorno alla attuazione della delega,” hanno prodotto una riforma che pone ancora una volta l’Italia all’avanguardia nella elaborazione dei più avanzati strumenti di recupero e di trattamento penitenziario”. I pareri non vincolanti espressi dalle Commissioni giustizia del Parlamento, “con i quali si sono espresse riserve circa la esclusione di alcuni automatismi e di alcune preclusioni, non possono costituire - sostiene l’Ucpi, che ha sostenuto l’azione non violenta di Rita Bernardini- un ostacolo all’iter di approvazione definitiva della legge, dovendo il Governo restare fedele allo spirito della riforma ed alla lettera della delega, ed agli impegni più volte pubblicamente assunti dal Ministro Orlando e dal Presidente del Consiglio Gentiloni”. Carceri, un modello da superare di Milena Castigli interris.it, 11 marzo 2018 A colloquio con Giorgio Pieri, responsabile nazionale del servizio Cec della Apg23. Le persone recluse sono costrette a vivere in condizioni “inumane e degradanti”. Per questo le carceri italiane sono state sanzionate dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, come ricordato anche nel messaggio alle Camere inviato nel 2013 dall’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Per cercare d’invertire la tendenza il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha dato vita nel 2015 agli Stati Generali dell’esecuzione penale da cui ha preso le mosse la riforma dell’Ordinamento penitenziario. I tre decreti - Lo scorso 22 febbraio il Consiglio dei ministri aveva approvato 3 dei 18 decreti attuativi della riforma, quelli su lavoro, giustizia minorile e giustizia riparativa, con l’obiettivo di ridurre il tasso di recidiva. Nella stessa seduta, però, è stato rinviato al successivo Cdm l’atteso via libera al decreto complessivo che ridisegnerebbe l’ordinamento penitenziario. Nell’occasione, il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, sottolineando che si tratta di “un lavoro in progress con l’obiettivo che il nostro sistema carcerario contribuisca a ridurre notevolmente il tasso di recidiva da parte di chi è condannato”, auspicava anche una rapida conclusione dell’iter legislativo. In Terris ne ha parlato con Giorgio Pieri, responsabile nazionale del servizio Cec, “Comunità educante con i carcerati”, messo a punto dalla Comunità Papa Giovanni XXIII (Apg23) di cui è membro. Come giudica l’approvazione dei tre nuovi decreti legislativi da parte del CdM dello scorso 22 febbraio? “Sono 42 anni che attendiamo la riforma del sistema penitenziario, fermo al 1975. I 3 decreti approvati dal Consiglio dei Ministri lo scorso 22 febbraio sono certamente un piccolo passo avanti, ma il vero grande tema della riforma penitenziaria è tutta da attendere. La riforma darebbe una visione diversa di quella che è la pena”. In che senso? “Nel senso che la pena potrebbe essere espiata anche all’esterno del carcere, attivando tutta una serie di strumenti come il potenziamento degli uffici per l’esecuzione penale esterna (Uepe) o l’utilizzo, permesso dall’art. 14, dell’affidamento in strutture apposite e degli arresti domiciliari. Inoltre, lo sviluppo di strutture pubbliche e private convenzionate potrebbero dare alloggio a persone che ad oggi sono in carcere semplicemente perché non hanno una casa dove poter fare i domiciliari”. Quali le conseguenze? “Nell’immediato, la prima conseguenza sarebbe di deflazionare il carcere, in cronico sovrannumero di detenuti. Inoltre, si darebbe linfa vitale a quelle comunità che - come la Comunità Papa Giovanni - accolgono i detenuti gratuitamente”. Quanto costa allo Stato l’accoglienza dei detenuti? “Oggi l’Apg23 ha circa 300 tra detenuti ed ex detenuti a costo zero per l’erario. Per tale motivo agli Stati Generali noi abbiamo chiesto che venga data una retta pro capite, che ci siano forme di accreditamento (quindi un riconoscimento istituzionale delle realtà accoglienti in Italia) e una politica che vada non più verso una giustizia vendicativa ma verso una giustizia educativa”. In cifre, quanto chiedete? “Secondo uno studio recente fatto dalle varie associazioni che accolgono, abbiamo visto che già da domani, se ci fosse una retta di 35 euro al giorno, si aprirebbero 10 mila posti disponibili all’accoglienza. La riforma darebbe la possibilità di accogliere i detenuti e di fare un percorso interiore di rinascita”. Ha degli esempi concreti? “Sì. Un ragazzo accolto presso casa mia aveva la mamma psichiatrica che lo picchiava molto e, appena nato, l’aveva anche gettato in un bidone. Ciononostante, il bimbo era stato lasciato in quella famiglia, continuando negli anni a prendere botte su botte. Cresciuto, è andato a vivere in strada e ha iniziato a delinquere. Oggi ha 35 anni e si è già fatto 10 anni di carcere. A una persona che ha già vissuto tutto questo, una parte della politica direbbe: ‘Ributtalo in carcere e getta via la chiavè. Ma adesso che sta in comunità, credo e spero che possa spezzare il circolo di violenza che ha vissuto, perché il male si combatte solo con il bene, con risposte positive. La riforma del sistema carcerario a mio avviso lo permetterebbe”. Qual è a suo avviso la problematica principale delle carceri italiane? “Le carceri sono strutture obsolete perché non rispondono al bisogno dell’uomo che sbaglia: andrebbero usate soltanto per casi estremi e fornire le risorse in modo che i carcerati possano espiare la pena all’esterno, in modo utile e intelligente. Utile per l’abbassamento della recidiva, intelligente perché dobbiamo rispondere al bisogno delle persone”. Questo porterebbe un beneficio per la società? “Certamente sì. La popolazione carceraria si potrebbe già da subito ridurre del 50-60% perché molte delle persone che finiscono dietro le sbarre, sono povere e senza risorse esterne. È poi necessario il coinvolgimento della comunità esterna: diceva don Oreste che lo sbaglio di uno è lo sbaglio di tutti, e che per recuperare uno ci vuole il coinvolgimento di tutti”. Non è possibile salvarsi da soli? “Non in questo contesto. È impensabile che un uomo, quando esce dal carcere, si recuperi da solo perché noi di fatto, mettendolo in carcere, gli tagliamo tutti i contatti con il mondo esterno. Finita la detenzione, la comunità non lo riconosce più trattandolo come un elemento estraneo: esce con un sacco nero in mano, con tanti debiti, con la rottura degli affetti e con molta più rabbia di prima. Questo sistema, così come è concepito oggi, non può che produrre recidive alte”. Qual è il tasso di recidiva? “La recidiva di quelli che sono in carcere si attesta sul 60-65%, mentre quelli che sono in comunità si abbassa intorno al 15%. Praticamente, ogni giorno escono in Italia 150 ex detenuti. Di questi, per certo in 110 torneranno a delinquere con reati con cui sono entrati o anche più gravi. Di fronte a un dato così allarmante, non possiamo dire “aumentiamo le prigioni”: infatti, su 10 persone che entrano, 6 hanno già fatto esperienza di carcere: quindi è un sistema che si auto-mantiene”. Lo stesso discorso vale per i minorenni? “Per i minorenni in carcere sì, la recidiva è sempre molto alta. Ma il sistema minorile in Italia funziona. Abbiamo 500 minori in carcere e oltre 2000 fuori dal carcere. I costi di quelli che sono in carcere sono 10 volte maggiori di quelli che sono in comunità. La recidiva di quelli che sono in carcere è al 60-65%, mentre quelli che sono in comunità si abbassa intorno al 10-15%. Quindi, il sistema è buono ma va sostenuto e potenziato nella direzione già esistente”. Quali soluzioni per i soggetti tossicodipendenti? “Andrebbero obbligatoriamente mandati nelle comunità terapeutiche, non in prigione. Conosco tantissime persone in carcere che sono dipendenti dal metadone, psicofarmaci, che fanno uso di alcool e droghe. Noi dobbiamo credere che le comunità possano risolvere integralmente il problema della tossicodipendenza. I 20mila detenuti tossicodipendenti attualmente in carcere, dovrebbero andare tutti obbligatoriamente nelle comunità di recupero; solo chi non volesse curarsi dovrebbe tornare in carcere. Questo sistema nel tempo sarebbe un grande risparmio economico per lo Stato e un grande vantaggio per la società perché significherebbe recuperare migliaia di ragazzi e ragazze”. Come si pone l’Associazione nei confronti degli ergastolani? “L’ergastolo ostativo, vale a dire che nega al detenuto ogni beneficio penitenziario, è una vergogna inammissibile. Ci sono attualmente oltre 1.500 detenuti che nel foglio di detenzione hanno scritto “fine pena: mai”. Questo è un abominio, condannato anche da Papa Francesco, perché l’ergastolo di fatto è una pena di morte mascherata”. Quali sono le vostre proposte? “Un esempio che noi come Apg23 seguiamo da anni è quello Apac, l’Associazione di Protezione e Assistenza ai Condannati. A Minas Gerais, Stato del Brasile situato nella regione geografica del Sudeste, la cui capitale è la città di Belo Horizonte, vivono 200 detenuti seguiti da soli 4 funzionari statali, per di più tutti disarmati, che presiedono l’istituto governato con il forte coinvolgimento del detenuto e dalla comunità esterna. I costi si abbassano a un quarto e la recidiva passa dall’80% al 15%. I risultati sono stati così positivi che lo stato di Minas Gerais sta chiudendo le carceri tradizionali e ha già aperto altre 52 strutture. Nel mondo ce ne sono 150. La Papa Giovanni ha importato il metodo dal 2008 e siamo stati riconosciuti dall’ente Apac come primi in Italia e in Europa. Tale metodo è stato proposto anche al Governo. Noi crediamo che questa riforma faciliterà lo sviluppo del Cec, la Comunità Educante con i Carcerati, che non è altro che l’integrazione del metodo Apac con quello che è il carisma della Apg23. Le soluzioni ci sono, ci vuole la volontà politica”. La scrittura è una libertà che va oltre le sbarre del carcere di Marina Tomarro vaticannews.va, 11 marzo 2018 Elio Pecora presiede la giuria del premio Goliarda Sapienza, che verrà assegnato il prossimo 10 maggio al Salone del Libro di Torino. Racconti che nascono da esperienze realmente vissute e che vogliono narrarne la drammaticità ma anche la grande voglia di rinascita e di credere ancora che la vita può offrire una seconda possibilità. Questa è la motivazione, secondo il poeta Elio Pecora - presidente della giuria del Premio Goliarda Sapienza - del primo concorso letterario dedicato ai detenuti e che ha portato molti di loro a mettersi in gioco attraverso la scrittura. “Questi racconti - spiega il presidente Pecora - ci parlano di vite molto travagliate, passate attraverso vicende dolorose, dove non sempre c’è stata una possibile libertà di scelta. E questa libertà, invece, si è rivelata loro attraverso la scrittura”. Anche la premiazione che si svolgerà il prossimo 10 maggio al Salone del Libro di Torino, assume un grande significato per i detenuti: “Per loro - continua il poeta - vuol dire far arrivare pensieri e parole oltre le sbarre, per raccontare cosa può portare un uomo a vivere determinate vicende e a fare certe scelte sbagliate”. La forza della narrazione - La narrazione, dunque, diventa simbolo di una libertà al momento perduta. “La scrittura - conclude Pecora - va oltre tutti i cancelli e i confini. È un altrove, il segno di quella libertà interiore che nessun carcere può impedire”. Giorgio Lattanzi, lo “scienziato” delle garanzie di Errico Novi Il Dubbio, 11 marzo 2018 Ritratto del nuovo presidente della Corte Costituzionale, tra i padri del nuovo codice di procedura penale. A quel testo ha lavorato personalmente: è stato il coordinatore della commissione che lo ha messo a punto. Una fatica lunga sette anni, per quella che merita certo di essere ricordata come una trasformazione epocale, per il nostro ordinamento. Gli si è affidato un ministro come Giuliano Vassalli, a sua volta passato alla storia ma di certo riconoscente a uomini che, insieme con lui, hanno scritto le regole del nuovo processo. Da due giorni Giorgio Lattanzi è presidente della Corte costituzionale. Ha raccolto il testimone da Paolo Grossi. La sua è stata un’elezione con 12 voti favorevoli e una scheda bianca: c’è da giurare che fosse la sua. Lo hanno votato tutti gli altri giudici della Consulta (tranne uno, Giuliano Amato, costretto a disertare perché impegnato all’estero). A 79 anni, è un coronamento che non sorprende. È il premio a un giurista, magistrato, legislatore nel senso più concreto del termine, che si dedica alla civiltà del diritto da più di mezzo secolo. Prima si è detto dell’invisibilità di chi scrive davvero le leggi. Che, come nel caso di Lattanzi, lavora più di tutti e non dà interviste. Eppure il nuovo vertice della Consulta ha trovato, senza cercarla, una visibilità meritata e inevitabile. Gli avvocati, i magistrati, i giuristi hanno ben presente il segno che la sesta sezione della Suprema corte ha lasciato nella giurisprudenza penale durante la fase della sua presidenza. Un solco garantista, scandito nelle sentenze, che non si è interrotto neppure quando il magistrato è arrivato alla Consulta. È del 2016 la pronuncia costituzionale che ha recepito in Italia il principio del “ne bis in idem” così come lo ha inteso la Corte europea dei diritti dell’uomo. Fino alla sentenza firmata da Lattanzi, il diritto italiano assumeva l’impossibilità che una persona fosse giudicata due volte per lo stesso reato. Adesso, grazie al giurista che ora guida la stessa Consulta, anche in Italia non è possibile essere giudicati più di una volta per lo stesso fatto anche se si tratta di reati diversi. Un evento può segnare la vita di una persona una volta soltanto, almeno sul piano processuale. Il garantismo insomma ha trovato la sua strada per affermarsi in una delle più alte cariche? Forse è così. È la logica con cui va letto questo passaggio. Si tratta di una consacrazione per una carriera e per un principio. Che quella carriera. peraltro, si è impegnata ad affermare. Non solo con la riforma del Codice di rito: a cui d’altronde il contributo di Lattanzi è stato prezioso anche perché segnato forse dalla più grande fatica, quella di coordinare i diversi tavoli di lavoro in cui fu strutturata la commissione presieduta da Giandomenico Pisapia. Ha portato a sintesi un percorso corale che, per dimensione, ha pochi altri esempi nella storia della Repubblica. A Lattanzi si devono anche altre importanti riforme, molte delle quali riconducibili al cosiddetto pacchetto Flick, altro guardasigilli che si è affidato a lui: nel periodo in cui il suo predecessore al vertice della Consulta era ministro della Giustizia, Lattanzi è stato, come direttore degli Affari penali di via Arenula, padre delle norme sul giudice unico, sulla competenza penale del giudice di pace e sulla responsabilità delle imprese, solo per citarne alcune. Non solo, perché ha guidato la delegazione italiana al Comitato Ue per la Giustizia e gli Affari interni e, in questa veste, ha avuto un ruolo decisivo nelle trattative condotte con gli Usa affinché Silvia Baraldini potesse scontare in Italia la propria condanna, come poi avvenne. “La controparte statunitense apprezzò sinceramente la qualità del suo contributo tecnico”, raccontano oggi coloro che lavorarono con lui Oltreoceano alla difficile negoziazione. Sia negli anni al ministero che in quelli, successivi da presidente di sezione alla Suprema corte, Lattanzi non ha smesso di essere un protagonista anche nel dibattito scientifico: e il suo segno è anche qui, nella sua attività di direttore di “Cassazione penale”, rivista rigorosa ma attenta a ogni sforzo possibile per segnalare le vie garantiste della giurisprudenza. Viene fatto notare come il suo nome sia una rarità, nella netta prevalenza di civilisti passati negli ultimi anni dalla Cassazione alla Consulta, e come anche questo non sia un caso. Ma è bastato ascoltare il suo intervento al G7 dell’avvocatura promosso dal Consiglio nazionale forense italiano, lo scorso 14 settembre a Roma, per cogliere, anche da profani, la cifra di questo giurista. Non si è rifugiato nella solennità dell’istituzione che è venuto a rappresentare - della Corte costituzionale era, in quel momento, vicepresidente vicario. Ha ricordato con parole chiare che “i nuovi mezzi di comunicazione hanno una potenzialità offensiva a cui è difficile porre riparo: quando si pubblicano notizie false o si diffondono parole che costituiscono vere e proprie aggressioni a delle persone, chi ne viene colpito ne è vittima impotente. La verità non riesce ad avere la stessa diffusione e la notizia rimane su internet: così si annulla il diritto all’oblio”. Risuona, in queste affermazioni, un’altra verità, quella del procedimento penale in cui le indagini sono mainstream mentre il dibattimento, in cui spesso le accuse schiaccianti sbattute in prima pagina si dissolvono nel nulla, è oscurato. È quel pezzo di riforma che Lattanzi ha contribuito a scrivere e che la nostra società del diritto ancora non riesce ad attuare. Ma che forse, con un presidente così alla Corte costituzionale, sarà un po’ più difficile tradire ancora. Le ragioni di una reale riforma del sistema fiscale di Mauro Marè e Nicola Rossi Corriere della Sera, 11 marzo 2018 Alcuni puntano alla flat tax e altri alla progressività, ma è chiaro a tutti che occorre cambiare. Per motivi interni ed esterni. Che si sia fautori di un’unica aliquota (come nel caso della flat taxproposta da alcune forze politiche) o di infinite aliquote (come nel caso della progressività continua alla tedesca invocata da altre forze politiche) è ormai a tutti evidente che sono tante le ragioni per pensare a una profonda riforma del sistema fiscale e, in particolare, dell’Irpef. Ragioni interne, specifiche cioè al nostro sistema tributario, ed esterne, legate alle trasformazioni economiche mondiali. Le prime vanno molto indietro nel tempo. I limiti concettuali di natura tributaria e di aderenza alla realtà economica dell’Irpef sono fin troppo evidenti. Si tratta, infatti, di una imposta nata già “vecchia” e le molte eccezioni al principio della progressività, con varie forme di tassazione sostitutiva cedolari - sia per i redditi finanziari e da capitale, sia per quelli di impresa, sia per i cespiti immobiliari - l’hanno resa fin dal suo esordio un’imposta progressiva essenzialmente solo sui redditi da lavoro dipendente e da pensione. Gli altri tipi di redditi sono sempre riusciti a godere di fatto di forme di tassazione proporzionali. Motivo per cui non è affatto detto che una struttura più “piatta” dell’Irpef - opportunamente collocata all’interno di una riforma del sistema tributario - riduca irrimediabilmente la progressività del sistema tributario. Riferita cioè a tutti i redditi. La tendenza al depotenziamento della progressività, già netta negli ultimi tre decenni, ha avuto negli ultimi anni una brusca accelerazione, con il diffondersi della rivoluzione digitale e l’avvento delle piattaforme multisided. Le grandi società del web, data la natura immateriale delle basi imponibili, il ruolo degli asset intangibles e la possibilità di offrire beni e servizi evitando la presenza di un nexus fisico, riescono nei fatti a pagare somme molto contenute e ad aggirare spesso qualsiasi forma di imposizione. E siamo solo nella prima fase di questo processo di dematerializzazione delle basi imponibili. Tra poco, larga parte delle stesse sarà pienamente digitale e il rischio di un loro pieno vanishing molto forte. A sottolineare questa tendenza si è aggiunta la riforma fiscale americana appena varata che cerca di “riportare a casa” i profitti accumulati in sospensione d’imposta in centri offshore e di neutralizzare le possibilità degli altri Paesi Ocse di tassare i ricavi delle aziende digitali Usa. Al di là del dibattito elettorale, è necessario capire che l’attenuamento della progressività dell’Irpef non è quindi una scelta contingente o, peggio, “ideologica”. È anzi un fenomeno avvenuto già da tempo: sarebbe ora di rendersene conto e farsene una ragione. Il sistema fiscale nella sua essenza è già largamente cedolare e se si vogliono tassare le basi imponibili diverse dai redditi da lavoro dipendente e da pensione si deve ricorrere a tassazioni sostanzialmente flat. Vorremmo tutti, per ovvi motivi di giustizia distributiva, un sistema tributario progressivo che investa tutte le basi imponibili ma l’evoluzione delle stesse ci limita e ci costringe ad accontentarci di soluzioni di second best. L’articolo 53 della Costituzione parla d’altro canto della progressività del sistema tributario nel suo complesso, non solo in modo specifico di quella dell’Irpef. E allora apriamo davvero il vaso di Pandora della progressività e studiamo soluzioni diverse: dalle più ovvie (e cioè un potenziamento della progressività ottenuto rivedendo soprattutto le modalità di finanziamento dei servizi pubblici) alle più innovative come, ad esempio, una differenziazione delle aliquote in base all’età anagrafica. Le basi imponibili vanno tassate dove si formano e si trovano e nelle condizioni storiche date. Paradossalmente una riduzione oggi del ruolo dell’Irpef potrebbe non danneggiare il grado di progressività del sistema complessivo, ma anzi in teoria aumentarlo. Negarlo significherebbe sostenere che l’Irpef attuale rappresenti un modello di progressività, il che sappiamo non essere vero. In breve tempo, larga parte delle basi imponibili sarà completamente digitale e quindi sarà già molto se si riuscirà a tassarle con un prelievo proporzionale e sostitutivo. La nuova lettera dei ministri delle Finanze di cinque Paesi dell’Unione Europea insieme a due commissari europei per un prelievo sul valore dei ricavi delle transazioni digitali - non più sui profitti che sono sistematicamente elusi - e la diffusione di forme di tassazione delle transazioni con imposte reali, non più personali - o anche con imposte indirette e accise - può piacere o meno ma è nella logica delle cose. Continuare a mitizzare l’Irpef, assegnandole obiettivi irrealizzabili, così come continuare a caricare sulle spalle del sistema tributario l’intero onere delle politiche redistributive è già oggi controproducente e iniquo. Ridimensionare il ruolo dell’Irpef (rendendola però semplice, trasparente ed efficiente) e chiedere alla spesa pubblica di essere il canale principale di redistribuzione è un obbiettivo forse ineludibile per chi ha a cuore il grado di equità complessivo dei sistemi di finanza pubblica. Di fronte alla rivoluzione digitale che sta sconvolgendo il modo di produrre, lavorare, consumare, e con esso tutte le basi imponibili, il dibattito non può limitarsi a qualche ritocco dell’imposta personale progressiva, ma deve investire la struttura complessiva del sistema tributario. Anzi, dell’intero bilancio pubblico. Conclusa la campagna elettorale affrontiamo la realtà. Senza perdere ulteriore tempo. Calabria: protesta per ottenere la nomina del Garante regionale dei detenuti ildispaccio.it, 11 marzo 2018 Ruffa (Radicali): “Digiuno a oltranza per ottenere nomina”. “Il Governo Gentiloni avrebbe potuto (e dovuto) varare la riforma dell’Ordinamento Penitenziario approvando i decreti delegati. Ciò non è avvenuto per motivi di opportunità elettorale. Nelle settimane scorse, oltre diecimila persone (tra detenuti e liberi cittadini) letteralmente ignorati dai mass media, avevano scelto la Nonviolenza per sostenere Rita Bernardini e il Partito Radicale e lanciare un grido di speranza rappresentando l’urgenza della riforma dell’Ordinamento Penitenziario (fermo dal 1975), soprattutto per quanto riguarda l’affettività in carcere e il rispetto dei diritti umani come il diritto alla salute e alla rieducazione volta al reinserimento sociale, anche dietro le sbarre. Per questo - e a maggior ragione- non è più tollerabile che la nostra Regione, in tema di esecuzione penale, resti ancora tra le poche regioni italiane priva della fondamentale figura del Garante regionale dei diritti delle persone private della libertà personale”. È quanto si legge in un comunicato stampa di Rocco Ruffa, membro del comitato nazionale di Radicali Italiani, già candidato nelle liste + Europa. In riferimento alla questione Garante dei detenuti in Calabria, si legge ancora nel comunicato che “dopo quasi tre anni di discussione in commissioni varie, finalmente lo scorso 29 gennaio 2018 ha visto la luce la legge regionale n° 1 che ha istituito la figura del Garante e per la quale ci siamo tanto battuti. Non vorremmo adesso che, per arrivare alla nomina del Garante da parte del Consiglio Regionale con la maggioranza dei due terzi così come prevista dall’articolo 3 della legge, ci si impieghino altri tre anni di tempo. Il rispetto dello Stato di diritto e dei diritti umani, non possono più aspettare. Purtroppo, in Calabria, questa figura di garanzia è ancora assente: ai sensi del comma 4 dell’articolo 3 della legge istitutiva del “Garante dei detenuti”, il Presidente del Consiglio Regionale Nicola Irto avrebbe già dovuto far pubblicare -entro il 28 febbraio scorso trattandosi di prima applicazione della legge - un avviso pubblico per la presentazione delle candidature alla carica di garante regionale. “Invece constatiamo che - conclude il comunicato - ad oggi, sul Bollettino ufficiale telematico della Regione Calabria (Burc) non è stato pubblicato alcun bando. Non vorremmo sbagliarci, ma se ciò fosse vero, figuriamoci allora quanto dovremo aspettare per la nomina, con la maggioranza dei due terzi necessaria. Temiamo che si arrivi alle calende greche. Per questo, come ci ha insegnato a fare Marco Pannella, non molliamo e continuiamo - con digiuno ad oltranza (tre giorni alla settimana di sciopero della fame) - a nutrire la Speranza che la nomina del Garante regionale per i diritti delle persone private della libertà avvenga subito, seguendo i tempi previsti dalla stessa legge, e soprattutto senza che questa figura rientri nei tempi lunghi del gioco di poltrone della partitocrazia”. Roma: con ago e filo a Rebibbia, così da detenuti si diventa sarti di Valeria Costantini Corriere della Sera, 11 marzo 2018 Ilario Piscioneri, il più famoso artigiano di Roma, è l’ideatore del corso di cucito, triennale, partito a settembre con 15 studenti. “Sono allievi velocissimi, hanno una volontà pazzesca di imparare”. Il progetto sostenuto dalla direzione del carcere e dal Dap. Ago e filo per ricucire la trama di vite spezzate dal crimine. “Made in Rebibbia” è più di un progetto di riabilitazione, significa speranza per chi un giorno tornerà a essere un uomo libero. “I detenuti? Sono più veloci dei normali studenti!”: parla come un insegnante orgoglioso Ilario Piscioneri, presidente dell’Accademia nazionale dei sartori, ideatore e promotore di un corso triennale di cucito partito a settembre nel carcere della Capitale. Quindici gli studenti iscritti ma oltre settanta le richieste arrivate. E continuano ad aumentare, con altri istituti penitenziari in Italia già pronti ad adottare il modello vincente. Classe 1949, a otto anni già con il primo ditale tra le mani, Piscioneri da quasi un trentennio è il punto di riferimento della sartoria a Roma. Non si parla certo del classico taglia e cuci, ma di artigianato che si fa arte, abiti incredibili fatti su misura e quindi unici al mondo. Vip e politici se lo contendono per avere una sua creazione. “Non mi chiedete nomi però, rispetto la loro privacy”, dice sorridendo il signor Ilario dal suo esclusivo atelier nel cuore del quartiere Prati: un elegante visionario, una figura quella del sarto tornata alla ribalta proprio di recente con il film candidato all’Oscar Il filo nascosto con Daniel Day-Lewis. “Lo stiamo ricostruendo questo mestiere che sta scomparendo. Di sarti ad altissimi livelli saremo una decina, mille in totale in tutta Italia. È un’arte che non può e non deve morire”, riassume il professore svelando metà del motivo per cui ha voluto creare la scuola di Rebibbia. L’altro pezzo della storia trapela dal modo con cui Piscioneri parla dei suoi alunni speciali dietro le sbarre. Senza giudizi né pietismi, senza pensare che non esista redenzione senza peccato. “Sono persone che hanno sbagliato ma che, una volta scontata la pena, non hanno futuro. Ho solo pensato di offrigli un traguardo”, spiega il maestro sartore, sottolineando poi gli straordinari risultati ottenuti: “Sono velocissimi ad apprendere, hanno una volontà pazzesca di imparare, non sapevano infilare il filo nell’ago e oggi creano i primi vestiti”. C’è già la fila per le iscrizioni: quattro giorni a settimana di corsi, dal mattino fino alle 15, “ma gli studenti saltano anche i pasti pur di non interrompere la lezione” o continuano a lavorare anche dopo, in cella. In carcere è il tempo, che non passa mai, il primo nemico da combattere. La maggior parte degli alunni è italiana, uno è tunisino: tra di loro un giovane ergastolano che, a un incontro con la moglie, ha voluto indossare con orgoglio il vestito che aveva appena cucito. “Se ne recuperi uno è già un successo incredibile, mi ha detto la direttrice Rossella Santoro, la prima ad appoggiare il progetto. - racconta ancora Ilario - Mi ripete che il corso di sartoria ha cambiato l’umore di queste persone. “Dottore, ci faccia finire la giacca”, mi incitano a fine lezione. Ora hanno uno scopo”. E anche un possibile futuro perché - finito il corso triennale - gli studenti otterranno l’attestato ufficiale di “Made in Rebibbia” e non solo: per loro - scontata la pena - sono pronti eventuali posti di lavoro nei laboratori romani e potrebbero usufruire intanto di permessi premio fuori dalla prigione. A luglio poi, per la tradizionale sfilata dell’Accademia nazionale dei sartori (istituto storico, nato nel 1575), ci sarà spazio anche alle opere dei reclusi. Infine c’è il progetto più grande, in realtà già in itinere: un negozio chiamato appunto “Made in Rebibbia” da aprire a Roma, creato proprio dagli ex detenuti. Un sogno semplice alla portata di uomo che ha cambiato la sua vita, creando una carriera dal nulla, e che ora può e vuole cambiare la vita degli altri. “Sono arrivato da Roccella Ionica a Roma quando avevo 20 anni, ho persino dormito in auto i primi tempi, sacrifici fatti per arrivare ad un obiettivo - ricorda il sarto più famoso di Roma - Questo è un mestiere umile, che ti insegna pazienza e disciplina, ma che offre anche enormi soddisfazioni. Noi sarti italiani siamo l’eccellenza internazionale, siamo i più richiesti in tutto il mondo”. Maestria e altruismo apprezzati anche dagli istituti carcerari italiani, che vogliono replicare il modello Rebibbia, applaudito pure dal ministro della Giustizia Andrea Orlando. Bologna: il rapporto dell’Ausl sul carcere “la Dozza è ok, ma si può fare di più” La Repubblica, 11 marzo 2018 Luci e ombre sul carcere della Dozza. A fine 2017 erano 781 i detenuti nella casa circondariale, che ha una capienza ritenuta idonea di circa 500 posti. Sono i dati dell’Ausl di Bologna, che effettua l’attività di vigilanza all’interno della struttura. Dal punto di vista sanitario, nel corso degli ultimi sei mesi non si sono verificate epidemie e i casi di scabbia sono stati quattro. Per il garante comunale dei detenuti, inoltre, viene garantito lo spazio minimo vitale a ogni recluso (almeno tre metri quadrati): “Non risultano sussistere condizioni detentive inumane e degradanti tali da configurare violazioni” dei diritti dell’uomo. Se le condizioni igieniche sono sufficienti, lo stesso non si può dire della manutenzione, che in alcuni casi è carente. Nella cucina della sezione maschile non sono ancora iniziate le opere di ristrutturazione, così come nelle docce comuni: “La situazione permane precaria, essendo presenti muffe nei soffitti”. Inoltre “è stato raccomandato di intensificare gli interventi di disinfestazione per le blatte”. Venezia: carceri sovraffollate, presidio degli avvocati a Santa Maria Maggiore di Roberta de Rossi La Nuova Venezia, 11 marzo 2018 Mercoledì prossimo la mobilitazione dei legali davanti Santa Maria Maggiore Appello alla presidente del Tribunale: revochi lo stop a udienze e archiviazioni. Avvocati penalisti in presidio davanti al carcere di Santa Maria Maggiore, il 14 marzo, per protestare contro il sovraffollamento delle carceri, che non “rieduca”, non offre opportunità di formazione, ma aumenta solo il rischio di recidiva dei detenuti, una volta liberi. Penalisti veneziani mobilitati, però, anche su un fronte “interno”, per chiedere l’immediata revoca dell’ordine con il quale la presidente del Tribunale di Venezia Manuela Farini ha disposto che - per far fronte alla carenza di giudici nell’Ufficio per le indagini e udienze preliminari - per sei mesi siano trattati solo procedimenti con misure cautelari, bloccando le altre udienze e le archiviazioni. Gli avvocati della Camera penale di Venezia si sono riuniti ieri in assemblea. Emergenza carceri. Piena adesione allo “sciopero delle udienze” proclamato a livello nazionale dall’Unione Camere penali, per il 13 e 14 marzo, per protestare contro la mancata riforma dell’ordinamento penitenziario e un affollamento delle carceri non più tollerabile. “Uno Stato ha il diritto e dovere di giudicare e condannare, ma non può togliere la dignità a chi ha condannato, perché proviamo rabbia e vergogna di fronte alle condanne della Corte europea dei Diritto dell’Uomo”, sostengono in una nota il presidente dei penalisti veneti Stefano Zanini e il segretario Ugo Simonetti. “Sia chiaro”, sottolinea Annamaria Marin, presidente della Camera penale veneziana, “non vogliamo nessun decreto “svuota carceri” o l’indulto, ma rendere effettivo quel valore rieducativo della pena che oggi è del tutto negato, anche se è dimostrato che le misure alternative alla detenzione diminuiscano il rischio di recidiva e che, invece, chi compie tutta la sua pena in carcere ha enormi difficoltà di inserimento”. Emergenza udienze. “Chiediamo l’immediata revoca del provvedimento della presidente del Tribunale, perché si torni a una gestione della giustizia senza la selezione preventiva di cosa fare e cosa no”, commenta l’avvocato Marco Vassallo, vice presidente della Camera penale di Venezia, “oltre ad un evidente trattamento differenziato tra persone che attendono di essere giudicate o di vedere la propria posizione archiviata, magari dopo anni di indagini, è di tutta evidenza che questo blocco non renderà che più esplosiva la situazione tra sei mesi: la Procura non smetterà di chiedere udienze preliminari e non si fermeranno le richieste di archiviazione da vagliare. Solo, si accumuleranno. Si possono utilizzare i giudici a disposizione diversamente”. Gli avvocati penalisti incontreranno a giorni la presidente della Corte d’Appello, Ines Maria Luisa Marini. La situazione di emergenza si è determinata per il prossimo passaggio del gip Alberto Scaramuzza al Tribunale del Riesame, dove prenderà servizio anche la giudice Savina Caruso: il bando interno per un posto al Riesame è stato riaperto e i posti sono diventati due. “Le problematiche della giustizia non si possono affrontare a misura di magistrato”, conclude Marin, “anche perché questo blocco di sei mesi inciderà sui tempi di prescrizione e, nel frattempo, si dà più spazio all’accusa che alla difesa”. Larino (Cb): Giornata del perdono, la Diocesi sceglie di viverla in carcere primonumero.it, 11 marzo 2018 Giornata del perdono vissuta anche nel carcere di Larino grazie alla diocesi locale. Anche quest’anno nelle Diocesi di tutta Italia almeno una chiesa è rimasta aperta per ventiquattro ore consecutive in modo da offrire a tutti la possibilità della preghiera di adorazione e di confessarsi. Al centro della riflessione, promossa dal Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, le parole del Salmo 130, “Presso di te è il perdono”. La Diocesi di Termoli - Larino ha condiviso l’iniziativa raccogliendo, inoltre, la lettera dell’Ispettore generale delle carceri, che conteneva la proposta di vivere “24 ore per il Signore” anche nei penitenziari: “I cappellani - ha osservato il presidente del Dicastero, l’arcivescovo monsignor Rino Fisichella, sono stati allertati per vivere questa esperienza e questo momento di perdono: un momento, questo, che è stato pensato, voluto e atteso”. La “giornata del perdono” è stata quindi celebrata anche nel carcere di Larino con un riscontro positivo in termini di coinvolgimento e partecipazione. I volontari hanno curato tutta la parte della catechesi dedicata proprio al senso del sacramento della riconciliazione preparando i detenuti ad accostarsi a questo momento significativo. Il cappellano don Marco Colonna e il parroco della Cattedrale, don Costantino Di Pietrantonio, hanno quindi accolto tutti coloro che hanno voluto confessarsi rinnovando così anche le parole di Papa Francesco: “Il confessore è chiamato ad essere uomo dell’ascolto: ascolto umano del penitente e ascolto divino dello Spirito Santo. Ascoltando davvero il fratello nel colloquio sacramentale, noi ascoltiamo Gesù stesso, povero ed umile; ascoltando lo Spirito Santo ci poniamo in attenta obbedienza, diventiamo uditori della Parola e dunque offriamo il più grande servizio ai nostri giovani penitenti: li mettiamo in contatto con Gesù stesso”. Avellino: detenuti e riabilitazione, nelle sale il “corto” girato per il piano scuola-lavoro di Vincenzo Grasso Il Mattino, 11 marzo 2018 Studio e conoscenza possono contribuire efficacemente a favorire il reinserimento sociale dei detenuti. A maggior ragione se tutto ciò avviene con il contributo e il coinvolgimento delle stesse istituzioni: magistratura, scuole, enti locali, chiesa, Caritas, associazioni culturali e di volontariato, operatori economici. Si spiega così l’interessante esperienza vissuta ieri mattina all’interno della casa circondariale di Ariano Irpino dove è stata dedicata al celebre pittore Caravaggio una giornata didattica. Oltre ai detenuti, al direttore Gianfranco Marcello e agli operatori sociali della casa circondariale, sono intervenuti il Procuratore Capo della Procura della Repubblica di Benevento, Aldo Policastro, il Dirigente Scolastico del liceo Artistico “Ruggero II”, Francesco Caloia, e diversi studenti dello stesso istituto Ruggero II, tra cui perfino dei minorenni. Nel corso della mattinata sono stati esposti i lavori sul tema degli studenti che hanno dato luogo ad ampi dibattiti e riflessioni. È stato presentato anche il cortometraggio prodotto dai detenuti nell’ambito dell’alternanza “Scuola-lavoro” che a breve verrà presentato ad alcuni festival e mostre cinematografiche. Infine, l’attenzione si è concentrata sul Caravaggio, morto nel 1610, che può essere considerato tra i più grandi e celebri pittori italiani di tutti i tempi. Anche un artista come Caravaggio, come ha spiegato il professore Caloia e ripreso poi il Procuratore Policastro, ha avuto a che fare con la giustizia, con i processi, la detenzione, la pressante richiesta di riabilitazione e reinserimento sociale. Anche un artista così impegnato ha dovuto misurarsi con le leggi del tempo e subirne le conseguenze. Ma sempre senza mettere da parte la speranza di una vita migliore. “Sembra strano e forse incomprensibile - è stata la tesi del Procuratore Policastro - che chi è impegnato nell’individuare i responsabili di fatti penalmente rilevanti, favorendone la carcerazione, possa venire successivamente nella stessa struttura carceraria per dialogare con i detenuti. Ma a monte di questo c’è la convinzione e necessità di puntare sul reinserimento dei detenuti, possibilmente attraverso le misure detentive alternative, la formazione professionale, lo studio. Messina: convegno della Caritas “Altre carceri. Storie di umanità e libertà” di Cristina D’Arrigo ilcittadinodimessina.it, 11 marzo 2018 “Ci emarginiamo ogni volta che non vogliamo vedere lo sguardo dell’altro. Ciascuno ha piccole carceri dentro di sé in cui si abitua a vivere ma cerca sempre la liberazione. Così coloro che si trovano in carcere sono un tesoro e una risorsa unica che attraverso un cammino di liberazione possono diventare annunciatori profetici che nella bontà della paternità di Dio riscoprono la gioia dell’incontro con l’altro”. Con queste parole l’Arcivescovo Mons. Giovanni Accolla ha aperto i lavori del 38° Convegno Cartitas dal titolo “Altre carceri. Storie di umanità e libertà” che si è svolto questa mattina presso l’Auditorium Mons. Fasola di Messina. Il tema del Carcere, su cui si è concentrato il percorso di questo anno pastorale, iniziato con la proposta dell’Avvento di fraternità 2017 e continuato con la Quaresima di Carità, mette in evidenza l’importante cammino compiuto dalla Caritas Diocesana che come sottolineato dal Direttore, padre Nino Basile “da sempre porta avanti progetti che nascono da un ascolto attento e profondo. Si stanno avviando all’interno delle mura penitenziarie percorsi che possano permettere alle persone in stato di detenzione di avviare una vita nuova dove finalmente mettere a frutto i propri talenti e sperimentare il perdono”. Un perdono che non prescinde dal bisogno di conversione personale ma che va oltre cercando di reintegrare le persone nella società. Un ascolto con finalità educative proprio come quello avviato con il progetto “Il teatro per sognare”, ideato e organizzato dall’associazione D’aRteventi, presieduta da Daniela Ursino, con la proficua sinergia della Direzione Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, la Casa Circondariale di Gazzi, il Tribunale di Sorveglianza, la Polizia Penitenziaria, la Caritas Diocesana. Prezioso il supporto dell’Istituto Minutoli, del liceo Basile che hanno collaborato alle scenografie e dell’Istituto Antonello per l’accoglienza e convivialità. Un progetto che ha visto la luce nel giugno del 2017 e il diretto coinvolgimento dei detenuti della casa circondariale di Gazzi affinché si creassero momenti di aggregazione, inclusione, riflessione, approfondimento e riscatto. Il teatro, invita i protagonisti a guardarsi dentro e ad immaginare, un sé diverso da quello attuale. Il teatro permette loro di immedesimarsi in altri panni, di guardarsi ed esaminarsi dal di fuori, di riflettere sul male commesso e di ripensare alla bellezza dei valori e della vita. Un percorso importante testimoniato dal contributo video realizzato da Flavio Albanese, attore e regista della Compagnia del sole, coordinatore del laboratorio teatrale del progetto “Il teatro per sognare”. Affine al progetto teatrale è stato inaugurato all’interno del carcere di Gazzi il foyer “Piccolo Shakespeare” con il prezioso contributo fornito dal Piccolo di Milano che per l’allestimento ha donato il materiale storico. Al convegno sono intervenuti: padre Francesco Vinci, cappuccino e cappellano della Casa circondariale di Siracusa sul tema “Il ruolo del cappellano all’interno delle strutture carcerarie. Evangelizzazione e relazioni tra detenuti e società”, Armando Punzo, attore e regista, fondatore della Compagnia della Fortezza del carcere di Volterra su “Un’esperienza nata 30 anni or sono”, Pippo Venuto, attore della stessa compagnia, il dott. Santi Consolo, Capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria su “Limiti e virtù del sistema penitenziario italiano”; il dott. Nicola Mazzamuto, Presidente del Tribunale di sorveglianza di Messina su “L’attività pastorale dentro l’ordinamento carcerario”, il prof. Vito Minoia, docente presso l’Università degli Studi di Urbino e Presidente del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere su “Esperienze e progetti di teatro in carcere nel panorama nazionale. Cosa è stato fatto e cosa è ancora da fare”. Reggio Calabria: dalla fragilità al riscatto, la festa delle donne di Agape e SoleInsieme di Danilo Loria strettoweb.com, 11 marzo 2018 Si è svolta, in occasione della celebrazione della Festa internazionale della donna, l’iniziativa “Dalla fragilità al riscatto”, promossa dalla cooperativa sociale SoleInsieme e dal Centro Comunitario Agape, insieme alla Città Metropolitana di Reggio Calabria, le Scuole “Piria” e “Panella-Vallauri”, la Casa Circondariale di Reggio Calabria, l’associazione Artinsieme, EquoSud, le botteghe delle Terre del Sole di Macramè. A partire dalle ore 10:30, in Piazza Camagna, con la musica curata da Nazareno Scarfò, si è animato il “Villaggio delle Donne”, insieme agli studenti delle scuole “Piria” e “Panella-Vallauri”, con i laboratori creativi di Artinsieme, con la realizzazione istantanea di oggetti in ceramica realizzati da ragazzi diversamente abili, della Casa Circondariale, con le produzioni del laboratorio di riciclo ad opera delle detenute, di EquoSud, con tipicità e produzioni tessili, di SoleInsieme, con la realizzazione di manufatti tessili e della bottega equosolidale del Consorzio Macramè, con il suo olio extravergine biologico da terreni confiscati. Alle 11.00 ha preso il via il dibattito, moderato dalla giornalista Paola Suraci, ed introdotto da Giusy Nuri, presidente della Cooperativa sociale Soleinsieme, che ha citato i percorsi di formazione e di alternanza scuola-lavoro avviati dalla cooperativa quali esperienza concreta per misurarsi con il mondo del lavoro. Un ruolo determinante, quello della scuola, menzionato sia dal Dirigente scolastico dell’ITE Piria, Ugo Neri, sia dalla vicepreside Grazia Condello, che hanno ricordato le esperienze professionalizzanti dei propri studenti. Una scuola capace di offrire non solo una formazione tecnica, ha ribadito Anna Nucera, nella duplice veste di assessore comunale e dirigente scolastico del “Panella-Vallauri”, ma anche umana, fondamentale per il rafforzamento di una scala di valori all’insegna della scelta etica e, citando Don Italo Calabrò, che aiuti a sviluppare una naturale capacità di accoglienza e non esclusione. “Gli studenti sono una grande risorsa - ha aggiunto Mario Nasone, Centro Comunitario AGAPE, appellandosi agli studenti presenti in piazza. Prendete in mano il vostro destino, non aspettate aiuti illusori. Il futuro passa attraverso il lavoro”. E poi, sempre Nasone, alla politica “La gente del Sud vuole diritti, vuole opportunità, non vuole assistenzialismo, è compito della politica creare le condizioni affinché le nuove generazioni possano restare in Calabria e non siano costrette a fuggire.” Un invito raccolto e ribadito anche da Angela Robbe, Presidente di Legacoop, che ha rivolto il suo plauso a tutte le realtà cooperativistiche presenti: “È importante raccontare esperienze di cooperazione sociale come quelle di SoleInsieme, ancor più importante farlo in una pubblica piazza e con gli studenti. La scuola non è un’istituzione a sé stante, è parte fondante di una comunità. Come Legacoop siamo pronti a sostenere la creazione di una cooperativa in ogni scuola”. Infine un passaggio su Piazza Camagna quale luogo di incontro e animazione sociale e la proposta di tutte le realtà partecipanti al Villaggio di replicare periodicamente la propria presenza organizzata in questa Piazza così come in altre della città. La giornata si è quindi conclusa con un importante evento: la riapertura del laboratorio di sartoria sociale della Cooperativa Soleinsieme attiva in un bene confiscato in via Possidonea, dopo i lavori di restauro finanziati dalla Fondazione con il Sud, che ha permesso anche l’acquisto di nuove attrezzature e quindi un miglioramento del servizio. La presidente Giusi Nuri ha ringraziato tutte le persone e le istituzioni che hanno sposato questo progetto che ha garantito a decine di donne opportunità e valorizzazione delle loro risorse. Un progetto che vuole continuare e svilupparsi ulteriormente grazie anche alla assegnazione al Consorzio Macrame, di cui Soleinsieme fa parte, anche del resto del fabbricato confiscato. E proprio Gianni Pensabene, Presidente del Consorzio, ha sottolineato la valenza di questa iniziativa che alla vigilia dell’8 marzo, in un momento storico che vede ancora le donne discriminate e vittime di violenza, offre uno spaccato di mondo femminile fatto da donne che si sono messe insieme per costruire un cammino di riscatto e di autonomia. La serata si è arricchita della musica di Demetrio Spagna del MuStruMu e dell’esposizione della mostra di Mimmo Tramontana di EquoSud: una vera festa delle donne e dei loro diritti. Nuovi segni di “civiltà”: fermare i migranti di Furio Colombo Il Fatto Quotidiano, 11 marzo 2018 C’è una domanda urgente che non è mai stata fatta e dunque non ha una risposta: che cosa ha portato a un cambiamento così radicale della vita italiana, della nostra attesa di questi giorni e, prima ancora, della finta sorpresa per un risultato elettorale così fortemente nazionalistico? Ci terrorizza l’immigrazione, ovvero la continuazione di ciò che è avvenuto in tutti i secoli e ha formato, in tanti modi diversi, ciò che chiamiamo “la civiltà”? L’Europa, in particolare, è formata da un continuo, secolare rimescolamento di popoli, e da una loro continua fuga verso altri luoghi, o per necessità o per desiderio, immensi passaggi, immensi arrivi e un alternarsi continuo di radici profonde e di sradicamenti. Tutto ciò che conosciamo nella storia racconta di cambiamenti epocali, dal popolo ebraico che abbandona l’Egitto all’impero romano che invade e viene invaso a tutti i livelli della vita sociale. Dall’invasione araba della Spagna, che dura secoli, al calare verso il sud italiano di imperatori, governi e truppe del nord germanico, che danno a certe regioni italiane i loro periodi più belli. Alla Repubblica di Venezia, cattolica, ebrea, bianca, orientale, nera, che apre tutte le porte a chi arriva, e va ad aprire le porte di mondi lontani, come la via della seta. Conflitti? Continui, ma con un cambio continuo di etnie e di ragioni. E le ragioni sono quasi sempre, sinceramente mercantili. Il fenomeno di cui siamo testimoni oggi invece è una spinta violenta, claustrofobica, irrazionale per tener chiusa a tutti i costi la nostra porta, perché resti sempre chiusa, benché nulla di drammatico sia accaduto dalla nostra parte, dopo l’arrivo degli immigrati: niente impennata dei crimini, niente moltiplicazione della violenza, quasi solo aggressioni subìte dagli immigrati. Tutti i grandi crimini del nostro Paese, dalla mafia al femminicidio, restano e sono esclusivamente italiani. L’invasione di altri popoli pronti ad occupare lo spazio e il ruolo dei bianchi, l’invasione (parola deliberatamente falsa) di tante discese in campo politiche, e predicata dalla paura, non è mai accaduta. La presenza straniera in Italia, benché l’Italia soffra non di questi arrivi ma della l’ottusa volontà dei Paesi confinanti di tenere chiuse le loro frontiere in modo da impedire libertà di movimento agli immigrati (la maggioranza) che non cerca l’Italia per rifarsi una vita, è intorno all’8 per cento, meno degli italiani che si sono spostati a Londra. E benché in tanti ti fanno sapere che, a lasciarli liberi, vogliono andare altrove, essi, tutti, sono il nemico, e sarebbe meglio se li fermassero in Libia o se affondassero in mare. Sarebbe meglio senza Ong che li salvano in mare. Il fatto appare ad alcuni italiani così oltraggioso che si sono aperte inchieste giudiziarie. È vero, non è una battuta d’effetto. Ci sono inchieste giudiziarie in corso per accertare chi ha salvato e perché. Ma soprattutto sono avvenute tre inimmaginabili cambiamenti del comportamento italiano. Il primo è che tutte le cosiddette forze politiche italiane, da destra a sinistra (esclusi minimi gruppi ribelli che non sono entrati in Parlamento, i centri sociali ed escluso chi rappresenta ancora il piccolo e coraggioso Partito Radicale) sono contro l’immigrazione. “Contro” è una parola ambigua che si manifesta in tanti modi dai più selvaggi (la Lega, Casa Pound, la Meloni che va in visita da Orban - selfie insieme - il primo ministro nazista d’Ungheria che ha chiuso il suo Paese dentro il filo spinato a rasoio), alla pretesa ragionevolezza dell’ex ministro dell’Interno Minniti che vanta l’apertura di nuove prigioni libiche e l’arruolamento di bande di predoni del deserto pronti a rastrellare e gettare per sempre in lager irraggiungibili anche intere famiglie in fuga dalla Siria. Il secondo cambiamento avviene con le elezioni e con il dopo elezioni italiane: il Pd paga duramente la sua mancanza di crudeltà esplicita verso i migranti. Certo, sono state imputate al Pd, partito di governo, altre colpe, alcune non da poco. Ma la rapidità e la disinvoltura di Minniti nel vantare le nuove prigioni in Libia non sono bastate. Non c’è stata da Minniti una vera promessa di fermare “i parassiti” (citazione da Salvini) in mare, dove alcune Ong operano ancora come “taxi” del mare (cito Di Maio) per dare aiuto per chi si ostina a venire in Italia. Il terzo cambiamento è negli elettori, una massa di milioni di italiani. È vero che molti erano stati cacciati a male parole dal Pd di Matteo Renzi, dove tutti erano sempre di pessimo umore. Ma molti altri, fingendo di votare per chi taglierà le tasse, distribuirà danaro su regolare base mensile, provvederà al lavoro per i più giovani e per i più anziani e smetterà di ossessionare i cittadini con la politica (decide il capo politico e basta), hanno riversato la loro approvazione su due partiti (diventati due colossi) che, fra tante promesse impossibili, una certo la manterranno: il divieto di sbarco e il blocco in mare per gli emigranti. Adesso sappiamo quel che voleva la maggioranza degli italiani. Migranti. In 10 mila per Idy, le lacrime del fratello: “perdono l’assassino” di Marco Gasperetti Corriere della Sera, 11 marzo 2018 Il corteo e lo striscione: “Era un uomo di pace”. Insieme senegalesi e italiani, musulmani e cristiani, persone di ogni credo politico. Aliou sfila con oltre diecimila persone per le strade di Firenze. Guarda commosso questo corteo di cui non riesce nemmeno a intravedere la fine e trova la forza di perdonare l’assassino del fratello. “Compio il mio dovere da musulmano”, dice guardando Mamadou Diop, il capo della comunità senegalese di Pontedera dove abita, “ma la giustizia deve fare il suo corso. Lui ha cancellato la vita di un uomo buono e ha gettato nel dolore la moglie, i suoi parenti, gli amici”. Ucciso lunedì - Aliou è il fratello di Idy Diene, il senegalese di 54 anni ucciso lunedì a colpi di pistola da un italiano, Roberto Pirrone, tipografo in pensione. Ai magistrati il killer, travolto dai debiti, ha raccontato di avere ammazzato quell’uomo che gli era andato incontro per vendere un ombrello, solo perché non aveva avuto il coraggio di uccidersi e aveva deciso che quel giorno qualcuno doveva morire comunque. Domenica Aliou ha marciato con senegalesi e italiani, musulmani e cristiani, di ogni credo politico, arrivati da tutta Italia per onorare Idy e dire “no” al razzismo: poco dopo le 15 dalla piazza della basilica di Santa Maria Novella si sono diretti verso ponte Vespucci, il luogo dell’agguato. Rokhaya Kene, la vedova di Idy, è rimasta a Pontedera. “È devastata dal dolore, non ce l’ha fatta a essere tra noi”, hanno spiegato le amiche. Sette anni fa, sempre a Firenze, aveva perso un altro marito, Samb, assassinato con un connazionale da un simpatizzante di estrema destra in piazza Dalmazia, centro storico della città. Manifestazione pacifica - È stata una manifestazione pacifica e multicolore. Bandiere italiane e del Senegal hanno sventolato insieme ai vessilli della pace, dell’antifascismo, della concordia e della solidarietà. Cori in più lingue, che inneggiavano all’amore verso il prossimo e dicevano “no” alla xenofobia, si sono unite in una babele indecifrabile che invece di allontanare ha unito. Si è marciato pregando, ognuno come meglio ha creduto, ma si sono anche urlati slogan contro la cultura razzista senza però la rabbia delle prime ore dopo il delitto. “Idy era una persona di pace, non vogliamo fare casino!”, c’era scritto su uno dei tanti cartelli mostrati nel corteo. Nel ricordo di Idy si è parlato anche di ius soli. Perché, come ha detto Moussa Fall, ex olimpionico senegalese che vive a Firenze, “l’Italia non ha soltanto figli bianchi, e anche i nostri figli hanno diritto come gli altri”. Il sindaco - Il sindaco di Firenze, Dario Nardella, che ha partecipato alla manifestazione, è stato accolto e protetto dalla comunità senegalese che ha impedito di avvicinarsi ad alcuni esponenti dei centri sociali che lunedì lo avevano insultato e aggredito a sputi. “Ho parlato con la moglie e con i familiari di Idy”, ha detto Nardella, “e abbiamo deciso che anche a Firenze ci sarà una cerimonia funebre per lui. Gli sarà dedicata una giornata e proclameremo il lutto cittadino”. Il serpentone da Santa Maria Novella ha raggiunto il ponte Vespucci dove si è avvenuto il delitto. E qui, tra la commozione generale è stato recitato un brano tratto dal Corano. L’imam di Firenze e presidente dell’Ucoi, Izzedin Elzir, ha ringraziato i fiorentini e tutti coloro che hanno deciso di partecipare al corteo. “Dopo tanta oscurità, sono convinto che adesso ci sia la possibilità di ripartire tutti insieme”, ha detto, “ma anche di dare vita a un nuovo rapporto di vicinanza fra il nostro popolo che è uno soltanto, volto alla pace e alla convivenza civile”. Migranti. Missione in Niger, il ruolo dell’Italia e quello di Macron di Alessandro Orsini Il Messaggero, 11 marzo 2018 L’Italia si trova in grande imbarazzo. Il Niger rifiuta di accogliere i soldati italiani che dovrebbero presidiare i confini con la Libia per contrastare l’immigrazione clandestina diretta in Sicilia. Il ministro dell’Interno nigerino, Mohamed Bazoum, ha bloccato quaranta tecnici italiani. Non gradisce i tecnici; figuriamoci 400 soldati. Non ne fa mistero e definisce “inconcepibile” la missione predisposta dal governo italiano in Niger e approvata dal Parlamento il 17 gennaio 2018. Il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, afferma di essere in possesso di due lettere in cui il governo nigerino chiede l’aiuto dell’Italia. Soltanto dopo avere ricevuto una richiesta formale a intervenire - assicura Roberta Pinotti - l’Italia si è mobilitata. Il giallo è appassionante, ma poco utile per comprendere le forze reali che governano la politica internazionale in Nord Africa e nel sud della Libia, dove si trova il Niger. Per ricostruire i fatti, occorre svelare il nome del protagonista della politica estera italiana in questa parte del mondo: Marco Minniti. Divenuto ministro dell’Interno, Minniti ha elaborato una “strategia africana” per fronteggiare tre problemi. Il primo è reale e riguarda i processi di radicalizzazione verso il terrorismo islamico. L’analisi degli attentati dell’Isis nelle città europee dice che, tra gli autori delle stragi, ci sono anche immigrati di prima generazione e non più soltanto di seconda. Anis Amri, il jihadista dell’Isis che ha realizzato la strage contro il mercato natalizio di Berlino del 19 dicembre 2016, era giunto a Lampedusa nel febbraio 2011 su un barcone proveniente dalla Tunisia. Altro che seconda generazione. Il secondo problema di Minniti è potenziale. Nell’ultima relazione annuale al Parlamento, i servizi segreti hanno scritto, con un linguaggio criptico ma chiarissimo agli studiosi di terrorismo, che occorre prendere in considerazione la possibilità che l’Isis imbarchi qualche terrorista dalle coste libiche confondendolo tra i migranti bisognosi d’aiuto. A parlar chiaro si fa prima: potrebbe crearsi il paradosso drammatico che la guardia costiera faccia salire a bordo un terrorista dell’Isis per poi ristorarlo nelle strutture dello Stato italiano con tanto di coperta e pasto caldo. Il terzo problema è quello di ridurre il numero di immigrati per evitare la radicalizzazione anti-africana degli italiani che vivono sotto la soglia di povertà, cresciuti tragicamente negli ultimi dieci anni, secondo i dati Istat. Il compito di un ministro dell’Interno è quello di impedire che si creino le condizioni di base (o di “struttura”) per la nascita di movimenti o fenomeni potenzialmente pericolosi per la sicurezza della Repubblica. E così l’Italia, abbandonata dall’Europa, si è trovata davanti a due strade. La prima, semplice ma impraticabile, sono i respingimenti in mare. La seconda, praticabile ma complessa, consiste nell’elaborare una strategia per “tappare” la falla libica. Siccome lo Stato centrale è crollato, la Libia non controlla più i suoi confini per la gioia dei trafficanti di esseri umani che entrano in Libia dal Niger per poi proseguire verso l’Italia. Il Niger ha intravisto un grande affare economico e politico in questa vicenda. Divenuto importante all’improvviso grazie al crollo della Libia, il 28 agosto 2017 è stato invitato al tavolo di Parigi con i grandi d’Europa e ha detto: “Dateci tanti soldi con cui controlleremo i nostri confini”. È ipocrisia: il governo del Niger è in grado di controllare i confini senza i soldi dell’Europa, ma non ha un’economia autopropulsiva, come quella capitalistica, e ha pertanto bisogno di aiuti esterni per ampliare la base di consenso su cui poggia la sua dittatura. In questa partita molto complessa, si inserisce Macron, impegnato a espellere la presenza italiana dalla Libia. Figuriamoci come possa vedere l’ingresso militare italiano in Niger, ex-colonia francese. La Francia ama talmente tanto il governo del Niger da esserne geloso. Il ministro Mohamed Bazoum lo sa. La sua ruvida presa di posizione contro l’Italia non è una difesa della sovranità nazionale del Niger, altrimenti non ospiterebbe così tanti soldati francesi. Il Niger è sotto il controllo della Francia. E il ministro Bazoum ce lo ricorda. Turchia. Sik e Sabuncu liberi: dopo 440 giorni rilasciati i giornalisti di Cumhuriyet di Dimitri Bettoni Il Manifesto, 11 marzo 2018 Libertà in attesa della sentenza di un processo emblematico. L’accusa: sostegno a organizzazione terroristica. Eppure il reporter del quotidiano di opposizione fu il primo a svelare le infiltrazioni di Gulen nello Stato turco. L’ennesima udienza del processo al quotidiano Cuhmuriyet, tenuta venerdì fino a tarda serata, si è conclusa con la scarcerazione di nomi pesanti, quelli del caporedattore Murat Sabuncu e del giornalista investigativo Ahmet Sik. I due giornalisti riottengono la libertà dopo oltre 440 giorni di detenzione preventiva. Dei 18 tra giornalisti, dirigenti e impiegati del quotidiano, Sabuncu e Sik sono gli ultimi due di un gruppo di ostaggi a cui lentamente viene concesso il temporaneo - ma dovuto, c’è una sentenza costituzionale - rilascio. Soltanto uno ancora attende: Akin Atalay, presidente del consiglio esecutivo del giornale, che rimane in carcere e non si capisce bene perché. Le ragioni della corte a giustificazione del procrastinare i tempi di detenzione, lunghi al punto da poter essere considerati carcere effettivo, vanno dal pericolo di inquinamento delle prove, all’attesa delle deposizioni dei testimoni, al pericolo di fuga. E poco ha importato se le prove sono documenti e sentenze amministrative già depositati, o articoli di giornale scritti e consegnati alle stampe da anni. Poco importa se talvolta i testimoni chiamati dalla procura non si sono presentati, o se la corte si dimentica (sic!) di convocarli. Poco importa anche che gli imputati, una volta rilasciati, si siano presentati alle successive udienze nei banchi riservati al pubblico, tanta era la loro voglia di fuggire dal paese. Certo, a parte uno, quel Can Dundar, ex direttore, per cui la corte rinnova il mandato d’arresto. Fuggito da una condanna di 5 anni per rivelazione di segreto di Stato sui carichi di armi diretti in Siria, scampato ad un tentato omicidio fuori dal tribunale, ha visto pochi giorni fa la Corte di cassazione riaprire il suo fascicolo. Sarà processato per spionaggio e rischia fino a 20 anni. È un processo che, udienza dopo udienza, è divenuto l’emblema non solo di come il giornalismo - d’opposizione, questo il peccato imperdonabile - sia messo alla sbarra, ma di come l’intero sistema giudiziario dello Stato turco proceda attraverso incertezze, superficialità e con l’ombra della persecuzione politica. Perché la tesi dell’accusa è qui: il giornale dal 2003 avrebbe perduto la bussola kemalista e si sarebbe piegato al servizio del nemico, questa o quella organizzazione terroristica, poco importa quale ma una sì. Infatti tra i testimoni convocati c’è Altan Oymen, giornalista di spessore prima ancora che parlamentare repubblicano di vecchia scuola, a cui i giudici chiedono se la testata abbia, ad un certo punto, abdicato alla sua natura e tradito i suoi lettori. Il partito repubblicano (Chp) d’opposizione viene così chiamato a certificare l’ortodossia kemalista della linea editoriale del quotidiano. Ma “cos’ha a che fare il Chp con delle accuse di sostegno al terrorismo?” chiede l’avvocato Fikret Ilkiz. Oymen è lapidario e sostiene: “Il giornale si attiene ai suoi principi” e “se negli articoli si avverte un naturale cozzare di idee, l’idea che si sia allineato ad una setta islamica va oltre la mia comprensione”. D’altra parte “è stato per primo Ahmet Sik a raccontare” di come pezzi dello Stato fossero affiliati alla congrega di Gulen. È nella figura di Ahmet Sik che si condensa tutta l’assurdità di un processo che vede imputati per associazione terroristica coloro che per primi ne denunciarono la pervasività nelle istituzioni. Sik, autore del libro rivelazione L’Esercito dell’imam, per questo suo ardire ha già trascorso due anni e mezzo di carcere - la prima volta fu nel 2011 - senza neppure una condanna. Sarà anche perché nel 2014 pubblica Paralel Yurüdük Biz Bu Yollarda (Abbiamo camminato fianco a fianco su queste strade), libro che indaga le relazioni tra la Cemaat di Gulen e l’Akp di Erdogan. Questo sì un tema su cui nessun tribunale ha ancora pensato di soffermarsi. Iran. Chi ha paura delle signore senza velo? di Tiziana Della Rocca Il Fatto Quotidiano, 11 marzo 2018 Tre mesi di reclusione per “avere pubblicamente incoraggiato la corruzione morale”. È arrivata la notizia, non a caso a ridosso della festa della donna, dell’arresto della coraggiosa attivista anti hijab in Iran. La sua identità è nascosta, come se fosse un bene tenerla celata, eppure, come per una illuminazione, sembra proprio si tratti di Vida Movahed, la cui foto con il velo tra le mani, fece il giro del mondo e lo commosse, e spronò altre donne alla ribellione, a combattere la cupezza di certi uomini che le vorrebbero mute. Le triti ombre l’accusano di “avere pubblicamente incoraggiato la corruzione morale”, tre mesi e poi fuori, ma il feroce Abbas Jafari Dolatabi, il procuratore capo di Teheran, ha già detto che farà di tutto affinché la donna resti tutti i 24 mesi in carcere. E poi? Chissà. Si entra in certe prigioni, e le donne, una volta uscite, si sentono poi sotto osservazione costante, come se avessero dei guardiani che, godendo della loro spietatezza, le sorveglino giorno e notte. Per capire da cosa sorge l’attuale protesta delle donne in Iran, occorre tornare al marzo del 1979 quando la rivoluzione iraniana non era ancora khomeinista e le donne chiamarono la femminista americana Kate Millet il 6 marzo del 1979 a festeggiare: trappole su trappole, proprio quel giorno Khomeini fece un discorso a Qom, invocando l’obbligo dell’hijab per tutte le donne. E nel giro di qualche giorno i pasdaran al grido di “roussari ya roussari” “velo sulla testa o botte in testa” attaccarono le manifestanti scese subito in piazza contro l’obbligo. Poi Khomeini introdusse la Sharia, quindi il divieto di abortire, la pena di morte per adulterio o blasfemia, le “spose bambine”... tutto quel che poteva nuocere alla libertà delle donne. Oggi come ieri, le iraniane che protestano sanno benissimo quale sia i l senso dell’imposizione del velo da parte degli ayatollah: umiliarle, tutto il resto è fasullo, poca cosa. Proprio perché gli islamisti, in un modo o nell’altro le temono, devono sottometterle, e una volta riusciti a farlo, le costringono a girare vestite in quel modo, e non paghi dicono pure che è per il loro bene. È questo un altro lurido imbroglio, il modo con cui cercano di legittimare, e spesso ci riescono, il loro sadismo imposto sulle donne, con la forza e con il ricatto. La derisione con cui Ali Khamenei considera il movimento occidentale #Metoo è sì sadica ma rivela anche il suo terrore e la fragilità della sua ideologia, come se potesse miseramente crollare sotto i colpi della protesta femminile. Khamenei dice che grazie al movimento #Metoo si è scoperto che in Occidente un numero notevole di donne ha subito stupri e abusi mentre in Iran grazie al velo queste cose non succedono! E ha aggiunto “il velo è immunità, protezione non costrizione” e poi “nella logica islamica il ruolo della donna è inserito in una cornice precisa. Una donna islamica è colei che è guidata dalla fede e dalla castità. Mentre oggi c’è un quadro deviante, un modello di donna che è offerto dall’Occidente”. Le parole di costui, che cercano di relegare in un morto quadretto le signore donne, è osceno, un invito allo stupro, dove sguazzare felici. Si può essere stupratori anche senza stuprare le donne, basta averne la voglia, o il disprezzo, o l’intenzione, e dire: “Care donne io vi copro così agli uomini passa la voglia di stuprarvi”. È questo in realtà il suo vero pensiero. E questi sarebbero i grandi teologi, maestri e interpreti del Corano? Uomini che si credono potenti quando pensano di marchiare per sempre le povere ragazze? Eppure nel corpo e nella mente delle ragazze così violate qualcosa sempre resta, qualcosa di forte, di degno, di divino. Come in antichi tempi, le donne resistono al martirio, per quanto umiliate mai lo saranno. Il marchio semmai è altrove, resta nel corpo e nella nera testa di coloro che le violano. Colombia. Prime elezioni dopo la storica pace: in corsa anche le Farc di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 11 marzo 2018 L’accordo dell’Avana riserva alla ex guerriglia dieci parlamentari. Sondaggi incerti, ma sembrano in vantaggio i liberali e la sinistra. Per la Colombia è un appuntamento storico. Settant’anni dopo l’ondata di violenze del “bogotazo”, quelle che diedero il via a tutto, a 52 dalla nascita delle Farc, il paese dell’eterna lotta tra liberali e conservatori, la terra di Pablo Escobar, delle bombe, dei sequestri, delle scorribande dei paramilitari, ma anche la culla di maestri come Gabriel Garcia Márquez e Ferdinando Botero, vota per rinnovare il suo Congresso. È la prima elezione con la pace, quella sancita dall’accordo tra l’esercito di ex combattenti e il governo di Juan Manuel Santos. Il nuovo partito della guerriglia, rinato con lo stesso acronimo, Farc, Fuerza Alternativa Revolucionaria del Común, ha dovuto rinunciare alla candidatura del suo vecchio leader. Rodrigo Londoño, alias Timochenko, si è sentito male. Non ha retto allo stress della nuova vita nell’arena politica ufficiale. Il suo cuore malandato lo ha costretto a gettare la spugna. Lo sostituiscono Iván Marquez e Carlos Antonio Lozada, numero due e tre rispettivamente della vecchia organizzazione. Non hanno molti consensi: i sondaggi si attestano tra l’1,5 e il 2 per cento. Sono odiati. Ci vuole tempo per dimenticare gli orrori commessi. L’accordo de L’Avana riserva all’ex guerriglia 10 parlamentari: occuperanno cinque seggi alla Camera e cinque al Senato. Una clausola, sancita nella firma di Cuba del settembre 2016, che ha fatto polemica. Perché gli eletti tra le file del Farc entreranno nel Tempio della politica legale colombiana senza essere passati per i Tribunali della Giustizia speciale per la Pace, gli organismi giuridici creati proprio per esaminare le posizioni dei singoli ex combattenti e comminare le eventuali pene per i reati, spesso gravissimi, che hanno commesso. I dieci deputati e senatori non avranno certo la forza numerica per far approvare dei provvedimenti nella prossima legislatura. Ma conserveranno diritto di voto e di parola. Parteciperanno al dibattito e faranno sentire la loro voce. Un banco di prova per uomini e donne che da almeno 20 anni vivevano nella giungla, sempre in movimento, armi in pugno e che adesso si dovranno confrontare con una nuova realtà. Le elezioni saranno un’occasione di riscatto per una società rimasta prigioniera per messo secolo della sua violenza, lacerata dalle divisioni, dagli omicidi, da un odio che è cresciuto e che ancora adesso fatica a scemare. Solo pochi mesi un referendum fra i colombiani aveva respinto l’accordo di pace con la guerriglia, poi approvato con un voto in Parlamento. Nel 2017 sono stati assassinati oltre 200 attivisti rurali e leader contadini. La maggioranza vuole voltare pagina. Ma ci sono forze politiche, imprenditoriali e settori conservatori della Chiesa che frenano. Sullo sfondo della campagna elettorale ha aleggiato sempre lo spettro del chavismo. Una minaccia che fa presa, condita da tante bugie e solite fake news. Con l’ingresso della ex guerriglia, il Parlamento cresce di numero. Il Senato avrà 108 seggi, la Camera 172. Oltre agli eletti del partito conservatore e di quello liberale, ci saranno alcuni rappresentanti delle comunità indigene e di colore, presenti a maggioranza nelle regioni della costa caraibica. Questi si candideranno in alcune circoscrizioni speciali create proprio per far esprimere ai residenti le preferenze che altrimenti sarebbero disperse nel resto del Paese. I partiti che li rappresentano non dovranno superare la soglia del 3 di voti per entrare in Parlamento così come previsto per tutti gli altri. Un’eccezione per non lasciare escluse alcune fette importanti della popolazione, quelle più isolate e più povere. Ci sono due tipi di liste: la prima, aperta ai singoli candidati che si presentano sotto il partito di riferimento; la seconda, chiusa. Gli elettori votano per il partito e passano i capilista. I sondaggi sono incerti. Propendono per una vittoria di misura dei liberali e della sinistra. Il candidato di punta è Gustavo Petro, l’ex sindaco di Bogotà, un personaggio eclettico che ha fatto discutere in passato e continua a farlo adesso. Dalle urne potrebbe uscire anche una maggioranza di centro destra che confermerebbe l’anima tradizionalmente conservatrice del paese sudamericano. Qui spiccano due personaggi: Marta Lucía Ramírez e Ivan Duque, legati all’ex presidente e nemico giurato dell’accordo di pace Alvaro Uribe. I risultati segneranno la strada per l’appuntamento più atteso: il 27 maggio si sceglie il nuovo presidente.