Mancata riforma dell’Ordinamento penitenziario: manifestazione nazionale Ucpi camerepenali.it, 10 marzo 2018 Si terrà a Roma martedì 13 marzo, presso la Residenza di Ripetta la manifestazione nazionale indetta in occasione dell’astensione proclamata dall’Unione delle Camere Penali Italiane, in conseguenza della mancata riforma dell’ordinamento penitenziario. La riforma dell’ordinamento penitenziario voluta dal Ministro Orlando è stata salutata dall’avvocatura penale come una grande riforma organica dell’esecuzione penale con la quale, dopo oltre quaranta anni, si è tornati a porre la finalità rieducativa ed il reinserimento sociale del condannato al centro della legislazione penale nella luce dei principi affermati dall’art. 27 c. 3 della Costituzione. Con questa riforma, infatti, non solo si è tentato di ricucire lo strappo provocato dalle norme emergenziali dai primi anni 90 in poi, attraverso l’introduzione ed il progressivo incremento delle previsioni ostative e di maggior rigore dell’art. 4bis, ma si è cercato di collocare l’ordinamento penitenziario e l’intera esecuzione penale in una dimensione di maggiore modernità, curando in particolare la tutela della dignità e della salute e della stessa affettività del condannato, perseguendo l’obbiettivo di ricondurre saldamente l’esecuzione delle pene al principio costituzionale della finalità rieducativa e risocializzante delle stesse. Gli stati generali dell’esecuzione penale voluti dal Ministro al fine di riunire l’accademia, l’avvocatura e la magistratura, attorno alla attuazione della delega, hanno prodotto una riforma che pone ancora una volta l’Italia all’avanguardia nella elaborazione dei più avanzati strumenti di recupero e di trattamento penitenziario, che è stata positivamente apprezzata da vastissimi settori della politica, della cultura, delle stesse professioni che operano nel settore dell’esecuzione penitenziaria e dell’esecuzione esterna, come una irrinunciabile conquista di democrazia e di civiltà, in linea con scelte di molti altri paesi europei ed in base alla provata esistenza di una correlazione fra maggiore applicazione di misure alternative, riduzione della recidiva ed aumento della sicurezza dei cittadini. Nel corso della lunga e travagliata vicenda della approvazione delle riforma Orlando l’Ucpi, assieme al Partito Radicale, ha più volte richiesto al Governo lo stralcio della riforma penitenziaria, sulla quale convergevano i consensi della maggioranza, al fine di accelerarne l’approvazione, in considerazione delle condizioni delle carceri italiane e della necessità di assicurare a questo fondamentale settore della giustizia penale un nuovo, più moderno ed efficace assetto normativo, che tuttora reclama un ripristino della legalità, dando attuazione agli obblighi sovranazionali derivanti dalla sentenza della Corte Edu “Torreggiani” del 2013 con la quale l’Italia è stata condannata per violazione dell’art. 3 Cedu. I pareri non vincolanti espressi dalle Commissioni giustizia del Parlamento - con i quali si sono espresse riserve circa la esclusione di alcuni automatismi e di alcune preclusioni - non possono costituire un ostacolo all’iter di approvazione definitiva della legge, non potendosi disperdere inutilmente le preziose risorse scientifiche e culturali e le aspettative politiche che sono state investite nei lavori dei tavoli tematici della commissione ministeriale coordinata dal prof. Glauco Giostra e dovendo il Governo restare fedele allo spirito della riforma ed alla lettera della delega, ed agli impegni più volte pubblicamente assunti dal Ministro Orlando e dal Presidente del Consiglio Gentiloni. La manifestazione pubblica organizzata dall’Ucpi, che ha sostenuto l’azione nonviolenta di Rita Bernardini ed ha sottoscritto molteplici appelli al Governo perché rispettasse i propri impegni, vuole essere un ulteriore forte richiamo al Governo affinché, prima dell’oramai prossima scadenza, approvi il testo già sottoposto al vaglio del Consiglio dei Ministri, dando voce a tutti coloro che autorevolmente si sono in questi mesi espressi a favore della riforma. Pasti per i detenuti, diarie ancora insufficienti. Bandi annullati sistematicamente di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 marzo 2018 Le diarie giornaliere previste per garantire dei pasti di qualità per i detenuti continuano a non essere ritenute sufficienti. I bandi di gara indetti dal ministero della giustizia vengono infatti sistematicamente annullati. Ora è il caso del bando di gara sul servizio negli istituti penitenziari di Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige. A presentare i ricorsi erano state le aziende Saep Spa di Balvano (Potenza), Campania Alimentare Srl di Napoli e Arturo Berselli & C. Spa di Milano. I colossi delle forniture alimentari, che si contendono il mercato delle commesse carcerarie, avevano chiamato in causa il ministero della Giustizia, da cui dipende il Provveditorato regionale che aveva indetto l’appalto per l’approvvigionamento dei viveri destinato al confezionamento dei pasti e l’erogazione del cosiddetto “sopravvitto”, cioè la possibilità per i reclusi di acquistare in prigione provviste supplementari rispetto a quelle standard. Il bando in questione aveva fissato la diaria giornaliera in 3,90 euro, per 1.096 giorni, per tre pasti quotidiani completi. In base ai documenti di gara, per determinate quantità le derrate dovevano derivare da produzione biologica o ecosostenibile. Inoltre venivano richieste ulteriori prestazioni, come quelle di dietisti, derattizzazione e disinfestazione, manutenzione degli immobili, pulizia giornaliera ed igienizzazione dei locali, nonché il pagamento del canone di occupazione del suolo per i locali da destinare al sopravvitto. Le tre ditte avevano lamentato il fatto che le pretese su prodotti bio e servizi aggiuntivi rendevano maggiormente onerosa la fornitura, che oltretutto comportava il rispetto di esigenze di ordine e di sicurezza superiori a quelle solitamente applicate nelle mense “normali”. Per dimostrare l’impossibilità di rendere la prestazione, le aziende avevano così citato alcune richieste insostenibili, come quella di prodotti con certificazione Dop, Igp e Stg, non reperibili sul mercato. In alcuni casi nelle quantità volute, in altri introvabili in assoluto. L’amministrazione penitenziaria aveva risposto affermando che la percentuale di cibi certificati valesse in maniera flessibile per macro- categorie, ma per il Tar del Veneto, invece, “la base d’asta è risultata priva di una chiara e preventiva verifica di fattibilità e sostenibilità economica”. La diaria giornaliera rimane ora tale e quale a quanto ha denunciato un vecchio rapporto della Corte dei Conti, risalente al 2014, che mette all’indice il business del vitto e conseguentemente il sopravvitto. Se con tre euro e 90 viene garantita la colazione, pranzo e cena a ciascun detenuto, viene da se immaginare che nessuno di loro riesca a sfamarsi con quello che offre lo Stato. E dunque i detenuti sono costretti a ricorrere agli alimenti da acquistare negli empori interni agli istituti, in vendita a cifre spesso troppo alte per i detenuti. “Intercettazioni? Forse si investigava meglio quando se ne facevano meno” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 10 marzo 2018 Il Procuratore di Milano Francesco Greco. “Non sono affatto entusiasta della riforma delle intercettazioni telefoniche, anzi sono molto preoccupato per la sua corretta applicazione”, dichiara il procuratore di Milano Francesco Greco intervenendo ieri ad un dibattito sulla nuova disciplina degli ascolti al Palazzo di giustizia del capoluogo lombardo. Con una premessa: “Io ho sempre fatto poche intercettazioni, anzi quando ho iniziato a lavorare in Procura se ne facevano molte meno rispetto ad ora e, forse, i risultati investigativi erano anche superiore agli attuali”. La norma, approvata lo scorso dicembre, entrerà in vigore il prossimo 11 luglio. Una data che spaventa il procuratore di Milano “Ad oggi non è ancora chiaro come dovranno essere gestiti questi archivi riservati, cioè dove saranno materialmente conservate le intercettazioni in attesa che vengano scartate quelle ritenute irrilevanti per le indagini”, prosegue Greco, evidenziando che fino ad adesso gli uffici non sono stati dotati dei software necessari per elaborare questa grande mole di dati. Da luglio si renderà anche necessario creare uno spazio dedicato dove gli avvocati potranno ascoltare le intercettazioni. Un luogo che dovrà essere adeguatamente sorvegliato, con un controllo degli accessi, e che dovrà avere diverse postazioni destinate ai difensori. Le nuove regole prevedono che i difensori delle parti possono ascoltare le registrazioni con apparecchio a disposizione dell’archivio, ma non possono ottenere copia delle registrazioni. “Cosa faremo - si domanda Greco - se un avvocato prende degli appunti? Oppure registra con lo smartphone?”. C’è il problema di uniformare le disposizioni operative su tutto il territorio nazionale. Senza contare che non è chiaro cosa accadrà con le intercettazioni disposte a cavallo dell’ 11 luglio. Il rischio è che si determini una confusione applicativa fra la nuova e la vecchia normativa. “Abbiamo fatto molte riunioni in questi mesi al Ministero della Giustizia ma l’impressione è che non sia chiaro a chi deve gestire questa riforma come funzioni effettivamente l’attività di intercettazione”, prosegue il procuratore. Il problema di fondo, poi, è quello già evidenziato dal presidente dell’Associazione nazionale magistrati Eugenio Albamonte relativamente allo “strapotere valutativo della polizia giudiziaria” di trascrivere le intercettazioni ritenute rilevanti ai fini delle indagini. “Io mi fido della polizia giudiziaria, come procuratore devo fidarmi, ma si sta attribuendo una responsabilità troppo grande alla pg: il maresciallo che materialmente procede agli ascolti, ha il giusto know how tecnico investigativo per capire quale intercettazione è rilevante e quale no?”, si domanda Greco, invitando il governo ad intervenire, modificando il testo o rinviando l’entrata in vigore della norma. “Cari giornalisti, dovete sentire le due campane” di Giulia Merlo Il Dubbio, 10 marzo 2018 L’Ordinanza del Tribunale Civile di Milano. Un giornale scrive il falso, ma il diritto di stampa prevale su quello alla reputazione e dunque il cittadino non ha diritto a veder ristabilita in via immediata (e dunque con un ricorso cautelare) la verità, ma solo dopo un processo di cognizione piena. A contraddire almeno parzialmente questo principio, stabilito da due sentenze delle Sezioni Unite di Cassazione penali del 2015 e civili del 2016, è intervenuto il Tribunale civile di Milano. Il caso è quello di due avvocati, indicati da un articolo apparso sul sito de L’Espresso come titolari di conti correnti off shore e come amministratori di società off shore, sulla base del contenuto dei cosiddetti “Paradise Papers” (un fascicolo riservato composto da 13,5 milioni di documenti confidenziali presso la Appleby, uno studio legale che fornisce consulenze internazionali in campo societario e fiscale). I due, dimostrando di non avere conti off shore e di non essere amministratori di società, hanno chiesto in via d’urgenza al tribunale di ordinare la rimozione dei loro nomi dal sito del settimanale. L’ordinanza di primo grado ha dichiarato la richiesta inammissibile proprio sulla base delle sentenze delle Sezioni Unite ma, in sede di reclamo, il tribunale ha parzialmente riformato la decisione. “La vicenda presenta un problema di giustizia sostanziale molto chiaro”, ha spiegato l’avvocato Iuri Maria Prado, difensore dei due diffamati, “Se una testata online pubblica una notizia palesemente e provatamente falsa, seguendo l’orientamento della Cassazione il cittadino non ha diritto ad avere una tutela d’urgenza con la rimozione della notizia, ma deve attendere i tempi di un processo ordinario per diffamazione: e questo perché il diritto alla reputazione è considerato da quella giurisprudenza “recessivo” (cioè vale meno) rispetto al diritto alla libera manifestazione del pensiero attraverso la stampa”. Il Tribunale, dunque, ha stabilito che non è possibile privare la vittima di qualunque tutela di urgenza, anche se questa tutela in via cautelare non può tradursi né nel sequestro della pubblicazione, né nell’inibizione alla sua ulteriore diffusione, ma “sono ammissibili rimedi di tipo integrativo e correttivo” o “un “aggiornamento” della notizia”. Si tratta di “un piccolo spiraglio aperto dal tribunale di Milano, che scalfisce almeno in parte il poco condivisibile orientamento delle Sezioni Unite”, ha riconosciuto l’avvocato Prado. Tuttavia, a fronte di questa apertura sul piano del riconoscimento generale di un diritto, nel caso di specie il Tribunale ha rigettato la richiesta di far pubblicare sul sito de L’Espresso il provvedimento del giudice, Secondo il collegio, infatti, “nel caso di specie sarebbe superfluo, perché nel corpo dell’articolo è stato inserito il link contenente le lettere di precisazioni e spiegazioni inviate per email alla redazione dai reclamanti”. In questo modo, secondo i giudici, “è stato garantito il diritto degli stessi di far conoscere la “loro verità”, informando il lettore dell’esistenza di elementi ulteriori e contrastanti rispetto a quelli contenuti nell’articolo”. Proprio in questo, secondo l’avvocato Prado, sta l’elemento di non condivisibilità: “Il fatto che non siano titolari di conti off shore non è la “loro verità” ma “la” verità oggettiva e non controvertibile. Nel caso dei due avvocati la diffamazione non sta nell’espressione di un giudizio, ma nell’attribuzione di un fatto specifico falso”. In sostanza, aggiungere ad un articolo online la rettifica dei diretti interessati non ha certo la stessa portata di pubblicare un provvedimento che attesta la verità stabilita da un giudice, sia pure in via d’urgenza. Eppure, anche se l’ordinanza non riconosce pieno diritto alla richiesta di vedere ristabilita la verità da parte delle vittime, riconosce un elemento importante: “il carattere pervasivo e diffusivo” di una notizia pubblicata online “è idoneo a causare danni potenzialmente irreparabili”. Per questo, il cittadino non deve attendere il corso di un giudizio a cognizione piena, ma ha diritto ad ottenere una qualche forma di tutela immediata. Un piccolo passo nella direzione di riconoscere che il diritto all’onore e alla reputazione del cittadino non possa essere considerato figlio di un Dio minore rispetto al diritto di stampa. Allargando l’orizzonte della vicenda, infatti, si potrebbe arrivare al paradosso che “per diffondere fake news contando sul fatto che esse possano essere eliminate dalla rete solo al termine di un lungo processo per diffamazione, basterebbe che un ricco magnate apra una testata online e la registri in tribunale indicando un direttore responsabile”, ha spiegato Prado. Se contiene notizie false, infatti, un sito ordinario può essere sequestrato, una testata giornalistica online invece no. Dunque, incuneandosi tra le maglie della giurisprudenza, basterebbe un adempimento burocratico per riparare sotto l’ombrello dei diritti costituzionalmente riconosciuti un abuso dei mezzi di informazione. Peculato ad ampio raggio d’azione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 10 marzo 2018 Il frazionamento delle responsabilità non osta alla contestazione dell’illecito. La Cassazione chiarisce che il reato scatta anche in caso di disponibilità del denaro da parte di più persone. Peculato a tutto campo. Il reato scatta anche quando il denaro è nella disponibilità giuridica concorrente di più pubblici ufficiali e uno di loro se ne appropria, ingannando tutti gli altri, anche se questi ultimi sono i soggetti deputati all’adozione finale del procedimento. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 10762 della sesta sezione penale depositata ieri. Una pronuncia che contribuisce a diradare le incertezze, visto che, nelle procedure complesse, sottolinea la Corte, come le ordinarie procedure di spesa pubblica, la disponibilità giuridica del bene “che costituisce, in alternativa al possesso, il presupposto della condotta rilevante a norma dell’articolo 314 del Codice penale, è frazionata dall’ordinamento giuridico tra più organi e, quindi, tra più persone fisiche”. Un frazionamento che, però, non rende impossibile la contestazione del peculato, perché l’articolo 314 indica come presupposto della condotta illecita il possesso o la disponibilità del bene, ma non anche l’esclusività di questo possesso o di questa disponibilità. Tra l’altro, se si arrivasse all’esclusione della disponibilità giuridica concorrente tra più persone, si dovrebbe anche, di conseguenza, concludere che nei casi di “procedure complesse” nessun organo ha la disponibilità giuridica del bene. Fatta questa premessa, la Cassazione osserva che il pubblico funzionario che detiene insieme ad altri la disponibilità giuridica dei fondi, anche quando induce in errore i colleghi che condividono con lui la competenza sugli stessi, con l’obiettivo di appropriarsene, abusa comunque della sua già esistente disponibilità. Si possono così individuare a giudizio della Corte, sia la partecipazione dolosa di un soggetto in possesso della qualifica richiesta, sia la violazione dello specifico dovere di lealtà del pubblico dipendente che è centrale nella figura del peculato. Ammessa la coesistenza del peculato con la norma, articolo 48 del Codice penale sull’errore determinato dall’inganno altrui, con riferimento alla condotta del rappresentante pubblico, per la Cassazione non è problematica la possibilità astratta di configurare la truffa aggravata nel segno del principio di specialità. È la disciplina del peculato per induzione in errore a presentarsi come speciale rispetto all’altra, “proprio perché caratterizzata dalla precedente disponibilità giuridica, sia pur concorrente, in ordine al bene oggetto di appropriazione”. Secondo un altro orientamento, invece, l’articolo 314 del Codice penale sanziona in particolare l’abuso del possesso, e colpisce il tradimento di fiducia del soggetto al quale l’ordinamento ha attribuito la possibilità di disporre in autonomia della cosa affidatagli. Se però si configura anche un’attività di frode e inganno, allora manca l’abuso del possesso e si configura invece quello della funzione, con la possibile contestazione allora del reato di truffa. Santa Maria C.V. (Ce): carcere militare, il Garante “servono locali a norma” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 marzo 2018 La prima volta di Mauro Palma nell’Istituto di Santa Maria: “struttura adeguata, ma si può migliorare”. Se ieri Il Dubbio ha affrontato la giustizia militare attraverso la relazione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, ora tocca al carcere militare. Come ogni sistema penitenziario che si rispetti, anche quello militare ha il suo Dap. Però si chiama diversamente: Opm, acronimo che sta per Organizzazione penitenziaria militare. Unica realtà del genere nel contesto nazionale ed europeo, è inquadrata nell’organizzazione di Vertice delle Forze armate e si occupa della gestione del trattamento penitenziario dei detenuti ristretti presso gli istituti di pena militari a capo degli istituti di pena militare. Anche in questo caso, fa capo al ministero della Difesa e non quello della Giustizia. Oggi ne esiste solo uno di istituto di pena militare e si trova a Santa Maria Capua Vetere, provincia di Caserta. Fino al 2005 esistevano diverse carceri militari. Si trovavano a Gaeta, Pescheria del Garda, Forte Boccea, Cagliari, Sora, Palermo, Bari, Torino e Pizzighettone. A dispetto di tutti gli altri istituti penitenziari ordinari, quello militare risulta un carcere modello e ha un numero esiguo di ristretti. Per la prima volta, la delegazione del garante nazione dei detenuti Mauro Palma l’ha potuto visitare. La visita al Carcere militare di Santa Maria Capua Vetere è avvenuta, si legge nella relazione, “con l’eccellente collaborazione del tenente colonnello Nicola Cacciuolo, Comandante dell’Istituto e del colonnello Gerardo Baiano, Comandante dell’Organizzazione penitenziaria militare e ufficiale di Polizia giudiziaria militare, che si ringraziano”. La capienza dell’Istituto è di 85 (estendibili fino a 138), di cui tre per donne e dieci per i “nuovi giunti”. Al momento della visita da parte della delegazione, i presenti erano 64. Si legge sempre nella relazione che la visita ha offerto la possibilità di riscontrare come sia possibile garantire condizioni di esecuzione penale dignitosa, motivante e non ristretta alla mera attesa dello scorrere del tempo. La struttura è risultata adeguata nelle dimensioni e nelle risorse disponibili di personale. Le attività che vi si svolgono sono varie e sono state indicate da parte dei detenuti con cui la delegazione si è intrattenuta come rispondenti alle proprie richieste e sostenute da continue revisioni al fine di elaborare effettivi piani individuali di trattamento. Il Garante, nello stesso tempo, ha però fornito alcune raccomandazioni al ministero della Difesa. Una riguarda quella di garantire locali a norma, rispettosi degli standard internazionalmente definiti, con passaggio di luce e aria sufficienti, dotati di un campanello per chiamare azionabile dalla persona fermata e tenuti in condizioni igieniche dignitose. Secondo Mauro Palma, sono particolarmente critiche le camere di sicurezza del Comando provinciale dei Carabinieri di Avellino: risultano malandate, buie e senza aria, così come è stata evidenziata la mancanza di un campanello azionabile dall’interno in tutte le camere di sicurezza visitate. Il Garante dei detenuti, inoltre, raccomanda che di assicurare una migliore e più trasparente tenuta dei registri, sia a tutela della persona privata della libertà sia a tutela del personale addetto alla sua vigilanza. Palma ha infatti ricordato che i registri sono mezzi di legalità e trasparenza per cristallizzare in atti ufficiali tutte le attività eseguite in relazione ai soggetti da parte dell’autorità responsabile della loro privazione della libertà nonché tutti i comportamenti da loro tenuti e gli eventi che si sono eventualmente verificati. “La trasparenza - annota il Garante, infatti, non è soltanto una tutela delle persone detenute, ma anche - e forse soprattutto - di coloro che operano durante il periodo di privazione della libertà e che esercitano un ruolo particolarmente delicato”. Resta comunque un carcere modello. Secondo diverse testimonianze - non stiamo parlando della relazione del Garante - non esiste un clima di distacco, come solitamente avviene nei penitenziari italiani “civili”: pur nel rispetto dei ruoli, il comandante fa anche da padre, consigliere, a volte amico. Si lavora, esiste la possibilità di coltivare, partecipare a laboratori di cucina e falegnameria. La riabilitazione funziona. Più volte si è detto di sopprimerlo, ma forse, viste le gravi criticità degli istituti penitenziari, bisognerebbe estenderlo e replicarlo anche ai “civili”. Mondragone (Ce): quattro detenuti lavoreranno alla cura del verde pubblico in città casertafocus.net, 10 marzo 2018 Il Sindaco del comune di Mondragone, dott. Virgilio Pacifico, ha firmato una convenzione con il carcere che prevede l’impiego di detenuti per lavori di pubblica utilità; dopo una attenta selezione, basata sui requisiti giuridici e sull’affidabilità personale, i detenuti sono stati autorizzati a svolgere lavoro all’esterno (secondo l’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario), a titolo gratuito, e si occuperanno della pulizia e manutenzione di alcune aree pubbliche della città (La villa comunale, parco Carducci, alcune scuole, l’Area archeologica presso il cimitero comunale), in giorni ed orari definiti, contribuendo a restituire alla collettività la fruizione di beni altrimenti bistrattati. Tale iniziativa riveste una particolare importanza nel percorso di reinserimento sociale delle persone detenute, le quali hanno così la possibilità di poter rendere un servizio alla collettività, dimostrando la loro motivazione al cambiamento. Attraverso queste azioni, la persona detenuta, che ha commesso un reato del quale tutta la società ha risentito e ne risente, ha l’opportunità di ricucire uno strappo, rinsaldando a pieno titolo il patto di cittadinanza, violato con la commissione del reato. In una ottica di giustizia riparativa, questi percorsi tendono a cercare di rimediare il danno subito a livello collettivo e sociale. C’è poi un altro aspetto da sottolineare, secondario ma non di minore importanza e risiede nella possibilità di avvicinare il territorio, e la popolazione tutta, al mondo del carcere, percepito spesso come distante e minaccioso. Il sindaco afferma che “queste iniziative di avvicinamento tra carcere e società civile permettono di superare i pregiudizi attraverso la conoscenza e la condivisione, orientando gli sforzi verso obiettivi comuni e restituendo simbolicamente al territorio quanto sottratto con la commissione del reato”. Poi l’auspicio del primo cittadino: “Ci si augura, continua, che questa sia solo l’inizio di una collaborazione lunga e fruttuosa, che porti a tutti gli attori coinvolti gratificazione e soddisfazione, ed ai cittadini la possibilità di fruire nuovamente di spazi e bellezze inutilizzati, riappropriandosi del proprio territorio, con uno sguardo rivolto anche al carcere. Un vivo ringraziamento, infine, lo rivolge al dott. Carlo Brunetti, direttore della casa circondariale di Carinola, per la sensibilità e la collaborazione dimostrata”. Biella: le “panchine rosse” contro ogni violenza di Simona Romagnoli La Stampa, 10 marzo 2018 La panchina installata davanti alla Casa circondariale di Biella per riflettere sulla violenza. Coinvolti nel progetto gli studenti del Liceo artistico, alcuni detenuti e l’artista Gigi Piana. È un progetto dai significati molteplici, che trasmette messaggi positivi d’incontro, di dialogo e di confronto, quello di “Panchine Rosse: stop alla violenza”, che ieri è stato presentato nel suo complesso, scegliendo come opere simbolo due delle sei creazioni da cui è rappresentato. Promossa dal Comune (assessori Francesca Salivotti e Valeria Varnero) con Women@Work e Voci di Donne, l’idea ha coinvolto gli studenti del Liceo Artistico e alcuni detenuti della Casa circondariale in un percorso finalizzato a ripensare in modo creativo questi elementi dell’arredo urbano. L’obiettivo è di attirare l’attenzione dei cittadini che, incuriositi, si avvicinano all’opera e ne scoprono il significato e il messaggio. Ciascuna di esse, inoltre, svolge una funzione pratica e informativa, grazie a una targhetta che riporta in più lingue i contatti nazionali e locali del Centro Antiviolenza. Collocata fuori dai cancelli della Casa circondariale, la panchina realizzata da tre dei detenuti che stanno seguendo un percorso formativo promosso dal Liceo Artistico all’interno della struttura, assume un significato particolare. Nel carcere di Biella, come ha sottolineato Bruno Mellano (garante regionale dei detenuti), è infatti presente una sezione dedicata ai “sex offenders”, ovvero ai responsabili di violenza contro le donne e i minori: la panchina diventa quindi occasione per una riflessione relativa alle azioni di prevenzione che si possono promuovere per correggere le inclinazioni alla brutalità di molti uomini. Ideata da Hamadi Hedfi con l’aiuto di Marius Bacar e Kamel Ben Naucer, che Maria Addolorata Ragone (dirigente scolastico del Liceo) ha definito “studenti diversamente giovani”, la panchina, rigorosamente rossa, ospita due figure stilizzate (un uomo azzurro e una donna rosa) che si tengono per mano e sulle cui teste volano due palloncini, simbolo di libertà, con gli stessi colori, ma contrapposti. Il messaggio è semplice e diretto: un invito al dialogo e a un rapporto paritario, senza prevaricazione. L’altra panchina, simbolo della giornata di ieri, è quella ideata dalla studentessa Jessica De Sensi e che si trova ai giardini Arequipa, vicino alla sede del liceo. Sul fondo rosso l’ideatrice ha dipinto la testa di una donna che emerge da una grande rosa, simbolo di un amore che può presentare anche delle spine. Sono opera di altri tre studenti dell’Artistico (Maddalena Chiorino, Alberto Pavesi e Gaia Garbolino) altrettante panchine presenti rispettivamente in piazza Alpini d’Italia, ai giardini di Palazzo Ferrero e in piazza Martiri della Libertà, che insieme a quella di Gigi Piana, già presentata lo scorso novembre ai Giardini Zumaglini, completano quello che può diventare una sorta di “itinerario artistico cittadino contro la violenza”. Firenze: senegalesi in piazza per Idy Diene. Nardella: “Nessuno divida la città” di Davide Vecchi Il Fatto Quotidiano, 10 marzo 2018 Una “affermazione collettiva del rifiuto dell’incitamento all’odio nei confronti dei migranti”. La lezione di civiltà arriva dalla comunità senegalese che per oggi ha indetto una manifestazione a Firenze in piazza Santa Maria Novella e un corteo fino a ponte Vespucci, dove lunedì è stato ucciso Idy Diene. Per ricordare “l’ultima vittima di una follia omicida”, la comunità ha invitato “tutta la cittadinanza, le istituzioni, i sindacati, le organizzazioni religiose a unirsi e marciare pacificamente insieme”. Un gesto distensivo che arriva dopo giorni di polemiche anche violente, in parte alimentate dal sindaco Dario Nardella che si è lamentato di alcune fioriere rotte lunedì scorso durante protesta inscenata da alcuni senegalesi. Gesto condannato dalla stessa comunità che ha già comunicato al sindaco che si farà carico dei danni alle fioriere cui è apparso molto legato. Nardella ha tentato, il giorno successivo, di unirsi a un’altra manifestazione ma è stato allontanato tra gli insulti e qualche spintone. Nuove polemiche sono poi nate per il diniego da parte del primo cittadino a indire una giornata di lutto cittadino. Rifiuto giustificato con le indagini in corso. È dovuto intervenire l’ambasciatore del Senegal, Mamadou Saliou Diouf, che, insieme al presidente dell’associazione dei senegalesi di Firenze Diye Ndiaye e all’Imam Izzeddin Elzir, ha incontrato il sindaco a Palazzo Vecchio. Foto di cortesia, stretta di mano e invito a “ritrovare serenità”. Il corteo di oggi dovrebbe sancire il ritrovato equilibrio. Nardella si è detto disponibile a partecipare “ma solo se ci saranno le condizioni” perché non intende “essere un elemento di provocazione”. Da sindaco “non permetterò che la mia città possa essere dilaniata e divisa da odio, violenza, scontri”. La speranza di tutti è evitare che la vicenda possa acquisire il profilo del razzismo. Ieri è emersa l’esistenza di un video di sorveglianza che ha ripreso Roberto Pirrone, il 65enne ora in carcere, nei minuti precedenti l’omicidio di Idy. Ha percorso il lungarno incrociando una donna con un bambino, poi un altro signore e infine il senegalese a cui ha rivolto la pistola e sparato. Avrebbe scelto la sua vittima. La debolezza lo ha spinto a non uccidersi, come avrebbe voluto, decidendo di togliere la vita a qualcun altro per poter andare in carcere e avere dei pasti regolari. Così ha spiegato il suo gesto agli inquirenti, Pirrone. E così tutti vogliono che sia. Primi fra tutti i suoi connazionali senegalesi. Roma: raid notturno nella sede di “Antigone”, sottratto materiale informatico infoaut.org, 10 marzo 2018 Una sottrazione di materiale informatico dai retroscena inquietanti quella effettuata la scorsa notte a Roma ai danni dell’Associazione Antigone - da tempo attiva nella difesa dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e carcerario. Un episodio che, privandola temporaneamente dei propri mezzi di documentazione, si traduce in un’ulteriore compressione delle condizioni dei detenuti - fatto ancora più grave in un clima di pulsioni giustizialiste e forcaiole, dirette esclusivamente verso le classi ed i soggetti più svantaggiati e privi delle protezioni accordate a chi ricopra una divisa o una carica istituzionale. Di seguito il comunicato pubblicato sul sito Antigone.it: “Questa notte estranei si sono introdotti nella nostra sede e hanno portato via tre computer portatili e la videocamera con la quale svolgiamo il nostro lavoro di osservazione nelle carceri. Immediatamente abbiamo presentato denuncia alle autorità. Gli uffici di Antigone si trovano all’interno della struttura che ospita la sede nazionale di Arci che, tuttavia (e fortunatamente), non hanno subito analogo episodio di effrazione, cosa che però ci lascia il dubbio possa non trattarsi di un episodio solo di microcriminalità, visto anche che altri computer (e non solo) sono stati lasciati al loro posto. Nonostante questo furto - e a prescindere dalla sua ragione - il nostro lavoro per i diritti va avanti imperterrito, anche se inevitabilmente subirà un piccolo ritardo dovuto alla necessità di comprare nuove strumentazioni”. Latina: minacce e intimidazioni al sociologo “nemico” dei caporali di Antonio Maria Mira Avvenire, 10 marzo 2018 Distrutta l’auto del sociologo Marco Omizzolo in campo contro gli abusi nell’Agro Pontino. Grave intimidazione contro Marco Omizzolo, il sociologo impegnato da anni nel denunciare lo sfruttamento dei lavoratori migranti nel sud Lazio e nel sostenere i loro diritti, contro caporali e imprenditori di pochi scrupoli. Nella notte tra sabato e domenica scorsa sono state squarciate le quattro gomme della sua auto, sventrato a colpi di cacciavite il cofano, sfondato il parabrezza. È l’ennesimo atto violento nei suoi confronti. Preceduto da varie lettere minatorie e nell’agosto di due anni fa da un primo danneggiamento dell’auto. Per questo, dopo la denuncia ai carabinieri, il prefetto di Latina ha convocato una riunione del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza, nel corso del quale saranno decise delle misure di tutela nei confronti di Omizzolo, che è anche consulente scientifico della cooperativa “In Migrazione” che gestisce un centro di accoglienza per migranti e organizza corsi di formazione sia per operatori che per gli stessi richiedenti asilo. Un’attività che evidentemente dà fastidio, anche perché occuparsi di migranti in questi territori dell’Agro Pontino, vuol dire spesso intercettare gli interessi e gli affari della criminalità organizzata, che in provincia di Latina è sempre più presente. “Sabato a sera inoltrata - ci racconta Omizzolo - sono tornato da Venezia dove avevo tenuto una lezione all’Università. Ho parcheggiato l’auto sotto casa a Sabaudia, e la mattina quando sono uscito ho trovato tutte le ruote bucate, il cofano sfondato in cinque punti, rotto anche il parabrezza e uno sfregio che sembra una S sulla fiancata. Non mi sembra il gesto vandalico di un ragazzino. Ci hanno perso tempo”. Oltretutto, aggiunge Omizzolo, “l’auto è nuova e pochi lo sanno. E ho cambiato casa appena da tre mesi e anche questo non lo sa nessuno. Evidentemente qualcuno aveva gli occhi puntati su di me”. Ma, lui non molla di certo. “Ho provato una profonda indignazione per l’ennesimo atto intimidatorio ma vigliacco. Come sempre non mi fermeranno e soprattutto non fermeranno l’azione di difesa dei diritti dei lavoratori immigrati e contro le mafie”. Omizzolo lo scorso anno era riuscito ad organizzare il primo sciopero dei lavoratori sikh, un’iniziativa che aveva molto disturbato. Nel territorio della provincia vivono 30mila lavoratori indiani, in gran parte occupati nell’agricoltura, sfruttati da caporali e imprenditori. Una situazione che, coma abbiamo scritto alcuni mesi fa, vede fortemente impegnata la diocesi attraverso gli sportelli della Caritas. “Io - ricorda Omizzolo - cito sempre il vescovo di Latina, Mariano Crociata che appena insediato ha fatto un bellissima lettera alla comunità indiana e ha organizzato varie iniziative di accoglienza e di servizio”. Ma gli sfruttatori non si sono certo arresi. “L’aria è pesante, è tutto tornato quasi come prima, a prima dello sciopero - riflette Omizzolo -. C’è un forte scoramento da parte dei lavoratori sikh, c’è l’effetto sostituzione coi braccianti africani meno sindacalizzati, come Avvenire aveva denunciato otto mesi fa. Ci sono sempre caporali, vecchi e nuovi. C’è sempre la tratta. Ci sono sempre i richiedenti asilo africani impiegati in nero nelle campagne. Una situazione difficile, che coinvolge sempre più le donne, indiane, rumene e italiane. E soprattutto queste ultime che in modo massiccio arrivano da altri territori, portate coi furgoncini dai caporali”. Lui continua a denunciare, a sostenere i diritti dei lavoratori e una settimana fa è arrivata la violenta reazione. Roma: l’8 Marzo nella sezione nido di Rebibbia Ristretti Orizzonti, 10 marzo 2018 Le volontarie e i volontari di A Roma Insieme, che da venticinque anni portano avanti attività all’interno della sezione nido di Rebibbia Femminile, hanno trascorso anche quest’anno la mattina dell’8 marzo all’interno del nido. “ Ao ma che è il video che c’hanno fatto vedè l’anno scorso? Quella roba vecchia degli anni 70?” - “No, fidateve! È una cosa un po’ diversa”. Così ha avuto inizio una mattinata particolare in cui, attraverso un video, alcune donne hanno condiviso la propria storia con altre donne, le detenute madri di Rebibbia. L’idea è nata dalla necessità, resasi ancora più pressante dopo la mancata approvazione della riforma penitenziaria, di aumentare e sostenere i momenti di dibattito, dentro e fuori il carcere. Il video realizzato da Giulia D’Amato, giovane regista e Marica Fantauzzi, studentessa, è stato realizzato grazie alla collaborazione di donne e uomini che hanno creduto nel piccolo progetto. Nessuna, tra le donne intervistate, sa cosa significhi essere madre dentro ad un carcere. Ma tutte, in maniera diversa, hanno combattuto per trovare il loro spazio, il loro diritto, la loro scelta. I volontari e le volontarie di “A Roma, Insieme - Leda Colombini” Messina: “Piccolo Shakespeare”, il teatro che mette le ali al carcere e rende liberi di Rosaria Brancato empostretto.it, 10 marzo 2018 Inaugurato il Piccolo Shakespeare all’interno del carcere di Gazzi nell’ambito del progetto “Un teatro per sognare”. Ma quello che detenuti e studenti hanno realizzato è molto di più. Come emerso nel corso di una cerimonia ricca di emozioni. “Mi chiamo Vincenzo, ma tutti mi chiamano Cecè. Sono qui da tanti anni e solo adesso ho conosciuto il teatro ed è stata un’esperienza bellissima. Facendo teatro ho imparato a guardarmi dentro, ho capito bene il mio passato, il mio presente. Ho imparato ad avere fiducia, negli altri, nelle istituzioni. Un tempo per me sarebbe stato impensabile vedere una poliziotta che qui, in scena, stava insieme a noi. O stare con gli studenti, imparare con loro. Sarebbe stato impensabile. Ho cambiato anche il linguaggio. Prima dicevo: il giudice del tribunale, il direttore del carcere. Ora dico il nostro giudice, il nostro direttore. Il teatro ci porta a guardarci dentro e ad imparare ad essere migliori e se noi diventiamo uomini migliori anche il mondo fuori migliora. Il teatro ci rende uomini liberi e quando quella porta si aprirà anche per noi, voleremo liberi davvero”. Ha concluso lui, Cecè, tutto d’un fiato, il pomeriggio di emozioni al carcere di Gazzi per l’inaugurazione del teatro Piccolo Shakespeare, un filo che unisce il Piccolo di Milano (che ha donato il materiale storico per allestire il foyer) e il drammaturgo inglese che secondo alcuni sarebbe originario di Messina. In scena, in un pomeriggio piovoso fuori ma caldissimo dentro per via della passione, dei sorrisi, del calore che sprigionava da ogni parola, gli attori della Libera Compagnia del Teatro per sognare, detenuti di Gazzi che insieme agli studenti del Minutoli hanno già presentato lo scorso dicembre “Ragazzi”, tratto dai Fratelli Karamzov di Dostoevsky. “Il teatro è sacro, perché ogni cosa che parla dell’essere umano è sacra”, ricorda Flavio Albanese, attore, regista, direttore del Laboratorio teatrale del carcere e straordinario trascinatore per gli attori, Cecè, Luciano, Antonio, Teodoro, Pippo. Perché in fondo ad ognuno di noi c’è un pezzo d’inferno ma anche la fiamma della luce e se la trovi e se la alimenti t’illumina la vita. È questo il progetto che ha messo le ali al sogno e che l’ex assessore Daniela Ursino, con la sua D’aRteventi, è riuscita a far diventare realtà, grazie al pieno sostegno della Direzione Regionale dell’amministrazione Penitenziaria, della Caritas, della direzione del carcere. Prezioso il supporto dell’Istituto Minutoli, che con i docenti e gli studenti ha creato una “squadra” che riesce a rompere ogni barriera, e del liceo Basile che guidati dalla bravissima scenografa Francesca Cannavò hanno collaborato alle scenografie. Prezioso il lavoro della Polizia Penitenziaria, dell’assistente alla regia Antonio Previti. Come ha detto Daniela Ursino, emozionata davanti ad un sipario che si apriva su una storia diversa “Più che una squadra siamo diventati una famiglia. Questo teatro è diventato un fiore all’occhiello e adesso siamo pronti a entrare in rete”. Se è stato possibile lo è stato anche per la lungimiranza di Calogero Tessitore, direttore della casa circondariale di Gazzi, che ha seguito passo per passo il progetto del laboratorio teatrale, giunto adesso alla seconda fase. Il primo spettacolo è andato in scena a dicembre, adesso la Compagnia, sta pensando ad un’opera di Shakespeare e sta per trasformarsi in “Accademia”, in un laboratorio, come spiega Tessitore che oltre agli spettacoli consentirà anche laboratori di arti e mestieri legati al teatro (come ad esempio sartoria, scenografia): “Siamo orgogliosi di questo progetto, abbiamo trasformato l’Auditorium in teatro, abbiamo messo in scena due repliche molto apprezzate ed oggi intitoliamo il Teatro. L’attività è fondamentale, all’interno del carcere ci sono detenuti che sono impegnati anche in altri lavori. C’è chi sta ristrutturando due piani dell’edificio e questo consentirà oltre al reinserimento sociale un recupero di spazi”. In sala, emozionati mentre viene proiettato il video dello spettacolo di dicembre, ci sono gli studenti che hanno collaborato al laboratorio, i docenti, le forze dell’ordine, le associazioni, gli attori, e mentre le immagini scorrono sembra quasi che i muri più alti, quelli che abbiamo dentro, cadano giù. “Ognuno ha piccole carceri dentro di sé in cui si abitua a vivere - ha detto l’arcivescovo di Messina monsignor Accolla - ma ha sempre l’occasione della liberazione. C’è chi vive nella cella della disperazione, della malattia, ma il percorso di liberazione si trova sempre”. Il regista, Flavio Albanese, ha mandato un video di saluti “all’inizio eravate tutti diffidenti ma la diffidenza è stata sconfitta dal teatro, è bastato un pizzico di follia e ora pensiamo ad un’Accademia”. Presente il dirigente generale dell’amministrazione penitenziaria Gianfranco De Gesu che si è soffermato sul valore aggiunto del laboratorio rappresentato appunto dalla mission di fare acquisire competenze esterne legate al teatro mentre Armando Punzo, che 30 anni fa “creò” nel carcere di Volterra la Compagnia della Fortezza, gettando le basi di esperienze che ormai vengono seguite nei 2/3 dei penitenziari del Paese ha raccontato la storia di un percorso nato in un periodo in cui poteva sembrare pura follia. Ma oggi è realtà che si fa anche rete, come spiegato da Vito Minoia presidente del coordinamento dei Teatri in carcere e che ha inserito anche il “Piccolo Shakespeare” nella rete nazionale “il teatro diventa un ponte con le scuole, con il contesto esterno. Gli ultimi dati indicano che attività come queste teatrali riducono la recidiva del 60%”. Il presidente del Tribunale di sorveglianza Nicola Maccamuto ha ricordato come dobbiamo imparare “a costruire una democrazia inclusiva. Il diritto da solo non garantisce la pace se non c’è il senso del dare” ed ha raccontato le esperienze dell’Ucciardone o nel carcere di Beirut o il sogno di Lollo Franco di realizzare un Festival del teatro in carcere o di portare in scena spettacoli nella Villa Pantelleria, a Palermo, confiscata alla mafia. “Il teatro - ha concluso - è verità e deve stare in rete. Il termine viene anche da carcer, carceris che significa inizio di una vita nuova”. E la vita nuova inizia sempre quando, come dice Cecè che ha imparato “un linguaggio nuovo”, cominci a guardarti dentro e scoprire quella luce. Ed eccolo il Piccolo Shakespeare, dietro le mura di Gazzi, una piccola grande sala che illumina Messina. Una piccola cerimonia, con l’ultimo tocco dato dai dolci preparati dagli studenti dell’Antonello. Ed eccola la Messina più bella, quella che non conosciamo mai abbastanza, quella che ci rende migliori anche se non ce lo meritiamo. “Un altro me”, di Claudio Casazza. La vertigine del sex offender di Antonella Mancusi Il Manifesto, 10 marzo 2018 “Forse il male non avrebbe questo fascino così vertiginoso se si scoprisse, che nella sua sorgente profonda, assai più di frequente non c’è quel paradosso, non c’è la ricerca del piacere: c’è solo l’indifferenza, che è la forma terribile e permanente della crudeltà”. (M. Proust in “La ricerca del tempo perduto”). Per Proust perversione è avere coscienza del male che si procura. Il perverso è responsabile delle proprie azioni, ne gode, utilizza un certo linguaggio e dei simboli per imporre la propria volontà violenta che diventa inequivocabilmente tale quando si interrompe la reciproca intesa con la persona su cui essa si esercita. Quel “residuo animale” ereditato inconsapevolmente dall’essere umano che lega il piacere al possesso non presuppone coscienza, dunque neanche crudeltà. “Il residuo culturale o familiare”, invece, incide decisamente sulle dinamiche relazionali segnate dall’abuso, predisponendo la vittima alla vulnerabilità e all’estrema ricettività verso la violenza nella società. Il corpo sessuato spesso diventa strumento di potere sull’altro, e il più delle volte sull’altra; la cultura pornografica e i pregiudizi sessisti contribuiscono a sedimentare nella controversa dimensione individuale della sessualità le dinamiche di potere potenziate e reiterate dall’esperienza del piacere. Persiste tuttavia nella dimensione dell’abuso una responsabilità individuale che non concede alcuna giustificazione culturale. Anche di questo si parla nel film documentario “Un altro me” del regista Claudio Casazza. Girato nel 2016, ha vinto il Premio MyMovies dalla parte del pubblico al 57° Festival dei Popoli, ed è stato riproposto ieri ad Avellino, presso il cinema “Partenio”, dall’associazione di promozione cinematografica Zia Lidia Social Club. Casazza documenta il primo tentativo di trattamento e presa in carico di autori di reati sessuali nella realtà penitenziaria di Bollate (Mi) esplorando una regione al contempo umana e disumana, segnata da confini rischiosi, frapposti tra il piacere e la violenza, l’esuberanza e l’illecito, il “disagio e l’ attrattività, “la sensazione dell’altra/o e il controllo”, “la fame di affetto” e il rigurgito dell’abuso. Abbiamo avuto occasione di confrontarci direttamente con il regista. Casazza cosa entra principalmente nell’obiettivo del suo documentario? Pur essendo girato interamente all’interno del Carcere di Bollate nel reparto dedicato ai cosiddetti “sex offenders”, rei confessi per abusi sessuali, ho eliminato gli aspetti da “ film carcerario”, per concentrare l’attenzione sull’universo umano, sulla narrazione nel suo evolversi e sul lavoro che le persone facevano su di sé. Perché “Un altro me”? Rimettere a fuoco “L’altro me” del detenuto e dello spettatore è uno degli obiettivi del film. L’ alternarsi di fuoco e di fuori fuoco comunica quel senso di “lontananza” da sé e dal proprio reato sperimentato dai detenuti, protegge da questi gli spettatori che vengono al contempo invitati ad assumere un altro sguardo sul crimine che restituisca ai rei la possibilità di tornare visibili nel campo degli umani. Come opera l’Unità di trattamento per Autori di reati sessuali? L’Unità di Trattamento intensificato del Cipm (Centro Italiano per la Promozione della Mediazione) inizia ad operare nel settembre 2005. L’intervento dell’equipe, costituita da diverse figure professionali, criminologi, psicologi, educatori, arte-terapeuti, è uno strumento di prevenzione orientato alla riduzione della recidiva e al miglioramento della qualità della vita dell’individuo. Il percorso rieducativo dura 10/12 mesi, coinvolge rei confessi che volontariamente aderiscono al progetto. Ogni giorno i detenuti partecipano ai “gruppi di parola” su temi da stabilire di volta in volta. Si alternano nei mesi incontri di attività fisica e di gestione dello stress a momenti di arte terapia. Chi partecipa si impegna con un contratto che non implica alcun sconto di pena. Durante gli incontri gli educatori ripongono molta attenzione al non verbale dei detenuti che sottende le verità più inconfessabili e meno consapevolizzate. Si insiste sull’importanza della relazione(anche fisica), l’attenzione all’altra/o, e non si ammettono minimizzazioni del reato che riporta un carico di gravità assoluto, che prescinde da giustificazioni culturali. Si cerca insieme di trovare le modalità più opportune per ripensare se stessi, il reato e gli effetti di questo sugli altri e nella società. Crede nell’efficacia di questo tipo di trattamento? Il progetto continua? Il progetto continua a Bollate e a Pesaro, è stato avviato anche nel carcere di Rebibbia (Rm) poi interrotto per mancanza di fondi. Per quanto riguarda l’efficacia del trattamento sono in linea con la dichiarazione del presidente del Cipm Giulini: la pena detentiva per gli autori di reati sessuali non può essere l’ unica forma di tutela e risarcimento nei confronti delle vittime e della società in generale. Come dice Giulini: “un approccio scientifico e sistematico di riabilitazione è un modo etico ed efficace di proteggere la collettività, ridurre le vittime e prevenire i comportamenti devianti”. Il lavoro di costruzione del film? Ho deciso di seguire un anno intero di lavoro tra l’equipe dell’Unità di Trattamento Intensificato per Autori di Reato Sessuale del Cipm e i detenuti “abitando” i luoghi delle riprese e girando con una troupe minima che non interferisse con quanto accadeva. Ho voluto sapere il meno possibile sui reati, ho cercato di liberarmi da filtri e preconcetti, mantenendo un equilibrio tra gli autori di reato e l’istituzione che li tratta. La traccia filmica è strutturata in tre fasi in linea con tre macro-tematiche: la tendenza del detenuto a minimizzare il reato cercando di colpevolizzare la vittima, le modalità mediante le quali gli operatori rafforzano la comprensione del danno della vittima, il rafforzamento della consapevolezza. Lascio sempre permanere un punto di domanda. Un finale aperto dunque? Il tema è talmente forte che non credo sia corretto confortare lo spettatore con potenziali soluzioni definitive, alcune domande restano aperte e senza risposta. La sceneggiatura, infatti, inizia tardi finisce presto. Comincio a riprendere quando le discussioni sono nel vivo, stacco subito dopo alcune domande degli educatori, lasciandole aperte. Nonostante ad oggi dei 248 uomini seguiti solo 7 hanno compiuto di nuovo reati, dati positivi non possono chiudere il cerchio. Nel film le domande coinvolgono direttamente lo spettatore e la società nella ricerca di risposte. L’incontro tra vittima e carnefice? Momento culminante del documentario è l’incontro tra una vittima e i detenuti. Nelle parole della vittima è evidente che “l’abuso si combatte solo lavorando sui due fronti, con chi subisce e chi l’attiva”. Ho cercato di non separare le parti, di non lavorare per una parte a discapito dell’altra, ma affinché quelle parti non esistano più. Pierre Bourdieu parla dell’amore come “spazio del disinteresse”, dotato di una certa “auto-archia” o anarchia. Al confine tra sessualità e criminalità che ne è dell’amore? Nel confronto su questi temi può interporsi il tema dell’amore. In antitesi alle dinamiche di potere che si istaurano in rapporti violenti, l’amore nel senso più ampio presuppone, invece, la piena reciprocità. Tracce dell’amore si possono percepire nell’ultima testimonianza di Gianni, uno dei detenuti. Tra parole singhiozzanti, cariche di emozione, finalmente autentiche, emerge il ricordo dell’amore della moglie. Scuola e università non bastano, ascensore sociale fermo in Italia di Salvo Intravaia La Repubblica, 10 marzo 2018 Nel rapporto Ocse-Pisa “Resilienza scolastica” siamo in fondo alla classifica a proposito dei ragazzi che riescono a elevarsi dal livello sociale di partenza. Solo il 20,4 per cento dei quindicenni provenienti da famiglie svantaggiate riescono a ottenere risultati soddisfacenti nei test. Ascensore sociale fermo, oltre che all’università, anche a scuola in Italia. A sostenerlo è l’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. Nel nostro Paese, la quota di quindicenni “provenienti da ambienti svantaggiati” capaci comunque di ottenere buoni risultati nel Pisa 2015 - il Programma di valutazione internazionale delle competenze degli studenti in lettura, matematica e scienze - è inferiore alla media Ocse e sotto il dato delle principali nazioni europee. Segno che la scuola italiana non riesce a fare abbastanza per gli alunni provenienti da ambienti deprivati. All’estero le cose vanno meglio. Basta scorrere i dati forniti dall’istituto con sede a Parigi nell’ultimo report (dal titolo “Resilienza scolastica”) messo a curato da quattro autori italiani: Tommaso Agasisti, Francesco Avvisati, Francesca Borgonovi e Sergio Longobardi. In Italia, soltanto il 20,4 per cento dei quindicenni provenienti da famiglie in situazione di svantaggio socio-economico riescono a ottenere risultati soddisfacenti nei test Ocse-Pisa. La media Ocse si attesta sul 25,2 per cento. Mentre oltralpe siamo a quota 24,1 per cento, in Germania al 32,3 e in Finlandia al 39,1 per cento. In pratica, la scuola italiana fa poco per gli studenti più sfortunati. Perché è evidente che il retroterra culturale e socio-economico degli alunni influenza le performance. Per questa ragione l’Invalsi, che conduce in Italia indagini sulle competenze in Lettura e Matematica di oltre un milione e mezzo di alunni ha recentemente inaugurato il “valore aggiunto”: quanto le scuole riescono ad incidere sugli alunni durante il loro percorso scolastico. Indagare le cause dell’ennesima bocciatura della scuola italiana, poco efficace con gli ultimi della classe, non è semplice. A preoccupare anche il confronto con il dato del 2012, quando la quota di studenti che, nonostante lo svantaggio, riuscivano a cavarsela dignitosamente era del 24,7 per cento, oltre quattro punti superiore rispetto al dato di tre anni dopo. L’indagine si sofferma anche sulle condizioni che nei vari paesi membri influenzano la quota di studenti resilienti. Nel Belpaese a giocare un ruolo positivo solo due aspetti: il clima scolastico in classe e le assenze degli studenti. Meno assenze “strategiche” durante il corso dell’anno scolastico e un clima in classe più sereno aumentano le probabilità di successo degli alunni meno attrezzati. Incidono relativamente poco invece quantità di dotazioni tecnologiche (computer e tablet) e numero di attività parascolastiche svolte durante l’anno. Sud, la povertà non si risolve con gli slogan di Francesco Manacorda La Repubblica, 10 marzo 2018 È sbagliato dipingere un Sud straccione che cerca di incassare al più presto la promessa dei 5 Stelle sul reddito di cittadinanza e ridere sprezzanti di chi si è presentato per sapere come avere quei soldi. Tentazioni di assistenzialismo nel Mezzogiorno ce ne sono, eccome. Ma c’è anche un’incidenza della povertà superiore alla media nazionale, che continua a mordere nonostante i dati in crescita del Pil. Gli ultimi numeri dell’Istat segnalano nel 2016 oltre 4,5 milioni di italiani in povertà assoluta. E gli aggiornamenti segnalano che quella povertà è in crescita. I grillini hanno fatto e fanno puro illusionismo elettorale, soprattutto per la spesa insostenibile della misura che propongono - tra i 15 e i 30 miliardi per dare un sostegno a 9 milioni di persone - e come ogni nuvola la loro propaganda si diraderà presto. Ma hanno individuato un problema concreto che ha bisogno urgente di soluzioni. Quello che invece deve preoccupare di più è la loro posizione di fronte al futuro economico e industriale del Paese, in particolare per quel che riguarda alcune grandi crisi. L’inno insistito alla deindustrializzazione, anch’esso parte di una propaganda che c’è da sperare non si trasformi mai in realtà, non lascia spazio a un futuro manifatturiero per l’Italia e forse non le lascia un futuro in assoluto. I 5 Stelle sono il primo partito, con risultati vicini al 50% nella Taranto dell’Ilva o nella Carbonia di Portovesme. Ma la loro ricetta per i grandi impianti siderurgici delle due aree, che impiegano migliaia di persone e che in queste settimane dovrebbero completare un passaggio lungo e difficile a nuovi acquirenti, è una sola. Chiuderli. Chi ha vinto, anche in quelle aree, rinnega il ruolo economico dell’industria o non vuole nemmeno considerare la possibilità di ridurre l’impatto inquinante mantenendo la funzione produttiva degli impianti. Il tutto al grido di una fantasiosa e improbabile riconversione: turismo, attività 4.0, settore alimentare… Un futuro di presunta industria hi-tech di fronte a un sistema di istruzione superiore che spesso al Sud viaggia a scartamento ridotto, un paradiso di pecorini sardi e caciocavalli pugliesi che non è dato capire a quante persone possa dare lavoro. Colpisce che l’ondata del populismo vincente si presenti da noi in questa forma, mentre negli Usa il populista Donald Trump, fa del futuro industriale del Paese uno dei suoi cavalli di battaglia. Fino ad alzare barriere commerciali per difendere i posti di lavoro e le fabbriche dove quei posti sono radicati. La politica di Trump non è certo lungimirante, ma nel breve periodo potrà dare forse qualche sollievo ai suoi elettori della classe operaia. Quella grillina, invece, butta via l’operaio assieme all’acqua, considerata troppo sporca, della fabbrica. Il modo migliore per non combattere la povertà. Migranti. Nella Ue riparte la sfida, il muro di Orban contro Roma di Federico Fubini Corriere della Sera, 10 marzo 2018 Stretta nel negoziato sugli accordi di Dublino. le critiche dei Paesi del Nord. Ora che il negoziato sui rifugiati sta entrando nel vivo a Bruxelles, alcuni sherpa di altri Paesi europei a hanno notato il primo effetto peculiare del voto in Italia: gli estremi opposti si toccano. Matteo Salvini, il segretario della Lega premiato nelle urne grazie a una piattaforma anti-immigrazione, ha subito ringraziato il leader che in Europa fa forse più di ogni altro per esacerbare il problema migratorio in Italia: il premier di Budapest Viktor Orban. Proprio l’Ungheria, non da sola, resta l’ostacolo da superare nei prossimi giorni e nei tre mesi che verranno per arrivare a un accordo che permetta di redistribuire le richieste di asilo in Europa. Non sarà facile, ma il negoziato è imminente: al più tardi martedì, la Commissione europea dovrà mandare ai 28 governi una bozza concreta di compromesso. Giovedì si incontrano i tecnici dei diversi Paesi per parlarne. Così l’Italia si prepara a rinegoziare un sacro Graal della campagna elettorale appena conclusa - gli accordi di Dublino sul diritto d’asilo - proprio quando manca un governo nel pieno delle sue funzioni. A seguire, probabilmente in un vertice informale dei leader a maggio, il prossimo premier (se per allora ci sarà) dovrà esordire in Europa con una decisione che rischia di lasciare il segno per decenni: accettare o no un nuovo sistema che aumenta gli obblighi dell’Italia nel registrare, selezionare e gestire le richieste di asilo, ma muove solo qualche timido passo nella redistribuzione dei rifugiati nel resto dell’Europa sulla base di un sistema di quote. Contro quest’ultima ipotesi, disegnata per allentare la pressione su Italia e Grecia, fanno muro l’Ungheria, la Polonia e vari altri Paesi d’Europa centro-orientale. Alcuni degli stessi governi che si sono congratulati con la Lega di Salvini, mentre prima del voto Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia è stata accolta come un’alleata proprio a Budapest. Non è però solo da questi dettagli che s’intuisce come le elezioni italiane stiano avendo un effetto sulle posizioni di altri Paesi. La prima lezione che vari altri governi hanno tratto dai risultati di domenica scorsa è che una crisi migratoria scardina gli equilibri politici. Da Parigi, il presidente Emmanuel Macron lo ha ammesso in modo diretto: “L’Italia ha indubbiamente sofferto di un contesto di forte pressione migratoria in cui vive da mesi e mesi - ha detto - Dobbiamo tenerlo a mente”. Ciò non ha impedito alla Francia di rimpatriare in Italia anche gli minori non accompagnati in questi ultimi mesi, in violazione dell’articolo 6 dell’accordo di Dublino e degli articoli 3, 20 e 22 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo. I respingimenti verso l’Italia di bambini e adolescenti soli dalla Francia e dall’Austria, a volte anche in malo modo, sono documentati dall’organizzazione umanitaria Intersos. Il senso politico è chiaro: poiché il caso Italia dimostra che i rifugiati sono materiale politicamente esplosivo, le frontiere alpine resteranno chiuse e le quote di redistribuzione saranno (quasi) irraggiungibili. La voglia di aiutare non è molta, anche perché in Paesi come Olanda o Svezia si ritiene che l’Italia sia vittima soprattutto della propria inefficienza nel gestire gli afflussi di stranieri. Anche per questo ora il negoziato è in salita. Per far votare ai governi Ue un’ipotesi di distribuzione di rifugiati negli altri Paesi, in base all’ipotesi attuale di negoziato, bisogna che gli sbarchi siano almeno il 160% di quelli dell’anno prima. Altrimenti devono restare comunque tutti nel Paese di primo approdo. Intanto la primavera si avvicina e con essa mari più navigabili. A gennaio le persone sbarcate sono state 4.100, poco meno di un anno prima (mentre a febbraio il maltempo ha fermato gli arrivi). Ora resta da capire quale governo italiano sarà in carica a maggio per gestire un’eventuale nuova ondata di migranti. E come. Migranti. Patriarca di Venezia “la politica è stata troppo fragile e ha alimentato la paura” di Andrea Torniel La Stampa, 10 marzo 2018 Moraglia: non c’è sfiducia nelle istituzioni, ma in certi leader I giovani sono stufi di slogan e promesse mirabolanti. “Non c’è sfiducia nella politica, ma nei confronti di una certa politica”. Il patriarca di Venezia Francesco Moraglia, dialoga con “La Stampa” sull’esito del voto del 4 marzo. Voglia di cambiamento e protesta hanno vinto. È sorpreso? “Solo in parte. Si percepiva, sempre più, una stanchezza diffusa nei confronti dell’immagine che la politica da troppo tempo offre di se stessa, anche con una certa arroganza. La sensazione era, insomma, che si volesse voltar pagina e si avvertiva, sempre più, una sorta di rifiuto nei confronti delle esasperate contrapposizioni (partitiche o personali), degli slogan altisonanti e delle promesse mirabolanti come anche delle continue, ossessive, rivendicazioni di presunti successi, presenti più nella mente dei politici che nella vita quotidiana dei cittadini”. Che cosa ha portato a questo? “Ritengo la forte sfiducia che c’è, non nella politica in quanto tale, ma nei confronti di una certa politica e, semmai, di taluni politici. Tutto ciò ha portato ad una volontà di cambiamento che si è realizzata - anche questo è un dato importante - non nell’astensione dal voto ma nel dirigere il proprio consenso verso una direzione che potesse ribaltare o, almeno, scompaginare certi equilibri politici e di potere percepiti come stabili e consolidati”. La paura dei migranti è stata un cavallo di battaglia elettorale. Qual è il sentimento tra la sua gente nel Nord-Est? “Fino ad ora, per grazia di Dio, non ho percepito sentimenti razzisti, al di là della presenza di talune frange che non vanno sottovalutate ma che ritengo siano molto circoscritte. Si avverte piuttosto delusione e anche sconcerto nei confronti di una politica che è stata certamente fragile e succube sul piano degli accordi internazionali e nella cooperazione tra gli Stati. Soprattutto l’Europa ha sbagliato con l’Italia e non ha saputo affrontare nel modo adeguato un fenomeno epocale, ormai divenuto strutturale e di fronte al quale non possiamo e non vogliamo in alcun modo chiudere gli occhi. La ricaduta sul territorio ha finito per rendere obiettivamente difficile l’accoglienza e l’integrazione in talune situazioni locali alimentando la paura e, altre volte, chiusure pregiudiziali”. Qual è stato il contributo dei cattolici? Molti hanno votato per Lega e 5 Stelle... “Da tempo, ormai, credo non si possa più parlare di un “voto cattolico”. C’è, semmai, da registrare un voto dei singoli credenti che - secondo coscienza e con le rispettive sensibilità - si è diffuso e sparpagliato un po’ ovunque. Non ho visto e non vedo, del resto, particolari schieramenti o significative sollecitazioni sui valori o, almeno, su taluni valori cari al mondo cattolico e, nello stesso tempo, profondamente umani e attuali. Qui una domanda urge e riguarda la questione di fondo: la rilevanza o l’irrilevanza della cultura cattolica”. La presenza politica dei cattolici è da ripensare? “La Chiesa italiana, penso in particolare agli Anni 90, aveva vissuto l’esperienza delle scuole di formazione politica. I tempi ora sono profondamente cambiati, l’orizzonte culturale sempre più frammentato e la stessa forma partito ha subito grandi trasformazioni ed è in crisi. Credo però che sia importante trovare la strada - con modi anche nuovi - per continuare a lavorare sulla formazione delle singole persone per suscitare, promuovere e rafforzare una sensibilità e una propensione al bene comune, alla dignità della persona che va sempre riconosciuta, ai principi di solidarietà e sussidiarietà, riscoprendo il vero senso della politica come idealità e realismo, come esercizio della democrazia a partire dai valori”. Vede dei rischi? “Bisogna far attenzione a non sdraiarci sui luoghi comuni e a guardarci da atteggiamenti demagogici. Di certo la Chiesa, proprio perché ha a cuore il bene comune di tutti, non potrà tacere o mancare di sollevare l’attenzione sulle situazioni più problematiche, di fragilità e sofferenza. E la ricerca del consenso non sarà mai un criterio per la sua azione e missione”. In ottobre ci sarà il Sinodo sui giovani: molti di loro hanno scelto il cambiamento. Quali sono le loro attese? “Sì, il prossimo Sinodo dei vescovi è un appuntamento importante e sono personalmente grato a Papa Francesco per aver messo a tema proprio i giovani, futuro della società. Spesso sono proprio i giovani ad essere stufi di questo presente che noi adulti abbiamo confezionato per loro a nostra misura. Li vedo refrattari di fronte a slogan generici e promesse mirabolanti. Non mi pare si lascino convincere da chi fa letture ottimistiche su “facili riprese” in realtà incerte e difficoltose (i dati ultimi dell’Europa sull’Italia hanno luci e ombre) e che sembrano voler minimizzare le difficoltà reali in cui versa tuttora il Paese”. In concreto? “Si tratta della difficoltà ad entrare nel mondo del lavoro, a raggiungere un’autonomia sociale, a formare una famiglia, a mettere al mondo dei figli. I giovani desiderano e cercano, a loro modo, un cambiamento e non si sentono accompagnati da scelte politiche progettuali ma solo da misure episodiche ed emergenziali. Il rischio è che per sfuggire da coloro dai quali si sono sentiti traditi più volte si lascino tentare da chi, comunque, si presenta con allettanti promesse”. Se le chiedessero un consiglio? “Direi loro di essere sempre costruttivamente critici nei confronti di tutti per non fare la fine del povero Pinocchio condotto nel Paese dei Balocchi”. Dopo le elezioni, quali sono le sue speranze per il futuro? “I risultati elettorali consegnano una situazione obiettivamente difficile in ordine al governo del Paese. E questo - a mio modo di vedere - sarà il primo banco di prova per chi si propone come nuova guida politica. Tutti si chiedono quale potrà essere la soluzione e la via d’uscita. Ritengo che la strada maestra sia appellarsi alla responsabilità di tutti. Personalmente ho fiducia nel Presidente Mattarella che, in linea con la Costituzione e nel rispetto delle regole democratiche, cercherà prima di ascoltare tutti e poi deciderà prudentemente secondo le sue prerogative e i suoi poteri istituzionali. L’auspicio è che, per l’importanza del momento, si possa trovare una via lungo la quale, col concorso di tutti e a partire da una chiarezza di ruoli e posizioni, si pongano le premesse valide per il bene del Paese. E si possa così vedere finalmente all’opera una politica all’altezza delle aspettative dei cittadini”. Niger. Lo stallo della missione italiana, nuovo stop da parte di due ministri di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 10 marzo 2018 Inviati 40 specialisti per la ricognizione, ma il contingente è bloccato. I soldati dovrebbero essere impiegati contro l’immigrazione clandestina e il terrorismo. La missione militare in Niger è ormai in stallo. Per la seconda volta il governo di Niamey dice no all’arrivo dei soldati italiani da impiegare contro l’immigrazione clandestina e il terrorismo. Nonostante la squadra di 40 specialisti inviati in Africa dopo l’approvazione della delibera di palazzo Chigi (avvenuta in Parlamento il 17 gennaio scorso) abbia già effettuato il sopralluogo ricognitivo e di pianificazione in vista della prima partenza di 100 uomini prevista per giugno, tutto rischia di fermarsi. L’ultimo stop è stato comunicato ieri dal ministro dell’Interno, Mohamed Bazoum, che ha ripetuto quanto era già trapelato dal ministero degli Esteri due mesi fa sulla contrarietà all’invio del contingente, rilanciato dall’emittente francese Rfi. E proprio questo aveva accreditato l’ipotesi che dietro questa “chiusura” ci fosse il governo di Parigi, che ha un contingente presente in quell’area con un ruolo di primo piano, insieme con Stati Uniti e Germania. Una situazione che mette all’angolo l’Italia, anche se il ministro della Difesa Roberta Pinotti ha due lettere di richiesta firmate dal collega Kalla Moutari e la nostra presenza in Niger viene ritenuta strategica. “Solo esperti” - Parla a Rainews il ministro Bazoum e definisce “inconcepibile” la missione. Sostiene di aver appreso la notizia dell’invio dei militari “dai media, perché non ci sono mai stati contatti in merito tra Roma e Niamey”. In realtà Pinotti ha incontrato Moutari il 26 settembre scorso e poi ha consegnato al Parlamento due lettere datate 1° novembre 2017 e 15 gennaio 2018 con le quali le autorità del Niger chiedono all’Italia cooperazione “per l’addestramento per il controllo dei confini”. Ma Bazoum ribadisce che si può pensare al massimo a una “missione di esperti, senza ruoli operativi” e in ogni caso esclude possano essere 470 come era stato deciso. La posizione dell’Italia era stata chiarita, dopo l’approvazione della delibera, dal ministro degli Esteri Angelino Alfano: “Il dispiegamento della missione non può che avvenire su richiesta delle autorità nigerine e sulla base di consenso per rispettare profondamente la sovranità del Niger. Sono ovvietà, ma nell’ambito del diritto internazionale è fisiologico che sia così”. Uomini e mezzi - A questo punto bisognerà stabilire quale sia la forza prevalente all’interno del governo di Niamey. Anche perché l’impegno prevede una presenza pure in Mauritania, Nigeria e Benin con l’invio di 120 persone nel primo semestre 2018 per arrivare a 470 soldati entro la fine dell’anno, 130 mezzi terrestri tra cui Lince e due velivoli C130. In particolare il progetto prevedeva l’invio di personale per lavori infrastrutturali; una squadra di rilevazioni contro le minacce chimiche-biologiche-radiologiche-nucleari (Cbrn); una unità di supporto e “force protection”; una unità per la raccolta informativa, sorveglianza e ricognizione a supporto delle operazioni (Isr). Il tutto per una spesa di circa 30 milioni di euro. Iraq. Nel carcere dei jihadisti-bimbi: “l’Isis ci obbligava a uccidere” di Pietro Del Re La Repubblica, 10 marzo 2018 Oday confessa di essersi arruolato tra le fila dello Stato islamico per meglio rimorchiare le ragazze. “Tutto vestito di nero e con il kalashnikov a tracolla incutevo timore e mi sentivo più sicuro, mi era dunque più facile conquistarle”, dice oggi questo sedicenne dal viso lungo e spigoloso, rinchiuso in una struttura penitenziaria di Erbil, nel Kurdistan iracheno. Pentito? “Sì, perché sono stato costretto dai miei superiori a partecipare a troppi orrori. Dopo un po’ non ci accorgevamo più dei crimini che commettevamo. Seviziavamo le nostre vittime senza farci troppi scrupoli. Io e i miei compagni di brigata avevano perso ogni sembiante umano”. Come gli altri 250 jihadisti minorenni arrestati durante la battaglia della vicina Mosul e detenuti nel suo stesso centro, anche Oday è ora in attesa di giudizio. Questi ex islamisti-bambini sono trattati piuttosto bene: vivono in un centro sportivo dal quale però non possono uscire, dove trascorrono la gran parte del loro tempo giocando a calcio. Come ci spiega un attivista locale, molti di loro non saranno neanche processati, bensì liberati a breve, anche se le autorità irachene temono che, per via del profondo lavaggio del cervello subito, alcuni non riusciranno mai a reintegrarsi nel mondo civile. Lo scorso maggio, dopo aver difeso per mesi una periferia di quella che Abu Bakr Al Baghdadi scelse come capitale del suo Califfato, Oday si è finalmente consegnato ai Peshmerga. “Eravamo circondati. Pensavo che ci avrebbero trucidato. Invece, no. Mi hanno subito dato da bere e da mangiare. Con me sono stati fin troppo magnanimi”. Quando gli chiediamo se è stato difficile trasformarsi di punto in bianco in un feroce tagliagole, lui sorride. “Una volta arruolato, ho subito per sei mesi un addestramento molto duro, durante il quale mi hanno insegnato a sparare e a usare l’esplosivo. Certo, la prima volta che mi sono ritrovato al fronte ho avuto molta paura, ma è passata in fretta”. È per soldi che Shadi ha invece stretto un patto col diavolo. Diciott’anni da pochi giorni, anche lui nel centro di Erbil dallo scorso maggio, è un ragazzo tracagnotto, con lunghi capelli neri. Dice: “Prima che lo Stato islamico conquistasse Mosul, con la mia famiglia conducevamo una vita grama. Poi, nel 2014, cambiò tutto, e decisi di unirmi alle sue truppe perché mi pagavano 50 dollari al mese, mi davano bombole di gas per mia madre e mi assicuravano che era quello che voleva Allah”. Anche Shadi dice di avere partecipato a pubbliche esecuzioni e ad altre atrocità. “Faceva parte delle nostre incombenze. La polizia per la repressione del vizio ci segnalava chi aveva compiuto un crimine, e noi intervenivamo. Eravamo diventati bravi a eseguire gli ordini. Una volta, ho anche buttato un omosessuale dal terzo piano di un palazzo”, aggiunge con un’ombra d’inquietante fierezza nello sguardo. Il terzo ex jihadista minorenne con cui ci è permesso di parlare si chiama Raed: è magro come una prugna, ha lo sguardo affilato e soltanto 15 anni. Più vittima che carnefice, Raed è stato reclutato di forza. “Quando gli uomini del Califfo occuparono il mio villaggio nella piana di Ninive, chiesero a ogni famiglia di contribuire alla jihad offrendo i loro figli. Mio padre fu costretto a cedermi alle loro squadracce. Hanno provato a fare di me un guerriero, ma non ci sono riusciti, perché da sempre odio le armi. Mi relegarono a compiti più umili. Una volta mi hanno chiesto di farmi esplodere in un avamposto nemico. Pur temendo il peggio, ho rifiutato. M’ha detto bene perché me la sono cavata con una lunga ramanzina sul fatto che tradivo non soltanto il mio popolo ma anche il mio Dio. Quando mi sono accorto che le truppe irachene erano ormai vicine alla mia postazione, ho deciso di arrendermi. In quel momento i miei stessi commilitoni hanno tentato di uccidermi sparandomi addosso. Sono stato raggiunto da un proiettile alla gamba”, dice mostrando una cicatrice ancora fresca. La settimana prossima Raed sarà liberato. Prima di poter rientrare dai suoi a Mosul, dovrà però lavorare per sei mesi in un’officina di Erbil. E dimostrare, se mai ve ne fosse bisogno, che non ha nessuna ambizione terroristica. Yemen. Stragi, torture e milioni di morti per fame sotto il tallone dell’Arabia Saudita di Umberto De Giovannangeli huffingtonpost.it, 10 marzo 2018 L’Onu e le organizzazioni umanitarie internazionali lanciano appelli, rimasti inascoltati. Le pesanti complicità degli Stati Uniti. Per non dimenticare una guerra “dimenticata”. Volutamente dimenticata, nonostante una tragedia umanitaria che eguaglia e per certi aspetti supera anche quella siriana. E per ricordare a chi ha vinto le elezioni in Italia di un impegno che va mantenuto. Lo Yemen è afflitto da una delle peggiori carestie mai viste al mondo negli ultimi anni, una piaga che si aggiunge a quella di una guerra senza fine. “Non è come la carestia che abbiamo visto in Sud Sudan all’inizio dell’anno, sofferta da decine di migliaia di persone. Non è come la carestia che costò la vita a 250mila somali nel 2011. È la più grande carestia che il mondo abbia mai visto in decenni, con milioni di vittime”, spiega Mark Lowcock, sottosegretario generale agli affari umanitari e coordinatore degli aiuti per le emergenze delle Nazioni Unite. Ecco alcuni numeri della catastrofe: più di 20 milioni di persone, inclusi 11 milioni di bambini, hanno bisogno di assistenza sanitaria. Almeno 14,8 milioni di persone non hanno accesso alle cure di prima necessità, i casi di colera sono arrivati a oltre 900mila e quelli di difterite a quasi 200. La popolazione è ridotta alla fame: 17 milioni di persone non sanno quando potranno avere il prossimo pasto e 400mila bambini sono malnutriti. Le più grandi organizzazioni umanitarie sono impegnate a far fronte a questa immane catastrofe, ma sanno che solo una soluzione politica, condivisa dalle potenze globali e regionali responsabili della guerra yemenita, può salvare la vita a milioni di persone. Ma questa soluzione è lontana dal determinarsi. Perché non è solo una guerra dimenticata, quella in Yemen. È anche qualcos’altro. E di peggio. È la vergogna dell’Occidente e in esso dell’Europa (Italia compresa). È la sanguinosa riprova che alla base dello sfacelo mediorientale c’è la pervicace doppiezza di un “mondo libero” che non si limita, e già questo griderebbe vendetta, ad assistere silente al massacro di civili, ma quel massacro lo alimenta vendendo armi, e garantendo in sede Onu la copertura politica, all’attore regionale che attua un terrorismo di Stato. Yemen, la vergogna dell’Europa. Yemen, dove l’Arabia Saudita perpetra da tempo crimini contro l’umanità. Ciò di cui non si parla, volutamente, nei consessi internazionali, è che dopo tre anni di operazioni militari si continua a morire nello Yemen nella campagna lanciata dalla coalizione panaraba guidata dall’Arabia Saudita, per rispondere alla minaccia posta dai ribelli Houthi, sostenuti a loro volta dall’Iran. L’anno scorso, rimarca Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, l’Arabia Saudita riuscì a convincere la maggioranza degli Stati del Consiglio Onu dei diritti umani a votare contro l’istituzione di una commissione internazionale sui crimini di guerra commessi in Yemen. Venne invece approvata una inutile risoluzione a sostegno della neo-istituita commissione nazionale yemenita sui diritti umani che, da quello che si è visto nel primo anno di attività, non stabilirà la verità né favorirà la giustizia. Ma la Giustizia non si concilia con gli affari. Gli sporchi affari che l’Occidente continua a intessere con Riad. Affari miliardari. Nel suo viaggio in Medio Oriente, maggio 2017, il presidente Usa Donald Trump. ha avuto modo di fare il piazzista d’armi a Riad, con contratti che hanno raggiunto i 132 miliardi di dollari, con un obiettivo dichiarato di andare oltre i 380 miliardi. Non basta. I militari statunitensi si sono resi complici di torture, abusi e violenze contro sospetti terroristi, compiute dalle forze armate degli Emirati Arabi Uniti e dello Yemen sul loro territorio. È quanto emerge da un lungo reportage pubblicato dalla Associated Press, che sostiene il coinvolgimento di soldati americani negli interrogatori compiuti nelle prigioni segrete del Paese arabo. Le carceri sono controllate da ufficiali di Abu Dhabi e Sanàa e i dettagli che emergono dai racconti dei testimoni sono raccapriccianti. I prigionieri sono chiusi all’interno di container per spedizioni, cosparsi di feci e urina, bendati per settimane. E ancora, i sospetti sono picchiati e legati a una griglia circondata dal fuoco. A questo si aggiungono gli abusi a sfondo sessuale e interrogatori compiuti all’interno di navi segrete da parte di “esperti psicologi” ed “esperti di poligrafia” statunitensi. Secondo alcune testimonianze anonime rilanciate da Ap, sarebbero centinaia i sospetti terroristi, appartenenti alla rete di al Qaeda, finiti nella rete degli abusi e delle violenze delle carceri segrete in Yemen. Esse sorgono all’interno di basi militari, di porti, aeroporti, ville private e anche club notturni. Gli informatori riferiscono che gli abusi sono “una routine” e le torture inflitte “estreme”. Altre fonti parlano di circa 2mila persone scomparse, che sarebbero ancora oggi rinchiuse all’interno delle carceri. Familiari, parenti, amici hanno promosso proteste e iniziative per la loro liberazione, finora invano. Attivisti e associazioni pro diritti umani non credono alla versione ufficiale dei vertici di Washington e del Pentagono, parlando di maldestro tentativo di lavarsi le mani e minimizzare responsabilità e coinvolgimenti. Nell’inferno yemenita a essere colpiti sono innanzitutto i più indifesi. I bambini. I dati e le testimonianze raccolti da “Save the Children” a supporto di una campagna internazionale di sensibilizzazione lanciata da 6 organizzazioni internazionali - Action Contre La Faim, Care, Intersos, Norwegian Refugee Council, Oxfam and Save the Children - danno conto di un orrore che non conosce limiti. E a essere alla guida della coalizione che questi crimini ha perpetrato, non è il Daesh ma un Paese che fa parte del consesso delle Nazioni Unite; un Paese col quale l’Occidente intrattiene floridi rapporti d’affari: l’Arabia Saudita. Le 6 organizzazioni internazionali hanno chiesto ripetutamente all’Onu di intervenire, di usare tutti gli strumenti di pressione politico-diplomatica per fermare la mano a Riad. La risposta del libero Occidente è stata di vendere ancora più armi ai sauditi. E tra queste armi che fanno strage di civili, ci sono anche bombe italiane, realizzate in Sardegna. Bombe della serie MK8, identificabili dalle matricole A4447, come rivelato da una inchiesta del New York Times. Lo scorso gennaio, la Germania ha deciso di stoppare la fornitura di armi ai Paesi coinvolti nella guerra in Yemen, e dunque in primis all’Arabia Saudita. In Italia, nel suo programma elettorale, il Movimento 5 Stelle, che il voto del 4 marzo ha indicato come primo partito, s’impegna, se avrà la guida del nuovo governo, di seguire l’esempio di Berlino e di quanto affermato da una risoluzione approvata dal Parlamento europeo che va nella direzione “tedesca”. La speranza è che Di Maio e company siano di parola. In politica estera, sarebbe un buon inizio. Così la Turchia cancella la mia voce di Asli Erdogan* La Repubblica, 10 marzo 2018 Partecipando a un dibattito in occasione del Summit di Ginevra sui diritti umani ho vissuto una delle esperienze più devastanti mai provate dai tempi del mio arresto. Accennando alla mia carriera letteraria per presentarmi al pubblico, il moderatore ha detto che una delle mie opere è stata tradotta in nove lingue, senza aggiungere altro. Pur perplessa, perché i miei libri sono stati tradotti in più di venti lingue, non ho badato alla cosa più di tanto. La dolorosa verità l’ho appresa molto dopo, rientrata in albergo, controllando le note biografiche che appaiono sui miei libri. Il mio editore in Turchia ha modificato il mio Curriculm vitae mentre ero in carcere. Invece di aggiornarlo lo ha ridimensionato, fermandosi al 2003! Dal 2003, come era in origine specificato nel CV, le mie opere sono state tradotte in svariate lingue, dall’inglese all’arabo e pubblicate da editori importanti come Actes Sud (Francia), Gyldendal (Norvegia), Soft Skull (Usa), Keller (Italia) e tanti altri. “Kirmizi Pelerinli Kent” (“La città dal mantello rosso”) è stato inserito nella collana Marg, fiore all’occhiello di Gyldendal, assieme alle opere di autori come Hélène Cixous e W.G. Sebald, nonché tra i sette romanzi scelti a rappresentare la letteratura turca contemporanea nella “Biblioteca turca” in lingua tedesca. Più di 200 recensioni sono apparse su quotidiani e riviste letterarie del calibro di Le Monde e Die Welt. Sono stata inserita tra i “50 scrittori del futuro” dalla rivista francese Lire e insignita di sei premi letterari tra cui “Sait Faik”, il più importante in Turchia, e il “Words Without Borders Prize” in Norvegia. Sono stata derubata di tutto questo. Vi rammento che in Turchia per dieci anni la mia opera letteraria è passata sotto silenzio. La stampa turca ha dato pochissimo spazio ai premi e ai riconoscimenti accademici che ricevevo. Se un autore contemporaneo veniva paragonato a Kafka finiva in prima pagina, quando è stato il mio caso nessuno ne ha parlato. Il mondo letterario tradizionalmente sminuisce le autrici, ridicolizzandole e banalizzandole. Ma se tutto ciò si associa alla deliberata scelta da parte delle massime autorità di cancellare un’autrice, come nel mio caso, allora si tratta di un crimine, contro la letteratura in primo luogo. Forse non sarei stata arrestata se dal mio CV non fossero state cancellate tante voci, in passato e persino nel presente. Ad oggi i miei libri sono stati tradotti in più di venti lingue, i testi in circa 40, e ho ricevuto più di 25 premi letterari e per i diritti umani, tra cui il premio Simone de Beauvoir, il premio Erich Maria Remarque e il premio della Fondazione culturale europea. Le mie opere sono state commentate da autori di grande prestigio come Ian McEwan, Carsten Jensen, Orhan Pamuk, Günther Wallraff. Vi prego di non tener conto delle note sull’autore e delle recensioni citate nelle edizioni turche dei miei libri. Credo che non esista al mondo una persona immune alle etichette. Vi prego di non collaborare con le enormi forze attive contro di me, che non sono rappresentate solo dal regime totalitario, ma da ogni metodo e mezzo di oppressione, discriminazione, condanna e cancellazione più mite e subdolo. La mia vita, non è una manciata di palline con cui chiunque può fare il giocoliere. Né lo sono le mie parole. *Asli Erdogan è una delle più importanti scrittrici in Turchia. Tra i suoi libri tradotti in Italia “Il mandarino meraviglioso” (Keller). Ha ricevuto il premio Simone de Beauvoir per la libertà delle donne. Filippine. Il capo Onu per i diritti umani: “a Duterte serve una perizia psichiatrica” La Repubblica, 10 marzo 2018 L’Alto commissario delle Nazioni Unite Zeid Raad al Hussein attacca duramente il presidente filippino dopo gli “attacchi oltraggiosi” nei confronti di una funzionaria. Il presidente delle Filippine Rodrigo Duterte dovrebbe sottoporsi a una sorta di “perizia psichiatrica”. Lo ha detto oggi a Ginevra l’Alto commissario Onu per i diritti umani Zeid Raad al Hussein, criticando gli “attacchi oltraggiosi” del capo di Stato asiatico a Agnes Callamard, relatrice speciale dell’Onu sulle uccisioni extragiudiziali, e altri attacchi delle autorità contro esperti Onu dei diritti umani. Già nel novembre scorso, l’Onu aveva criticato il già controverso presidente Duterte per aver minacciato di schiaffeggiare Callamard se avesse continuato ad indagare sulle presunte uccisioni extragiudiziali. Al Hussein ha inoltre citato il caso della relatrice sui diritti dei popoli indigeni, Victoria Tauli Corpuz, che sarebbe stata accusata di terrorismo dalla giustizia filippina. In un recente intervento al Consiglio Onu sui diritti umani, riunito in sessione a Ginevra, al Hussein aveva deplorato l’appello del presidente Duterte alla polizia di non cooperare sulle questioni di diritti umani o con i relatori, nonché la denigrazione continua della relatrice sulle uccisioni extragiudiziali. Tali “attacchi non possono restare senza risposta”, ha detto al Hussein. “Il Consiglio - ha aggiunto - Onu per i diritti umani deve prendere una posizione forte. È scandaloso che un capo di Stato parli in questo modo, usando un linguaggio ripugnante contro un relatore rispettato. Questo ci fa credere che il presidente delle Filippine abbia bisogno di sottoporsi a una sorta di valutazione psichiatrica”.