Detenuti al lavoro, un aiuto per tutti di Lucia Castellano* Corriere della Sera - Buone Notizie, 9 maggio 2018 Nel nostro Paese una nuova legge (la n. 67 del 2014) consente agli imputati di reati minori (fino a 4 anni di pena) di chiedere al giudice di sospendere il processo per “ metterli alla prova”: sono ammessi a lavorare, senza retribuzione, in progetti di pubblica utilità, presso enti pubblici o privati di riconosciuto valore sociale. Non solo: si prestano ad attività aggiuntive di volontariato, incontri con le vittime, risarcimento del danno. Una vera e propria rivoluzione culturale nella politica della risposta al crimine: l’autore di reato viene intercettato ancor prima della condanna e avviato ad attività che giovano al contesto sociale. Al buon esito della prova, il processo non viene celebrato e il reato estinto. Risparmio di tempi processuali e relativi costi, dunque, unito alla contaminazione virtuosa (e a costo zero) tra “ buoni” e “ cattivi” e a una risposta giudiziaria veloce, credibile e commisurata all’entità della violazione. La misura, che dal 1988 si applicava solo agli imputati minorenni è estesa, da quattro anni, anche agli adulti. Ad oggi, sono 12418 gli imputati impegnati in lavori di pubblica utilità. Il nostro è un Paese in cui la cura del bene pubblico richiede energie costanti. E in cui il welfare, in questi tempi di crisi, richiede l’impiego di risorse di supporto a quelle istituzionali. Il Ministro della Giustizia ha quindi chiamato a raccolta, nell’ultimo biennio, gli enti e le associazioni più significative per stipulare accordi che consentano, su tutto il territorio nazionale, l’impiego di imputati a favore della collettività. A cominciare dai Comuni (solo a Roma 550 persone che lavorano alla manutenzione cittadina e all’assistenza ai più bisognosi), ciascun ente ha messo a disposizione le proprie sedi in tutto il Paese. Pensiamo al Fai, all’Unione Ciechi e Ipovedenti, a Legambiente, all’Ente Nazionale Protezione Animali, alle Acli. Capita che, terminata la prova, si continui come volontari a lavorare per l’Ente. L’occuparsi, con passione, di tutelare la bellezza del proprio Paese o di dare una mano ai più fragili tra i cittadini può essere uno strumento potente per combattere tanto la recidiva quanto il pregiudizio verso chi è finito nelle maglie della giustizia. E nel 2017, su 23492 casi di messa alla prova, soltanto 322 misure sono state revocate. Operazioni che fanno bene alla giustizia penale, perché rappresentano la concreta possibilità di restare cittadini attivi anche quando si viola il patto sociale. *Direttore Generale dell’esecuzione penale esterna, Ministero della Giustizia L’indennizzo per sovraffollamento si prescrive in dieci anni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 maggio 2018 Lo ha deciso ieri la Cassazione, respingendo un ricorso del Ministero della Giustizia. Intanto continua il trend di crescita della popolazione carceraria che al 30 aprile risulta essere di 7.666 detenuti in più rispetto ai posti disponibili. Si prescrive in 10 anni il diritto di un detenuto a ricevere un indennizzo pari a 8 euro per ogni giorno passato in carcere in condizioni degradanti, ossia con uno spazio disponibile in cella inferiore ai 3 metri quadrati. Lo hanno sancito le sezioni unite civili della Cassazione con una sentenza depositata ieri, nella quale stabiliscono definitivamente la linea da seguire sul problema della prescrizione nell’ambito di queste cause che vedono contrapposti detenuti o ex detenuti allo Stato italiano per violazione dei principi contenuti nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Dopo la sentenza Torreggiani, con cui la Corte di Strasburgo nel 2013 aveva condannato l’Italia per le condizioni di vita dei detenuti in relazione al sovraffollamento carcerario, il governo italiano, nel 2014, ha varato un decreto, poi convertito in legge dal Parlamento, con cui vengono previsti indennizzi - riduzioni di pena o somme di denaro per chi si è trovato costretto a vivere in situazioni di degrado durante la detenzione in carcere. Nella causa esaminata dalla Cassazione, un uomo, detenuto per diversi periodi tra il 1996 e il 2014, aveva denunciato di aver subito un “trattamento inumano a causa delle condizioni di detenzione”. Per questo aveva citato in giudizio il ministero della Giustizia chiedendo un risarcimento pari a oltre 25.500 euro e il tribunale dell’Aquila gli aveva dato ragione. Il ministero, quindi, si era rivolto alla Cassazione, ritenendo che il diritto dell’uomo a un indennizzo fosse già estinto perché prescritto. La Suprema Corte, quindi, dopo l’udienza pubblica dello scorso 30 gennaio, ha deciso di rigettare il ricorso del dicastero di via Arenula, enunciando un principio di diritto secondo cui “il diritto a una somma di denaro pari a 8 euro per ciascuna giornata di detenzione in condizioni non conformi ai criteri di cui all’articolo 3 della Convenzione dei diritto dell’uomo e delle libertà fondamentali, previsto dall’articolo 35 ter, terzo comma, dell’ordinamento penitenziario, si prescrive in dieci anni, che decorrono dal compimento di ciascun giorno di detenzione nelle su indicate condizioni”. Il diritto all’indennizzo, inoltre, riguarda anche “coloro che hanno cessato di espiare la pena prima dell’entrata in vigore della nuova normativa” e “il termine di prescrizione in questo caso - conclude la Corte - non opera prima del 28 giugno 2014, data di entrata vigore del decreto legge”. Cresce il sovraffollamento e permane la presenza numerosa dei bambini dietro le sbarre. Al 30 aprile del 2018, secondo i dati messi a disposizione dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e pubblicati sul sito del ministero della Giustizia, siamo giunti a 58.285 detenuti per un totale di 50.619 posti disponibili. Questo vuol dire che risultano 7.666 detenuti in più. Il mese precedente, invece, risultavano 7.610 in più. Il trend risulta ancora più chiaro se si prende in considerazione il numero a fine dell’anno scorso: i detenuti in più erano 7.160. I numeri del sovraffollamento risulterebbero addirittura maggiori se venissero prese in considerazione l’esistenza di celle ancora inagibili. Situazione ben documentata dal rapporto annuale del Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale Mauro Palma: ovvero l’alto numero di camere o sezioni fuori uso, per inagibilità o per lavori in corso, che alla data del 23 febbraio del 2017 erano pari al 9,5 per cento. Cioè parliamo di circa 4.700 posti ancora non disponibili. Maglia nera per quanto riguarda il numero dei bambini in carcere. Al 30 aprile risultano 66 bambini, anche se, rispetto al mese precedente, risultavano 70. A dicembre scorso ne risultavano 56, mentre a novembre erano 58. Per quanto riguarda l’esecuzione penale esterna, ovvero le misure alternative, lavoro di pubblica utilità, misure di sicurezza, sanzioni sostitutive e messe alla prova, al 30 aprile ne sono state concesse 51.676 volte. A tal proposito va ricordato il XIV rapporto di Antigone che denuncia una criticità. Per quanto riguarda le misure alternative, Antigone ha osservato che sono 20.961 i detenuti con pena residua inferiore ai 3 anni, potenzialmente ammissibili a misure alternative, che invece sono risultati essere in carcere in base ai dati aggiornati alla fine del 2017. Numeri bassissimi, evidenza il rapporto, sono quelli relativi al regime di semilibertà (878), mentre quasi 11 mila (10.969) sono le persone in detenzione domiciliare. Sono invece 15.523 quelle in affidamento in prova ai servizi sociali. Il dato della concessione delle misure alternative potrebbe però crescere se solo venisse introdotto quella parte del decreto del nuovo ordinamento penitenziario che punta molto all’estensione delle pene alternative: l’affidamento in prova attualmente viene applicata alle persone che non hanno superato i tre anni di pena, con la riforma la soglia si allargherebbe a quattro. Anche se, grazie alla Corte costituzionale, questo principio è stato esteso. Sì, perché secondo i giudici della Consulta chi deve scontare una pena, anche residua, fino a 4 anni di carcere, ha quindi diritto alla sospensione dell’ordine di esecuzione allo scopo di chiedere e ottenere l’affidamento in prova ai servizi sociali, nella versione allargata introdotta dal legislatore nel 2013. È quindi incostituzionale il quinto comma dell’articolo 656 del Codice di procedura penale, che prevede la sospensione solo per pene fino a 3 anni. In realtà, la riforma dell’ordinamento risolverebbe anche il problema delle detenute madri con figli al seguito: valorizza la concessione della detenzione domiciliare a donne incinte o madri di minori di 10 anni. L’iter di approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario, nonostante manca davvero poco al traguardo, ha subito una brusca battuta di arresto. Il mondo dell’avvocatura non ci sta e ha chiesto al governo di approvare definitivamente il decreto attuativo. Lo hanno chiesto i presidenti del Cnf e dell’Unione Camere penali, Andrea Mascherin e Beniamino Migliucci. Con loro si sono schierati anche il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, il garante dei detenuti Mauro Palma, il presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick e Rita Bernardini del Partito Radicale. I benefici effetti della legge Pinto sulla durata dei processi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 9 maggio 2018 Una legge nata (anche) per scongiurare la mole sempre più imponente di ricorsi alla Corte dei diritti dell’uomo per l’eccessiva durata dei processi. E poi gradualmente circoscritta. La legge Pinto, approvata nel 2001, ha prodotto già nei primi anni effetti significativi. Con allarmi frequenti dei vertici degli uffici giudiziari. Nel 2010, per esempio, l’allora presidente della Cassazione Vincenzo Carbone già considerava improcrastinabile una revisione delle norme di pochi anni prima, corroborando la richiesta con una serie di dati: i ricorsi presentati dalle vittime della giustizia lumaca avevano toccato il numero di 37.393 procedimenti arretrati, con riferimento ai primi 6 mesi del 2009 e con un aumento del 43,1% rispetto al medesimo periodo del 2008 quando ne risultavano giacenti 26.132. Con l’effetto di mettere alle corde le Corti d’appello, presso le quali va presentata la domanda di risarcimento e di fare crescere il debito pregresso. Di qui l’introduzione negli anni successivi di un pacchetto di condizioni alle quali, sulla base della natura del procedimento, subordinare la procedibilità della richiesta di indennizzo per eccessiva durata. Dopo peraltro avere recepito con qualche resistenza i parametri europei di durata, oggi fissati in sei anni complessivi (tre per il primo grado, due per l’appello, uno per la Cassazione). Processi civili lumaca, emendamento dimezza la durata - In particolare, nel processo civile il rimedio preventivo è rappresentato dalla proposizione del giudizio con rito sommario o dalla richiesta di passaggio dal rito ordinario al rito sommario fatta entro l’udienza di trattazione e, in ogni caso, almeno sei mesi prima che siano trascorsi i tre anni del primo grado di giudizio. In caso di impossibilità del rito sommario di cognizione, anche in secondo grado, il rimedio preventivo è rappresentato dalla richiesta di decisione con trattazione orale da presentare sei mesi prima del termine di ragionevole durata del processo. Nel processo penale il rimedio preventivo è rappresentato da un’istanza di accelerazione da presentare almeno 6 mesi prima della scadenza del termine di durata ragionevole. E gli effetti si sono visti. Anche per effetto della “ricetta Barbuto” che ha sollecitato gli uffici giudiziari civili a concentrare gli sforzi di smaltimento delle cause a rischio Pinto. In questi anni l’arretrato ultra-triennale dei tribunali civili è sceso di oltre il 38%, passando da quasi 650mila casi pendenti a 403mila. Gli affari ultra-biennali in appello sono passati da 198mila a 126mila, una riduzione del 37 per cento. Per la prima volta dal 2015 il debito dello Stato nei confronti dei cittadini per indennizzi Pinto è sceso. I fattori di questo miglioramento, sottolinea il ministero, sono due: si riducono le cause a rischio indennizzo ed è stato varato un piano straordinario per accelerare i pagamenti. Grazie a questo lavoro il debito si è ridotto da 456 milioni a 336 milioni, un taglio del 27 per cento. Il piano straordinario ha ridotto dell’80% i ricorsi in ottemperanza davanti al giudice amministrativo, evitando inoltre azioni esecutive stimabili in circa 8 milioni di euro. Procedibilità, più oneri per la parte offesa di Fabio Basile* Il Sole 24 Ore, 9 maggio 2018 Entra oggi in vigore il Dlgs 36/2018, con cui il governo ha dato attuazione alla delega, contenuta all’articolo 1, comma 16, della legge 103/2017, per l’estensione della procedibilità a querela a taluni reati. Diventeranno, quindi, procedibili a querela fatti fino a oggi perseguibili d’ufficio: la minaccia grave (articolo 612, comma 2, Cp), l’introduzione del pubblico ufficiale nel domicilio altrui senza l’osservanza delle formalità prescritte dalla legge (articolo 615, comma 2, Cp), taluni delitti, concernenti la corrispondenza e altre comunicazioni, posti a tutela dell’inviolabilità dei segreti (articoli 617 ter, comma 1, 617 sexies, comma 1, 619, comma 1, e 620 Cp), nonché, tra i delitti contro il patrimonio, alcune ipotesi di truffa (articolo 640 Cp), di frode informatica (articolo 640 ter Cp) e di appropriazione indebita (articolo 646 Cp). In realtà, se guardiamo ai contenuti della legge-delega, il novero dei reati che avrebbero potuto essere resi procedibili a querela era molto più esteso delle sole nove ipotesi interessate dal decreto legislativo in parola. Anzi, la legge-delega era decisamente troppo ampia e perfino generica: basti pensare che non indicava alcun criterio di selezione qualitativa dei reati da rendere procedibili a querela. Il legislatore delegato ha, quindi, sfruttato solo in parte la delega, ma ciò nondimeno è riuscito a fare qualche pasticcio. Ad esempio, viene ora subordinata all’iniziativa privata della persona offesa la punibilità di delitti che hanno una dimensione, almeno in parte, pubblicistica, perché commessi da un pubblico ufficiale (articolo 615, comma 2, Cp), o perché compromettono la regolarità di un servizio - quello postale, telefonico, telegrafico - rivolto al pubblico (articoli 617 ter, comma 1, 619, comma 1, e 620 Cp). Sarà, altresì, necessaria la querela per punire una minaccia del tipo “se mi quereli, ti uccido”. Ma il maggior pasticcio riguarda i nuovi articoli 623 ter e 649 bis Cp, che dovrebbero assicurare la “relatività” della querela per tutti i predetti delitti. La legge-delega aveva previsto la loro punibilità a querela non in termini assoluti, ma solo in mancanza di determinate condizioni ostative. Ebbene, non sembra proprio che tali condizioni ostative siano state rispettate dal legislatore delegato. La legge-delega, ad esempio, imponeva di conservare la procedibilità d’ufficio nei casi in cui la persona offesa fosse “incapace per età o per infermità”: ma di tale condizione non vi è traccia nell’articolo 623 ter Cp. L’articolo 649 bis Cp, invece, tramite un infelice sistema di rinvii, rispetto alla truffa e alla frode informatica confonde tale condizione ostativa con l’aggravante della minorata difesa (articolo 61, n. 5, Cp), mentre non la riproduce in relazione all’appropriazione indebita. Sempre in relazione all’appropriazione indebita, l’articolo 649 bis Cp si dimentica anche delle altre due condizioni ostative, previste dalla legge-delega: si dimentica del tutto del danno patrimoniale di rilevante gravità; si dimentica in parte (giacché l’articolo 649 bis Cp menziona il secondo, ma non anche il primo comma dell’articolo 646 Cp) della presenza di circostanze aggravanti ad effetto speciale. Resta da chiedersi quale possa essere il significato di questa estensione della punibilità a querela, vale a dire di questa nuova deroga all’obbligatorietà dell’azione penale. Qui la querela non è certo stata introdotta a tutela di un eventuale contro-interesse della vittima (come avviene, ad esempio, nella violenza sessuale, la cui vittima potrebbe preferire sottrarsi allo strepitus fori o per i delitti contro il patrimonio commessi in ambito familiare nelle ipotesi di cui all’articolo 649, comma 2, Cp, la cui vittima potrebbe auspicare una conciliazione extra-penale con il familiare, autore del fatto). Qui la querela è stata, invece, introdotta solo per finalità di deflazione processuale (nella speranza che la vittima non presenti querela) o, tutt’al più, per estendere l’ambito applicativo della nuova causa di estinzione del reato per condotte riparatorie, introdotta dalla stessa legge Orlando, la quale, tuttavia, a sua volta “marginalizza” la vittima e i suoi interessi. Insomma, l’impressione è che il legislatore, al solo scopo di alleggerire il carico processuale, abbia gravato la persona offesa di un peso assai oneroso, chiamandola a compiere la scelta, spesso drammatica e non priva di costi (anche economici), se presentare, o meno, querela. *Ordinario di diritto penale Università degli Studi di Milano Il maxi ricorso degli assistenti giudiziari: “vincitori del concorso ma beffati dal ministero” di Filippo Femia La Stampa, 9 maggio 2018 L’accusa di 350 cancellieri: scavalcati nella scelta delle sedi da chi è arrivato dietro in graduatoria. Il caso al Tar del Lazio. Si sentono vittime di una beffa. Un’ingiustizia, verrebbe da dire, se non ci fosse di mezzo il ministero guidato da Andrea Orlando. Oggi il Tar del Lazio inizia a esaminare il ricorso di circa 350 persone che hanno partecipato all’ultimo concorso per assistenti giudiziari. Bandito a novembre 2016 dal ministero della Giustizia, inizialmente prevedeva 800 posti, poi estesi a 1400 ad aprile 2017. Dopo le prove scritte e orali, a novembre viene approvata la graduatoria definitiva con i vincitori e oltre 4 mila idonei. Al 21 dicembre 2017 i primi 800 scelgono la sede di lavoro. Come spesso accade, quelle del Centro e del Sud sono le più ambite e si esauriscono subito. Gli ultimi tra i vincitori e i primi 600 idonei devono accontentarsi di quelle avanzate, principalmente a Nord. Tra gennaio e febbraio entrano in servizio. Dopo poche settimane arriva un annuncio che spiazza molti. Il ministero comunica lo scorrimento della graduatoria: saranno assunte altre mille persone, che potranno scegliere altrettante sedi ex novo, molte al Centro-Sud. In sostanza chi ha ottenuto un punteggio inferiore ha potuto scegliere tra più città rispetto ai colleghi che si erano piazzati meglio in graduatoria. Un paradosso - chi arriva dopo meglio alloggia - che ha fatto infuriare centinaia di persone. “È saltato ogni criterio meritocratico”, si sfoga Stefano Lopes, palermitano, ora al tribunale di Torino. “Mi sono dovuto trasferire a 1200 chilometri da casa. Fa rabbia vedere tutte quelle sedi vicino casa coperte da chi è arrivato centinaia di posti dietro di te”. Sceglie l’ironia Michele Dabbicco, 30 anni di Bari, anche lui in servizio in Piemonte: “A saperlo, avrei commesso qualche errore in più nella prova scritta. O non mi sarei svegliato all’alba per arrivare preparato all’orale, dovendo conciliare lo studio con il lavoro full time”. La scelta delle sedi, ragiona chi ha fatto il ricorso, andava fatta mettendo a disposizione dei vincitori l’elenco nella sua totalità (2400) e non solo le prime 1400. “I mille posti supplementari erano già finanziati dalla legge di Stabilità del dicembre 2017, quindi si sapeva che altre sedi erano disponibili”, dicono il professor Vincenzo Cerulli Irelli e Emilia Pulcini, che seguono 160 ricorrenti. “È stato commesso un evidente difetto di istruttoria. Si tratta di una situazione che, per quanto mi risulta, non ha precedenti”, aggiunge l’avvocato Santi Delia, amministrativista siciliano che segue il ricorso di un altro centinaio di persone. Altri 70 si sono invece affidati al sindacato Confintesa. Il ministero ha sempre sostenuto l’urgenza di far entrare in servizio la prima tranche di assistenti. “Il concorso era atteso da 1998 e iniziare a lavorare a febbraio o aprile poco cambiava. Di certo in questi pochi mesi io e i miei colleghi non abbiamo rialzato le sorti degli uffici giudiziari”, ribatte un 30enne di Ragusa che chiede di restare anonimo. Ciò che viene contestato è la tempistica. “Se i nostri colleghi fossero entrati in servizio un anno dopo non avremmo avuto nulla da obiettare”, dice una 40enne siciliana, arrivata tra gli ultimi degli 800 vincitori e “obbligata” a scegliere Torino. “Ho due figli piccoli e mio marito non si può trasferire. Qui devo pagare un affitto e ogni settimana torno in Sicilia: spendo più di quello che guadagno”. “Con il ricorso non intendiamo bloccare le assunzioni o congelare lo scorrimento delle mille unità, ma sottolineare l’irragionevolezza di ciò che è accaduto - conclude Emilia Pulcini - Chiediamo di consentire ai primi 1400 di effettuare la scelta sulla base della totalità delle sedi di servizio”. Il 20 giugno ci sarà la prima udienza al Tar del Lazio. Non servono i tribunali, basta Sabina Guzzanti. Processo trattativa in tv? di Piero Sansonetti Il Dubbio, 9 maggio 2018 C’è un modo semplice per sveltire la giustizia. Eliminare i tribunali e affidare le sentenze a Sabina Guzzanti. I processi, senza bisogno di tante formalità, si possono svolgere davanti alla macchina da presa, poi l’ultima decisione spetta a lei. Si, certo, sto scherzando. Però prendo spunto da una vicenda reale. Il consigliere di amministrazione della Rai - indicato, credo, dai 5Stelle - Carlo Freccero, intellettuale e uomo di spettacolo di indubbio valore (più debole, forse, nelle materie giuridiche) ha proposto di mandare in onda su una rete del servizio pubblico un film diretto da Sabina Guzzanti sulla presunta trattativa Stato-mafia. Il direttore generale della Rai gli ha detto di no e lui è andato su tutte le furie. Ha telefonato al “Fatto” e ha chiesto di montare un casino. Al “Fatto” gli hanno dato retta e hanno montato un casino. Quale sarebbe lo scandalo? Che il servizio pubblico mentre è in corso la vicenda giudiziaria sulla trattativa (è stata pronunciata qualche giorno fa la sentenza di primo grado, che peraltro assolve alcuni degli imputati considerati colpevoli e bugiardi nel film: mancano ancora Appello e Cassazione) decide di non mandare in onda un film colpevolista. Cioè afferma, seppur timidamente e senza grancassa, che i processi si devono svolgere nei tribunali e non in Tv anche se, effettivamente, la sentenza del processo Stato- Mafia è stata emessa (emessa da una giuria popolare) dopo una campagna di stampa e Tv martellante e tutta - tutta - di stampo colpevolista. Ora però Mario Orfeo, direttore della Rai, si è rifiutato di prendere una decisione che sarebbe una violazione clamorosa dei principi più elementari dello Stato di diritto, e sarebbe anche una offesa abbastanza grave alla magistratura che deve ancora pronunciarsi in almeno due gradi di giudizio. Lasciamo stare l’opinione che ciascuno di noi ha della trattativa e della sentenza di Palermo (il nostro giornale in questi giorni ha portato una montagna di elementi, noti e accertati, che depongono contro quella sentenza: ma ovviamente non sta a noi decidere per conto della magistratura). Il punto è un altro: è giusto celebrare i processi in Tv invece che in aula? Quanto i giudici (soprattutto i giudici popolari) riescono a non farsi condizionare, o addirittura intimidire, da una campagna di spettacolarizzazione che ha una influenza fortissima sull’opinione pubblica? Che differenza c’è tra un processo svolto in Tv e con la cinepresa, e dove tutti sono colpevolisti, e senza nessuna garanzia per gli imputati, che differenza c’è tra un processo così e un linciaggio? La Rai in passato si è sottratta a queste domande. Per esempio qualche anno fa, mentre era ancora in corso il processo al dottor Brega Massone (un chirurgo accusato di aver fatto morire alcuni pazienti) trasmise una fiction sul caso, ed era una fiction che dava del tutto per scontata la colpevolezza di Brega Massone. Stavolta, per fortuna, Mario Orfeo (che all’epoca non era presidente della Rai) ha preferito una scelta più in linea con la nostra Costituzione e con la dichiarazione dei diritti dell’uomo. Quel che più colpisce nell’articolo, molto indignato, pubblicato sul “Fatto”, è la naturalezza con la quale si scrive che la sentenza della Corte di assise di Palermo conferma quello che era stato ricostruito dalla video-inchiesta si Sabina Guzzanti. Cioè si afferma il principio secondo il quale ii tribunali servono a confermare le sentenze costruite sulla base delle inchieste - diciamo così - giornalistiche di Sabina Guzzanti. E sempre sul “Fatto” si riporta il giudizio di Freccero, che considera - testuale - “ “scuse insulse” le argomentazioni di Mario Orfeo. Voi potete anche prendere questa storiella come una cosetta da riderci su. Io vi capisco. Però ho l’impressione che non sia così. Non mi preoccupa tanto la totale ignoranza dei principi della Costituzione e delle basi dello stato di diritto. Mi preoccupa il fatto che non stiamo parlando di “quattro amici al bar” ma di un nuovo cenacolo intellettuale che è il punto di forza del primo partito italiano e di quello che, probabilmente, nelle prossime settimane o nei prossimi mesi prenderà il potere. E che peraltro ha già annunciato cosa farà del potere, quando sarà in grado di mettere le mani sulla Rai (lo ha fatto con le dichiarazioni recenti del suo capo politico, cioè di Luigi Di Maio). Uno può anche riderci su, di fronte a queste cose, ma se il futuro prossimo ci riserva una Rai in mano a queste persone qui - con questi pensieri, con queste idee su cosa è l’informazione e cosa è il diritto - allora poi ci sarà poco da ridere, non vi sembra? L’idea che la Rai diventi un bivacco di manipoli, un po’ a me fa paura. Detenzione inumana: prescrizione lunga per l’indennizzo di Patrizia Maciocchi Il Dubbio, 9 maggio 2018 Il diritto all’indennizzo, di otto euro per ogni giorno passato in carcere in condizioni inumane e degradanti a causa del sovraffollamento, si prescrive in dieci anni e non in cinque, come sostenuto dal ministero della Giustizia in un ricorso in Cassazione. Le Sezioni unite, con la sentenza 11018, si sono espresse sul rimedio (articolo 35-ter del Dl 92/2014 convertito nella legge 117/2014) introdotto, nel nostro ordinamento dopo la condanna dell’Italia da parte della Cedu con la sentenza Torreggiani. Per il Supremo collegio la natura di mero indennizzo della misura e il radicarsi della responsabilità nella violazione di obblighi che gravano, per legge, sull’amministrazione penitenziaria nei confronti dei soggetti sottoposti a custodia carceraria “convergono nell’escludere l’applicabilità della regola specifica dettata per la prescrizione del diritto al risarcimento derivante da fatto illecito dall’articolo 2947, primo comma del Codice civile. Vale pertanto la regola generale della prescrizione decennale”. La Suprema corte chiarisce che i dieci anni decorrono, ai fini della prescrizione nel caso di chi sta scontando la pena, dal compimento di ciascuno giorno di detenzione in una situazione di sovraffollamento. Il diritto all’indennizzo vale, anche per chi ha saldato il suo conto con la giustizia prima dell’entrata in vigore del decreto 92/2014. In tal caso il countdown per la prescrizione non può essere fissato prima del 28 giugno 2014: data di entrata in vigore della norma. Per le Sezioni unite, il carattere di assoluta novità dell’istituto non esclude la sua retroattività. E anche se, di norma, il legislatore dispone per il futuro, alla nuova disciplina- affermano i giudici - è stato conferito un carattere retroattivo. Una conclusione alla quale i giudici arrivano considerando la ratio della legge finalizzata ad assicurare un ristoro dei danni anche per le situazioni pregresse. Ancora più chiaramente, sottolinea il Supremo collegio, la volontà di allargare l’applicazione al passato si evince dalla lettura della “della normativa intertemporale dettata dall’articolo 2 che, disciplinando la materia della decadenza, fa inequivocabilmente riferimento, sia nel primo che nel secondo comma, a detenzioni degradanti ed inumane già concluse (e quindi anteriori) al momento dell’entrata in vigore della legge”. Tenuità del fatto per l’automobilista che non genera il sinistro e non si ferma di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 9 maggio 2018 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 8 maggio 2018 n. 20096. In caso di incidente stradale non particolarmente grave in cui l’automobilista non si fermi a prestare soccorso non si applica sempre e comunque l’articolo 189, comma 6 del codice della strada, ovvero la norma che riconosce l’obbligo di fermarsi immediatamente e attivarsi per il soccorso. L’eccezione in particolare vale quando l’imputato non abbia cagionato personalmente l’incidente. Questo è quanto chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 20096/18. La vicenda - Nel caso concreto la Corte d’appello di ha confermato la pronuncia con la quale il Tribunale di Roma, all’esito del rito abbreviato, ha dichiarato l’automobilista responsabile del reato ex articolo 189 del Cds, e, concesse le attenuanti generiche e applicata la diminuente per il rito lo aveva condannato alla pena di tre mesi di reclusione, pena che era stata sospesa in base all’articolo 163 cp. In particolare all’imputato era stato contestato, nella qualità di conducente di auto, di non aver ottemperato all’obbligo di fermarsi dopo avere causato un incidente stradale che aveva coinvolto anche altro soggetto conducente del ciclomotore che aveva riportato lesioni personali guarite in 5 giorni. Il conducente dell’auto ha così proposto ricorso per Cassazione contro la richiamata sentenza con la richiesta di applicazione dell’articolo 131 bis cp. La Cassazione - a tal proposito - ha ricordato che secondo giurisprudenza di legittimità tale causa può essere dichiara dalla Cassazione quando i presupposti per la sua applicazione siano immediatamente rilevabili dagli atti e non siano quindi necessari ulteriori accertamenti in fatto. Le modalità del fatto - Ha ritenuto la Corte come nella fattispecie, si dovesse necessariamente arrivare alla pronuncia di non punibilità tenuto conto delle concrete modalità del fatto, caratterizzato dall’assenza di contatto tra l’autovettura condotta dall’imputato e il ciclomotore indicato nel capo di imputazione, nonché del mite trattamento sanzionatorio riservato dai giudici di merito all’automobilista che era risultato peraltro incensurato. Logica conseguenza annullamento della sentenza impugnata senza rinvio perché il reato non era punibile per la particolare tenuità del fatto. Alcoltest, la sospensione cautelare della patente diventa un caso di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 9 maggio 2018 Il prefetto può sospendere sempre la patente del conducente che risulti positivo all’alcoltest? O può farlo solo se il tasso di alcol è superiore a 1,5 grammi/litro? La normativa non è chiara e la giurisprudenza non è certa. L’articolo 186 del Codice della strada prevede sanzioni eterogenee - amministrative (sospensione patente) e penali (arresto e ammenda) - crescenti in base al tasso di alcol rilevato. La sanzione più temuta è la sospensione della patente, che sopra un tasso di 0,8 g/l è qualificata come accessoria a quella penale. Ma il processo arriva dopo mesi, se non anni, e con il lavoro di pubblica utilità il periodo di sospensione della licenza di guida si dimezza. Ma in alcuni casi il Prefetto può disporre la sospensione in via cautelare, nell’immediatezza del alcoltest. Così l’interessato rimane a lungo a piedi. L’alcoltest tardivo non vale, motociclista ubriaco e assolto - L’articolo 186 prevede che la sospensione possa essere applicata solo dal giudice penale dopo l’accertamento del reato. Ma nella prassi, quando il conducente risulta positivo al test, gli viene immediatamente ritirata la patente, poi trasmessa al Prefetto, che nei giorni successivi dispone la sospensione applicando gli scaglioni previsti dall’articolo 186. Questa interpretazione si fonda sull’articolo 223 del Codice della strada, che prevede la possibilità di ritiro della patente immediato da parte delle forze dell’ordine in presenza di un’ipotesi di reato. Alcol-test con avviso anche in ospedale - Ma questa lettura sembra in contrasto con il comma 9 dell’articolo 186, secondo il quale il Prefetto può disporre cautelarmente la sospensione solo se il conducente ha un tasso superiore a 1,5 g/l. Essendo una misura cautelare, deve cessare dopo la visita medica prevista dall’articolo 119 del Codice, se l’interessato viene giudicato idoneo. La Cassazione, con la sentenza n. 21447/2010 della Seconda sezione civile, ha avallato tale interpretazione perché, in virtù del principio di specialità, l’articolo 186, comma 9, configurerebbe una deroga ai casi di sospensione previsti dall’articolo 223. Alcuni giudici di merito (a cominciare dal Tribunale di Milano) hanno seguito questa impostazione. Ma con la recente ordinanza n. 18342/17, la Sesta sezione civile della Cassazione ha cambiato rotta: non vi sarebbe rapporto di specialità tra le due norme. Un’interpretazione che legittima le prassi oggi in uso presso tutte le Prefetture, anche dove i giudici di pace accolgono sistematicamente o quasi i ricorsi contro le sospensioni. Viste la delicatezza della materia, e la non felice formulazione delle norme, è auspicabile un intervento delle Sezioni unite che eviti disparità di trattamento. La riserva di codice spinge all’angolo la responsabilità 231 di Daniele Piva Il Sole 24 Ore, 9 maggio 2018 L’entrata in vigore, lo scorso 6 aprile, del Dlgs 21/2018 sulla cosiddetta “riserva di codice” apre un problema di coordinamento con le norme sulla responsabilità degli enti (Dlgs 231/2001). La riserva di codice trasporta nel codice penale diverse fattispecie già previste nella legislazione complementare, con un invito per il legislatore penale futuro, essendo stabilita a livello ordinario e non costituzionale. Lo spostamento però, pur non mutando il contenuto delle incriminazioni, da ritenersi pertanto in rapporto di piena continuità normativa, rischia di produrre effetti indesiderati in tema di responsabilità amministrativa da reato degli enti collettivi. In particolare, potrebbe non risultare più applicabile con riguardo ai delitti-presupposto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti e di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa in quanto collocati ora, rispettivamente, tra i delitti ambientali e contro l’uguaglianza previsti nel codice penale (rispettivamente articoli 452-quaterdecies e 604-bis del codice penale) senza un necessario coordinamento con i richiami agli abrogati articoli 260 Dlgs 152/2006 e 3, comma 3-bis della legge 654/1975, tuttora effettuati dagli articoli 25-undecies, comma 2, lettera f) e comma 8 e 25-terdecies comma 1 Dlgs 231/2001. Né, tantomeno, sarebbe possibile interpretare tali riferimenti come rinvii mobili ad altra disposizione normativa, indipendentemente da qualsiasi considerazione relativa al rapporto di continuità tra le fattispecie incriminatrici in successione diacronica, in quanto ciò contrasterebbe palesemente con il principio di legalità di allo stesso articolo 2 del Dlgs 231/2001. Stupisce, allora, che non ci si sia avveduti di questi effetti, specie in relazione ai delitti di xenofobia e razzismo rispetto ai quali la responsabilità amministrativa dell’ente era stata introdotta con la legge 167/2017 a partire dal 12 dicembre scorso. Senza contare che, oltretutto, si tratta di una storia già vista dal momento che, in un caso simile, la Corte di cassazione già era intervenuta a Sezioni unite (34476/2011) dichiarando, per i medesimi motivi, inapplicabile la responsabilità degli enti alla fattispecie di falsità nelle relazioni delle società di revisione di cui all’abrogato articolo 2624 del codice civile che, a seguito degli interventi legislativi della legge 262/2005 e al Dlgs 39/2010, era stato dapprima collocato nell’articolo 174-bis del Tuf e poi confluito nell’articolo 27 Dlgs 39/2010 senza alcuna modifica dell’articolo 25-ter Dlgs 231/2001. Eppure, in quell’occasione si era diversamente negato ogni pregio al richiamo al tema della successione di norme integratrici della legge penale o alla necessità di un’interpretazione sostanziale tesa ad evitare effetti paradossali, sulla base dei quali non è certo possibile fondare la correttezza dell’esegesi giuridica. Napoli: carcere di Poggioreale, detenuto di 21 anni in coma di Roberto Russo Corriere del Mezzogiorno, 9 maggio 2018 La famiglia: “Stava male da giorni”. Antonio Michele Elia ricoverato in Rianimazione per una sospetta infezione cerebrale. Da venti giorni avvertiva forti dolori a un occhio e alla testa e nel carcere di Poggioreale gli somministravano antibiotici e antidolorifici. Ma lui stava sempre peggio e aveva iniziato anche lo sciopero della fame chiedendo che gli venisse fatta una Tac con urgenza. Ma la situazione è precipitata e Antonio Michele Elia, un detenuto appena 21enne, si trova ricoverato in coma nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale Cto di Napoli, dove gli hanno diagnosticato un’infezione cerebrale. “Perché non gli hanno fatto prima accertamenti più approfonditi?” si chiedono i familiari di Antonio. E la sua fidanzata sottolinea: “Ogni volta che lo andavo a trovare al colloquio settimanale in carcere lo vedevo soffrire, prima a un occhio e poi alla testa. Antonio mi diceva che stava male e le siringhe di Toradol non avevano effetto”. I familiari di Antonio Michele Elia sono intenzionati a presentare un esposto sulla vicenda. I congiunti del giovane hanno pure esibito la lettera di un suo compagno di cella nella quale quest’ultimo racconta l’accaduto alla sua fidanzata. “Amo’, non sta bene, - è scritto - da venti giorni ha un dolore forte, forte in fronte. La notte di venerdì strillava solo, credimi, io gli parlavo ma lui non mi capiva. Alla fine sabato l’ho preso in braccio e ho chiamato le guardie e abbiamo insistito perché lo portassero in ospedale”. Ora la vicenda verrà sottoposta all’attenzione del garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello. Intanto Pietro Ioia, responsabile dell’associazione “Ex detenuti organizzati” e autore del libro “La cella zero”, denuncia: “Le condizioni di assistenza sanitaria a Poggioreale sono a dir poco precarie. Questo giovanissimo detenuto rischia la vita, mi chiedo se non fosse stato necessario sottoporlo ad analisi approfondite visto che denunciava sintomi importanti da molti giorni”. E sempre proveniente da Poggioreale, pochi giorni fa, un altro detenuto è stato ricoverato all’ospedale San Paolo di Fuorigrotta: presentava la rottura del setto nasale, ecchimosi su tutto il corpo. Anche su questo caso i familiari hanno annunciato un esposto all’autorità giudiziaria. Napoli: la direzione di Poggioreale “nessun pestaggio, Roberto Leva stava già male” Il Roma, 9 maggio 2018 La direzione della Casa circondariale di Poggioreale “nel doveroso e profondo rispetto delle indagini giudiziarie in atto, intende precisare - si legge in una nota - che i ricoveri subiti dal detenuto Roberto Leva sono stati determinati dalle gravi patologie di cui egli è risultato affetto e per le quali gli è stato concesso il differimento della pena”. Sulla vicenda del detenuto, che era stato ricoverato al Cardarelli per una frattura al setto nasale e dimesso dopo un giorno per essere poi trasferito in gravi condizioni in un altro ospedale, era stato presentato nei giorni scorsi un esposto in Procura per sollecitare accertamenti su eventuali negligenze dei medici e sulla causa delle lesioni. “Le notizie che i ricoveri siano stati invece causati da abusi in suo danno - scrive la direzione del carcere - sono smentite dalle attività sin qui compiute dagli operatori medici e di polizia dell’Istituto”. Secondo la direzione, la diffusione di notizie prive di adeguato riscontro “non rende un buon servizio alla tutela dei diritti dei detenuti, gettando ingiustificato discredito sull’operato dell’amministrazione penitenziaria e della polizia penitenziaria e minando il rapporto di fiducia tra i cittadini e le istituzioni”. L’istituto di Napoli “è in prima linea nella difesa dei diritti costituzionali dei cittadini detenuti e rappresenta un luogo di recupero e riaffermazione del primato della legalità, sforzandosi con le risorse di personale ed economiche a disposizione e con tutte le difficoltà strutturali ben note, di interpretare un modello detentivo volto alla rieducazione dei condannati”. Roma: quei detenuti-giardinieri in panchina di Enrico Bellavia La Repubblica, 9 maggio 2018 Il mantra dei soldi che mancano dei bandi bloccati, delle pastoie burocratiche di fronte allo stato pietoso di parchi e aiuole ormai ridotti a giungla, non regge più. Se è vero, come ha documentato Repubblica, che proprio a Roma è partita già la sperimentazione dell’impiego di 19 detenuti nella pulizia del verde, perché non si riesce ad incrementarne il numero? L’amministrazione comunale di Virginia Raggi ha detto di volere archiviare la nefasta esperienza di Roma Capitale e del giro di coop di Salvatore Buzzi che impiegava gli ex detenuti facendosi pagare profumatamente, alimentando un giro di prebende, ruberie e tangenti. Con molto meno, i detenuti in fase di espiazione della pena sembrano ben contenti di aderire ai progetti proposti da una illuminata gestione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il lavoro che manca in carcere può essere quello che serve alla collettività fuori. Il protocollo che Dap e Campidoglio hanno sottoscritto avviando la pulizia a Villa Borghese e Colle Oppio è una buona base, che potrebbe estendersi anche alle buche. Napoli: reddito di cittadinanza, duello di parole a Poggioreale di Maria Cristina Fraddosio Il Fatto Quotidiano, 9 maggio 2018 Quattro lezioni per prepararsi ad argomentare senza cedere al vilipendio e calibrando le parole in accordo con la voce, la postura e lo sguardo. Poi la “battaglia” contro gli universitari, tra tesi e argomentazioni opposte. Settecento ottanta euro al mese per due anni. Solidarietà o utopia? Un’opportunità o soltanto l’ennesima chimera? Alla domanda hanno provato a rispondere studenti universitari e detenuti, divisi per squadre, venerdì mattina a Napoli. È andato in scena sul pulpito della cappella, nel carcere di Poggioreale, un duello di parole. “Chi siamo noi per negare la dignità a chi è più povero?”, ha chiesto uno degli studenti. E prontamente dalle file dei detenuti, riferendosi alle casse dello Stato, hanno ribattuto: “Una volta finita la benzina come si può distribuirla senza produrla?”. Frasi sottili, parole ad effetto, un botta e risposta durato quaranta minuti in cui nulla è stato lasciato al caso. È il segreto della gara di retorica organizzata dall’associazione PerLaRe di Flavia Trupia, giunta alla terza edizione con il sostegno di Toyota Motor Italia. Quattro lezioni per prepararsi allo scontro, per imparare ad argomentare senza cedere al vilipendio e calibrando le parole in accordo con la voce, la postura e lo sguardo. Per approfondire l’argomento, i partecipanti hanno letto articoli e vagliato una per una le tesi pro e contro, arricchendole con esempi, slogan e storie personali. E se per Antonia, ventitré anni, studentessa di Scienze dei servizi sociali, “stendere una mano verso chi vive al di sotto della soglia di povertà è doveroso”, per Gianluca, quarant’anni, panettiere, non si tratta che dell’ennesima farsa “nell’Italia dei furbetti del cartellino”, dove si millantano “soldi per tutti”, non si sa bene ancora presi da dove. C’è stato pure chi ha provato a investirli i 780 euro del reddito di cittadinanza, ipotizzando corsi di formazione partendo dall’approfondimento della lingua inglese, al giorno d’oggi indispensabile. E chi, invece, ha sottolineato come l’importo sia effimero per il sostentamento di una famiglia. Chi ha ricordato quanti hanno ceduto alla frustrazione per aver perduto il lavoro, decidendo di suicidarsi. “A loro, forse, il reddito di cittadinanza avrebbe garantito un momentaneo sollievo”. Un “salvagente”, lo hanno definito. “Si salvano le banche” - ha commentato Paolo, al terzo anno di ingegneria - “perché non si dovrebbero salvare le persone?”. Vittorio, tra i pochi quarantenni presenti, da tempo in carcere, il sogno di diventare cuoco e una famiglia alle spalle, la pensa diversamente: “Non abbiamo bisogno di un contentino, ma di un’occupazione senza scadenze”. Nello, più piccolo d’età, un lavoro prima di finire a Poggioreale lo aveva. È per questo che ha le idee chiare: “Quei soldi non basterebbero per vivere. Si finirebbe per alimentare il lavoro in nero”. La disamina dei dettagli economici l’hanno affidata a Gennaro: “Il reddito di cittadinanza neanche in Finlandia ha funzionato”. “La manovra pensata per l’Italia ammonta a 18,5 miliardi di euro” - ha ricordato. Secondo le stime, “con il reddito di cittadinanza se ne aggiungono 30”. Per questo è parsa lecita la sua domanda: “A meno che non abbiano deciso di delinquere come noi, dove pensano di prenderli tutti quei soldi?”. Anche gli studenti, una volta ribaltate le posizioni, hanno espresso scetticismo. “Una bella idea irrealizzabile, già così questo è il paese dell’illegalità figuriamoci se viene approvato”, ha detto Paolo. Flavia punta dritto sui controlli nella gestione. Al momento a suo avviso non sono stati contemplati e perché, ha chiesto ai suoi avversari, “non c’è stata finora una riforma efficace che ridistribuisca le risorse statali?”. Se durante la gara è occorsa maestria da parte di entrambe le squadre per persuadere i giurati passando rapidamente da una posizione favorevole a una contraria, una volta conclusi i round il parere dei partecipanti - dismesso il ruolo di retori - è stato unanime: “La povertà non si combatte con l’elemosina, ma con il lavoro”. Sul podio sono saliti i detenuti che, secondo la giuria presieduta dalla linguista Valeria Della Valle, si sono distinti per capacità di sintesi e perspicacia delle conclusioni. Un fragoroso applauso è partito dagli spettatori di Poggioreale seduti nel pubblico, che per una volta hanno trascorso una mattinata diversa. A guardarli tutti più o meno coetanei, giovanissimi, in quel furore di vittoria e di socialità un attimo prima di rientrare in cella, mentre si scambiavano compiaciuti i saluti con gli avversari. Prima di tornare ciascuno alla propria vita, ciascuno ha espresso la propria idea. Chi con linguaggio colorito da vernacolo, chi con dialettica impeccabile: “Vogliamo tornare a casa con le mani sporche e sudate di lavoro. Nient’altro”. Roma: un film dietro le sbarre, la catarsi di Rebibbia di Candida Morvillo Corriere della Sera - Buone Notizie, 9 maggio 2018 L’attrice Ilaria Spada lavora con una decina di detenute su una sceneggiatura ambientata in carcere. È il progetto “Tra le Righe” che nasce da una costola del festival del cinema “Altri Sguardi”. Con lei la documentarista e giurata del premio Solinas, Monica Ricci, e la producer Margherita Murolo. Tutti i giovedì pomeriggio, Ilaria Spada entra nel carcere di Rebibbia e lavora con una decina di detenute sul soggetto di un film, in buona parte ambientato in carcere. Da gennaio fino a Pasqua, hanno affrontato il tema della rabbia, poi quello del perdono, quindi si sono applicate alla sceneggiatura vera e propria. “Le detenute scrivono in settimana, poi insieme leggiamo e ci confrontiamo, ed è tutto un “è successo anche a me”, sono pianti, momenti potenti”, racconta l’attrice. Con lei, ci sono la documentarista e giurata del Premio Solinas Monica Ricci e Margherita Murolo, producer alla Palomar. Il progetto si chiama Tra Le Righe e nasce da una costola di Altri Sguardi: festival di cinema, che si è tenuto a settembre e si ripeterà in autunno, con i detenuti della sezione maschile a far da giurati e con proiezioni seguite dal dibattito con regista e attori. Iniziativa, anche questa, promossa da Ilaria, ma con Clementina Montezemolo, Raffaella Mangini, che cura le relazioni esterne di La7, Laura Delli Colli, che è la presidente dei Giornalisti Cinematografici Italiani, e col sostegno del ministero della Cultura. Confessa Ilaria: “All’inizio, pensavo al percorso di presa di coscienza delle detenute, alla possibilità di guardare la propria storia con gli strumenti della sceneggiatura, ma non avevo immaginato che sarebbero state loro a regalare moltissimo a noi. Ci scambiamo abbracci che, fuori, non scambio con nessuno, se non forse con mia madre e la mia amica più cara. E mi chiedo: perché mi sto sciogliendo? Dentro quegli abbracci, c’è qualcosa ancora misterioso. Usciamo ripetendo “grazie, ma grazie, non so se riusciremo mai a restituirvi quello che ci date”“. Momenti di commozione ci sono stati anche nella sezione maschile: “Ho visto uomini grossi e tatuati piangere come bambini. Guardando Tutto quello che vuoi di Francesco Bruni, davanti alla scena in cui un ragazzino di strada riconosce il poeta ottantenne come suo mentore, in prima fila, un omaccione piangeva. Il suo era l’abbandono al bisogno di una figura paterna. Quella sera, con lui, abbiamo pianto tutti”. Ogni volta, racconta Ilaria, è un’avventura umana: “Una ragazza, che è stata escort, ha scritto un racconto spiegando che ha iniziato quel mestiere non per soldi, ma per prendere potere sugli uomini, per la rabbia che provava nel sentirsi esposta a un certo sguardo di mascolinità. Alla fine ha capito che, facendo la escort, si stava comunque sottomettendo a quel potere. Ne è nata una discussione sul maschile, su quanto le donne vivano la sensazione di dover compiacere o controllare l’uomo”. Ed è in un inatteso gioco di specchi, che capita che Ilaria, uscendo, veda lei le cose con “altri sguardi”: “Donne che hanno compiuto omicidi ti raccontano come è successo e hai la sensazione che siano simili a noi. Esci con la paura che tutti possiamo avere un momento in cui è possibile fare qualunque cosa. Una ragazza mi ha detto: noi siamo dentro, siamo quelle che hanno sbagliato, ma fuori chi c’è?”. Capita, a volte che, dentro, si trovi più dignità che fuori: “C’è una cinquantenne condannata a trent’anni per omicidio. Forse non uscirà mai, ma è sempre truccata, vestita bene. Celebra ogni giorno con dignità e gratitudine per la vita. Dice: io, qui, ho la possibilità di diventare la donna che fuori non potrei essere”. Poi, un giorno, uscendo da Rebibbia, Ilaria ha capito cosa le succede nelle stanze del carcere: “Dentro, c’è tempo e non ci sono i telefonini, l’attenzione è profonda, ogni cosa diventa importantissima e io esco e penso che non è possibile che la vita degli altri non ci riguardi. Qui fuori, uno ti sta morendo accanto e non lo vedi, sta morendo dentro e non te ne accorgi”. Per andare avanti, serviranno sponsor e c’è il sogno “di andare nelle carceri del Sud, dove non c’è niente”. E la speranza che la sceneggiatura diventi un film. Magari diretto da Ilaria, magari da Kim Rossi Stuart, che è il suo compagno e il padre di suo figlio. Ma è presto per pensarci: “Ho imparato a stare sullo scalino e aspettare che s’illumini lo scalino successivo”. Brescia: progetto Verziano, sette anni dentro di Valerio Gardoni popolis.it, 9 maggio 2018 A danzare sul palcoscenico ci sono 47 persone: 17 liberi cittadini e 30 detenuti e detenute, è parte del progetto della Compagnia Lyria iniziato 2011 presso la Casa di Reclusione Verziano di Brescia. La Compagnia Lyria promuove la cultura della danza e dell’arte contemporanea attraverso la creazione di spettacoli con diversi linguaggi espressivi e la realizzazione di progetti di integrazione. L’iniziativa prevede la realizzazione di un’articolata azione di sensibilizzazione sul tema dell’integrazione tra realtà carceraria e società civile, utilizzando come strumento principale lo stimolo culturale con modalità inclusive, che pongano al centro il valore della cittadinanza, la capacita di intessere relazioni sociali, civili e comunitarie. La finalità è creare un ponte per costruire relazioni tra ‘dentro’ e ‘fuori’ il carcere attraverso l’esperienza personale e diretta. Le attività di laboratorio e di creazione della performance finale sono condotte da Giulia Gussago, danzatrice, coreografa e insegnante di Metodo Feldenkrais, innovativa ed efficace metodologia di approccio allo studio di sé attraverso il movimento, il cui obiettivo è migliorare i processi psicomotori dei praticanti. Realizzato in collaborazione con Ministero di Giustizia rappresenta una riconosciuta realtà di eccellenza del sistema penitenziario lombardo, in quanto sperimenta innovative linee progettuali di intervento a fini rieducativi, con grande attenzione anche alle relazioni tra istituzione carceraria e società civile, con cui, nel corso degli anni, si è creato un intenso scambio che ha condotto all’affinamento della proposta culturale e sociale che costituisce l’anima del progetto. È inoltre rinnovata la collaborazione con il Centro Teatrale Bresciano, in quanto principale istituzione culturale cittadina, grazie alla sua storia quarantennale e alla sua rilevanza di carattere nazionale. Il coinvolgimento sia della sezione femminile che di quella maschile, rappresenta un’inconsueta opportunità di incontro tra i due gruppi all’interno del carcere ed è quindi un’importante occasione per condividere un’esperienza utile alla rieducazione alle relazioni sociali. Gli incontri offrono a tutti i richiedenti la possibilità di partecipare ad un percorso per vivere con una nuova consapevolezza l’ambiente carcerario e i suoi spazi, consentendo a persone con differenti vissuti e provenienze di incontrarsi con modalità nuove nell’azione creativa. Il percorso si sviluppa in tre fasi: la prima è rappresentata da un ciclo di incontri introduttivi alla pratica artistica, svoltasi da ottobre a dicembre 2017; la seconda fase, attualmente in corso, è volta alla creazione di una performance finale; la terza ed ultima fase si svolge nel mese di maggio con due presentazioni in città presso il Foyer del Teatro Sociale e, nel mese di giugno, con due appuntamenti di presentazione degli esiti dei laboratori, il primo rivolto esclusivamente alla popolazione carceraria e il secondo all’intera cittadinanza. Gli eventi conclusivi del Progetto Verziano 7ª edizione: Azioni performative, incontro e mostra fotografica “Sette anni dentro”, sabato 12 maggio alle ore 15, presso il Foyer del Teatro Sociale in via Felice Cavallotti 20, Brescia. Ingresso libero. Danza Giulia Gussago, coordina Angelo Piovanelli, responsabile organizzativo del progetto che racconta: “Sette anni di attività di Compagnia Lyria presso il carcere di Verziano. Ne ripercorriamo l’evoluzione e i momenti salienti, focalizzando i riscontri positivi registrati dai detenuti della Casa di Reclusione e dai liberi cittadini che hanno preso parte alle varie edizioni del progetto. In programma azioni performative di Giulia Gussago accompagnate dalle musiche originali create da Alessandro Siani per i precedenti spettacoli del Progetto Verziano e dalla lettura di testimonianze di detenuti e cittadini da parte degli attori Beatrice Faedi e Antonio Palazzo. Nell’occasione viene inaugurata una mostra antologica del fotografo Daniele Gussago, che ha documentato tutte le edizioni del progetto. La mostra sarà visibile fino al 20 maggio negli orari di apertura della biglietteria del Teatro Sociale (da martedì a sabato ore 16-19 e la domenica ore 15.30-18). L’incontro si conclude con le riflessioni di persone che, con il loro contributo e degli Enti che rappresentano, hanno reso possibile la realizzazione del Progetto Verziano in questi anni.”Lunedì 14 maggio alle ore 18:30 presso il foyer del Teatro Sociale in via Felice Cavallotti 20, Brescia. Incontro e presentazione del libro di Mara Della Pergola “Lo sguardo in movimento. Arte, trasformazione e metodo Feldenkrais”. Ingresso libero. Durante l’incontro, oltre alla comunicazione di questa innovativa esperienza in carcere, Mara Della Pergola, fondatrice dell’Istituto di Formazione Feldenkrais di Milano e trainer di fama internazionale, presenta il suo libro Lo sguardo in movimento. Arte, trasformazione e Metodo Feldenkrais (Casa Editrice Astrolabio-Ubaldini Editore), in dialogo con Giulia Gussago. “Quando un’opera d’arte ci colpisce e rapisce il nostro sguardo, si innesca un duplice movimento: osservando, entriamo nell’opera d’arte, mentre l’opera d’arte entra in noi trasformando le nostre sensazioni e modificando la nostra corporeità. Il dialogo che si genera tra chi osserva e l’opera è di fatto un dialogo con se stessi, un percorso di conoscenza e consapevolezza di sé. Utilizzando principalmente gli strumenti della sua lunga esperienza di pratica e insegnamento del metodo Feldenkrais, l’autrice del libro propone un percorso estremamente corporeo di esplorazione artistica, in cui l’esperienza somatica assume un ruolo guida”. Performance finale: “Spazi aperti” lunedì 18 giugno alle ore 19, ingresso del pubblico ore 18.30, presso la Casa di Reclusione Verziano Brescia in via Flero 157. Ingresso libero fino a esaurimento dei posti disponibili, previo accreditamento. Per effettuare la richiesta di accreditamento è necessario compilare entro dal 14 al 26 maggio l’apposito form sul sito: www.compagnialyria.it Spazi aperti è il titolo dell’evento conclusivo della settima edizione del Progetto Verziano, un momento di festa e di condivisione con la cittadinanza del percorso svolto durante i laboratori condotti da Giulia Gussago e Antonio Caporilli. Il gruppo di lavoro, costituito da liberi cittadini e detenuti, si è incontrato una volta al mese nel corso di fine settimana intensivi a partire da ottobre 2017 presso la palestra di Verziano. L’anteprima della performance Spazi aperti viene presentata domenica 17 giugno presso la Casa di Reclusione Verziano Brescia ed è rivolta esclusivamente alla popolazione attualmente residente presso il carcere. Napoli: detenuti e studenti in campo contro bullismo e camorra La Repubblica, 9 maggio 2018 A Secondigliano, seconda edizione del torneo “Giochiamo il futuro calciando il passato”, ideato da Franca Lovisetto e Piermassimo Caiazzo. “Cosa provate a stare in carcere?”, “Qualcuno di voi è mai stato un bullo?”. “Cosa cambieresti del sistema carcerario?”. Sono solo alcune delle domande che gli studenti dell’istituto comprensivo Giovanni Pascoli II-Marta Russo di Secondigliano, guidato dalla dirigente Rosalba Matrone, hanno rivolto agli 8 detenuti con articolo 21 (ossia ammessi a lavori all’esterno del carcere), che si sono sfidati sul campo “Andrea Capasso” di via Limitone d’Arzano per la seconda edizione del torneo “Giochiamo il futuro calciando il passato”, ideato da Franca Lovisetto della E-Vent e Piermassimo Caiazzo, promosso dall’associazione Occt, in collaborazione con il Centro penitenziario di Secondigliano, la parrocchia dei Sacri Cuori e col patrocinio del presidente della settima Municipalità Maurizio Moschetti. Prima del quadrangolare che ha visto disputare le gare tra squadre di detenuti, polizia penitenziaria e associazioni “Vivi Secondigliano” e “Occt”, i detenuti hanno risposte a domande e curiosità dei ragazzi sui temi della criminalità e del bullismo. “La scuola e la famiglia sono il vostro futuro e l’unica strada corretta per la vostra vita - hanno detto i reclusi - Oggi ciò che ci dà speranza e gioia sono i nostri figli e le nostre mogli, perché in carcere si è molto lontani dalla realtà e dagli affetti familiari. Ecco perché voi non dovete seguire il nostro esempio”. Felici di gareggiare sul campo di calcio i carcerati hanno ribadito l’importanza di una seconda opportunità per chi ha sbagliato: “Quello di oggi - affermano - è stato il primo approccio di una futura libertà, che ci permetterà di tornare alle nostre famiglie”. E sul tema del bullismo aggiungono: “Andate a scuola, rispettate i vostri insegnanti e i vostri compagni più deboli e, soprattutto, seguite sempre i consigli dei vostri genitori sulle amicizie sbagliate che dovete evitare”. Vincitori del torneo i ragazzi di “Vivi Secondigliano”, allenati dal mister Luigi Fontanella, acconciatore maschile di professione e campione mondiale di “Taglio, acconciatura e colore” a Seul nel 2016: “Sono nato e cresciuto nel centro storico di Secondigliano - afferma - conservo con fierezza la medaglia d’oro vinta due anni fa per il mio lavoro. Questa è la dimostrazione che in questi quartieri non c’è solo criminalità, ma anche eccellenze”. Scopo primario dell’evento - che è stato introdotto dalla messa celebrata da don Augusto Piccoli, cappellano della polizia di Stato di Alessandria e intervallata dalle esibizioni del campione del mondo di aeromodellismo acrobatico Luca Pescante - è stato quello di favorire iniziative con gli studenti delle scuole del quartiere (quarte e quinte delle elementari e medie inferiori) per prevenire e contrastare il fenomeno del bullismo e delle devianze minorili. Il progetto si è avvalso infatti della mediazione dello sport come elemento di raccordo tra i minori del territorio, spesso preda di falsi miti, e i detenuti che hanno raccontato le loro esperienze per insegnare ai ragazzi che la vita, come una partita di calcio, va giocata con impegno e serietà nel rispetto delle regole e dell’altro. Storie viste come un “indicatore sociale” che descrive un pericolo da evitare e in cui si potrebbe incorrere pagando gravi conseguenze. “La speranza oltre le sbarre”, di Maurizio Gronchi e Angela Trentini gruppoeditorialesanpaolo.it, 9 maggio 2018 Il libro è frutto di un viaggio-inchiesta nel super carcere di Sulmona (Aq), noto come il “carcere dei suicidi”, dove scontano l’ergastolo in regime di 41 bis i più feroci criminali del nostro Paese. Con un registratore in mano, la giornalista Angela Trentini ha incontrato e raccolto le testimonianze di alcuni detenuti etichettati dalle cronache giudiziarie come “mostri” e condannati per le dolorose stragi che hanno cambiato la storia dell’Italia. Fra di loro, i due killer di Rosario Livatino, il “giudice ragazzino”, Gaetano Puzzangaro e Domenico Pace, il quale, in una lettera olografa al Santo Padre, pubblicata qui per la prima volta, racconta se stesso e soprattutto chiede di poter testimoniare al processo di beatificazione di Livatino. Sconvolgente anche la testimonianza di Domenico Ganci, figlio del boss Raffaele, fedelissimo di Totò Riina e corresponsabile degli omicidi dei giudici Falcone e Borsellino. Spazio viene dato anche ai familiari delle vittime, in modo particolare a Manfredi Borsellino, Maria Falcone e Nando dalla Chiesa, il quale rivela tutta la sua difficoltà, ancora oggi, a concedere il perdono agli assassini del suo papà. Il libro si conclude con alcuni significativi interventi di Papa Francesco, raccolti da Maurizio Gronchi. Maurizio Gronchi, Angela Trentini, La speranza oltre le sbarre. Viaggio in un carcere di massima sicurezza, Edizioni San Paolo 2018, pp. 180, euro 16,00. Maurizio Gronchi presbitero della diocesi di Pisa, è professore ordinario di cristologia alla Pontificia Università Urbaniana di Roma, consultore della Congregazione per la dottrina della fede e della Segreteria generale del Sinodo dei vescovi. Si prende cura pastorale di persone con disabilità fisica, psichica e socialmente svantaggiate. Con Edizioni San Paolo ha pubblicato: Amoris laetitia. Una lettura dell’Esortazione apostolica post-sinodale sull’amore della famiglia (2016) e, insieme a Laura Capantini, La vulnerabilità (2018). Angela Trentini giornalista professionista dal 1994, caposervizio e conduttrice nella redazione della Rai dell’Abruzzo, cura servizi e reportage dedicati al sociale e alla cronaca sia per la TGR che per le testate nazionali, tra le quali TG2 Dossier Storie. All’estero, attraverso la Rete Italia, propone alla comunità emigrata servizi dedicati alla cultura popolare e alle espressioni della “Cristianità”. È presidente regionale dell’Unione Cattolica Stampa Italiana. Esperta nei temi della marginalità, in collaborazione con il Ministero della Giustizia, cura video didattici sul mondo carcerario. “Diritto penale strumentalizzato dall’evoluzione populista della politica” di Martina Dei Cas Corriere del Trentino, 9 maggio 2018 Il libro di Bonini: “Un errore assegnargli una funzione educativa, le norme ci sono”. “Più la politica si fa populista, più il diritto penale viene strumentalizzato per blandire le paure dei cittadini” a sostenerlo è Sergio Bonini, docente di diritto penale alla facoltà di Giurisprudenza di Trento e autore della monografia “La funzione simbolica nel diritto penale del bene giuridico”. Professor Bonini, che cosa s’intende con “diritto penale simbolico”? “Il diritto penale ha un’essenziale funzione di protezione di beni giuridici concreti, quali la vita, l’integrità fisica, la libertà sessuale e il patrimonio. Quando a questa il legislatore o il giudice aggiungono una funzione educativa, volta ad orientare i comportamenti delle persone o a promuovere una determinata scala di valori, il diritto penale diventa simbolico”. Potrebbe fare un esempio? “Il reato di omicidio stradale, introdotto nel nostro ordinamento nel 2016. Sono il primo a dire che è giusto punire con severità chi, guidando spericolatamente, uccide un pedone, ma anche che per farlo non servivano modifiche legislative, perché il nostro codice penale comprendeva già tutti gli strumenti idonei a sanzionare condotte di questo tipo. Mi spiego meglio: i reati vanno puniti, ma il diritto penale non può arrogarsi funzioni, come quella educativa, che invece spettano ad altre formazioni sociali, quali la famiglia, la scuola, l’università, la chiesa e l’associazionismo. L’inasprimento delle pene non deve dunque trasformarsi in un antidoto per sedare le paure della collettività, quando le norme giuridiche esistenti sono già sufficienti”. Una tesi che sembra auspicare un ritorno al diritto penale come extrema ratio, da mettere in campo solo quando tutti gli altri espedienti, inclusi il diritto civile e quello amministrativo, hanno fallito… “Esatto. Il diritto penale incide sulla libertà degli individui, per questo va usato con intelligenza per tutelare i beni primari delle persone e non per assecondare le istanze emotive della gente”. A proposito di emozioni: quanto la sovraesposizione mediatica dei casi di cronaca nera influenza gli attori del diritto? “Per prima cosa credo sia importante distinguere tra i mass media seri, come il David Letterman Show, capaci di denunciare le falle del sistema e di informare in maniera rispettosa della verità, e i new media. Penso per esempio ai social network e a quelle trasmissioni tv che spettacolarizzano dolore ed efferatezze con l’obiettivo di gonfiare gli ascolti. Qui, infatti, la necessità di identificare subito un colpevole da dare in pasto all’opinione pubblica si rivela incompatibile con la giustizia penale che per la sua stessa natura richiede invece accuratezza e pazienza”. Il suo primo articolo sul diritto penale simbolico risale al 2003. Oggi, quindici anni dopo, pubblica un libro interamente dedicato alla materia: ma cosa è cambiato nel frattempo in Italia e in Europa? “Diciamo che, se da una parte appare complessivamente diminuito il numero di reati iscritti negli ordinamenti penali dei Paesi dell’Unione, dall’altra si è accentuata la tendenza al simbolismo e sono aumentati quei legislatori che, come veri “imprenditori morali”, costruiscono leggi dettate da ciò che il popolo vuole sentirsi dire, a discapito di quello di quello di cui invece avrebbe realmente bisogno. Le porto un esempio direttamente dalla Spagna, dove, per ridurre gli incidenti stradali provocati dalle gare automobilistiche clandestine nei centri urbani, si è introdotto il reato di “scommesse su gara pirata”. Non sarebbe stato forse più profittevole concentrare gli sforzi politici su una capillare campagna di sensibilizzazione rivolta a piloti e scommettitori per far chiudere il business delle gare clandestine, prevenendo così sia le scommesse che gli incidenti?”. Informazione. Senza verità non c’è democrazia La Repubblica, 9 maggio 2018 Come combattere le fake news? La conferenza dei giornali Lena. A Madrid l’evento organizzato dall’alleanza editoriale di Repubblica con El Pais, Le Figaro, Die Welt, Tribune de Geneve, Tages Anzeiger, Le Soir e Gazeta Wyborcza. Massimo Russo, direttore generale di Gedi digital: “Per vincere dobbiamo essere programmatici e specifici”. Come combattere le fake news e le bufale online? Che ruolo hanno oggi i giornali? Quali sono le soluzioni in Europa? E come combattere le fake news senza censurare il libero pensiero? La diretta della “Fake News conference” di Madrid organizzata da Lena, l’alleanza editoriale cui Repubblica fa parte insieme a El Pais, Le Figaro, Die Welt, Tribune de Geneve, Tages Anzeiger, Le Soir e Gazeta Wyborcza. Partecipano direttori e responsabili digitali dei giornali Lena, per Repubblica Massimo Russo, direttore generale di Gedi digital. Il direttore del Pais Antonio Caño ha dichiarato durante il suo intervento introduttivo: “Se non difendiamo la verità, perdiamo la democrazia. Questo è il ruolo dei giornali oggi”. Orit Kopel, confondatrice e vicepresidente di WikiTribune (piattaforma che unisce la professionalità dei giornalisti al lavoro di fact-checker dell’informazione), che ha parlato subito dopo Caño, ha dichiarato: “Il disastro della Brexit e il ruolo dei media e delle fake news su questa vicenda mi hanno convinto a creare questa piattaforma”. Il primo a prendere all’interno del dibattito fra direttori di testate giornalistiche è Stefan Aust, direttore di Die Welt: “Non sono le fake news che possono cambiare realmente le sorti della politica”. spiega. Aust fa l’esempio delle elezioni americane: “Cosa hanno cambiato le fake news?” si domanda. “Il reale impatto è relativo. Per chi fa giornalismo è importante capire da dove vengono le notizie. Ricordo le informazioni che venivano dalla Germania dell’Est. Noi non pubblicavamo tutto quello che arrivava. Se non si sa da dove vengono le notizie non bisogna pubblicare”. In ogni caso, spiega, “Non bisogna essere spaventati dalle fake news perché la gente si rende conto da dove vengono”. Poi ha preso la parola Christophe Berti, direttore di Le Soir, che ha ricordato quanto accaduto durante la campagna elettorale che ha portato alla vittoria di Macron. Uscirono diverse fake news su una piattaforma fasulla di Le Soir, rilanciate anche dai politici come Marion Le Pen. Uscì la notizia che la campagna di Macron era finanziata dall’Arabia Saudita: “Verificammo la notizia perché era il nostro obbligo. Anche se a volte non è facile verificare perché non sempre si conoscono le fonti delle notizie”. Per Alexis Brezet, direttore di Le Figaro, “non bisogna seguire a tentazione di dire che le fake news spiegano ogni cosa”. Non tutto ciò che accade di negativo, insomma, è colpa delle fake news. Dice: “È necessario difendere la verità delle cose. Non tutto è fake news. Cosa possiamo fare contro le fake news? La stampa tradizionale deve rimanere il migliore muro contro le fake news. Abbiamo noi la responsabilità di combattere le fake news. È impossibile fermare tutte le fake news ma se i giornali tradizionali si assumono le loro responsabilità molto si può fare”. Pierre Ruetschi, direttore della Tribune De Genève: “Noi rappresentiamo le buone notizie nelle nostre regioni”. E ricorda come in politica la Svizzera sia più tutelata dalle fake news: “Noi siamo una regione federale, il potere del governo è diviso in diverse regioni. È difficile allora seguire tutti i livelli del potere. Il sistema politico svizzero è meno sensibile alle notizie false, poiché non ci sono candidati nazionali di punta: non è facile denigrare tutti i candidati cantonali anche perché la gente li conosce, sa cosa fanno. La popolazione conosce bene i suoi candidati”. Massimo Russo, direttore generale di Gedi digital, ricorda che in Italia “abbiamo davanti dodici mesi difficili e nelle prossime europee sarà anche peggio”. Se si vuole affrontare il problema delle fake news occorre affrontare “i vari fenomeni specifici legati a notizie che arrivano dall’estero spesso di propaganda o veri e propri attacchi dall’esterno per cui vale il principio “più notizie spazzatura immetto più odio e polarizzazione genererò. Ogni problema deve essere affrontato in un modo specifico. Dobbiamo ottimizzare le nostre pubblicazioni e lo stiamo facendo. Alla Stampa e a Repubblica abbiamo fatto un trust project, un insieme di indicatori che danno la misura della qualità delle notizie. Siamo sempre coinvolti in progetti internazionali come Lena e come quello su Daphne Caruana, la giornalista maltese uccisa per le sue inchieste, dal quale abbiamo ricavato anche un documentario su Sky. Abbiamo lanciato un progetto con Google nelle scuole per mostrare a insegnanti e studenti come si distingue una bufala da una notizia verificata. Bisogna essere molto pragmatici e specifici”. Migranti. Mille tutori per i minori stranieri non accompagnati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 maggio 2018 È passato un anno dalla legge Zampa sui minori stranieri non accompagnati. Una legge che rivede in maniera organica l’accoglienza dei minori migranti che arrivano in Italia senza genitori: dalle procedure per l’identificazione e l’accertamento dell’età agli standard dell’accoglienza; dalla promozione dell’affido familiare alla figura del tutore, dalle cure sanitarie all’accesso all’istruzione, tutti tasselli fondamentali per favorire l’inclusione sociale dei minori. Ma delle problematiche ancora persistono, per questo motivo la Garante per l’infanzia e l’adolescenza, Filomena Albano, ha inviato al presidente del Consiglio, ai ministeri coinvolti, ai presidenti delle Regioni, al vicepresidente del Csm e alla Conferenza Stato Regioni una nota sullo stato di attuazione della legge. “L’obiettivo - afferma la Garante - è tutelare e dare piena attuazione ai diritti e al superiore interesse del minore, così come previsto dalla normativa internazionale e nazionale”. I nominativi di circa mille tutori sono già stati trasmessi ai tribunali per i minorenni, che sono ora tenuti a designarli. L’aver trasferito a livello nazionale l’esperienza dei tutori volontari - già sperimentata localmente e in alcuni paesi europei - è una delle novità introdotte dalla legge sui minori non accompagnati, normativa per la quale l’Italia è annoverata tra le buone prassi europee. “Pur nella consapevolezza degli sforzi fatti - avverte la garante Albano -, ad oggi, vi sono però aspetti della legge che ancora non hanno avuto piena attuazione”. L’elenco è ampio. Si va dai regolamenti di attuazione, che avrebbero dovuto esser adottati, alle stesse nomine dei tutori. Filomena Albano sollecita la valorizzazione del contributo di solidarietà di questi cittadini con la nomina tempestiva, da parte dei giudici, dei tutori già formati e inseriti negli elenchi. Tutori per i quali serve istituire una polizza assicurativa per la responsabilità civile, prevedere permessi di lavoro e assicurare il rimborso delle spese sostenute. Le nomine, inoltre, affinché la tutela sia effettiva, dovranno avvenire tenendo conto della vicinanza territoriale tra minorenni e tutori. Secondo la garante va quindi attivata una sinergia tra tutti gli attori del sistema di protezione e accoglienza, i garanti, i tribunali, i servizi sociali, le prefetture e le questure. Migranti. “Responsabilità italiana nei respingimenti in Libia” di Liana Vita Il Manifesto, 9 maggio 2018 Diciassette sopravvissuti al naufragio del 6 novembre scorso fanno ricorso alla Cedu. Alcune immagini avevano già fatto il giro del mondo. Fotogrammi durissimi del salvataggio di decine di persone il 6 novembre 2017 da parte dell’Ong Sea Watch e del tentativo di ostacolare le operazioni da parte dalla guardia costiera libica, il tutto coordinato a distanza dal Centro di Coordinamento Marittimo (Mrcc) di Roma. Alla fine solo 59 naufraghi sono riusciti quel giorno a salire a bordo della nave della Ong e a raggiungere Pozzallo, mentre altri 47 sono stati recuperati dai libici e riportati nei centri di detenzione. Almeno venti migranti hanno invece perso la vita prima che intervenisse Sea Watch. Ma la ricostruzione accuratissima di quella vicenda che è stata mostrata ieri, in una conferenza stampa svoltasi a Roma, realizzata attraverso le immagini disponibili e le testimonianze di operatori e sopravvissuti dai ricercatori Charles Heller e Lorenzo Pezzani della Forensic Oceanography (università Goldsmith di Londra) permette di cogliere dettagli che lasciano poco margine ai dubbi sulle reali responsabilità di quanto accaduto. Oltre alla violenza dei libici sui migranti recuperati e allo strazio per le persone che annegano, un aspetto appare evidente: l’equipaggio della motovedetta libica che pretende di avere il controllo delle operazioni - una delle quattro consegnate dal ministro dell’Interno italiano a Tripoli un anno fa - appare del tutto incapace di intervenire per portare in salvo le persone. E ancora più inquietante è la scena della motovedetta libica che riparte con foga noncurante dell’uomo in mare appeso alle scalette e nonostante Sea Watch e un elicottero militare italiano intimino l’alt. I ricercatori hanno sottolineato come di quell’equipaggio facciano parte alcune delle persone addestrate dai militari italiani ed europei, come riportato in un rapporto della missione Eunavformed. Un altro tassello della collaborazione della guardia costiera libica con le forze militari italiane ed europee nella strategia di controllo dei flussi di migranti dalla Libia. Il video si chiude con un aggiornamento sui sopravvissuti di cui sono state raccolte le testimonianze: i quarantasette respinti in Libia sono stati rinchiusi nel centro di Tajura, con centinaia di altre persone, in condizioni disumane. Alcuni di loro sono riusciti a fuggire, altri rimpatriati nel paese di origine, altri ancora venduti e torturati in attesa di soldi dalla famiglia. Diciassette dei migranti sopravvissuti quel giorno - di cui quindici si trovano in Italia, due in Nigeria tornati dalla Libia - portano ora le loro testimonianze davanti alla Corte europea dei diritti umani, seguiti dagli avvocati dell’Asgi e di Global Legal Action Network, e accusano l’Italia di essere di fatto responsabile, attraverso la collaborazione tecnico-operativa con i libici, di quanto è accaduto in mare e successivamente nei centri di detenzione e di aver di fatto violato la Convenzione europea. Tornano i punti della condanna della Cedu all’Italia del 2012 per il caso Hirsi: tra gli altri, violazione degli articoli 3 e 4 della Convenzione perché i ricorrenti sono stati riportati in Libia benché fosse noto che lì corressero il rischio di subire torture, trattamenti inumani e di finire in schiavitù, contro il principio di non-refoulement. Questo il quadro tracciato dalle legali Loredana Leo e Violeta Moreno Lax nella ricostruzione del pieno coinvolgimento italiano nelle operazioni di contenimento dei flussi verso le nostre coste attraverso i libici coordinati dall’MRCC di Roma e dalle navi militari di stanza a Tripoli. “Strategia del resto annunciata nel memorandum firmato dal governo italiano con Serraji nel febbraio 2017”, hanno sottolineato. Da quel 6 novembre sono stati sempre più numerosi gli interventi della guardia costiera libica al di fuori delle proprie acque territoriali, coordinati da Roma, e sempre più frequenti le situazioni critiche per gli operatori umanitari impegnati nei soccorsi in mare. Migranti. Libici come pirati del mare di Riccardo Magi* Il Manifesto, 9 maggio 2018 È un copione che si ripete sempre più spesso nelle acque internazionali di fronte alla Libia: il Centro di Coordinamento delle operazioni di salvataggio della Guardia Costiera di Roma (Mrcc) lancia un allarme per una imbarcazione in distress e chiede a quelle presenti nell’area di andare in soccorso delle persone in pericolo. Segue poi una seconda comunicazione, con cui Roma informa che la Guardia costiera libica assume il controllo e la responsabilità dell’operazione. A ricevere questi due avvisi il 4, il 5 e il 6 maggio scorsi anche il veliero Astral di Proactiva Open Arms, su cui mi trovo per partecipare a una missione di ricerca e soccorso in mare. Sono partito con l’obiettivo di vedere con i miei occhi quello che accade nel Mediterraneo centrale, raccogliere informazioni, testimonianze per aprire un dibattito nel parlamento italiano, dove sugli accordi con la Libia per il contrasto all’immigrazione non è mai stata fatta chiarezza. Quello che ho visto è che i libici si muovono come pirati in acque internazionali, agiscono fuori dal diritto con mezzi forniti dal governo italiano pretendendo che sia riconosciuta loro una autorità. Come quando sabato una motovedetta della guardia costiera libica si è avvicinata all’Astral e con tono minaccioso, chiedendo prima se avessimo migranti a bordo e poi ci intimandoci di allontanarci perché soccorrerli “è un compito che tocca a noi”. Peccato che il giorno dopo non hanno mai risposto al nostro comandante Riccardo Gatti, che ripetutamente ha provato a contattarli prima di intervenire (una volta informato l’MRCC di Roma) in soccorso di 105 migranti, tra cui donne e bambini, alla deriva su un gommone sgonfio. Anche in questo caso la responsabilità avrebbe dovuto essere dei libici. L’odissea di queste persone, ostaggio per 36 ore di un rimpallo di responsabilità tra Roma e Londra che non si decidevano a indicarci dove condurli, è stata al centro delle cronache degli ultimi giorni. Mentre Astral era in attesa dell’autorizzazione per il trasbordo sulla vicina nave Aquarius, una nuova segnalazione di un’imbarcazione in distress a sole 10 miglia da noi ci giungeva dall’aereo della ong Seawatch. E stavolta i libici si sono fatti vivi, ma per intimarci di non intervenire. Quanto accaduto dimostra che non esiste nessuna zona SAR libica e che la guardia costiera di Tripoli è incapace di gestire le operazioni di salvataggio di cui assume formalmente il controllo. Invece di soccorrerli, con le motovedette fornite dall’Italia i libici ‘catturano’ i migranti per riportarli in Libia, dove la maggior parte di loro ha subito torture nei centri di detenzione. Nel Mediterraneo salvare vite è diventato un percorso a ostacoli, eppure è un imperativo basilare e anche un obbligo dettato dalle norme di ogni stato di diritto. Non possiamo cedere all’illusione che per affrontare la sfida complessa della gestione dei flussi migratori si possa venir meno a queste norme e a questi obblighi. Continuando così renderemo le nostre istituzioni più deboli e incapaci di garantire i diritti di tutti. *Deputato di +Europa Droghe. La cannabis fa bene ai reduci dal fronte di Marco Perduca Il Manifesto, 9 maggio 2018 Il nostro ministero della Difesa produce le infiorescenze che potrebbero essere utilizzate in sperimentazioni cliniche sui reduci dalle missioni internazionali che manifestano problemi. All’inizio di febbraio di quest’anno, un bersagliere di 29 anni si è suicidato nel bagno di una stazione della metropolitana di Roma, era stato in “missione di pace” in zone di combattimento e aveva appena iniziato il suo turno per l’operazione Strade sicure. Secondo uno studio della Confederazione autonoma della polizia di qualche mese fa, nel decennio 2003-2013 ci sarebbero stati 241 suicidi tra i membri delle Forze Armate italiane. Tra le cause principali lo stress post-traumatico che in particolare colpisce i soldati di ritorno dal “fronte”. Di possibili terapie per questo tipo di condizione si è parlato al V Congresso Mondiale per la Libertà di Ricerca Scientifica organizzato al Parlamento europeo dall’Associazione Luca Coscioni in una sessione dedicata alla lavoro medico-scientifica sulle sostanze psicotrope proibite. Tra gli intervenuti lo scopritore del Thc e Cbd Raphael Mechoulam, Carl Hart della Columbia University, Rick Doblin di Maps -Multidisciplinary Association for Psychedelic Studies, Ben Sessa dell’Imperial College di Londra, Amanda Feilding della Beckley Foundation e Tomas Palenicek dell’istituto di salute mendale di Praga. Tanto per lo stress post-traumatico quanto per la depressione, i problemi di coppia, le dipendenze comportamentali o da sostanze legali o illecite, lo studio e la sperimentazione clinica delle piante e sostanze contenute nelle tabelle delle Convenzioni Onu sugli stupefacenti iniziano ad affermarsi come complemento, se non alternativa, a protocolli non sempre efficaci relativi alla salute e il benessere delle persone. Se non possiamo parlare della nuova frontiera dell’antiproibizionismo (non tutti gli scienziati sono a favore della legalizzazione dell’Lsd, cannabis, Lsd, psilocibina e ibogaina con cui lavorano mentre l’Mdma e la ketamina sono consentite per terapie), possiamo parlare di ricercatori che quotidianamente si scontrano con limitazioni, divieti e ostacoli nella ricerca di cure per varie patologie che son frutto della proibizione sulle altre droghe. Nei paesi che inviano militari in missioni internazionali, specie se in Iraq o Afghanistan, esistono enormi problemi di assistenza sanitaria dei “veterani”. Le esperienze del combattimento lasciano nei soldati segni profondi spesso difficili anche solo da affrontare, figuriamoci da superare. Negli Usa, il paese col numero più alto di reduci, il 20 per cento dei militari rientrati manifesta sintomi di post-traumatic stress disorder. Dal 2007 alcuni ex-soldati americani si sono organizzati in Veterans For Medical Cannabis Access, Vmca, un’associazione che si batte perché l’accesso alla cannabis terapeutica divenga un diritto dei militari. In un dibattito organizzato da Forum Droghe e l’Associazione Luca Coscioni a marzo scorso durante la 61esima Commissione droghe dell’Onu, Michael Krawitz della Vmca ha fatto l’elenco delle leggi adottate per consentire l’uso della cannabis nella cura dello stress post-trauma dei militari senza che i ministri della Difesa o della Giustizia di Trump si opponessero. Salvo qualche dibattito, tipo “Dalla nevrosi allo stress post-traumatico. Storie di uomini e soldati” tenutosi alla Camera nel giugno 2017, e un timido lavoro legislativo in seno alla Commissione d’inchiesta sull’uranio impoverito, in Italia tutto tace. Eppure è proprio il nostro ministero della Difesa che produce le infiorescenze che potrebbero essere utilizzate in sperimentazioni cliniche sui reduci dalle missioni internazionali che manifestano problemi. Perché non lanciare una sperimentazione pilota con la cannabis per la salute dei “nostri ragazzi” traumatizzati dalla guerra? Stati Uniti. Più armi e meno sicurezza di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 9 maggio 2018 Trump insiste ad affermare che gli insegnanti dovrebbero essere armati. Ma i morti ammazzati con armi da fuoco nel 2016 sono stati, secondo i dati ufficiali, 12.979. Vale a dire quasi 33 volte più di quanti sono stati nello stesso anno in Italia. L’insistenza di Donald Trump sulla necessità di distribuire pistole, mitragliatrici e fucili a pompa agli insegnanti è sbalorditiva. Lo ha ripetuto anche la settimana scorsa, davanti alla National Rifle Association, la potentissima associazione dei produttori di armi: “Tutti vogliamo scuole più sicure. Insegnanti perfettamente addestrati dovrebbero portare armi nascoste: se sapranno che ci sono armi all’interno gli assassini non entreranno”. Il guaio è che sono in parecchi ad andargli dietro. Racconta il blogger Alessandro Baravalle, ad esempio, che un ex ranger autore di vari libri sulla “psychology of killing” di nome Dave Grossman è arrivato a sostenere che “in tutto il pianeta i bambini stanno commettendo crimini come mai prima nella storia dell’umanità” ma che il problema non sono le armi: “Le armi ci sono sempre state. Il problema sono i film e le serie Tv macabre e malate e soprattutto i videogiochi che in tutto il pianeta stanno creando ragazzi profondamente malati”. Per carità, magari c’è del vero ma se non avessero mitragliatori. Pare impossibile che una società attenta ai numeri come quella americana sia indifferente o quasi a quelli che riguardano il tema della violenza. Secondo il Centers for Desease Control and Prevention, infatti, circolano tra i civili in America (i militari sono un’altra faccenda) 270 milioni di armi da fuoco. In media più di una a testa tra gli americani adulti. La distribuzione, in realtà, è diversa: la metà delle armi in mano al 3% della popolazione adulta, che possiede in media 17 pistole o Kalashnikov a testa. Di sicurezza, però, non è il caso di parlare: i morti ammazzati nel 2016 con armi da fuoco sono stati, secondo i dati ufficiali, 12.979. Vale a dire quasi 33 volte più di quanti sono stati nello stesso anno in Italia: 397. L’America, è vero, ha cinque volte e mezzo gli abitanti nostri. Ma in ogni caso, fatti i conti, dal Maine all’Oregon si uccide sei volte più che da noi. Sei volte. Basti dire che nella sola Chicago, che ha mezzo milione di abitanti in meno della città metropolitana di Milano, gli omicidi nel 2017 sono stati 675. Quasi il doppio dei morti ammazzati nell’intera penisola italiana. E torniamo alla vecchia pubblicità di Renzo Arbore: meditate gente, meditate... Stati Uniti. L’impegno della Cia: mai più interrogatori duri Corriere della Sera, 9 maggio 2018 L’annuncio di Gina Haspel, nominata da Trump numero 1 dell’agenzia in attesa di conferma dal Senato: il programma di interrogatori duri lanciato dopo l’11 settembre e poi interrotto non ripartirà. Gina Haspel, nominata da Donald Trump alla guida della Cia, si impegna a far sì che l’agenzia non riprenda il programma di interrogatori duri come quello controverso usato dopo l’11 settembre. È quanto emerge dagli estratti del discorso che Haspel terrà alla Commissione di intelligence del Senato per la sua audizione di conferma. Haspel nel 2002 ha guidato una prigione segreta dell’agenzia, dove i sospetti membri di Al Qaida furono sottoposti a torture e interrogatori con metodi non autorizzati, come il water-boarding. “Sono consapevole che in molti vogliono sapere il mio punto di vista sull’ex programma di detenzione e di interrogatori della Cia. Voglio essere chiara: avendo servito” il paese “in un periodo tumultuoso, posso offrirvi il mio impegno personale e senza riserve che sotto la mia leadership la Cia non riprenderà tale programma di detenzione e interrogatori” afferma Haspel. “Credo fermamente nell’importanza della supervisione. L’esperienza ci ha insegnato che la Cia non può essere efficace se non gode della fiducia della gente. Se non possiamo condividere aspetti segreti del nostro lavoro con il pubblico, dovremmo invece condividerli con i politici eletti. Per la Cia la supervisione è un legame vitale con la società che difendiamo” aggiunge mostrando la disponibilità a lavorare con il Congresso americano. Come donna “ho fatto la mia parte, silenziosamente e attraverso il duro lavoro, per buttare giù le barriere” per le donne: “Sono stata orgogliosa di essere la prima donna a diventare numero due del “Servizio Clandestino”. Non voglio strombazzare il fatto che sono una donna qualificata per il posto” alla guida della Cia, “ma sarei negligente nel non rimarcarlo, almeno visto il sostegno della giovani donne della Cia che lo considerano un buon segno per le loro prospettive”. Germania. I reati sono al minimo da 25 anni ma i tedeschi non si sentono sicuri di Walter Rauhe La Stampa, 9 maggio 2018 Meno omicidi, meno furti, meno vandalismo. Nel 2017 la Germania ha registrato il più basso numero di reati degli ultimi 25 anni. Le statistiche ufficiali del Ministero degli interni elencano complessivamente 5 milioni e 760 mila reati denunciati nel corso dell’ultimo anno alle forze dell’ordine. Una diminuzione dei reati pari al 9,6% o in cifre a 611mila in meno rispetto al 2016. I furti negli appartamenti sono diminuiti addirittura del 23%, le rapine e dei borseggi dell’11,8% e anche i casi di cyber-criminalità sono hanno registrato un calo del 18,7%. A giudicare dai nuovi dati statistici, la Germania dovrebbe essere uno dei Paesi più sicuri e felici del mondo. Ma i dati positivi del Ministero degli Interni non coincidono con la percezione della sicurezza di molti cittadini tedeschi. Secondo un recente sondaggio svolto per conto del settimanale Stern, il 58% dei cittadini lamenta un aumento della criminalità e teme per la propria sicurezza. Abbiamo dunque a che fare con il classico fenomeno psicologico del “si stava meglio quando si stava peggio?” Come mai in un periodo nel quale il numero dei reati raggiungono un minimo storico, la maggioranza dei tedeschi si sente sempre meno sicura? “Questo ha a che fare con l’avanzata della destra populista e con l’emergenza migratoria”, spiega Christian Pfeiffer, direttore dell’Istituto tedesco di ricerche criminologiche. “La gente si sente insicura perché si sente minacciata dai grandi cambiamenti dell’era globale, digitale e migratoria. L’arrivo in Germania di così tanti profughi in così poco tempo viene percepito da molta gente come la perdita di un pezzo della propria patria, dei costumi e delle tradizioni abituali. Per quel che riguarda la sicurezza e la criminalità, le statistiche dimostrano che con l’arrivo di un milione di profughi nel 2015, i reati non solo non sono aumentati, ma sono diminuiti”. Secondo Pfeiffer, inoltre l’avanzata della destra populista e i successi elettorali dell’Alternative für Deutschland (Afd) hanno letteralmente scatenato il panico tra i grandi partiti tedeschi e soprattutto in quelli dell’Unione di centro-destra della cancelliera Angela Merkel e del suo alleato bavarese della Csu (cristiano-sociali). Nel tentativo di contenere l’avanzata dell’ultra-destra, Cdu e Csu hanno lanciato una vera e propria campagna politica volta ad inasprire le leggi vigenti in materia di sicurezza, controllo degli spazi pubblici e di competenze degli organi di polizia. Sarebbe così un paradosso, sostiene Pfeiffer, che proprio in una regione sicura, ricca e beata come la Baviera, il governo regionale di centro destra stia per approvare una riforma della polizia che in futuro amplierà i poteri delle forze dell’ordine permettendo loro controlli a tappeto, custodie cautelari anche non in presenza di minacce concrete e perquisizioni senza mandati giudiziari. Stati Uniti. Trump: “Via dal patto nucleare. Sanzioni a chi aiuterà l’Iran” di Paolo Mastrolilli La Stampa, 9 maggio 2018 Per la Casa Bianca il regime è il più grande sponsor del terrorismo. “L’accordo non funziona, la popolazione si ribelli contro i suoi leader”. L’Iran è il più grande sponsor mondiale del terrorismo, l’accordo nucleare non ha portato la pace e non garantisce che non costruisca la bomba, e perciò gli Usa lo abbandonano. Lo fanno nel modo più duro possibile, quella che gli analisti chiamano “opzione atomica”. Infatti, anche le aziende europee verranno colpite dalle sanzioni americane, se firmeranno nuovi contratti con Teheran, o se non annulleranno quelli esistenti nell’arco di tempi variabili che il dipartimento al Tesoro sta definendo. Una scelta netta, che lascia aperte solo due strade: l’improbabile resa della Repubblica Islamica, attraverso un nuovo accordo che recepisca tutte le richieste di Washington; oppure l’avvio di un processo finalizzato al cambio di regime. La delusione di Obama - “Una decisione completamente sbagliata”, è stato il commento di Barack Obama. Il presidente Trump ha fatto l’annuncio che ormai tutti si aspettavano poco dopo le due del pomeriggio: “L’Iran - ha detto - è il principale sponsor mondiale del terrorismo. Continua a sviluppare i suoi missili e a destabilizzare il Medio Oriente. Ora abbiamo anche la prova definitiva che la promessa di non sviluppare le armi atomiche era una bugia”. Un chiaro riferimento alle recenti rivelazioni fatte dal premier israeliano Netanyahu, secondo cui fino al 2003 Teheran aveva lavorato alla bomba. “È chiaro - ha aggiunto Trump - che il Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa) non impedisce agli iraniani di costruire armi nucleari. Perciò ho ordinato di uscirne”. Tutte le sanzioni che esistevano prima dell’intesa tornano in vigore, e “colpiranno anche chi aiuterà la Repubblica islamica a sviluppare i suoi programmi”. Questo chiarirà che “noi non facciamo minacce vuote”. Trump ha detto di essere sempre pronto a un nuovo accordo, ma a condizione che Teheran accetti tutte le sue richieste. Se non lo farà, e tornerà a sviluppare il programma atomico, “subirà conseguenze mai viste prima”. Quindi il capo della Casa Bianca ha lanciato un appello agli iraniani, dicendo che “il futuro del Paese appartiene al suo popolo. Avete diritto a un governo che realizzi i vostri sogni”. Un invito alla sollevazione, in altre parole, perché “grandi cose potrebbero avvenire per l’Iran”, se non fosse paralizzato dal suo regime. Gli analisti definiscono questa linea come “l’opzione nucleare”, perché non ha accettato alcun compromesso offerto dagli alleati europei, che concedesse loro un po’ di tempo per proseguire la trattativa. Negli ultimi negoziati avevano proposto di penalizzare il programma missilistico, e ristabilire tutte le sanzioni, se alla scadenza della “sunset clause” Teheran fosse tornata a 12 mesi dalla realizzazione dell’arma nucleare. Trump però ha rifiutato, insistendo su tre punti: l’accordo non deve avere scadenze, deve includere il divieto dei missili, e deve fermare le attività terroristiche e destabilizzanti degli ayatollah. Quindi le sanzioni rientrano tutte in vigore, subito, come prima della firma del Jcpoa. Se poi l’Iran ci ripenserà, lui è pronto a negoziare un accordo diverso. Il fronte europeo - Per quanto riguarda le attività degli europei, una fonte della Casa Bianca ha spiegato così la situazione: “Noi siamo fuori dall’accordo. La decisione del presidente rimette in vigore immediatamente tutte le misure. Se qualcuno firmerà nuovi contratti, incorrerà nelle sanzioni americane. Per quanto riguarda quelli già esistenti, il dipartimento al Tesoro definirà i dettagli del “winding down”. Le aziende avranno un periodo variabile, compreso tra 90 giorni e sei mesi, per annullarli. Se non lo faranno, alla scadenza saranno sanzionate”. I difensori del Jcpoa dicevano che l’Iran non lo aveva violato, e quindi conveniva tenerlo in vigore, fino a quando non fosse emersa un’alternativa. A Trump però questo argomento non interessava, perché secondo lui l’accordo era sbagliato nella sua essenza, in quanto consentiva a Teheran di continuare a minacciare tutti. Quindi il suo rispetto era irrilevante. A chi gli ha fatto notare che così complica anche il negoziato con Pyongyang, dimostrando l’inaffidabilità degli Usa, ha risposto che il segretario di Stato Pompeo è in Corea del Nord per preparare il suo vertice con Kim. Quindi il messaggio è l’opposto: ritirandosi dall’accordo con gli ayatollah, Washington dimostra a Pyongyang che vuole un’intesa seria, e agli ayatollah che per ottenere una via d’uscita pacifica dovranno accettare le sue condizioni. Altrimenti il piano B diventerà lo scontro frontale. Iran. La rottura di Trump è una ferita all’Europa di Franco Venturini Corriere della Sera, 9 maggio 2018 Il presidente degli Stati Uniti ha messo in gioco quel patrimonio storico che viene chiamato Occidente e che ha il suo perno nei rapporti transatlantici. Donald Trump non ha voluto aspettare fino alla scadenza di sabato: ieri sera, dopo aver allertato il mondo intero sulle sue parole, ha annunciato il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo del 2015 sul nucleare iraniano. Le sanzioni che erano state revocate in cambio delle clausole restrittive imposte all’Iran nel patto di Vienna saranno reintrodotte progressivamente entro luglio, e il capo della Casa Bianca ha autorizzato penalità supplementari contro Teheran per colpire le sue sperimentazioni con missili balistici, la sua espansione militare in Medio Oriente, e la mancanza di garanzie contro la ripresa dei progetti nucleari dopo il 2025. Le pressioni diplomatiche degli europei sono dunque state vane. Nulla hanno potuto le considerazioni del britannico Boris Johnson, che nei giorni scorsi aveva brillantemente riassunto, proprio ora che Londra si prepara a divorziare dalla Ue, i timori degli alleati europei dell’America: l’accordo del 2015 ha i suoi difetti, è vero, ma è servito e serve ancora a impedire eventuali tentazioni nucleari dell’Iran; le verifiche dell’Aiea sono le più stringenti mai attuate, e hanno confermato nove volte che Teheran rispetta l’intesa; se il patto saltasse a seguito della decisione Usa, l’Iran potrebbe arrivare fino a riprendere l’arricchimento dell’uranio senza alcun controllo e a uscire dal trattato sulla non-proliferazione; si può lavorare sulle questioni sollevate da Washington, ma è sbagliato distruggere quel che è stato ottenuto in assenza di alternative valide. Trump e i suoi nuovi consiglieri Pompeo e Bolton hanno sentito senza ascoltare, perché la vera priorità del presidente era disfare quel che Obama aveva sottoscritto e confermare alla sua base elettorale che le promesse dalla campagna vengono mantenute. Attento al suo fronte interno e appoggiato dall’israeliano Netanyahu, il capo della Casa Bianca ha tuttavia aperto una ferita difficile da sanare con i tradizionali alleati europei. I quali tenteranno di “salvare” l’accordo rimanendovi fedeli e chiedendo all’Iran di fare altrettanto, ma dovranno fare i conti con due grosse incognite: il futuro politico dei riformisti di Rouhani in Iran (i “falchi” si prenderanno le loro rivincite) e la natura delle sanzioni americane. Stando all’annuncio di Trump, Washington applicherà nei confronti degli alleati le cosiddette sanzioni secondarie, volte a colpire chiunque faccia affari con l’Iran. Le aziende (anche italiane) che dopo il 2015 erano tornate ad affacciarsi da quelle parti sarebbero così indotte a battere in ritirata, anche per non compromettere l’accesso al mercato statunitense. E l’Iran anche stavolta reagirebbe, rendendo sempre più concreta la prospettiva di una guerra evocata in questi giorni da Macron. Il quale ieri è stato sì avvisato in anticipo da Trump, ma ha dovuto misurare la portata delle sue illusioni e quella delle sue ambizioni. Anche la Russia e la Cina hanno subito disapprovato la scelta di Trump. Ma il vero vulnus che il presidente degli Stati Uniti ha creato non riguarda i già difficili rapporti con Mosca e Pechino, e nemmeno le pur pesanti conseguenze che potrebbero aversi in Iran. Riguarda, piuttosto, quel patrimonio storico che viene chiamato Occidente, e che ha il suo perno nei rapporti transatlantici. È comprensibile che oggi, quasi trent’anni dopo la caduta del Muro di Berlino, si ponga il problema di creare un nuovo sistema internazionale dopo quello dei blocchi contrapposti. Ma lungo il cammino, quale sarà la sorte dell’Occidente? La vera partita sembra giocarsi sulle conseguenze geopolitiche dell’”America First”, sulla questione dei dazi americani che pesa sull’Europa oltre che sulla Cina, su idee e interessi transatlantici che si vanno divaricando, mentre Trump ha spezzato in due l’America e l’Europa è preda di nazionalismi rampanti e destabilizzanti. Trump non ha sempre torto. Non ha torto quando chiede agli europei di contribuire maggiormente ai costi della difesa comune fornita dalla Nato. Ma torna a sbagliare quando guarda con sospetto e ostilità gli sforzi volti a creare le basi di una difesa europea. In questo come in altri settori, le visioni strategiche si confondono con gli umori popolari che le nostre democrazie rendono sovrani in sede elettorale. Se Trump ha mandato alle ortiche l’accordo sull’Iran, è anche perché il presidente è già in campagna elettorale per il 2020, con il Russiagate che lo incalza assieme ad altre poco edificanti vicende. E dalle nostre parti non si può dimenticare che Angela Merkel è più debole di prima, che Emmanuel Macron ha ricevuto il colpo più duro da Trump e fatica a conservare il consenso sociale, che Theresa May ha il merito di aver tenuto Londra vicina agli alleati europei ma il suo futuro è una incognita. Il ripudio del patto iraniano nasce anche da questa somma di debolezze. Senza dimenticare che l’Italia resta immersa nelle sue convulsioni politiche ed è incapace di difendere i suoi interessi, con il rischio, noto a Bruxelles come a Washington, che la sua emarginazione internazionale diventi durevole. Non basteranno, dopo lo strappo di ieri, le solidarietà atlantiche di maniera, i bombardamenti allargati come quello sulla Siria e nemmeno il compiacimento generale che certo accoglierà l’incontro tra Trump e Kim Jong-un. L’Occidente, da oggi, prende atto della sua crisi. Se non cambierà strada, verrà il giorno in cui finalmente si capirà di aver fatto pervenire un bellissimo regalo a Vladimir Vladimirovich Putin.