Lo spirito della Basaglia nel 2014 arrivò anche in cella di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 maggio 2018 Si stabilì la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e l’apertura delle Rems. A febbraio del 2017, dopo quasi un secolo chiudono gli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari. È stato un momento storico per l’Italia, perché finisce la vergogna dei manicomi “criminali”. Tutto questo grazie a una specie di “legge Basaglia” che riguarda il mondo detentivo. Parliamo della legge n. 81 del 2014 che ha sancito la chiusura di quelle strutture che dove i “folli rei” venivano chiusi e dimenticati, esclusi dai percorsi di cura e molto spesso condannati a un “ergastolo bianco”, ovvero detenuti per periodi ben più lunghi di quelli previsti per il crimine commesso, in alcuni casi sino alla morte e senza un motivo chiaro. “Folli rei” li definisce il diritto, ma pur sempre esseri umani, la cui dignità è stata rinnegata, sottoposti a violenze fisiche come la contenzione e reclusi in spazi così deteriorati da risultare disumani. “Luoghi di estremo orrore, inconcepibile in qualsiasi Paese appena, appena civile”, così li aveva definiti nel 2011 l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Nel confermare il divieto di nuovi accessi agli ospedali psichiatrici giudiziari e alla case di cura e custodia sul territorio nazionale, la n. 81 del 2014, ha innanzitutto stabilito il principio per cui il ricorso alle misure di sicurezza detentive, per il non imputabile, deve considerarsi la soluzione estrema e residuale cui ricorrere soltanto quando “sono acquisiti elementi dai quali risulta che ogni misura diversa non è idonea ad assicurare cure adeguate e a fare fronte alla pericolosità sociale, il cui accertamento è effettuato sulla base delle qualità soggettive della persona e senza tenere conto delle condizioni di cui all’articolo 133, secondo comma, numero 4, del codice penale”. È stato introdotto un termine massimo di durata per le misure di sicurezza, al precipuo fine di scongiurare “gli ergastoli bianchi” e nel presupposto che il prolungamento di una misura di sicurezza nel lungo periodo si rivela fonte di cronicizzazione, di irrigidimento sanzionatorio sterile e di marginalizzazione dell’individuo dal tessuto sociale. Parliamo dell’istituzione delle Rems che assumono connotazioni del tutto differenti rispetto agli Opg anche in forza dello specifico decreto del ministero della Sanità, 01.10.2012, che ne ha disposto le caratteristiche tecnico- strutturali. Si tratta di strutture a gestione specificamente ed esclusivamente sanitaria, dirette da un responsabile medico che ne assume la direzione sanitaria ed amministrativa, con ridotta capienza di posti letto, al massimo di venti, ove si svolgono attività terapeutico- riabilitative per gli ospiti in raccordo e coordinamento con i servizi psico-sociali territoriali. La riforma ha, dunque, posto al centro del nuovo sistema i dipartimenti di salute mentale, divenuti titolari dei programmi terapeutici e riabilitativi allo scopo di attuare, di norma, i trattamenti in contesti territoriali e residenziali. Le Rems sono, pertanto, soltanto un elemento del complesso sistema di cura e riabilitazione dei pazienti psichiatrici autori di reato. L’internamento in Rems ha assunto non solo il carattere della eccezionalità, ma anche della transitorietà: il Dipartimento di salute mentale competente, infatti, per ogni internato deve predisporre, entro tempi stringenti, un progetto terapeutico riabilitativo individualizzato, poi inviato al giudice competente, in modo da rendere residuale e transitorio il ricovero in struttura. Ed è qui che si presentano criticità ancora non risolte. La magistratura dispone troppo facilmente la custodia cautelare presso le Rems, mentre in realtà, in diversi casi, basterebbe che si attivi il dipartimento di salute mentale per prendere a carico il paziente. I posti non bastano e si creano le liste di attesa dove, in diversi casi, i pazienti attendono dentro un carcere. La legge 81 che ha superato gli Opg è invece chiara a proposito: le misure detentive devono essere residuali anche per quanto attiene le misure di sicurezza Gli affari della sanità privata sui malati psichiatrici che hanno commesso reati di Arianna Giunti L’Espresso, 8 maggio 2018 La legge italiana ha chiuso i vecchi manicomi criminali allestendo le più umane Rems, piccole residenze per curare i “folli rei”. Ma a volte somigliano ancora a prigioni e spesso non c’è posto per tutti. Così bisogna ricorrere alle cliniche private. Prigionieri in preda a crisi psichiatriche, segregati illegalmente in una cella. Malati di schizofrenia abbandonati a se stessi, dimenticati da quello stesso Stato che dovrebbe garantirne le cure. Disabili mentali in attesa di un posto letto, costretti a vagare da una comunità all’altra. Un anno fa esatto anche l’ultimo degli ospedali psichiatrici giudiziari è stato spazzato via per sempre. Al posto degli Opg sono nate le Rems, Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, strutture più piccole che hanno eliminato quasi del tutto l’uso di mezzi contenitivi sui pazienti. Una rivoluzione gentile, che avrebbe dovuto cambiare per sempre il destino dei “folli rei”, i malati di mente che hanno commesso un reato. Oggi però la situazione in Italia sembra già sull’orlo del collasso. I numeri parlano chiaro: per 604 persone collocate all’interno delle Rems, altre 441 in questo momento sono in attesa di un posto. Quarantuno di loro si trovano illegittimamente dietro le sbarre, senza una pena da scontare. Si tratta di una lista che aumenta ogni giorno, secondo i dati ottenuti da l’Espresso. “Una situazione esplosiva”, confermano senza tanti giri di parole dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Colpa soprattutto - denunciano i garanti regionali dei detenuti - della troppa facilità con la quale i giudici dispongono i trasferimenti “preventivi” nelle Rems, anche in assenza di condanna. E così i posti letto nelle strutture psichiatriche diventano ambitissimi, trasformandosi in un appetitoso business che ingolosisce Regioni e sanità privata. Eppure in questi ultimi 4 anni l’Italia ha compiuto uno sforzo innegabile. L’abisso di disperazione dei manicomi criminali, sovraffollati e fatiscenti, ha lasciato il posto a strutture con una media di 20 ospiti. Case di cura che dopo l’approvazione della legge 81 del 2014 devono accogliere - per periodi che vanno da un minimo di 6 mesi al massimo di 10 anni - gli autori di reati giudicati infermi o semi infermi di mente, anche socialmente pericolosi. Delle 28 strutture presenti in tutta Italia, però, oggi soltanto 4 sono definitive. In alcune regioni, le Rems sono nate dalle ceneri dei vecchi Opg. Così è successo a Castiglione delle Stiviere, che con i suoi 160 internati (140 uomini e 20 donne) è la struttura più grande d’Italia. Un notevole passo avanti è stato fatto anche in Sicilia. Qui le strutture di Naso (Messina) e Caltagirone hanno sostituito il vecchio ospedale giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, diventato simbolo del degrado e della sofferenza dei pazienti. Ma insieme a edifici all’avanguardia provvisti di spazi verdi, laboratori e aree ricreative, resistono strutture che assomigliano a piccole carceri. Come denuncia Stefano Cecconi promotore del Comitato Stop Opg, che oggi vigila sul funzionamento delle Rems. La situazione più critica è in Lazio: nella Rems di Subiaco il portone è controllato con il metal detector, c’è l’obbligo di consegnare telefonini, documenti e borse. La zona d’aria è tappezzata da sbarre fino al soffitto, tanto che è stata ribattezzata “la gabbia”. A Pontecorvo, nel Frusinate, il corridoio è attraversato da un reticolo d’acciaio che oscura il cielo. A Palombara Sabina, gli internati prendono aria in una terrazza completamente blindata. “Questi pesanti dispositivi di sicurezza”, spiega Ceccon, “hanno un influsso negativo sulla psiche dei pazienti”. E poi c’è l’aspetto della sicurezza interna. In alcune strutture - per una ragione di spazi e costi - malati psichiatrici non pericolosi si ritrovano a stretto contatto con pazienti di natura violenta. Succede per esempio a Vairano Patenora, nel Casertano, dove i pazienti della Rems vivono fianco a fianco con gli ospiti della Sir, struttura intermedia di riabilitazione psichiatrica convenzionata con il Comune. Qui lo scorso febbraio uno di loro, Pasquale Di Federico, 46 anni, è stato trovato in fondo a una rampa di scale, gravemente ferito alla testa. È morto dopo un mese di agonia. Ora la Procura di Santa Maria Capua Vetere sta indagando per capire se si sia trattato di un incidente o di un omicidio. E sì che il fondo di Stato messo a disposizione nel 2012 per l’adempimento della legge 81/2014 sul superamento degli ospedali giudiziari - che prevedeva la nascita di strutture all’avanguardia in termini di sicurezza - non è cifra da poco: 174 milioni di euro. Ogni struttura è costata in media 2,5 milioni di euro. E poi ci sono le spese quotidiane degli internati. La retta giornaliera per ogni paziente - che comprende vitto, alloggio, farmaci ed esami clinici - varia tra i 190 e i 450 euro. Le Rems dipendono dal Ministero della Salute e sono supervisionate dalle Asl regionali che ne gestiscono i fondi. Costi che impennano soprattutto quando si tratta di sistemare i “pazienti fuori territorio”. Se non ci sono Rems libere nelle vicinanze, le Asl devono infatti collocare gli internati in un’altra regione sobbarcandosene il costo. Spesso maggiorato. A Castiglione delle Stiviere, per esempio, la tariffa per i “forestieri” è di 500 euro al giorno. Per mettersi in regola con la nuova legge, quindi, alcune regioni hanno dovuto accelerare i tempi e creare dal nulla nuove strutture. E qualcuno avrebbe cercato di approfittarne. Un’inchiesta portata avanti dalla Procura di La Spezia, per esempio, sta facendo luce sul giro d’appalti per la Rems di Calice al Cornoviglio, piccolo Comune ligure al confine con la Toscana. Secondo gli inquirenti, l’ex consigliere regionale di Forza Italia Luigi Morgillo avrebbe fatto pressioni per aggiudicarsi l’appalto per il conto termico della struttura in costruzione, che dovrà affiancare l’unica Rems già presente in Liguria, a Genova. Perennemente satura. Così, spesso, in soccorso di una sanità pubblica in affanno ecco che arriva quella privata. Succede per esempio in Piemonte. A Bra, alle porte di Cuneo, nel 2015 la clinica San Michele di proprietà della famiglia Patria è stata accreditata dalla Regione per ospitare un intero reparto dedicato alla Rems, che oggi accoglie18 persone. Per ogni paziente la Regione rimborsa 295 euro al giorno, cifra che viene pagata al 60% se il paziente si trova fuori sede. A conti fatti, sono circa 159mila euro al mese. La struttura è una piccola oasi: ci sono coloratissime aule per il disegno e per la pittura, si organizzano corsi di equitazione, teatro e gite in montagna. Il più giovane degli internati ha 19 anni ed è accusato di omicidio. Non ci sono sbarre, a impedire le fughe, ma grate. Ed è presente un servizio di vigilanza interna attivo 24 ore al giorno. Stessa retta - 295 euro - anche alla clinica privata Antonio Martin di San Maurizio Canavese. Qui gli internati sono venti: il giro d’affari è di circa 6mila euro al giorno. Circa 177mila euro al mese. Ma le oasi private si trovano anche al centro sud. La Rems di Montegrimano, alle porte di Pesaro, ospita al costo di 300 euro al giorno 19 persone, sforando di qualche unità il numero chiuso. A occuparsene è il Gruppo Atena presieduto dall’imprenditore Ferruccio Giovanetti, che guida un piccolo impero di strutture sanitarie distribuite fra Marche e San Marino. Mentre la Rems calabrese di Santa Sofia d’Epiro (Cosenza), attualmente ospita 20 internati al costo di 190 euro ed è convenzionata con la onlus Il Delfino, titolare della gestione di altre 7 cliniche specializzate nella cura dei malati psichiatrici e tossicodipendenti e nell’assistenza ai minori immigrati. Infine, ci sono le comunità private che accolgono le persone che non trovano posto altrove. Secondo le stime dei garanti regionali dei detenuti, al momento sono circa duecento quelle in attesa di Rems provvisoriamente prese in carico da strutture protette accreditate. Qui i costi giornalieri variano dai 160 ai 250 euro a paziente. Un giro d’affari in vertiginosa crescita, ma di cui non esistono dati certi. A sottolineare questa mancanza di trasparenza è il Commissario unico per il superamento degli Opg Franco Corleone: “Manca del tutto una informazione chiara rispetto al luogo dove le persone destinatarie delle misure di sicurezza si trovino se non ci sono posti liberi nelle Rems”, scrive Corleone nella sua ultima relazione, “non conoscendosi questo dato, non si riesce a stabilire se si tratti di luoghi di cura propri o impropri”. L’unica cosa certa è che la lista dei “folli rei” che aspettano di entrare nelle Rems si ingrossa giorno dopo giorno con una curva sempre crescente, anche di 50 unità a settimana. Oggi siamo a quota 401. Quarantuno di loro si trovano dietro le sbarre, 15 in Lazio, 7 in Campania, 4 in Lombardia, 2 in Puglia. Alcuni sono ricoverati nei Centri di osservazione psichiatrica, piccoli reparti ospedalieri interni alle carceri. Altri si trovano nei centri clinici, sottoposti a pesanti trattamenti farmacologici. La maggior parte di loro è rinchiusa in celle comuni. Paolo Pasquariello, 40 anni, si trova parcheggiato a Regina Coeli ormai da un anno. Soffre di gravi disturbi deliranti. Il giudice ha revocato la custodia cautelare in carcere e ne ha ordinato il trasferimento in una Rems, ma non c’è posto. E allora dal carcere si rifiutano di liberarlo. “Non esiste una motivazione giuridica per cui debba essere trattenuto in cella”, tuona il suo legale Simona Filippi, che promette battaglia davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, “quello che sta succedendo va oltre la legge”. A San Vittore Massimiliano Spinelli, 46 anni, è stato rinchiuso illegalmente per quasi un anno. Assolto dai giudici per incapacità di intendere e di volere ma ritenuto socialmente pericoloso, è rimasto in custodia cautelare nonostante non avesse nessuna pena da scontare. C’è voluta tutta la costanza dell’avvocato Giulio Vasaturo, invece, perché Alessandro Cassoni, 24 anni, malato di epilessia, affetto da problemi psichiatrici gravissimi e con tendenze suicide, riuscisse dopo 4 mesi a essere scarcerato dalla Casa lavoro di Vasto per essere finalmente trasferito in una Rems. “Si tratta di persone che si trovavano già in custodia cautelare e che sono state valutate come socialmente pericolose: se non si trova posto nelle Rems non possiamo lasciarle libere”, ribatte il direttore generale dei detenuti del Dap Calogero Piscitello. Uno dei nodi fondamentali, spiegano dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è l’assenza di coordinamento a livello centrale che stabilisca una sorta di “graduatoria”, in base alla pericolosità sociale, per chi debba entrare per primo in una Rems in caso si liberi un posto. E così gli ingorghi aumentano. Quasi la metà di loro, inoltre - 208 su 604 - è dentro in via provvisoria, in assenza di condanna. Per il garante dei diritti dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, si tratta di una grave responsabilità da parte di alcuni giudici: “Si dispone il ricovero nelle Rems troppo facilmente, senza valutare percorsi di terapia alternativi sul territorio”. Del resto la rete dei servizi sociali - per la carenza di mezzi e risorse - spesso non riesce nel suo intento: un paziente su dieci, una volta libero, fallisce nel percorso di recupero. E tutto ricomincia. Stefano Anastasia nuovo portavoce dei Garanti territoriali dei detenuti umbria24.it, 8 maggio 2018 Il docente di Filosofia e Sociologia del diritto all’Università di Perugia è stato eletto nei giorni scorsi. Sarà Stefano Anastasia, garante dei detenuti per le Regioni Lazio e Umbria, il nuovo portavoce dei garanti territoriali. L’elezione di Anastasia è arrivata durante il convegno sul ruolo delle Regioni e degli enti locali nell’esecuzione penale e nella privazione della libertà, che si è svolto a Roma la scorsa settimana. Anastasia, eletto Garante dal Consiglio regionale dell’Umbria nel 2016, docente di Filosofia e Sociologia del diritto all’Università di Perugia, già presidente dell’associazione Antigone e della Conferenza nazionale del volontariato della giustizia, subentra a Franco Corleone, che è stato sottosegretario alla giustizia e commissario di Governo alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Corleone continuerà il suo impegno come Garante della Regione Toscana. Il ruolo La figura del garante è attiva nelle Regioni da 15 anni anche se in Umbria, dopo rinvii e tira e molla, il primo a essere nominato è stato il professor Carlo Fiorio, ma solo nel 2014, dopo 8 anni di inadempienza. I compiti di questa figura sono quelli di tutelare i diritti di persone in condizione di particolare vulnerabilità, trattenute per motivi di giustizia, di salute o amministrativi in strutture penitenziarie, terapeutiche o per stranieri. I garanti sono presenti nelle Regioni dato che queste ultime hanno competenze importanti per quanto riguarda la programmazione e l’offerta dei servizi per coloro che sono privati della libertà. La legislazione nazionale poi, nel corso del tempo ha riconosciuto ruolo e funzioni dei garanti territoriali, assicurando loro prerogative di visita delle strutture e di interlocuzione con le persone private della libertà. I silenzi inquietanti sulla giustizia di Emanuele Macaluso Il Dubbio, 8 maggio 2018 C’è un tema che io, ma non soltanto io, considero centrale per qualificare un regime democratico: la giustizia. In questi due mesi di dibattiti, confronti e scontri, questo tema non è stato nemmeno sfiorato. Un fatto che non è senza significati politici. E non è un caso che Orbàn, in Ungheria, e i governanti della destra polacca, i primi e importanti provvedimenti autoritari che hanno adottato, riguardano i problemi della giustizia che sono finiti ad essere sottoposti agli ordini dei governi. La simpatia della destra italiana per quei regimi è nota e il giustizialismo del movimento Cinque Stelle è stato clamorosamente affermato nel recente convegno organizzato dalla Casaleggio a Ivrea dove si è esibito il pm palermitano Di Matteo, il quale era stato già indicato come possibile ministro della Giustizia. Debbo dire che sono inquietanti anche i silenzi di tutti i leader e leaderini del Pd su questo tema della giustizia. Il ministro Andrea Orlando, il quale aveva adottato provvedimenti di riforma molto significativi e positivi, oggi dovrebbe intervenire con più energia. Tra le riforme, segnalo quella del sistema penitenziario che è stata continuamente al centro di forti richiami delle autorità giudiziarie europee. Il governo Gentiloni ha la delega per l’attuazione dei decreti che rendono operante la legge e aveva avuto anche i pareri delle commissioni parlamentari prima dello scioglimento, tranne uno e che dovrebbe essere concesso dalle commissioni speciali di Camera e Senato per esaminare gli atti del governo degli “affari correnti”. Il presidente della commissione senatoriale, il grillino Crimi, non ha voluto porre il tema all’ordine del giorno ma la legge dice anche che i pareri non sono vincolanti per l’attuazione dei decreti delegati. Quindi, il governo Gentiloni avrebbe potuto già varare i provvedimenti di attuazione, già prima delle elezioni. Non lo ha fatto per timore di subire attacchi dei grillini e della destra che, falsamente, affermano che, in seguito ad essi, sarebbero stati scarcerati molti mafiosi. Una notizia del tutto smentita dai magistrati. Ancora in questi giorni non solo i radicali, i quali sul tema hanno condotto una campagna meritoria, ma i magistrati, con la loro associazione, il vicepresidente del Csm, molti giuristi hanno chiesto l’emissione dei decreti attuativi della legge. Ne parlo non solo perché le carceri italiane sono una vergogna nazionale ma anche perché questa vicenda è un segno grave del ruolo assegnato alla giustizia dalla destra, dai grillini e dalle distrazioni di una parte consistente del Pd. Ripeto: la giustizia qualifica la qualità della democrazia. La deriva della magistratura se la democrazia arretra nelle questioni di procedura Francesco Petrelli* Il Mattino, 8 maggio 2018 Sappiamo bene che le vicende politiche egli equilibri partitici non sono affatto ininfluenti rispetto agli assetti del potere giudiziario. L’organo di governo autonomo della magistratura, le correnti che ne costituiscono la spina dorsale, e la stessa magistratura associata che ne rappresenta l’asse di trasmissione ed il volano politico, non sono certo insensibili alle fluttuazioni del potere. Quel che accadrà nei futuri assetti politici del Paese è destinato a condizionare e a disegnare le nuove forme del “potere giudiziario” ed i futuri modi dell’esercizio della giurisdizione. Ed è in base a questa ovvia considerazione che le novità e le incertezze del quadro politico ci inducono a tornare sulle peculiarità della nostra “democrazia giudiziaria”, che rende quel condizionamento suscettibile di esiti altrettanto incerti e potenzialmente fatali Ci ha ricordato ancora di recente Sabino Cassese che la democrazia è sostanzialmente “procedura”. Fondamentale, dunque, che in uno stato di diritto le procedure rispettino i valori fondanti della nostra Costituzione e che gli interessi contrapposti trovino nella legge un razionale bilanciamento. Sta in questo equilibrio anche la natura democratica e liberale della giurisdizione. Un potere giudiziario sganciato da ogni sistema di check and balance, nel quale controllori e controllati appartengono al medesimo ordine, affidato alla personalizzazione ed alla mediatizzazione delle iniziative giudiziarie, sganciato da ogni pur blando controllo gerarchico, trasforma la giustizia ed i suoi apparati in una macchina dai tratti grotteschi, insofferente alle regole, che trova forza e legittimazione solo nella riaffermazione del proprio ruolo. Un apparato che si nutre necessariamente, non dei valori della stabilità istituzionale, ma della continua ricerca di consenso. Non sono in discussione ovviamente le resistenze della politica a lasciarsi controllare, né la possibili endemiche corruzioni del sistema amministrativo, ma i modi con i quali operare questi controlli e gli strumenti con i quali contrastare l’illecito. È in discussione il ruolo stesso della magistratura nella società, e sono in discussione le forme che il processo penale prenderà all’interno del nuovo assetto politico. Agenti provocatori infiltrati in ogni dove, strumenti investigativi illiberali, misure di prevenzione “allargate” a dismisura, doppio binario, sostanziale abolizione della prescrizione e dell’appello. Dando uno sguardo allo stato della giustizia se ne dovrebbe trarre la condivisibile idea che nuovi strumenti repressivi ed investigativi finirebbero con il collocare l’esercizio della giurisdizione in uno spazio agonistico deleterio per gli equilibri della società. E che al contrario vi sia la necessità di dare alla funzione giurisdizionale nuove regole e che solo nuove procedure potrebbero restituirle la necessaria legittimazione: riforma dell’assetto costituzionale ed ordinamentale dei magistrati, separazione delle carriere e riforma del Csm, nuovi meccanismi di modulazione dell’obbligatorietà dell’azione penale sottratti all’arbitrio delle singole procure, costituiscono i cardini della nuova idea di giustizia. Ma in un quadro politico di assoluta incertezza presto una diversa battaglia si svolgerà dentro l’Anni e dentro il Csm per decidere se debba o meno affermarsi, sull’onda delle mutazioni politiche, un’idea totalitaria della magistratura che faccia i conti, non solo con la società corrotta, ma anche con chi - al suo interno - arranca tuttora sotto il peso dei vincoli istituzionali, illudendosi che la politica possa ancora riprendere il suo posto. Una idea della giustizia e del ruolo della magistratura che dietro il vessillo della modernità sembra rinnovare le cadenze obsolete di una pura e semplice lotta di potere, e che nasconde in realtà una visione conservativa che non fa avanzare di un solo passo né la magistratura né la società che le sta attorno. *Segretario dell’Unione Camere Penali Italiane “Noi avvocati in difesa dei diritti umani violati dalle multinazionali” di Errico Novi Il Dubbio, 8 maggio 2018 Nel giro di pochi anni, forse, sarà pure firmato un Trattato. “Ma non è una nuova Carta dei valori che serve al diritto internazionale: serve la determinazione degli Stati industrializzati nel prevedere sanzioni per le imprese che hanno sede nel loro territorio e che violano i diritti umani quando operano nei Paesi in via di sviluppo”. A dirlo è Anton Giulio Lana, presidente dell’Unione forense per la tutela dei diritti umani, che coordina il corso di specializzazione, promosso a Roma dal Cnf, proprio sul rapporto tra multinazionali e rispetto dei principi fondamentali. La due giorni, iniziata ieri con l’intervento del presidente del Cnf Andrea Mascherin, vedrà anche oggi il contributo di operatori del diritto e studiosi. In uno degli ultimi incontri ospitati al Cnf con le avvocature del Mediterraneo si è parlato dell’Acqua per la pace e, tra l’altro, dell’eroismo di alcuni attivisti, come la green Nobel Phyllis Omido che in Etiopia è riuscita a far chiudere una fonderia colpevole di aver causato gravissimi danni alla salute a Mombasa e dintorni. Ecco, ad ascoltare però gli alert irradiati dal corso su “Diritti umani e impresa” in svolgimento da ieri presso la Pontificia università della Santa Croce a Roma, c’è da temere che quello resti un episodio irripetibile, e che di fatto i limiti all’azione delle imprese sul piano globale siano impalpabili. È il senso delle relazioni proposte ieri, nella prima delle due giornate del corso, di nuovo promosso dal Consiglio nazionale forense insieme con la Scuola superiore dell’avvocatura e l’Unione forense per la tutela dei diritti umani, il cui presidente, l’avvocato e Anton Giulio Lana, è anche coordinatore scientifico. “È importante dare un contributo al dialogo”, dice in apertura il vertice del Cnf Andrea Mascherin, “in una fase in cui la comunicazione privilegia i social e il loro linguaggio secco, brutale, poco disponibile alla riflessione sui principi”. Ed è significativo che l’avvocatura promuova un’ulteriore occasione formativa sui diritti inalienabili, a riprova del richiamo proposto dallo stesso Mascherin e dalla consigliera del Csm Paola Balducci sul “ruolo sociale” della professione forense. Nello specifico, il contributo che gli avvocati danno alla tutela dei diritti umani nelle attività di impresa è orientato al pragmatismo: come spiega Lana, “l’accessibilità ai rimedi è lo snodo decisivo. Qualunque raccomandazione rivolta ai players economici e in particolare alle società di livello multinazionale, per quanto calibrata, finisce per essere vana, se i singoli Stati a loro volta non producono legislazioni capaci di vincolare davvero le aziende ricadenti sotto la propria giurisdizione a preservare i diritti”, nota il coordinatore del corso. “E il rimedio è accessibile solo nel momento in cui il singolo individuo che ritiene violati i propri diritti può reclamare il risarcimento del danno. O quando è possibile sanzionare l’impresa che non si adoperi a prevenire quel danno. Ebbene”, aggiunge Lana, che tra i relatori si occupa proprio del tema dei rime- di, “gli Stati esitano a introdurre vincoli così stringenti. Sarebbe possibile arrivarci solo se si raggiungessero intese non su un nuova Carta o un nuovo documento di raccomandazione, come quelli pure di grande valore adottati dall’Onu, ma su un obiettivo politico: contrastare l’uno le imprese dell’altro Stato nelle loro violazioni, da quelle relative al lavoro a quelle ambientali”. È quanto ribadiscono gli interventi di relatori del calibro di Guido Alpa e del giudice della Corte internazionale di giustizia Fausto Pocar, che avverte: “C’è da confidare nell’autodisciplina delle imprese, che anche per ragioni d’immagine tendono a imporsi delle regole, piuttosto che negli Stati. D’altra parte il nodo che al momento vanifica ogni evoluzione in questo campo è nella interpretazione che gli Stati Uniti danno del Patto internazionale sui diritti civili e politici, una delle principali Carte da cui sia possibili trarre principi per le imprese: vi si prevede che gli Stati assicurino il rispetto dei diritti umani, da parte di soggetti come le imprese che abbiano radice in quel Paese e ricadano sotto la giurisdizione di quest’ultimo. Ebbene”, osserva il giudice Pocar, “gli Usa ritengono che territorio e giurisdizione siano due condizioni non alternative ma entrambe necessarie, che devono dunque essere compresenti. In tal modo ogni volta che una multinazionale con sede Oltreoceano viola diritti nell’ambito di attività svolte in Paesi stranieri, magari in via di sviluppo, gli Stati Uniti non si considerano tenuti a intervenire”. È l’equivoco da cui discende tutto il resto: gli Stati più deboli non possono mettersi contro multinazionali da cui traggono qualche ricchezza, dunque non c’è alcuna autorità politica che faccia da argine. Va riconosciuta all’Italia - come giustamente rivendicato da Fabrizio Petri, che presiede il Comitato interministeriale Diritti umani - il merito di “porsi sempre avanti a tutti gli altri Paesi nella propria legislazione e nel sollecitare passi avanti sul piano internazionale, in vista di un futuro vero e proprio Trattato”. Ma altri governi frenano. E non resta che confidare nella puntuale segnalazione dei vulnus lasciati sguarniti, moniti che l’avvocatura più di altri è in grado di rivolgere. Peppino Impastato, 40 anni fa la morte del militante che prendeva in giro il potere dei boss di Enrico Bellavia La Repubblica, 8 maggio 2018 Le lotte e gli slogan in difesa della sua terra, la sfida alla mafia nel paese dei “cento passi”. E quella notte del delitto imperfetto sui binari. Irridente, geniale ed entusiasta. Un trascinatore nella sua Cinisi muta, cieca e sorda. Militante rigoroso, quanto irrequieto, fermo nel proposito di denuncia, ma convinto che l’arma dell’ironia, dell’irriverenza, dello sberleffo fosse molto più efficace di estenuanti dibattiti e di pagine su pagine di documenti. Peppino Impastato studiava anche quelli con il piglio da giornalista, riconoscimento postumo nella sua esistenza. Come l’elezione a consigliere comunale di Democrazia proletaria, successo dopo cocenti amarezze, arrivata dopo il funerale. E allora eccolo nella memoria dei compagni di un tempo, i dibattiti, certo, i comizi ma anche il cineforum, il circolo di Musica e Cultura, i concerti, l’emancipazione femminile, le feste, le scorribande con i compagni, le serate di chiacchiere e le divergenze fino alle incazzature su fumo, nudisti e amore libero. Le rotture con chi voleva dare a quelle esperienze un’impronta hippy. Ma anche il carnevale, quel suo travestimento da clown che sorprese e spiazzò tutti quando si presentò irriconoscibile con i bambini che gli facevano corona. O quella sua idea che se il Comune opponeva l’occupazione di suolo pubblico per impedire una imbarazzante mostra sulle malefatte di Tano Badalamenti e dei suoi complici in municipio, era allora la mostra stessa a doversi mettere in movimento, a camminare sulle gambe di chi ci credeva, su e giù per il corso, così che potessero vederla tutti. Erano le lotte per immagini e slogan secchi: quella sulla costruzione dell’Az10 il primo dei complessi turistici che avrebbero contribuito a privatizzare e a sfregiare la costa, gli espropri di campi e pascoli e lo sfascio sociale creato dalla realizzazione della terza pista dell’aeroporto. Lo scalo stesso e il suo essere snodo per il traffico internazionale dell’eroina, raffinata tra mare e montagna nel grande golfo di Castellammare. Il dito puntato su Pino Lipari, un geometra dell’Anas, che molti e molti anni dopo avrebbe portato dritto alla rete di protezione di Bernardo Provenzano. E poi c’era Onda Pazza, l’appuntamento quotidiano di Radio Aut, quel picchiare duro su Tano Seduto e la sua Mafiopoli. La voce che usciva da quel microfono l’ascoltavano tutti: gli amici e i detrattori. Se la ricordano quelli che a Cinisi lo hanno amato e quelli che ancora trovano sempre una ragione per scrollare le spalle. Eppure quel grappolo di case che partono dal Municipio e corrono fin quasi alla costa, con le sue strade squadrate, le campagne avare e le mucche dei “vaccari” un tempo molto più generose di latte e carne, con le seconde case dei palermitani corsi a ritagliarsi uno rettangolo vista mare, oggi nel mondo è il paese di Peppino e non più quello di don Tano, come qui ancora qualcuno chiama il boss morto in carcere negli Usa, prima che la condanna per l’assassinio di Impastato diventasse definitiva. È il paese dei Cento Passi, l’invenzione del film che ha fatto di Peppino un’icona ma è anche il paese di Casa Memoria. Lì dove si custodisce il senso di una vita nota a morte avvenuta, grazie all’impegno di chi gli è sopravvissuto in un ponte ideale con Palermo, dove opera il centro di documentazione alla memoria di Peppino, animato da Umberto Santino che ha dedicato la propria esistenza a battersi per la verità, pur non avendolo mai conosciuto. Ma Cinisi è anche il paese di Felicia, la madre di Peppino, la donna esile e minuta, dalla tempra fortissima che riuscì a chiudere gli occhi solo quando un pezzo della giustizia pretesa arrivò, 23 anni dopo l’omicidio. Incrociando in tribunale Vito Palazzolo, il braccio destro di don Tano, trascinato a rispondere di quel corpo dilaniato sui binari della ferrovia che si voleva far passare per suicida gli sibilò in faccia: “Vergogna”. Costringendolo ad abbassare lo sguardo. Quando le dissero delle condanne prima di Palazzolo e poi di Badalamenti, rispose solo: “Ora posso morire”. Alla nipote fino a pochi giorni prima di andarsene chiedeva di metterle ancora una volta “u cinema di Peppino”, il film che di quel figlio ridotto “a un sacchetto di resti” gli aveva restituito l’onore della verità. Per notti e notti, prima di allora, sola in casa, se ne stava a contemplare la foto del figlio, percuotendosi le tempie. Se ne accorsero quando la ricoverarono trovando ai raggi X i segni di quei colpi. Lo aveva accudito e coccolato quel figlio, difeso anche contro il marito Luigi, mafioso, che lo aveva ripudiato. Perché Peppino le prime lotte le aveva fatte nel perimetro della sua famiglia, prendendo le distanze dal padre e dal mondo degli amici degli amici. Una rottura insanabile, un disonore, per uno che alle scampagnate con la famiglia si trovava con Luciano Liggio, che aveva visto il corpo dilaniato dello zio capomafia Cesare Manzella, che avrebbe rifiutato le farisaiche condoglianze dei boss al funerale del padre. Fedele alla linea dettata da Felicia che al marito aveva proibito di portargli in casa i suoi amici. Era anche questo Peppino, intransigente, segnato da un’esperienza sentimentale che lo aveva amareggiato, deluso dalla piega che le convenienze e i minuetti della politica, anche a sinistra, anche a Cinisi, i compagni cooptati nel sistema avevano preso. Ne aveva scritto in una lettera. I carabinieri del futuro generale Antonio Subranni, corsi il 9 maggio di 40 anni fa a chiudere sbrigativamente l’indagine su quel che doveva essere un bombarolo morto in servizio durante la preparazione di un ordigno, usarono anche quella per farlo passare per suicida. Un kamikaze, contro l’evidenza della pietra sporca di sangue con la quale lo avevano stordito, delle sue mani integre, risparmiate da una bomba che si voleva esplosa mentre la maneggiava, dei testimoni mai cercati, delle chiavi di Radio Aut inspiegabilmente lucide, provvidenzialmente trovate tra gli sterpi da un carabiniere. Prima di interrogarsi su cosa fosse accaduto, gli investigatori avevano fretta di stabilire come uscirne. “Era tutto apparecchiato”, rivelò un investigatore della polizia, arrivato sul luogo del delitto quando già i militari avevano sentenziato le loro certezze. Le perquisizioni? A casa degli amici e della vittima. Ad afferrare carte per costruire l’inganno. Funzionale all’impunità di un boss forse già allora confidente che doveva essere risparmiato dal suo stesso crimine. A dispetto delle tante, troppe tracce, di un delitto assai imperfetto. I soldi dei clan investiti nelle scommesse: se il gioco frutta più della droga di Antonio Crispino Corriere della Sera, 8 maggio 2018 Il procuratore di Catanzaro: “Oggi c’è un monopolio della ‘ndrangheta in questo settore al punto che i capi ‘ndrina pretendono di gestire da soli il gioco on line”. Paolo Di Lauro, meglio noto come Ciruzzo ‘o milionario, capo indiscusso della camorra napoletana, agli inizi del 2000 convoca un suo collaboratore e gli dà un mandato esplorativo: capire se continuare a investire in stupefacenti e nel mercato della contraffazione o diversificare nelle scommesse. Dà al suo affiliato un paio di settimane per rispondere. Siamo nel 2002, i volumi delle puntate non hanno ancora raggiunto quota 100 miliardi di euro come nel 2017. Il collaboratore di Di Lauro torna dal capo dopo un giro di consultazioni con i capizona di mezza Napoli e gli dà risposta negativa. “Niente da fare, è un mercato difficile, ci sono troppi controlli, meglio lasciar perdere e continuare a puntare sulla cocaina”. Lui, invece, i suoi soldi li investe di nascosto nel gioco, iniziando a prendere contatti con programmatori, gestori, esercenti e sale scommesse. Quel collaboratore si chiama Antonio Leonardi, oggi pentito, ed è lui stesso a raccontarlo agli inquirenti che lo interrogano sugli interessi della camorra nel settore del gambling. Il suo metodo si chiamava Goldrex, creato insieme a un certo Antonello, un programmatore siciliano nella disponibilità di Renato Grasso, uno dei primi imprenditori a fare affari contemporaneamente con camorra e mafia siciliana, solo grazie al gioco. Il sistema di Leonardi non era altro che un computer collegato a una rete illegale di scommesse on line con server all’estero. Sarebbe stato copiato da tutta la criminalità organizzata, nonostante i suoi disperati tentativi di tenerlo riservato. Il nuovo trend economico-mafioso - In diciott’anni quello che poteva sembrare un investimento azzardato per un criminale è diventato un trend economico-mafioso. Lo cristallizza bene il procuratore aggiunto di Catanzaro Vincenzo Luberto: “Abbiamo segnali di persone che dacché operavano nel mercato degli stupefacenti ora investono nel mondo dei giochi perché più redditizio. Anzi, oggi c’è un monopolio della ‘ndrangheta in questo settore al punto che i capi ‘ndrina pretendono di gestire da soli il gioco on line”. Gli Arena o i Grande Arachi, ad esempio. Che non si limitano a controllare le aperture di nuove agenzie di scommesse o chiedere il pizzo su ogni slot machine installata nei bar. Capiscono che all’estero si può creare una rete parallela più sicura. Scelgono Malta: vicina all’Italia, migliore tassazione, meno controlli, licenze più facili da ottenere, maggiore guadagno (gli Arena riescono a incassare 1,3 milioni di euro in soli due anni). La Commissione bicamerale di inchiesta sul fenomeno delle mafie lo scorso dicembre ha lanciato un nuovo allarme: “La criminalità mafiosa ha operato enormi investimenti, acquisendo e intestando a prestanome sale deputate al gioco, ma anche inserendosi nell’organigramma delle società di gestione degli esercizi deputati al gioco. Si tratta di interferenze mafiose che talvolta lambiscono anche le stesse società concessionarie”. Il cambio di business della famiglia Femia - Altro esempio emblematico di questo cambio di rotta è quello dei Femia, una famiglia di ‘ndrangheta da sempre protagonista del narcotraffico dal Sudamerica. Con Rocco Nicola Femia il business si orienta quasi esclusivamente sull’installazione di slot machine, la produzione di software da intrattenimento e il controllo delle sale giochi. Individua l’imprenditore del settore che in quel momento ha maggior successo, Luigi Tancredi, detto il “re del poker”, e gli commissiona software con indicazioni ben precise. Crea una rete di persone a libro paga dell’organizzazione mafiosa tra cui un poliziotto di Reggio Calabria, un ufficiale della Guardia di Finanza, un cancelliere della Corte di Cassazione. Personaggi che Femia stipendiava per evitare i controlli nelle sue sale scommesse o avere informazioni sulle indagini che lo riguardavano. Tutti condannati in primo grado. Anche come commercialista si sceglie un ex finanziere. E quando dei suoi affari scrive un giornalista come Giovanni Tizian progetta di eliminarlo “sparandogli in bocca”. In quel periodo la Electronic System, società produttrice di schede di gioco che Femia utilizza per dominare il settore delle slot machine, ha una flessione di vendite. Subisce la concorrenza della Nazionale Elettronica. Ma proprio in quel momento iniziano una serie di sequestri ai danni di quest’ultima. “Per quello che so Femia ha pagato cento euro per ogni scheda sequestrata alla concorrenza” racconta un suo ex collaboratore che sceglie di mantenere l’anonimato. Quella società in crisi diventa leader nel settore. Nel 2016 è stata acquistata dalla Novomatic, il maggior gruppo operante nel gaming in Europa fondato da Johann Graf, l’imprenditore dei giochi più ricco del mondo secondo Forbes. “Novomatic può con certezza affermare che successivamente all’acquisto di Electronic System S.p.A, l’esame dei crediti effettuato sui singoli fornitori, ha fatto riscontrare delle anomalie, contrarie alle nostre policies, per cui non solo sono stati interrotti i rapporti commerciali con i clienti ma, a tutela del Gruppo, si è convintamente ritenuto di adire alle vie legali ove ritenuto necessario” fanno sapere dalla Novomatic Italia. Tra queste società con cui la Novomatic ha interrotto i rapporti, ci sono quelle riconducibili ai familiari di Franco Femia, fratello del collaboratore di giustizia Rocco, che - a quanto pare - ha portato avanti gli affari di famiglia anche dopo il pentimento del parente. La ricerca dei softwaristi - Il gaming, soprattutto on line, richiede figure tecniche qualificate, non si può improvvisare. Ed ecco che come i narcotrafficanti hanno bisogno dei broker, ossia intermediari per far incontrare domanda e offerta, così le mafie oggi sono alla costante ricerca di softwaristi, programmatori che riescono a collegare il giocatore con piattaforme illegali senza passare per il controllo dello Stato. Eppure, proprio questo è il punto debole di ogni investigazione. Lo conferma lo stesso Luberto: “Non abbiamo avuto modo, tempo e forza di capire coloro i quali elaborano i software illegali che poi rivendono alla criminalità organizzata”. Non c’è un nucleo investigativo dedicato e il più delle volte gli inquirenti sbattono il muso contro le legislazioni di Paesi esteri. È capitato recentemente agli uomini della Direzione Investigativa Antimafia allorquando hanno bussato alla porta di una società inglese che si chiama Skrill Limited Ltd. È specializzata in pagamenti digitali, utilizzati soprattutto per depositare soldi sui conti gioco on line. “Alla richiesta del personale della Direzione Investigativa Antimafia di fornire indicazioni sull’identità dei titolari di alcune carte Skrill incrociati durante l’attività di indagine, la società britannica ha risposto che non è possibile fornire alcuna indicazione in merito”. Pene irrisorie - “È più sicuro del traffico di droga, richiede una filiera più corta e soprattutto pene irrisorie, nemmeno paragonabili a quelle per traffico di stupefacenti. Ai boss conviene”, dice Carlo Cardillo, maggiore dello Scico (Servizio Centrale Investigazione Criminalità Organizzata) della Guardia di Finanza. Del resto, la stessa Commissione Antimafia nella sua relazione finale del 2017 ha ammesso: “Il lavoro d’inchiesta ha rilevato che l’accertamento delle condotte illegali è alquanto complesso e le conseguenze giudiziarie sono piuttosto contenute in ragione di un sistema sanzionatorio, quale quello vigente, che a causa di pene edittali non elevate per il reato di gioco illecito, non permette l’utilizzo di più efficaci sistemi d’indagine ed è presto destinato alla prescrizione”. C’è un nome che ai più non dirà nulla, ed è Mario Gennaro. Negli ambienti criminali è noto come il “superpentito”, una sorta di Tommaso Buscetta del gambling. Era l’uomo della ‘ndrangheta a Malta con il compito di ripulire il denaro sporco attraverso i siti di poker e scommesse. A gennaio scorso è stato condannato, a distanza di tre anni dall’arresto: 4 anni di reclusione. La riforma della privacy non elimina il vecchio codice di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 8 maggio 2018 Punita l’acquisizione fraudolenta e la diffusione di ingenti dati personali; a 16 anni il consenso dei minori per la rete; la sanità perde l’obbligo del consenso e oblazione in vista per le violazioni amministrative del vecchio codice della privacy. Codice che, seppure, amputato in larga parte, rimane in piedi. Viene, tra l’altro, abrogato integralmente l’allegato B sulle misure minime di sicurezza (la violazione delle quali non costituisce più reato). Sono alcuni dei punti dello schema decreto legislativo di armonizzazione dell’ordinamento italiano al regolamento Ue sulla protezione dei dati (n. 2016/679), operativo dal 25 maggio 2018. Lo schema di decreto, che entrerà in vigore la stessa data, già approvato in via preliminare il 21 marzo 2018, ha subito più di una stesura, ma l’ultima bozza di cui si sintetizza qui il contenuto, con ogni probabilità verrà bollinata oggi dalla Ragioneria generale dello stato e successivamente trasmessa in parlamento per l’acquisizione dei pareri delle competenti commissioni parlamentari. L’ultima bozza è decisamente diversa dalla prima che ha circolato tra gli addetti ai lavori. La novità più eclatante riguarda il contenitore delle norme: dalla completa abrogazione del codice della privacy (dlgs 196/2003) si passa a una abrogazione chirurgica, anche se molto estesa e a una vasta operazione di sostituzione e integrazione di disposizioni. Alcune di queste sono la riproposizione di analoghe disposizioni del codice della privacy. Chi deve applicare la privacy si trova, dunque, di fronte a un quadro di norme sparse qua e là, senza una fonte unificante. E ancora non è finita, visto che su alcuni pezzi importanti, come le autorizzazioni generali del garante, si apre ora una stagione di verifica della compatibilità. E, poi, ancora ci potranno essere codici etici e infine continuano ad applicarsi i provvedimenti del garante adottati in 22 anni di privacy all’italiana, in quanto compatibili con il regolamento Ue e con le disposizioni del decreto di armonizzazione. Vediamo, dunque, di tratteggiare alcune delle novità e delle pseudo-novità. Oblazioni e depenalizzazioni - Il regolamento Ue 2016/679 afferma il principio per cui non si può punire due volte (con una sanzione penale e con una sanzione amministrativa) una stessa violazione. Ma se la prima bozza traduceva questo principio con una depenalizzazione a tappeto di tutti i reati previsti dal codice della privacy, l’ultima bozza ripropone una sezione penale, di cui entrano a fare parte nuovi illeciti, come l’acquisizione fraudolenta di dati personali e la comunicazione e la diffusione illecita di dati personali riferibili a un ingente rilevante numero di persone. Una norma ad hoc riguarda i procedimenti pendenti per i vecchi illeciti amministrativi, non arrivati a conclusione con l’adozione da parte del garante di una ordinanza di ingiunzione di pagamento: chi vorrà potrà saldare il conto pagando i due quinti del minimo edittale. Per le sanzioni amministrative previste dal regolamento Ue 2016/679 in Italia le norme di procedura sono quelle della legge 689/1981. Rimane il fatto che avremo illeciti amministrativi puniti con due fasce di sanzioni per cui è individuato solo il massimo e cioè 10 e 20 milioni di euro, senza predeterminazione del minimo. Una situazione questa che, quand’anche legittima, è assolutamente iniqua, perché accomuna sul piano edittale sia sanzioni lievi che gravi, sia sanzioni formali che sanzioni lesive di interessi sostanziali. Il problema beninteso non è la mancanza del minimo, ma la mancata graduazione legislativa di diversi livelli massimi in corrispondenza di livelli di gravità diversi e senza che a ciò possa sopperire il prudente uso del potere di graduazione che in concreto sarà adottato da parte del garante della privacy. Privacy. Protezione da estendere alle persone giuridiche di Guido Alpa Il Sole 24 Ore, 8 maggio 2018 Il 25 maggio prossimo entrerà in vigore il Regolamento Ue n. 679 del 27 aprile 2016 sul trattamento dei dati personali. È encomiabile l’opera che, da alcune settimane, sta promuovendo il Sole 24 Ore per diffonderne la conoscenza. Ciò attesa la diffusa inconsapevolezza dei cittadini, la preoccupazione delle imprese e i dubbi che istituzioni e in generale i giuristi si pongono riguardo alle modalità con cui sarà applicato e agli effetti che potrà dispiegare sugli atti della vita privata e sull’attività economica in generale. Quella barriera di riservatezza che si traduce in diritto - Il regolamento fissa regole uniformi per tutti gli Stati membri ed è applicabile immediatamente non appena entra in vigore. Per adattarlo alla situazione normativa esistente nel nostro Paese le ipotesi astrattamente possibili sono tre: (i) entrata in vigore e contemporanea abrogazione esplicita del Codice della privacy; (ii) entrata in vigore e abrogazione implicita del Codice della privacy; (iii) entrata in vigore accompagnata da norme di dettaglio residuali del Codice della privacy e linee guida predisposte dall’Autorità garante perché il regolamento sia correttamente interpretato e applicato. La terza ipotesi è la più probabile, e all’ufficio del Garante starebbero lavorando in questo senso. Bruxelles, via alla guerra dei dati contro la Silicon Valley (e Facebook) - D’altra parte, se pensiamo che, sotto la guida di Stefano Rodotà, il Codice della privacy italiano rappresentava la disciplina più coerente, sistematica e avanzata rispetto agli altri modelli europei, appare opportuno che la preziosa esperienza accumulatasi nel frattempo non vada dispersa e che il regolamento non abbassi il livello di protezione della privacy e dei dati personali che il modello italiano aveva raggiunto. Ogni discussione al riguardo è utile, in quanto il regolamento non è scritto in modo preclaro, lascia adito a dubbi interpretativi e compie alcune scelte di base che potrebbero apparire discutibili a quanti si preoccupano della tutela del diritti fondamentali in ambito europeo e nazionale. Gli Usa non possono contrastare Facebook. L’Europa forse sì - Questi temi sono emersi in un convegno organizzato da Nadia Zorzi Galgano alla Facoltà di Economia dell’Università di Bologna alcuni giorni fa, ma molte Università si stanno già attrezzando per commentare il regolamento. Il quale cerca di bilanciare i diritti della persona, particolarmente pregnanti in quanto investono l’identità digitale (le vicende di Facebook sono una spia gigantesca dei pericoli in cui può incorrere ciascuno di noi), la profilazione e quindi la costruzione della persona come potenziale consumatore di beni e servizi nel mercato digitale, la libertà di circolazione dei dati subordinata alla loro garanzia e tutela. In poche parole, il regolamento appare come un elenco di diritti garantiti al titolare dei dati e di obblighi che debbono osservare quanti si occupano della raccolta, del trattamento e della circolazione di quei dati, ma in realtà bilancia i diritti fondamentali - difesi addirittura a livello di Carta dei diritti Ue (all’articolo 8) con i diritti del mercato, difesi dai Trattati. Bruxelles prepara nuove regole contro la “dittatura di Amazon” - Il bilanciamento non è semplice, come dimostra l’ambiguità dell’articolo 1 del regolamento che, da un lato, “protegge i diritti e le libertà fondamentali delle persone fisiche, in particolare il diritto alla protezione dei dati personali” (comma 2) e dall’altro dispone però che “la libera circolazione dei dati personali nell’Unione non può essere limitata né vietata per motivi attinenti alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali” (comma 3). Ora, se si può apprezzare il regolamento per i limiti alla profilazione, per l’inserzione nel catalogo dei diritti del diritto all’oblio, per la conferma della responsabilità oggettiva di chi tratta i dati, appare preoccupante la libertà che il regolamento assicura ad ogni titolare di negoziare la cessione dei propri dati, per ottenere non solo i vantaggi utili per acquisire beni e servizi necessari alla vita quotidiana, ma anche per farne fonte di lucro. In più, non si comprende perché la tutela dei dati riguardi solo le persone fisiche e non anche le persone giuridiche, atteso che i diritti della personalità sono ormai estesi in tutti gli ordinamenti anche agli enti collettivi: le persone giuridiche non sono che uno schermo, una funzione, dietro la quale operano pur sempre persone fisiche. È opportuno richiamare a questo proposito un documento che spesso si tende a ignorare, e che invece dovrebbe essere letto come una guida interpretativa del regolamento: mi riferisco alla Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio sullo “scambio e protezione dei dati personali in un mondo globalizzato” (COM 2017 n.7 final, del 10.1.2017). In questo documento la Commissione insiste soprattutto sulla circolazione extracomunitaria dei dati, preoccupandosi che essi siano adeguatamente tutelati perché non possano essere pregiudicati dal loro trasferimento in aree in cui non godono di analoga tutela (come accade ad esempio negli Usa). Ma il documento sottolinea in particolare che “il rispetto della privacy è una condizione necessaria per flussi commerciali stabili, sicuri e competitivi a livello mondiale”. E aggiunge un monito sul quale vorremmo richiamare l’attenzione del nostro governo (che si appresta a esercitare la delega per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento ex articolo 13 della legge 163/2017): la privacy non è merce di scambio (p.6) (…) e negli accordi commerciali la protezione dei dati personali non è negoziabile (p.7). Principi che erano già stati esposti dalla Commissione in “Commercio per tutti - Verso una politica commerciale e di investimento più responsabile” (COM 2015 n. 497 final del 14.10.2015) e che erano stati tenuti presenti nella negoziazione del Ttip, poi fallita per il cambiamento di rotta della nuova amministrazione Usa. La morale è che i dati personali debbono essere “presi sul serio”, come tutti i diritti fondamentali; una volta che siano violati, ogni forma di risarcimento è solo un palliativo, perché la persona non potrebbe essere posta nella medesima condizione in cui si sarebbe trovata se l’illecito non fosse stato commesso. Lo dovrebbero ricordare le imprese ma anche gli stessi titolari dei dati, cioè i cittadini comuni, che sembrano ignari, o forse rassegnati alle esigenze di un mercato sempre più aggressivo e indifferente ai diritti della persona. Omesso versamento delle ritenute: il pagamento degli stipendi esclude la crisi assoluta di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 8 maggio 2018 Corte di Cassazione - Sezione III - Sentenza 7 maggio 2018 n. 19671. Il pagamento dello stipendio ai dipendenti dimostra che la crisi dell’azienda non è assoluta e che si poteva e si doveva far fronte al versamento delle ritenute previdenziali. Con la Sentenza 19671depositata ieri, la Corte di Cassazione ribadisce il dovere, per l’imprenditore in difficoltà che si trovi al bivio tra il dovere di adempiere all’obbligo contributivo e il diritto dei lavoratori a percepire il salario, di dare la precedenza ai versamenti previdenziali, ai quali il legislatore ha assicurato una tutela penalistica. I giudici, respingono il ricorso dell’imprenditore che aveva dalla sua il pagamento ad Equitalia di quasi 300 mila euro, risultato di una rateizzazione per omessi pagamenti relativi ad anni precedenti. Ad avviso della difesa i nuovi inadempimenti erano il frutto di una crisi di liquidità, dovuta all’andamento del mercato e all’impossibile accesso al credito bancario: un “combinato disposto” in virtù del quale l’imprenditore invocava l’esimente della forza maggiore. Per la Cassazione però il ricorrente aveva fatto delle scelte imprenditoriali, evitando di versare all’Istituto di previdenza quanto avrebbe già dovuto accantonare, scegliendo i creditori da soddisfare e comunque disegnando una “classifica” degli impegni economici da soddisfare in funzione della necessità aziendale. “Scelte” che portano il ricorrente fuori dal raggio d’azione della forza maggiore e che sono la spia anche del dolo generico richiesto per il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali, che scatta quando, in caso di difficoltà economica, l’imprenditore decide di dare la priorità al pagamento delle retribuzioni o di spendere del denaro per la manutenzione dei mezzi necessari a svolgere la sua attività, “rimandando” i pagamenti all’Inps. Sempre ieri, con la sentenza 19677, i giudici sono arrivati alla stessa conclusione, in un caso analogo, ricordando che neppure il sopravvenuto fallimento può scriminare il precedente omesso versamento delle ritenute. Anche in questo caso l’imprenditore aveva preferito pagare i dipendenti. Lodi: si costituisce il detenuto evaso dal carcere durante l’ora d’aria La Repubblica, 8 maggio 2018 La sua fuga durava da sabato pomeriggio. L’uomo, un 22enne, era finito in cella per reati relativi allo spaccio. Si è costituito il 22enne evaso sabato pomeriggio dal carcere di Lodi. L’uomo, di cittadinanza marocchina, era stato arrestato per reati relativi allo spaccio di stupefacenti. Mohamed El Madoui era fuggito durante l’ora d’aria, scavalcando un muro di cinta della struttura. Nel pomeriggio è tornato spontaneamente in carcere. Sulla vicenda all’interno del carcere era stata aperta un’inchiesta per capire in che maniera il detenuto fosse riuscito a scavalcare il muro senza che nessuno lo vedesse. Sulla vicenda era intervenuto Donato Capece, segretario generale del sindacato Sappe che aveva parlato di “evasione annunciata” e di un episodio “frutto della superficialità con cui sono state trattate e gestite le molte denunce fatte dal Sappe sulle condizioni di sicurezza dell’istituto di pena, che ha portato la sicurezza al di sotto dei livelli minimi, sottoponendo la polizia penitenziaria a rischi e disagi continui”. Benevento: detenuti psichiatrici, intesa tra Asl e Tribunale Il Mattino, 8 maggio 2018 Il direttore generale della Asl di Benevento, Franklin Picker, il presidente del Tribunale di Benevento, Marilisa Rinaldi, il direttore generale della Asl di Avellino, Maria Morgante e il coordinatore regionale per il superamento degli Opg, Giuseppe Nese, hanno siglato, ieri mattina presso il Palazzo di giustizia sannita, un accordo operativo in tema di applicazione delle misure di sicurezza per la gestione dei pazienti psichiatrici autori di reato, incapaci di intendere e di volere, e ritenuti dalla Magistratura socialmente pericolosi. Il protocollo si propone di favorire, attraverso una continua collaborazione tra le Aziende Sanitarie Locali e il Tribunale, l’adozione da parte del giudice di misure di sicurezza, anche quando provvisorie, diverse dall’internamento nelle strutture residenziali extra-ospedaliere (Rems, presente in Irpinia a San Nicola Baronia), in modo da assicurare la cura del paziente psichiatrico e, allo stesso tempo, la tutela della collettività. In particolare, “è prevista la conoscenza aggiornata delle soluzioni offerte dai servizi sanitari; la disponibilità di un ventaglio di soluzioni applicative adatte al trattamento del prosciolto non imputabile sin dal momento del giudizio. In modo adeguato alle esigenze del singolo in un rapporto di continuo scambio di informazioni con il Dipartimento di Salute Mentale (Dsm); la possibilità di indirizzare il non imputabile ad un programma terapeutico personalizzato, di plasmare il contenuto delle misure di sicurezza sin dal momento della pronuncia del processo penale e di prendere in considerazione il ricorso alla misura di sicurezza detentiva, diversa cioè dalla libertà vigilata, solo quando questa rappresenti l’unica soluzione utile e praticabile”. “È di assoluta importanza - ha commentato a margine dell’incontro il direttore generale della Asl di Benevento, Picker - la collaborazione tra la sanità territoriale e la magistratura per addivenire a una corretta ed efficace gestione dei casi di autori di reato che siano anche pazienti psichiatrici. Quello di oggi è un punto di partenza, non di arrivo: il Dipartimento di Salute mentale assicurerà la massima collaborazione al Tribunale per offrire al giudice il percorso terapeutico il più possibile individualizzato perché siano tutelati il diritto alla sicurezza sociale e, nel contempo, il fondamentale diritto costituzionale alla cura del singolo”. Catanzaro: nel carcere parte il progetto “Studiare la Costituzione” ildispaccio.it, 8 maggio 2018 Al via il progetto “Studiare la Costituzione in carcere”, realizzato dalla Casa circondariale “Ugo Caridi” di Catanzaro in occasione del settantesimo anniversario dall’entrata in vigore della carta costituzionale. Il progetto, che si avvale della collaborazione della sezione provinciale dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia (Anpi), si articola in tre incontri, il primo dei quali - si legge in una nota della direzione della Casa circondariale catanzarese - si è già svolto, mentre gli altri due sono previsti a maggio e a giugno, a conclusione di un’attività di studio da parte dei detenuti delle lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana. L’obiettivo del progetto - aggiunge la nota - è quello di “far conoscere ai detenuti non solo i diritti contenuti nella nostra carta costituzionale, ma anche la storia della loro conquista. Il carcere italiano nel 2018 è un carcere in cui non possono essere detenuti oppositori politici; è un carcere in cui non possono essere commessi abusi o torture; è un carcere in cui le persone che stanno scontando una pena in seguito ad una sentenza sono aiutate ad intraprendere un percorso rieducativo, attraverso il completamento degli studi, la formazione professionale e il reinserimento lavorativo”. La direttrice del carcere di Catanzaro, Angela Paravati, osserva: “Particolare attenzione è stata data allo studio degli articoli 2,3 e 27 della Costituzione, i diritti inviolabili, i doveri inderogabili, il principio di eguaglianza e la finalità rieducativa della pena. Anche in condizioni di restrizione della libertà personale, il rispetto della dignità umana resta, sempre e comunque, il valore supremo dell’ordinamento italiano”. Le attività di approfondimento prevedono anche la produzione di elaborati scritti da parte dei detenuti, con il supporto del personale educativo e del laboratorio di lettura e scrittura creativa attivo all’interno del carcere, gestito dal docente Nicola Siciliani De Cumis, da Giorgia Gargano e Ilaria Tirinato. Al primo incontro hanno partecipato il presidente dell’Anpi Catanzaro Mario Vallone, il costituzionalista Silvio Gambino, docente all’Università della Calabria, e molti detenuti. “La concezione rieducativa oggi alla base dell’istituzione detentiva - conclude la nota della direzione della Casa circondariale di Catanzaro - è l’esatto contrario della natura delle prigioni del regime fascista e non è nata dal nulla: è l’idea di carcere come servizio sociale espressa nella nostra Costituzione. Studiare la Costituzione in carcere vuole dire studiarla di fatto nel luogo in cui è nata: tanti partigiani hanno subito detenzioni ingiuste nelle prigioni fasciste e da lì hanno cercato di costruire una società migliore”. Napoli: detenuti e studenti “in campo” contro i clan Il Roma, 8 maggio 2018 Ex boss, affiliati e gregari della camorra che oggi, dopo aver quasi pagato il loro conto con la giustizia, decidono di indirizzare verso la retta via chi ha la possibilità di scegliere il proprio futuro. Come? Attraverso la testimonianza e il racconto della loro scelta di vita, che li ha portati inevitabilmente dietro le sbarre ma che ora potrà servire da monito ai giovani, specie quelli che vivono in contesti difficili come Secondigliano. Ma anche sfidandosi con i ragazzi delle scuole, con le associazioni e con gli agenti della polizia penitenziaria sul campo di calcio, con un gioco pulito, all’insegna del rispetto delle regole e della legalità. Questo il senso dell’iniziativa che si svolgerà questa mattina a partire dalle 9.30: “Noi di Secondigliano”, II edizione del Fair Play E-Vent Cup “Giochiamo il futuro calciando il passato”, ideato da Franca Lovisetto della E-Vent e Piermassimo Caiazzo, promosso dall’associazione Occt, in collaborazione con il Centro penitenziario di Secondigliano, l’Istituto comprensivo Giovanni Pascoli II-Marta Russo Plesso Carbonelli e la parrocchia dei Sacri Cuori e Centro sportivo Andrea Capasse, col patrocinio del presidente della settima Municipalità, Maurizio Moschetti. Scopo dell’evento è quello di favorire iniziative con gli studenti delle scuole del quartiere (quarte e quinte delle elementari e medie inferiori) per prevenire e contrastare il fenomeno del bullismo e delle devianze minorili. I carcerati metteranno così a disposizione le loro storie come un “indicatore sociale” che descrive un pericolo da evitare e in cui si potrebbe incorrere pagando gravi conseguenze. Questo il programma della giornata: alle 9.30 presso il Centro sportivo Andrea Capasse si disputerà l’incontro-dibattito tra detenuti e alunni. Seguirà la celebrazione della santa messa. Alle 10.20 prima esibizione del campione del mondo di aeromodellismo acrobatico Luca Pescante; dopo il saluto delle autorità l’inizio del quadrangolare di calcio. Genova: teatro oltre le sbarre, le detenute in scena all’Archivolto di Paola Malaspina teatro.it, 8 maggio 2018 “Giochi senza frontiera” è una nuova produzione coraggiosa di Anna Solaro con alcune donne del carcere di Genova Pontedecimo. Parte dall’idea del gioco, “Giochi senza frontiera”, il nuovo lavoro di Anna Solaro per il Teatro dell’Archivolto, previsto in scena alla Sala Gustavo Modena martedì 8 e mercoledì 9 maggio alle ore 20.30 (con doppia replica mercoledì 9 alle 10.30 per le scuole). Gioco inteso come spensieratezza, leggerezza, innocenza; gioco inteso come possibilità di recuperare una dimensione perduta, ma anche fil rouge tra elementi diversi, considerato che la diversità è uno dei tratti distintivi di questa nuova produzione. Dalle sbarre alle scuole - È proprio il Teatro dell’Ortica, recentemente al centro del dibattito locale per le difficoltà tecniche e finanziarie che rischiavano di comprometterne la sopravvivenza, il capofila di questo interessante progetto, che vede, per la prima volta in Italia, una collaborazione interattiva tra soggetti diversi, come un’istituzione teatrale, i detenuti di un carcere e i ragazzi delle scuole primarie. Il lavoro si inserisce nell’ambito del progetto Oltre il cortile, che prende vita nel 2006 con un’attività di laboratorio realizzata dapprima con i detenuti della Casa Circondariale di Marassi, poi presso la sezione maschile e, infine, in quella femminile di Pontedecimo. Intorno a Oltre il Cortile si è creata negli anni una rete di soggetti che vede - oltre il Carcere di Pontedecimo, le Scuole Primaria Anna Frank e Secondaria di Primo Grado Don Milani - anche il Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere e i partner del progetto europeo Erasmus Plus Skills for freedom, il cui obiettivo è di creare modelli di cooperazione innovativi per favorire le possibilità occupazionali degli ex-detenuti. Dopo il fortunato esperimento del Teatro dell’Arca, già da diversi anni in scena con alcuni detenuti di Marassi, è la prima volta a Genova che ad arrivare sul palco, oltrepassando le “sbarre” fisiche e simboliche del carcere, sono le donne. Gioco, incontro, possibilità - Tutto questo crea grande aspettativa rispetto a uno spettacolo su cui Anna Solaro ha mantenuto sinora uno stretto riserbo, forse per lasciare più spazio alla curiosità e all’immaginazione degli spettatori. Il divertente trailer su Youtube ce la mostra armata di cappellino e fischietto mentre intona una sorta di allegra antifona di invito sul palco. Il tema del gioco in fondo sfida ciascuno di noi a evocare il proprio “finale di partita”, il fuorigioco come limite fisico o esistenziale, i concetti di libertà, regole, confini: non a caso “si gioca col fuoco”, si gioca sognando e sbagliando. Il teatro, con la leggerezza di cui è capace, sa riaprire queste partite perse, sa riportare in avanti un limite che pareva invalicabile. Viene in soccorso la suggestione di una lingua straniera, l’inglese, che raccoglie sotto una stessa parola, to play, tanti significati diversi eppure così affini: suonare, recitare, giocare, facoltà che possiamo sempre scoprire e reinventare, dietro le sbarre e non solo Roma: la vita tra parentesi, in carcere di Giancarlo Capozzoli L’Espresso, 8 maggio 2018 Quando supero il cancello della terza casa di Rebibbia, a Roma, ho come la sensazione di essere tornato a casa. Come quando trovi vecchi amici, voglio dire, che non vedi da un po’ e hai piacere a rivederli, ritrovarli, e loro a rivedere te. Non mi piace ritrovare qui, quelli che sono diventati i miei amici, nel corso del tempo. Ovviamente. Quando mi capita di pensarci, li immagino (indistintamente) fuori, a riprendere in mano, lentamente, la loro vita. Le loro abitudini, fuori. O che meglio ancora, cambiamo, hanno cambiato invece radicalmente la loro vita precedente, ricominciando da capo, da zero. Il personale della polizia penitenziaria è però quasi tutto lo stesso, e ci riconosciamo dopo tanto tempo passato a sopportarmi benevolmente, quando, in accordo con il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, con la Direttrice Passannante, e con il personale dell’area educativa la dottoressa Azara e la dottoressa De Cristofaro, avevo realizzato un laboratorio culturale. L’idea di fondo del progetto era partire dal teatro e dalle questioni poste in essere dalla cultura stessa, per riproporre quel principio di rieducazione della pena, sancito dalla Costituzione. La terza casa è un istituto a custodia attenuata che rende completamente diversa questa esperienza progettuale rispetto a quella realizzata in altri istituti, semplicemente perché è diversa la vita all’interno. Semplicemente nel senso di una maggiore libertà di movimento e di spostamento e di incontro. Non è per nulla semplice, mi rendo conto. Ma è una differenza sostanziale, che si avverte, si nota, fin da subito, a partire dal rapporto professionale, ma in qualche modo di vicinanza, stabilito all’interno dell’istituto tra detenuti e personale. Le direttive ministeriali, le condanne quasi alla fine, la vita stessa all’ interno, rendono l’atmosfera meno pesante. Anche i cancelli da superare per entrare, sono minori rispetto a quelli di altri istituti. Il numero dei detenuti ospitati non è eccessivo, e un numero adeguato di assistenti, permette di controllare il tutto, con estrema vigilanza, ma con discrezione. La disciplina è rigida, come i controlli, naturalmente. Ma è discreta. Quando entro, sta piovendo nel grande cortile all’ interno. Incontro la direttrice per le disposizioni da seguire, e mi licenzia in breve, presa da carte da firmare e ordini da dare. Ho avuto modo di conoscerla profondamente questa piccola donna con un carattere forte. Ho avuto modo di apprezzarne la gentilezza e la disciplina. Ho avuto modo anche di incontrare questa maggiore libertà di cui godono i detenuti qui. Libertà di muoversi tra i lunghi corridoi. Di godere di qualche ora d’aria in più. Di svolgere qualche ora in più con le proprie famiglie. E non è poco. Sembra una cosa normale, e invece non lo è. È proprio straordinario che si dia una reale possibilità di recupero, quindi di libertà, attraverso il lavoro. Il lavoro, qui, è pensare ad un futuro prossimo fuori, è immaginare altre prospettive, altre possibilità di vita. È potersi pensare liberi. Liberi anche da quel passato che li ha condotti sulla loro via criminale. Prima di licenziarmi, la direttrice mi mostra un foglio pieno delle attività che i detenuti possono svolgere durante il periodo della loro detenzione. Il teatro ha ripreso la sua attività, ed ora una nuova compagnia di volontari, professionisti, viene per le prove della prossima messa in scena. Quando li incontro, stanno costruendo delle maschere, oggetti scenici dello spettacolo. Ben oltre la retorica di avere una maschera, togliersi la maschera, mettersi una maschera, vedo uomini attenti a questo incontro con qualcosa che ha a che fare con l’arte. Si può vedere il gioco con i colori delle maschere. O l’attenzione nella costruzione artigianale di una figura. Il tempo è un tempo che scorre lento, impiegato con attenzione e intenzione. E gioco. Li lascio lavorare, mentre seguo un gruppo di ragazzi attorno ad una insegnante. Lei è una signora magra, piccola, adulta. Sorride e comprende, già con lo sguardo. Li segue, lei e alcuni suoi colleghi, nel loro percorso scolastico e educativo. Nella sala teatro, mi affaccio a guardare alcuni degli strumenti di una piccola band composta da detenuti e agenti e volontari, e pensata dall’Ispettore Colleferro e un suo amico musicista, Paolo. Hanno suonato assieme oltre divise e ruoli. La sala dove ho incontrato spesso le suore, oggi è chiusa. Ma non fatico a credere che le suore non facciano mancare, come sempre, il loro supporto umano e religioso a questi uomini. Al piano terra, da qualche anno ormai, è stato aperto un forno in cui sono impiegati alcuni detenuti alla produzione e alla fabbricazione di pane e altri prodotti che vengono poi distribuiti in tutto il quartiere. S. aveva questa faccia da bonaccione già quando lo avevo conosciuto. In realtà è fiero e astuto. Quando ci incontriamo è un misto di imbarazzo e piacere. Lavora lì, ora. Ha il viso provato e spento dagli anni della carcerazione, ma parla orgoglioso del suo nuovo impiego e della fiducia che gli è stata accordata. Controlla l’orologio mentre parliamo per sfornare e infornare il prossimo giro di impasti o pane caldo. Lo lascio sicuro tra i suoi nuovi strumenti di lavoro. Fuori, nel cortile, vedo avvicinarsi una figura familiare. Mi sembra ingrassato rispetto a qualche anno fa, ma il suo modo di camminare è rimasto lo stesso. Cammina con le mani penzolanti di lato e i piedi che, mentre cammina, sembra che lo conducano da qualche altra parte, in giro. Così senza una meta. Ha la testa sempre un po’ reclinata di lato come se fosse pesante tenerla dritta. Fissa. Quando mi è vicino vedo che ha i capelli un po’ più brizzolati e le rughe del viso accentuate. Ci salutiamo. Mi chiede come sto e mi dice che sta meglio. Mi dice che vorrebbe uscire o che vorrebbe essere quantomeno trasferito. Mi dice della sua città, che è un po’ anche la mia. Mi descrive vicoli e piazze, precisamente, come se fossero esattamente davanti a lui, ora. Mi parla dei suoi amici. Mentre parla, ha questo modo di accarezzarsi il viso, come per togliersi le rughe profonde. Quando lo avevo conosciuto mi era sembrato un tic. Ora continua, ma con meno forza. Con meno rabbia. Mentre passeggiamo nel cortile interno, mi accorgo che questo luogo è pieno di questa esperienza di questo incontro. Lui era stato Ariel su questo campo di pallone, e se ne ricorda. E mi ricordo anche io. Mi era sembrato subito Ariel, nella Tempesta di Shakespeare, proprio per quest’aria spaesata e confusa. Qui tutti sono spaesati e confusi. Lui lo sembra un po’ più degli altri, anche se a differenza degli altri, ha anche una cultura. Mi dice di alcuni suoi amici che fanno teatro e dell’ultimo film che ha visto. Gli occhi stretti in una piccola fessura non nascondono una certa sofferenza. Le labbra sono secche. Ma non è trascurato. Piuttosto sembra stanco. Mi sembra stanco anche in questo suo camminare. Sorride quando ripensiamo al tempo passato anche con i ragazzi dell’Università, a giocare e a impegnarci nella cura del testo di Shakespeare. Sono passati tre anni. Tre anni di cambiamenti, di progetti, di aspettative. Lui mi parla di cose avvenute tre anni fa come se fossero accadute ieri, la settimana scorsa. Un mese fa, al massimo. Parliamo come due vecchi amici quando si accorge che è tardi per andare a scuola. Almeno vuole finire quel percorso che fuori ha lasciato a metà. Nonostante questo istituto sia una sorta di modello da seguire in fatto di efficienza e limitatezza della custodia, quando sono finalmente fuori mi resta la domanda su quale necessità abbiamo, come società dico, di pensare ad un luogo, il carcere, che serve solo a mettere la vita tra parentesi. Cagliari: dal carcere al Massimo con mostra evento Ansa, 8 maggio 2018 L’Apecar opera di Boscani inaugura “On human condition”. Un progetto di arte contemporanea e di impegno civile pensato per le carceri sarde. L’Apecar di Giovanna Maria Boscani approda il 9 maggio alla MGallery del Teatro Massimo di Cagliari, lo spazio dedicato a mostre e installazioni. Una scultura mobile che diventa un’installazione itinerante, contenitore di altre opere, sintesi di “Per Grazia Non Ricevuta”, progetto ambizioso e visionario, sotto la direzione artistica di Leonardo Boscani, ideato e realizzato dall’Associazione Marco Magnani in collaborazione con Karel Film production & comunication. Il progetto artistico ha portato l’attrice sassarese e il cantautore cagliaritano con le sue Canzoni della Malavita, nei luoghi di detenzione per interagire con la vita di chi sta dietro le sbarre. Gli artisti - mediatori, ponte tra il dentro e fuori delle carceri - si sono fatti portavoce di sogni e bisogni dei detenuti ed ex detenuti, ai quali è fatta richiesta di una personale interpretazione di ex voto. Assieme a quelli realizzati dalla stessa artista, che prende spunto dalle loro storie, andranno a far parte di una mostra-evento “On human Condition: the 99%” arricchita da materiale artistico e fotografico e del docu-film realizzato da Karel. “Per Grazia ricevuta” inaugura “On human condition”, progetto espositivo e seconda tappa del progetto L’Alleanza dei corpi. Installazioni, video, performance, ponti sonori, talk e una biblioteca condivisa. La Mgallery del Teatro Massimo di Cagliari diventa infatti dal 9 maggio al 23 giugno spazio critico e interattivo con il progetto espositivo. Incontro tra artisti e pubblico per una narrazione condivisa sul tema della comunità in epoca contemporanea, frutto della collaborazione tra Sardegna teatro, Exma e Sardegna Film Commission. Il progetto prosegue l’11 con la performance di Ofri Cnaani “No Data Is An Island” e il 17 maggio con il Radio Event di Radio Papesse “Nessun uomo è un’isola”, il 23 giugno con Talk e performance-Strategie di embodiment di Alessandro Carboni e il 24 giugno con un incontro e performance, Atlas. On Human Condition, di Margherita Moscardini (2016). Guerra. Bombe vendute a Riyad, missili e navi al Qatar di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 8 maggio 2018 Made in Italy e export di armi. Relazione del governo: 10 miliardi di esportazioni di armi e boom di intermediazioni. L’Arabia saudita si conferma il paradiso delle vendite di armi, anche di quelle prodotte in Italia. Ma se Riyad è il terzo paese al mondo per spesa in armamenti nella classifica del Sipri - l’istituto di monitoraggio del riarmo con sede a Stoccolma, in Italia deve vedersela con i rivali del Qatar. A certificare questo ruolo ambivalente dell’industria armiera italiana, pubblica, nel delicato equilibrio dei paesi del Golfo, è la Relazione del governo Gentiloni - affidata alla sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio Maria Elena Boschi - presentata al Parlamento, così come prescrive la legge 185. Nel 2017 è stato toccato il record di spesa in armi nel mondo dalla fine della guerra fredda - 1.730 miliardi di dollari, per metà riversati in soli tre paesi: Stati Uniti, Cina e Arabia Saudita - mentre in Italia le autorizzazioni all’export hanno raggiunto i 10 miliardi di euro, al 48% indirizzate verso Medioriente e Nord Africa. La Rete per il Disarmo invita il governo e il nuovo Parlamento a migliorare gli standard di trasparenza sui dati. E avverte che il calo del 35% dei volumi complessivi di export rispetto al 2016 sono “pareggiati” dalla mega commessa, da 4,2 miliardi di euro, per le sette navi Fincantieri vendute al Qatar corredate dai sistemi di Leonardo e Mbda (partecipata dall’ingrese Bae, dalla francese Airbus e dalla stessa Leonardo-Finmeccanica). Una spesa del genere, autorizzata nel 2016, non si ripete ogni anno, evidentemente, com’è anche il caso delle 20 mila bombe Mk fornite da Rwm Italia ai sauditi per la guerra in Yemen contro gli Houthi: una licenza del valore di 411 milioni già acquisita dalla filiale sarda della multinazionale tedesca. Per oliare l’affare delle corvette al Qatar sono stati spesi 40 milioni di “intermediazione”. A questa voce, dietro la quale si nasconde ogni tipo di “facilitazione”, si nota una esplosione dei costi: ha raggiunto i 531 milioni di euro (+ 1.300 %). Dalle tabelle governative Rete Disarmo desume anche che Mbda Italia abbia pagato in questo modo 178 milioni per vendere i missili Aster al Qatar e 171 milioni per i caccia Eurofighter al Kuwait. Le “banche armate” - Unicredit, Deutsche Bank, Bnp Paribas, Barclays, Banca popolare di Sondrio e Intesa San Paolo - su cui transitano i soldi del mercato della armi, intanto, raggiungono i 4,8 miliardi di euro di transazioni senza obbligo di autorizzazione. A queste si aggiunge Banca Valsabbina a cui si appoggia Rwm Italia. L’odio in rete non ha pace di Giuseppe Lavenia L’Espresso, 8 maggio 2018 Di certo non è un fenomeno nuovo, ma dobbiamo parlarne ancora e ancora. Perché le parole di odio in rete, il cosiddetto hate speech, ottiene ancora tanti consensi e troppa poca indignazione. Nel nostro Paese, dove si passa la maggior parte del tempo a scrollare le pagine social per sbirciare nella vita degli altri stando davanti ai propri smartphone, poi, abbonda. Qual è l’argomento preferito dei cosiddetti haters, cioè di chi non perde occasione per vomitare la sua rabbia addosso all’uno e/o all’altro senza mai argomentare motivazioni che potrebbero valere la fatica dell’uso dei polpastrelli sulla tastiera? In primis, c’è la politica, materia di cui chi insulta a prescindere, forse, non sa nemmeno davvero nulla. L’ultimo esempio che mi risuona ancora nella testa, ben lungi dal volere prendere una posizione partitica se non una umana, è l’augurio di morte indirizzato all’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, dopo essere stato ricoverato al San Camillo di Roma a causa di un aneurisma dissecante dell’aorta. Una malattia cardiovascolare già insidiosa di suo, senza che nessuno debba aggiungere altro se non rispetto. Ma supponiamo che chi ha detto quelle parole pregne di odio non sappia nemmeno che cosa sia un aneurisma: perché mai non ha saputo tenerle almeno per sé? I social network sono diventati campi di battaglia pieni di troll o di utenti con tanto di nome e cognome reali che non si nascondono più nemmeno dietro a profili finti, pronti a indirizzare il discorso verso toni violenti e aggressivi. E purtroppo, trovano ancora seguaci. I numeri del cyberbullismo, infatti, ci dicono ancora che questi fenomeni sono troppi e che dobbiamo denunciare di più. Parlando con i ragazzi che esprimono la loro aggressività online, alcuni di loro dicono che sono convinti di non fare una cosa così grave. Pensano di non fare male a nessuno, perché credono addirittura che nessuno li leggerà o che “ma sì, in fondo sono solo parole”. Ma non è così: scrivere è un agito che non va sottovalutato in questo modo. Prima di arrivare alla scrittura, infatti, c’è un processo cognitivo importante: si pensa e, possibilmente una volta che sia maturato quel pensiero, gli si dà forma con le parole. Civili, assertive, se si ritiene di dover dissentire da un precedente commento. Ma la cosa che più vedo e sento è un’aggressività mal canalizzata sul web, spesso lo specchio di quante difficoltà vengano represse nella vita reale. Urge, insomma, il bisogno di ascoltare le emozioni che ci si porta dentro, anche quelle negative, e di usarle per qualcosa che possa essere utile, non solo a se stessi ma anche agli altri. Gli haters che si esprimono perlopiù in un gruppo chiuso, poi, tendono velocemente alla paranoia e se qualcuno si permette di dissentire con un post che ha un umore diverso da quello della massa, click, e in un attimo è fuori dal gruppo. Bannato. Utilizzando questo linguaggio pregno di cattiveria e di insulti, non si creda che poi si stia meglio. Magari lì per lì lo si può anche pensare, ma nell’arco di poco quella rabbia torna a montare e la voglia di continuare a seminare odio non si placa. Il dolore che si ha dentro non si lenisce in questo modo: va trasformato, elaborato, reso costruttivo. E anche la rete potrebbe essere uno strumento creativo per farlo. Verba volant, scripta manent, dicevano i latini. E se qualcuno leggesse a posteriori quello che è stato scritto sulle bacheche dei vari social network, che storia leggerebbe? Alcune di queste, quelle degli haters, rivelerebbero quanto siano insoddisfatti del loro quotidiano. Continuiamo a parlarne? Magari con toni civili, tanto per iniziare a fare un po’ di allenamento. Quei migranti che nessuno deve salvare di Paolo G. Brera La Repubblica, 8 maggio 2018 Nessuno li voleva, i 105 migranti soccorsi dal veliero Astral. Per due giorni sono rimasti in condizioni igieniche terribili a bordo del vascello di una Ong intrappolato in un assurdo braccio di ferro diplomatico. Dopo averli salvati, ha dovuto affrontare lo scaricabarile delle potenze europee oltre a occuparsi di fame, stanchezza e malattie. Vengono da dieci nazioni di due continenti e hanno rischiato di morire su un gommone alla deriva a una dozzina di miglia dalla costa libica, all’interno delle acque territoriali; ma per 36 ore i tre Paesi coinvolti si sono rimpallati la responsabilità di chi dovesse occuparsi di gestire il loro sbarco “in un luogo sicuro” in cui poter chiedere asilo politico, come prevedono le leggi internazionali. Con sei donne e sei bambini, domenica i naufraghi hanno trascorso una notte difficilissima all’addiaccio sul ponte della Astral, il due alberi gestito dalla Ong ProActiva Open Arms per i soccorsi in mare. Un meraviglioso veliero di cinquant’anni fa, una signora dei mari attempata e totalmente inadatta a prendersi cura di così tanta gente per giorni interi. Cibo e acqua scarseggiano, la toilette delle donne è un catino in un angolo di coperta separata con un telo, quella degli uomini è sporgersi fuoribordo; di lavarsi neanche a parlarne. Leticia, il medico di bordo, ha riscontrato un’otite perforante, alcuni casi di ipotermia e ferite varie, senza contare l’epidemia di vomito. Fino a poche settimane fa i migranti intercettati dalla Astral sulla base di sos lanciati dall’Imrcc, l’autorità marittima italiana per i soccorsi, venivano poi trasferiti su navi adatte ad ospitarli, come quelle militari. Ma il meccanismo è inceppato. Adesso è spesso la guardia costiera libica, formata ed equipaggiata dall’Italia, ad avocare la gestione dell’intervento lanciato dall’Imrcc. È successo anche domenica all’alba, ma la guardia costiera libica non collabora con le Ong cui ordina di tenersi alla larga, esponendo i naufraghi a un rischio immotivato. Anche se dei libici non c’era traccia in mare, Astral ha dovuto ordinare lo stop al gommone lanciato a 50 miglia all’ora per prestare soccorso con personale altamente specializzato. Una procedura insensata che sarebbe potuta costare vite. Mantenendo informata la guardia costiera italiana, alla fine ha raggiunto comunque il gommone grigio dei migranti, alla deriva in una pozza maleodorante di gasolio. Ai limiti delle acque territoriali i trafficanti hanno staccato il motore e sono rientrati con un secondo gommone. Ma l’incubo è iniziato sulla Astral, quando i naufraghi pensavano di essere salvi: Libia e Gran Bretagna - stato di bandiera del veliero - hanno cominciato a rimpallarsi la responsabilità formale del soccorso e quindi del loro destino. Dopo averne autorizzato a voce il trasbordo sulla nave attrezzata Aquarius di Sos Mediterranée rifiutavano di fornire l’autorizzazione scritta, chiesta da Aquarius per evitare una denuncia per traffico di esseri umani contestata a diverse Ong. “Nessuna autorità ha saputo indicarci un posto sicuro dove mettere al riparo queste persone - accusa il deputato di +Europa, Riccardo Magi, imbarcato sulla Astral per verificare la situazione reale dei respingimenti - questo episodio dimostra che non si può fare affidamento sulle autorità libiche: i loro interventi sono un pericolo per i migranti e un affronto ai diritti umani”. Il braccio di ferro è proseguito tra le autorità marittime: “Spetta all’Inghilterra autorizzare il trasbordo - scriveva la guardia costiera italiana - e indicare il porto sicuro”. Gli inglesi erano tutt’altro che d’accordo: per loro devono essere gli italiani, i primi ad aver lanciato il soccorso, a occuparsi dei migranti. A bordo, intanto, un bambino vomitava sangue e mentre faceva buio qualcuno ha provato a tuffarsi in mare in direzione della Aquarius che navigava parallela. Cibo e acqua erano razionati e scarsi. Molti non otterranno asilo e verranno espulsi senza uscire dai centri in cui saranno accompagnati, ma ci sono volute ore per convincere l’Europa - che assomiglia sempre più alla sua frontiera orientale - ad accogliere 105 naufraghi disperati su una nave vera, in grado di offrire loro una doccia e una scodella di minestra. È accaduto solo ieri sera, grazie alla guardia costiera italiana. E un porto italiano sarà il probabile primo approdo. Caso Regeni, pm italiano in Egitto per i video dove rimase l’ultima traccia di Giulio di Carlo Bonini e Giuliano Foschini La Repubblica, 8 maggio 2018 Una piccola svolta dopo mesi di stasi nella cooperazione tra Roma e Il Cairo. Una società specializzata cercherà di recuperare le immagini sovrascritte registrate dalle telecamere della fermata di Dokki. Intanto i magistrati egiziani hanno accolto la ricostruzione degli investigatori italiani e interrogheranno gli uomini dei servizi e i poliziotti indicati nell’informativa. Nell’estenuante inerzia segnata da improvvise accelerazioni e altrettanto repentini e vuoti intermezzi, domenica mattina, una telefonata tra il Procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e il Procuratore generale del Cairo Nabeel Sadeek ripesca dal limbo in cui era sprofondata dal dicembre scorso, la cooperazione giudiziaria tra Roma e il Cairo nell’inchiesta sull’omicidio e le torture di Giulio Regeni. E un comunicato congiunto licenziato nel pomeriggio di lunedì ne abbozza contenuto e time-line. Due le notizie. La prima. Il 15 maggio - si legge - le autorità egiziane muoveranno infine il passo rinviato per due anni e mezzo. Al Cairo, alla presenza di una delegazione italiana che sarà guidata dal sostituto procuratore Sergio Colaiocco, una società russa incaricata dal Regime inizierà le operazioni tecniche di recupero dei video “sovrascritti” registrati il 25 gennaio del 2016 dalle telecamere a circuito chiuso della stazione della metropolitana di Dokki (quella in cui il cellulare di Giulio ne segnalò per l’ultima volta la presenza), impegnandosi a consegnarne “copia” alla magistratura italiana. La seconda. La Procura Generale del Cairo, dopo sei mesi di riflessione, ha deciso di accogliere la ricostruzione dei fatti e l’ipotesi investigativa delineata dalla Procura di Roma nella sua ultima informativa consegnata nel dicembre 2017 alla magistratura egiziana (quella che documenta il coinvolgimento nel sequestro di Giulio e nel depistaggio delle indagini successive al ritrovamento del suo corpo di almeno nove tra funzionari della National Security Agency, il Servizio segreto interno egiziano, e poliziotti) e di procedere a nuove attività istruttorie. Di fatto, a nuovi interrogatori dei nove tra poliziotti e agenti segreti egiziani identificati nell’informativa, e le cui dichiarazioni sono risultate ora incongrue ora del tutto menzognere. Nuovi interrogatori, all’esito dei quali le due Procure torneranno ad incontrarsi per una “valutazione comune”. E comunque non prima della fine di giugno. La mossa del regime di Al Sisi, con tutta evidenza, al di là del caricare di attese attività che potevano essere condotte prima e che Dio solo sa se il Regime non abbia già condotto in silenzio e per proprio conto prima di risolversi a condividerle con la Procura di Roma (parliamo del recupero dei video della metro in cui si spera di cogliere fotogrammi utili a identificare chi sequestrò Giulio la sera del 25 gennaio), non promette nulla di più di ciò che dichiara. Dà indubbiamente seguito agli sforzi, proseguiti in questi mesi, del nostro ambasciatore al Cairo Giampaolo Cantini (che con cadenza settimanale ha continuato ad avere colloqui informali con il Procuratore generale egiziano); dà seguito alle indicazioni investigative della Procura di Roma; risponde, quantomeno sul piano formale, alla resilienza di una famiglia che ha continuato e continua a chiedere “verità e giustizia”, e lo fa in un momento di prolungato vuoto politico nel nostro Paese e dunque di assenza di interlocutori. Il che non era affatto scontato. Non fosse altro perché, insieme alla telefonata tra i due Procuratori e al loro comunicato congiunto, nei giorni scorsi è stata trasmessa dal Cairo a Roma anche copia del verbale di interrogatorio di uno degli agenti della stazione di Polizia di Dokki della cui esistenza i nostri investigatori erano venuti a capo soltanto in questi ultimi mesi. E tuttavia, come già accaduto altre volte in questi due anni e mezzo, che tutto questo possa poi tradursi in un significativo passo in avanti nell’accertamento delle responsabilità degli apparati del Regime è tutt’altra faccenda. Troppe volte quello del Cairo è stato un “falso movimento” utile solo a guadagnare altro tempo. E troppe volte il Regime ha dato prova di essere consapevole della sua posizione di vantaggio nel determinare tempi, modi, sostanza della collaborazione giudiziaria. Che per altro, in questo momento, è e resta l’unico canale aperto per provare ad allargare la breccia nella coltre di menzogne e depistaggi con cui sono state sin qui coperte le responsabilità dell’omicidio di Giulio. È una situazione che, evidentemente, prima o poi dovrà avere un suo punto di caduta giudiziario. A meno di non immaginare la disponibilità della magistratura italiana e della famiglia di Giulio a replicare questo canovaccio all’infinito lottando contro i danni del tempo già trascorso e che continua a scorrere. Anche per questo i mesi di qui all’estate, in un senso o in un altro, potrebbero diventare cruciali. Non fosse altro perché, sotto il profilo della conoscenza del lavoro sin qui svolto dalla Procura generale del Cairo, da martedì la famiglia di Giulio disporrà di nuovo materiale. La Procura di Roma le consegnerà infatti la traduzione delle 1100 pagine di atti del dossier che lo scorso inverno la stessa Procura generale aveva consegnato in originale all’avvocato Alessandra Ballerini, legale della famiglia. Egitto. L’isolamento come forma di tortura. I detenuti non vedono le famiglie per anni di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 8 maggio 2018 Un nuovo rapporto diffuso oggi da Amnesty International rivela che in Egitto le persone detenute con accuse politicamente motivate sono sottoposte a lunghi periodi d’isolamento, a volte di parecchi anni: una prassi che equivale alla tortura. Il rapporto esamina la situazione di 36 prigionieri detenuti in isolamento prolungato, sei dei quali isolati illegalmente dal mondo esterno sin dal 2013. Oggetto della ricerca sono state 14 prigioni in sette diversi governatorati nei quali dal 2013 le forze di sicurezza hanno arrestato migliaia di persone per motivi politici: tra queste, le diverse sezioni della struttura detentiva di Tora, a sud de Il Cairo, compresa quella di massima sicurezza conosciuta come al-Aqrab, “lo scorpione”. Venti dei 36 prigionieri di cui si occupa il rapporto sono detenuti nel complesso penitenziario di Tora. Tutti i casi di cui si è occupata Amnesty International presentano tratti comuni: isolamento per oltre 22 ore al giorno, 30 o 60 minuti al massimo di esercizio fisico, divieto di contatti con altri prigionieri, divieto di visite regolari da parte dei familiari (un detenuto non vede i familiari dall’ottobre 2016), mancanza d’informazioni su quando terminerà l’isolamento e dunque nessuna speranza sulla sua sospensione. Talvolta l’isolamento è anche usato per indurre i detenuti a confessare o come misura disciplinare nei confronti dei prigionieri che protestano per i maltrattamenti subiti, ma nella maggior parte dei casi è una punizione “extra” per ciò che i detenuti facevano prima di essere arrestati. La sofferenza fisica e psicologica intenzionalmente inflitta nei loro confronti dà luogo ad attacchi di panico, paranoia, ipersensibilità agli stimoli e difficoltà di concentrazione e di memoria. Ex prigionieri che hanno trascorso lunghi periodi di tempo in isolamento hanno raccontato che quest’esperienza ha avuto un effetto psicologicamente devastante: quando venivano trasferiti nelle celle comuni soffrivano di depressione e insonnia e non volevano socializzare né parlare con gli altri detenuti. Il 16 aprile Amnesty International ha sottoposto alle autorità egiziane un memorandum contenente una sintesi dei contenuti delle sue ricerche. Il 3 maggio il governo ha risposto in modo elusivo, ricorrendo a un’artificiosa distinzione tra celle d’isolamento e “celle individuali” e fornendo un dato preoccupante, che conferma l’inadeguatezza della supervisione giudiziaria sulle carceri: nel 2017, la procura ha effettuato 15 ispezioni in altrettante prigioni. In tutto l’Egitto i centri di detenzione sono 185. L’altro organismo di monitoraggio sulle carceri, il Consiglio nazionale per i diritti umani, ha condotto solo 18 ispezioni dal 2013 al 2016. *Portavoce di Amnesty International Italia Australia. Centinaia di richiedenti asilo ancora nei centri di detenzione sicurezzainternazionale.luiss.it, 8 maggio 2018 Il ministro degli Affari Interni australiano, Peter Dutton, ha dichiarato, lunedì 7 maggio, che centinaia di richiedenti asilo presenti nei centri di detenzione australiani potrebbero essere costretti a rimanervi per una quantità di tempo indefinita poiché nessun altro Paese sembra essere disposto ad accoglierli. La politica di immigrazione australiana prevede che i richiedenti asilo, intercettati in mare nel tentativo di raggiungere le coste australiane, vengano trasportati nei centri di detenzione collocati in Papua Nuova Guinea e sull’isola di Nauru affinché la loro domanda di asilo possa essere esaminata. Il numero di richiedenti asilo detenuti nei centri australiani nell’Oceano Pacifico ammonta a circa 1500. I principali Paesi di provenienza sono Afghanistan, Pakistan, Sudan ed Iran. “Stiamo continuando a confrontarci con Paesi terzi per cercare di risolvere la situazione. Tuttavia, vi sono pochissime prospettive, se non addirittura nessuna, all’orizzonte”, ha affermato il ministro Dutton. Il 12 novembre 2016 il governo australiano aveva siglato un accordo con il governo di Washington in base al quale 1250 richiedenti asilo detenuti nei centri australiani sarebbero stati trasferiti negli Stati Uniti a seguito di approfondite ricerche. In cambio, il governo di Canberra aveva assicurato di essere disposta ad accogliere 30 rifugiati centro-americani detenuti in un centro in Costa Rica. Nonostante il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, abbia definito tale accordo “stupido”, sono state avviate le procedure di indagine delle domande dei richiedenti asilo detenuti nei centri australiani in vista del loro futuro arrivo negli Stati Uniti. Qualora gli Stati Uniti dovessero effettivamente accogliere 1250 richiedenti asilo, come previsto nell’accordo siglato dall’allora presidente Barack Obama, tuttavia, rimarrebbero ancora circa 300 persone nei centri di detenzione australiani. La difficoltà della situazione è aggravata dalla mancanza di prospettive di integrazione per i richiedenti asilo costretti a rimanere in Papua Nuova Guinea o sull’isola di Nauru. “Non è possibile che centinaia di persone si stabiliscano in questi luoghi. Non vi sono servizi, non c’è lavoro né assistenza. Non vi è futuro”, ha dichiarato Ian Rintoul, portavoce di Refugee Action Coalition.