Insegnanti e studenti e le “lezioni di vita” dal carcere Il Mattino di Padova, 7 maggio 2018 In un momento in cui il mondo della scuola vive una situazione di grande difficoltà, e i comportamenti violenti di alcuni studenti sono al centro dell’attenzione, a Padova si continua a lavorare per fare prevenzione in modo diverso dai metodi tradizionali, coinvolgendo “i cattivi” che abitano il carcere in un progetto che affronta senza paura il tema della violenza, dell’aggressività, della devianza, e che il Comune sostiene con forza da anni. Questa volta ne parlano gli insegnanti, raccontando come reagiscono i loro studenti a questa “insolita” proposta. Il contatto diretto con la realtà carceraria ci ha aperto nuovi, inattesi orizzonti Insegno Lettere in un liceo delle Scienze Umane ed ho avuto modo di conoscere il Progetto Carcere (come lo chiamiamo tutti per brevità) fin dai suoi inizi, collaborando con le colleghe di Scienze Umane e di Diritto. La tematica infatti ci era apparsa pienamente in sintonia con l’indirizzo del nostro istituto, che mira ad indagare e comprendere la complessità della società contemporanea nelle sue implicazioni sociali, culturali, giuridiche. Il contatto diretto con la realtà carceraria, normalmente impossibile, ci apriva nuovi, inattesi orizzonti di indagine e di conoscenza. Aggiungo anche che avevo già conosciuto Ornella Favero seguendo alcuni corsi per insegnanti da lei condotti presso l’Istituto Gramsci. In questi anni ho sempre partecipato con le mie classi (normalmente quarte e quinte); gli alunni, al di là delle singole sensibilità, hanno sempre dichiarato che il progetto è stato uno dei più interessanti che la scuola abbia offerto loro nel corso del quinquennio, ma qui vorrei parlare di me, della mia esperienza personale di insegnante e di cittadina. Ritengo infatti che questa attività mi abbia aiutato a crescere moltissimo dal punto di vista personale, facendomi conoscere e comprendere aspetti poco noti, ma fondamentali della società e dello Stato di cui faccio parte e dandomi dunque la possibilità di esercitare meglio i miei diritti e doveri di cittadinanza. La lettura della rivista “Ristretti Orizzonti” e del notiziario on-line sono diventati per me strumenti imprescindibili di informazione. Come insegnante, poi, la partecipazione al progetto mi ha offerto ogni anno nuovi stimoli sia sotto l’aspetto metodologico che contenutistico. La realtà carceraria offre collegamenti con gli insegnamenti di Letteratura, Storia, Diritto, Filosofia, Scienze Umane, Religione e Storia dell’Arte. Partecipando alle riunioni che periodicamente la Redazione organizza per gli insegnanti ho avuto modo di notare che non sono l’unica a pensarla così: in molti altri colleghi di altre scuole ho riscontrato lo stesso entusiasmo, ed ho visto nel tempo crescere in modo esponenziale il numero di istituti partecipanti, dei più vari indirizzi. Non sta a me, ovviamente, esprimermi sulla realtà carceraria: ne so ancora davvero troppo poco per permettermi di giudicare, ma penso che attività come quelle portate avanti da “Granello di senape” siano preziose e non vadano disperse. In un mondo violento come quello in cui ci troviamo a vivere, dobbiamo credere che un granello di bene possa crescere e fruttificare. Maria D’Abruzzo, Docente di Materie letterarie, Liceo “A. di Savoia Duca d’Aosta” - Padova Il racconto del proprio deragliamento rappresenta un riscatto per il danno fatto alla società Poiché credo sia molto importante la funzione formativa della scuola pubblica, nel corso del mio lavoro d’insegnante ho condiviso, seguito, talvolta ideato e gestito molti progetti finalizzati all’educazione alla cittadinanza. Gli ambiti di cui mi sono principalmente occupato sono quelli della legalità, dei diritti umani, della solidarietà, della memoria storica e della visione critica dei fenomeni sociali. Ho cominciato ad insegnare nel 1979, dunque l’esperienza accumulata in quarant’anni di lavoro è stata notevole. I vari progetti cui normalmente si partecipa con gli studenti a scuola possono lasciare un segno più o meno profondo. A volte le esperienze fatte si dimenticano in fretta, altre volte rimangono a lungo nella memoria e incidono profondamente l’animo di chi le ha vissute. Dipende da molti fattori: la durata dell’esperienza, la sua originalità, la ricchezza di contenuti umani che essa pone all’attenzione, il coinvolgimento che determina in chi la vive, l’elaborazione che ne viene fatta. Alcune attività non lasciano segni profondi, specie se risultano essere eventi occasionali, legati unicamente a scadenze esterne o imposte dall’alto, o se rimangono momenti sporadici cui non viene dato seguito attraverso discussioni, riflessioni, elaborazioni, verifiche che chiamino in causa il vissuto personale. Altre esperienze, viceversa, segnano e fanno davvero crescere in maniera duratura gli individui. Sono quelle che toccano le corde profonde dell’essere umano, cui si può arrivare solo attraverso un rapporto diretto e coinvolgente fra persone, andando oltre le consuetudini scolastiche fatte di formalità e di comportamenti istituzionalizzati e consentendo ai pensieri e ai comportamenti individuali più autentici di emergere. Certe esperienze teatrali fatte a scuola, per esempio, sono sicuro che non saranno mai scordate dagli studenti che vi hanno partecipato, poiché esse hanno creato dinamiche di gruppo e messo in gioco la fisicità e l’emotività di ciascuno. Allo stesso modo, certi viaggi e certe testimonianze restano impressi in maniera indelebile in chi vi partecipa, dando un contributo importante alla formazione della persona. Lo sappiamo tutti, perché a ciascuno di noi sarà capitato almeno una volta di fare un incontro o un’esperienza di questo tipo e di rimanerne segnato per il futuro. Perché accada però bisogna creare un contesto particolare, da cui emerga e possa venir considerato in tutti i suoi aspetti almeno un tratto dell’umanità che, nel bene e nel male, ci accomuna. Se si riesce ad accedere a questo “nucleo primario” del nostro vissuto possiamo star certi che in qualche modo ne usciremo arricchiti. Proprio per questo ho sostenuto sin dalla sua iniziale proposta nel 2003 il progetto “A scuola di libertà: Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere”, organizzato dall’associazione “Granello di senape”, e ho sempre voluto parteciparvi con le mie classi. L’ho detto e ripetuto in più occasioni: non è un progetto “facile” ma è sicuramente fra i più incisivi sia dal punto di vista formativo sia per una corretta educazione alla “cittadinanza attiva”. Lo dimostrano anzitutto le reazioni degli studenti, compresi quelli inizialmente più refrattari, una volta giunti al termine del percorso; ma anche l’apprezzamento delle tante famiglie, che manifestano gratitudine alla scuola per aver offerto ai figli l’opportunità di confrontarsi con la realtà di chi ha commesso reati e ora paga per questo. Il progetto infatti, attraverso incontri a scuola e visite in carcere, produce vere e proprie “lezioni di vita” altrimenti difficilmente acquisibili, che arrivano dirette al cuore dei ragazzi. Sono occasioni per gettare uno sguardo e interrogarsi sulla devianza, sulla giustizia, sull’informazione, sui pregiudizi, sul significato della pena, sulla possibilità del riscatto. Sono momenti in cui si pensa concretamente al tema della legalità, a partire da chi, avendola violata, racconta come ha potuto farlo e quali siano state le conseguenze del suo comportamento su di sé e sugli altri. Gli ascolti attenti, gli sguardi tesi, il silenzio che aleggia durante i racconti, ma anche le domande, le battute, le considerazioni spesso impietose che seguono e le analisi successive stanno a dimostrare che quei momenti producono conoscenza, confronto e elaborazione reali, cose di cui c’è sempre più un gran bisogno a scuola e fuori. Ho organizzato questi incontri per quindici anni, posso testimoniare che offrono delle opportunità straordinarie di riflessione, dibattito e crescita, poiché dispongono di un “valore aggiunto” che pochi altri progetti sono in grado di produrre: quello di mostrare attraverso l’esperienza personale come possa accadere che il male prevalga sul bene, quale prezzo si paghi per questo e come, alla fine e per chi ci riesce, il racconto del proprio deragliamento possa rappresentare pure una via per riscattare il danno fatto alla società. Spero che questo progetto abbia lunga vita e che in tanti ancora vi possano accedere. Antonio Bincoletto, insegnante di Lettere Il 41bis e la necessità di restare umani anche davanti l’orrore di Roberta Condemi gas.social, 7 maggio 2018 La certezza della pena è fondamentale ma essa non può sfociare nella mera vendetta rancorosa, Anche davanti all’orrore dei crimini più odiosi dobbiamo tenere a mente il precetto biblico “nessuno tocchi Caino” e quello ben più laico di Vittorio Arrigoni, giornalista pacifista ucciso in Palestina: “restiamo umani”. Nadia Desdemona Lioce sarà a breve processata per “turbamento alla quiete carceraria”. Avrebbe disturbato infatti, “con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, mediante schiamazzi o rumori, provocati sbattendo ripetutamente una bottiglia di plastica contro le inferriate della propria cella,” le occupazioni o il riposo delle persone detenute nel suo reparto nella casa circondariale di L’Aquila. Per chi non lo ricordasse, la Lioce è una terrorista italiana, componente della Organizzazione Armata di Sinistra Nuove Brigate Rosse- Nuclei Comunisti Combattenti, autrice di rapine e attentati e, soprattutto, degli omicidi dei giuslavoristi Massimo D’Antona e Marco Biagi, per i quali è stata condannata all’ergastolo. Nadia Desdemona Lioce non si è mai pentita né dissociata e da anni è sottoposta al regime di carcere duro, il cosiddetto 41bis. Sottoposta al “carcere duro”, la brigatista lamenta una violenza psicofisica non potendo tenere in cella più di tre libri, trascorrendo le poche ore d’aria in totale solitudine, subendo perquisizioni a sorpresa e vedendo poco familiari e avvocati. Alla terrorista sarebbe insomma impedito di leggere, studiare, scrivere e persino parlare. Il suo caso riapre il dibattito sull’opportunità, o meglio, sull’umanità del regime 41bis, unicum italiano. Introdotta nell’ordinamento penitenziario italiano all’indomani delle stragi di mafia degli anni novanta e inizialmente prevista come “soluzione temporanea” la norma è tuttora in vigore. Il 41bis è finalizzato ad ostacolare le comunicazioni tra i detenuti e le organizzazioni criminali operanti all’esterno e ad impedire qualsiasi contatto con eventuali membri detenuti. Esso prevede l’isolamento nei confronti degli altri detenuti e pernottamento in camera singola con divieto di accesso agli spazi comuni del carcere; un’ora d’aria limitata e in isolamento; sorveglianza speciale dalla polizia penitenziaria; limiti ai colloqui con i familiari ed avvocati; telefonate una volta al mese; censura della posta in entrata e in uscita; proibizione di tenere molti oggetti personali come penne o quaderni. Il carcere duro è applicabile ai detenuti che abbiano commesso delitti di associazione mafiosa, terrorismo nazionale e internazionale, induzione alla prostituzione minorile e produzione di materiale pedopornografico, sequestro di persona a scopo di estorsione, violenza sessuale di gruppo, tratta di esseri umani, acquisto e alienazione degli schiavi, associazione per delinquere finalizzata a contrabbando di tabacco o al traffico di sostanze stupefacenti e psicotrope. Il provvedimento può durare quattro anni e le proroghe due anni ciascuna. Si tratta di delitti molto gravi, ma un regime penitenziario così duro appare sproporzionato. Amnesty International ha assimilato il carcere duro, in talune circostanze” a una tortura. Per lo stesso motivo un giudice statunitense ha negato l’estradizione in Italia di un detenuto. Inoltre, il 41bis sembrerebbe incompatibile con l’art. 27 della Costituzione italiana, secondo il quale “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, nonché con altre disposizioni internazionali in materia di diritti umani. Tuttavia, sia la Corte Costituzionale che la Corte Europea dei diritti dell’Uomo hanno sempre ribadito la legittimità dell’art. 41bis. In particolare, la sentenza 349/1993 della Corte Costituzionale pur riconoscendone la “non felice formulazione” e affermando che “non si possono disporre trattamenti contrari al senso di umanità”, lo ha ritenuto costituzionalmente legittimo. La Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha stabilito in diversi pronunciamenti che, in via generale, la disposizione in esame non viola i principi della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo poiché si configura quale strumento necessario per interrompere definitivamente i legami tra i soggetti detenuti e le organizzazioni criminali, e non va al di là di quanto, in una società democratica, è necessario alla difesa dell’ordine e della sicurezza pubblica e alla prevenzione dei reati. D’altronde, anche l’ergastolo, sebbene stridente con l’idea di rieducazione, è stato dichiarato legittimo. La Cassazione penale 33018/2012 ha ribadito la compatibilità della pena con l’art. 27 Cost. repubblicana e le norme sovranazionali di cui al l’art. 5 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10/12/19948, al l’art. 6 della Cedu, e all’art. 5, comma 1, n. 2, “poiché l’ergastolo, nella concreta realtà, a seguito della L. 25 novembre 1962, n. 1634 e dell’entrata in vigore dell’ordinamento penitenziario (L. 26 luglio 1975, n. 354, con succ. mod.), ha cessato di essere una pena perpetua e, pertanto, non può dirsi contraria al senso di umanità od ostativa alla rieducazione del condannato; e ciò non solo per la possibilità della grazia, ma altresì per la possibilità di un reinserimento incondizionato del condannato nella società libera, in virtù degli istituti del vigente diritto penitenziario” Dunque, il 41bis, come l’ergastolo, è legittimo dal punto di vista giuridico. Tuttavia, dal punto di vista “umano” lascia alquanto perplessi. Nessuno nega che i delitti commessi dalla Lioce siano aberranti e che, giustamente, siano puniti con l’ergastolo. E lo stesso vale per i detenuti che hanno commesso gli altri efferati reati per il quale è previsto il regime di carcere duro. Non bisogna però farsi accecare dall’innegabile efferatezza dei reati commessi dalla Lioce perché si rischia di cadere nel giustizialismo più becero, nell’”occhio per occhio dente per dente”, assai simile alla pena di morte che giustamente l’Italia e l’Unione Europea hanno sempre fermamente condannato. “Davigo cinico e ipocrita. Cavalca con i grillini pulsioni autoritarie” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 7 maggio 2018 Sanlorenzo, toga progressista che sfida l’ex pm alle elezioni del Csm: non è unico tutore della moralità. Rita Sanlorenzo, ex segretaria di Magistratura Democratica, è candidata alle elezioni del Csm per Area, gruppo dei magistrati progressisti, nel collegio della Cassazione contro Piercamillo Davigo, leader della corrente Autonomia e Indipendenza, nata nel 2015. Un seggio per due, nel duello più interessante di una partita elettorale che divide i magistrati lungo nuove e profonde linee di frattura. Qual è la posta in gioco? “È vitale richiamare tutti a un’etica della responsabilità nelle scelte, battere la disaffezione di molti magistrati verso il Csm, evitare che si riduca a mero organo amministrativo, senza rapporti con il Paese”. Csm e Associazione magistrati sono sotto attacco. Si delinea anche nella magistratura una lotta anti establishment? “È una strana battaglia con punte di ipocrisia: il protagonista, Davigo, del sistema ha sempre fatto parte a pieno titolo. S’è accorto dell’insopportabile peso delle correnti nel Csm solo dopo aver concluso la sua presidenza dell’Associazione magistrati. Una strumentalizzazione elettorale”. Ha letto il libro sul caso Robledo-Bruti Liberati? “Sì, è un libro del tutto unilaterale sul caso specifico e grossolano sul tema generale”. In che senso? “Per denunciare un’infezione, peraltro tracciata superficialmente con molte omissioni, spara una bomba sull’intero sistema di autogoverno dipingendolo come irrimediabilmente opaco e corrotto. Una tesi di parte diventa il grimaldello per screditare l’intero sistema, colpendo anche la Procura di Milano. Non so se ci si rende conto della pericolosità delle conseguenze”. Vede un disegno unico? “Non so se ci sia un disegno. Certo Davigo lo cavalca con un certo cinismo”. Che cosa pensa della sua discesa in campo? “Davigo è un signor magistrato a due anni dalla pensione. Ma la sua storia non lo legittima ad accreditarsi come alfiere unico della moralità: nel sistema ha sempre operato attivamente, condividendone pregi e difetti. Altro che homo novus”. E come giudica la convergenza, se non altro temporale, tra exploit elettorale grillino e discesa in campo di Davigo? “Non voglio insinuare che ci sia un’intelligenza operativa, ma certo si cavalca il momento storico. Del resto era inevitabile che certe pulsioni che si agitano nella società contaminassero anche la magistratura”. Quali pulsioni? “Davigo non arriva certo dalla luna. Ha una fisionomia ideologica precisa, fondata su una formazione di destra, che non lo abbandona certo nell’ultima versione che offre all’esterno”. Che cosa intende per destra, oggi, riferita a un magistrato? “Una destra che cavalca l’illusione securitaria con slogan semplicistici che vogliono solo più reati, pene più alte, più carcere. Priva di ogni cultura delle garanzie, la cui assenza produce frasi agghiaccianti e rivelatrici come quella secondo cui “di fronte a un imputato dichiarato innocente bisogna chiedersi se non sia un colpevole che l’ha fatta franca”. Rivelatrici di cosa? “Si tratta di un’ideologia permeata di pulsioni vagamente autoritarie, fondate sulla rivendicazione di un ruolo della magistratura non come corpo dello Stato al servizio della legalità, ma come tutore esclusivo della moralità pubblica. Una magistratura che si auto-colloca su un piedistallo (ignorando la questione morale che all’interno la agita) da cui esprime giudizi che vanno ben oltre le aule di giustizia”. Che ne pensa della proposta di estendere l’uso dell’agente provocatore nelle indagini? “Criminogena e incompatibile con lo stato di diritto. La magistratura deve reprimere reati, non provocarli”. Davigo è popolare, voi sembrate arroccati al vecchio regime. “Nessuno è esente da colpe, nemmeno quelli della stessa appartenenza di Davigo. Ma nessuno può ergersi a censore delle condotte altrui con una permanente esibizione di popolarità. Se fossi Davigo non godrei così visibilmente per intervistatori compiacenti e platee osannanti. Su questa sovraesposizione mediatica converrebbe riflettere”. Invoca la par condicio? “Segnalo che a tanta disponibilità televisiva non ne corrisponde una nelle sedi proprie e con i colleghi, per confronti a cui sinora s’è sottratto. Quanto alla sovraesposizione personale, non è sempre stata positiva per la magistratura. Vellica il consenso personale a scapito della fiducia nell’istituzione”. Come cambierà la magistratura in un contesto politico così fluido e sfrangiato? “Noi entravamo in magistratura a 25 anni, ora si vince il concorso a 32. Abbiamo delegato compiti gravosi ai giovani colleghi senza capire le loro richieste. Ci sono molte più donne ma manca un’organizzazione del lavoro adeguata alle esigenze di maternità. Ed è evaporato l’impegno associativo che per la mia generazione era l’altra faccia della professione. Capisco che le sirene moraleggianti squillino fragorose. Ma l’attacco indiscriminato al Csm e alle vituperate correnti produrrà una magistratura più corporativa e settaria, non più libera e autorevole”. “La violenza sulle donne è un problema politico e si risolve facendo rete” di Simona Musco Il Dubbio, 7 maggio 2018 La violenza contro le donne come problema politico e culturale, contro il quale avvocati, associazioni e Comitati per le pari opportunità possono combattere solo facendo rete con le buone prassi. È questo uno dei punti fermi emersi dalla prima delle due giornate romane per le pari opportunità organizzate dal Consiglio nazionale forense, che ha incontrato le rete dei Cpo nella sede della Pontificia università della Santa Croce. Un lavoro prodromico ad una risoluzione per verificare cosa è stato fatto e cosa si può fare ancora, ha evidenziato l’avvocata Maria Masi, consigliera del Cnf, coordinatrice dei lavori che hanno impegnato in una tavola rotonda le avvocate Dominique Attias (Francia), Nedia Lamouri (Tunisia), Eduard Digore (Moldavia), Raziye Ozturk (Turchia), Zahra Nassime Essabah (Marocco) e Filomena Pelaez (Spagna), convinte che la sinergia tra avvocati possa aiutare a risolvere il problema. “Nonostante la presenza di tanti strumenti sul territorio, qualcosa non funziona, visti i tanti casi di violenza all’ordine del giorno - ha spiegato Masi. È ora di tentare di fare rete per ottenere qualche risulta- to”. Un motto che ha caratterizzato tutta la giornata, durante la quale è stato evidenziato il problema di una cultura che continua a legittimare comportamenti e stereotipi alla base della violenza contro le donne, contro la quale si oppongono i centri antiviolenza. Con la fatica di chi, a corto di risorse, si trova spesso a lottare anche contro l’inerzia delle istituzioni. Un’inerzia contro la quale l’avvocatura ha deciso di battersi. “Il legittimo impedimento delle avvocate in gravidanza è sicuramente il risultato più importante di questa consiliatura del Cnf, a riconoscimento del ruolo delle colleghe per nessun motivo discriminabile - ha sottolineato il presidente del Cnf Andrea Mascherin. Nessuno può mettere in discussione il tema delle pari opportunità, mentre si possono mettere in discussione le opportunità a disposizione per mettere in campo il valore di ciascuno. Bisogna riconoscere uno strumento in grado di garantire questa affermazione di valori”. Anche perché, aggiunge Mascherin, “la donna impegnata nelle istituzioni tende ad essere estremamente operativa e concreta e manca di competitività fine a se stessa”. Donne al centro dell’avvocatura ma anche al centro del Consiglio superiore della magistratura, come invocato da Paola Balducci, membro laico del Csm, che ha lamentato la presenza di sole due donne nell’organismo di cui fa parte. “Non c’è stata molta voglia e molto coraggio a presentare candidature al femminile - ha evidenziato. Ma grazie alla nostra presenza ci sono finalmente donne presidenti di Corte d’appello e di Tribunale. Il tema della violenza di genere dovrebbe essere nell’agenda del prossimo legislatore. Ma bisogna partire dalla prevenzione: l’educazione nasce anche in famiglia, dalla scuola e dalla società”. Un tema che riguarda anche il linguaggio, sul quale ha messo l’accento Stefania Spanò, ideatrice della mostra “Non chiamatelo raptus”. Immagini che tentano di sfatare un modo di comunicare le cose che non funziona, basato ancora su convinzioni da destrutturare. “Il modo di raccontare la storia è una della prime cose da rompere - ha evidenziato -. Femminicidio non significa “donna uccisa da un uomo”, ci racconta perché. Quello del raptus è un’invenzione, un concetto rassicurante, perché elimina la responsabilità. Ma la violenza può coinvolgere ognuno di noi. Per questo il cambiamento passa anche attraverso il linguaggio”. Uno degli strumenti presentati è quello costituito dalle linee guida per un percorso dedicato alle donne vittime di violenza negli ospedali italiani, illustrato da Lucia Annibali, deputata del Pd e vittima essa stessa della violenza. “Si tratta di un lavoro importante per l’assistenza alle donne che subiscono violenza - ha spiegato alla platea -. Non abbiamo voluto parlare di vittime, perché altrimenti si stigmatizza chi la subisce. Non è qualcosa che definisce la vita della donna, ma qualcosa che le viene inflitto dall’esterno”. Le linee guida delineano un percorso che parte dal triage, individuando un codice giallo equivalente che prevede una presa in carico tempestiva da parte di personale formato, passando per l’attivazione di servizi in base al livello di rischi e strumenti per la conservazione e la repertazione delle prove. “È un documento complesso - ha evidenziato - che vuole insegnare agli operatori ad essere responsabili da un punto di vista anche umano”. Una delle esperienze raccontate è quella del progetto “Viva Bistrot”, a Poggiomarino, in provincia di Napoli, una bottega nata da un’idea dell’avvocata Rosita Pepe, presidente dell’associazione che gestisce il centro antiviolenza. “L’avvocatura solidale può colmare quei vuoti profondi e dolorosi che spesso le istituzioni stanno lasciando - ha spiegato -. Offrire assistenza psicologica e legale gratuita spesso non basta a donne che non hanno reddito, casa, famiglia. Così è nata l’idea di una cooperativa sociale, per dare dignità e speranza alle donne con il lavoro. Ma abbiamo registrato l’indifferenza totale delle istituzioni, di chi potrebbe dare una mano e non lo fa. Non c’è la volontà politica di risolvere il problema della violenza sulle donne” Procedibilità a querela, dal 9 maggio offerta reale sul banco di prova di Eugenio Sacchettini Il Sole 24 Ore, 7 maggio 2018 Il Dlgs 10 aprile 2018 n. 36 ha elevato - salvo numerose eccezioni - il “tetto” della perseguibilità a querela alla pena edittale massima di quattro anni di reclusione, e con efficacia retroattiva, sicché lo strumento “deflattivo” delle condotte riparatorie introdotto dall’articolo 162-ter del Cp(estinzione del reato per condotte riparatorie) sta per confrontarsi d’ora in poi in un ben più ampio ambito rispetto a quanto avrebbe potuto a prima vista apparire quando venne alla luce. Di conseguenza l’aspetto più saliente, innovativo ma anche problematico e possibile fonte di strumentalizzazioni, è quello che emerge dall’introduzione dell’articolo 162-ter del Cp, a norma del quale il risarcimento del danno può essere riconosciuto anche in seguito a offerta reale ai sensi degli articoli 1208 e seguenti del codice civile, formulata dall’imputato e non accettata dalla persona offesa, ove il giudice riconosca la congruità della somma offerta a tale titolo. Questa opportunità non trova riscontro nel procedimento parallelo previsto dal citato articolo 35 del Dlgs 274/2000 dinanzi al giudice di pace, e presumibilmente si rivela la più battuta proprio perché non è condizionata dall’assenso della persona offesa, anzi esplicitamente ne presuppone la possibilità di dissenso. Si osserverà che la norma parla in proposito esclusivamente di risarcimento, tralasciando gli altri elementi che essa in via generale prevede perché si possa giungere al provvedimento di estinzione, cioè (in via alternativa) le restituzioni e neanche l’eliminazione, ove possibile, delle conseguenze dannose o pericolose del reato. Emerge così che questa particolare via non sia percorribile per le restituzioni, neppure mediante l’offerta reale o l’intimazione ex articolo 1209 del Ccné con l’offerta secondo gli usi e deposito ex articolo 1214 del Cc; mentre l’imputato dovrebbe comprovare, in una all’offerta reale del risarcimento, ove confacente e possibile, anche l’avvenuta eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato. Il risarcimento mediante offerta reale - Per ciò che attiene all’ammontare del risarcimento offerto valgono le considerazioni sopra espresse, con l’avvertenza però che la mancata accettazione della persona offesa viene in via generale addirittura presupposta, e che quindi è inevitabile sul punto si vengano a creare discussioni, spettando al giudice di deciderle in via sommaria e non impugnabile ai soli fini dell’estinzione del reato, rimanendo salvo il diritto della persona offesa insoddisfatta, come si è visto, di agire in via civile per un più congruo ristoro del danno sofferto: da ciò il prevedibile infoltimento del contenzioso civile. E non manca il pericolo di strumentalizzazione di questa via dell’offerta reale, non solo per mantenere pulita la fedina penale, anche per lasciare la vittima con un pugno di mosche. Le modalità dell’offerta reale - L’articolo 162-ter del Cp dispone che il risarcimento del danno può essere anche riconosciuto anche in seguito a offerta reale formulata dall’imputato e non accettata dalla persona offesa, ove il giudice riconosca la congruità della somma offerta a tale titolo: viene in proposito specificato “anche”, per cui ciò non toglie che, al di fuori di questa situazione caratterizzata in particolare dalla non accettazione della persona offesa, il risarcimento possa venire effettuato con le altre modalità, e pure “banco iudicis” purché venga accettato (e sia data prova, come sopra si è visto, della sua effettuazione). Avendo l’obbligazione risarcitoria per oggetto una somma di denaro, stabilisce l’articolo 1209 del Cc,l’offerta deve essere reale, deve cioè consistere nella “res”, il denaro, da consegnare pel tramite dell’ufficiale giudiziario o del notaro. Sarà dunque l’uno o l’altro che dovrà condurre la procedura, e quando l’offerta è accettata, il pubblico ufficiale esegue il pagamento e riceve le dichiarazioni del creditore per quietanza e per liberazione dalle garanzie. Non sembra possa esser valida all’uopo un’accettazione in conto o con riserva - comparandosi la stessa a un rifiuto - sicché andrà eseguito il deposito della somma offerta normalmente presso un istituto bancario e la comunicazione fatta dal debitore al creditore dell’accettazione manifestata dall’intermediario abilitato a eseguire il trasferimento produce gli effetti del deposito di cui a dettoarticolo 1210 del Cc(articolo 1 del Dl 3 maggio 1991 n. 143). Naturalmente al compimento di tutte le formalità, l ‘interessato dovrà produrne copia nel processo, onde il giudice possa, sentite le parti e la persona offesa, pronunciare in conseguenza la declaratoria (non impugnabile) di estinzione ove riconosca congrua l’offerta rifiutata, e all’esito positivo delle condotte riparatorie, salvo rimanendo, come si è visto, il potere della persona offesa di richiedere in via civile il ristoro che essa ritiene più congruo. Concessione del termine ad adempiere - Il secondo comma dell’articolo 162-ter del Cp consente inoltre all’imputato, quando dimostri di non aver potuto adempiere, per fatto a lui non addebitabile, di richiedere entro il termine di cui al primo comma (apertura del dibattimento) al giudice la fissazione di un ulteriore termine, non superiore a sei mesi, per provvedere al pagamento, anche in forma rateale, di quanto dovuto a titolo di risarcimento. Il fatto non addebitabile si risolve nella difficoltà di pagamento, e quindi appare verosimile che il termine non venga mai negato, come usuale per il cosiddetto “termine di grazia” negli sfratti per morosità: semmai è da osservare che detto termine è richiesto per il “pagamento” e quindi ne risulterebbe conseguentemente esclusa la possibilità di esperire per cotal guisa l’offerta reale di cui sopra, ma sul punto è prevedibile vengano a sorgere molte discussioni. Ove il giudice accolga la richiesta, ordina la sospensione del processo e fissa la successiva udienza alla scadenza del termine stabilito e comunque non oltre novanta giorni dalla predetta scadenza, imponendo specifiche prescrizioni. Vien precisato che durante la sospensione del processo il corso della prescrizione resta sospeso. La confisca - Detto comma 2 dell’articolo 162-ter del Cpprecisa infine che si applica l’articolo 240 del Cp, secondo comma, a norma del quale è sempre ordinata la confisca (n. 1) delle cose che costituiscono il prezzo del reato e (n. 2) delle cose, la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione o l’alienazione delle quali costituisce reato, anche se non è stata pronunciata condanna. Stramba collocazione invero di questo richiamo, che farebbe pensare a limitare la confisca nel caso di termine ad adempiere, mentre essa vale evidentemente per ogni sorta di estinzione pronunciata. In via transitoria - In virtù del solito principio del “favor rei” a norma del comma 2 dell’articolo 1 della legge 23 giugno 2017 n. 103 le disposizioni finora esaminate si applicano anche ai processi in corso alla data di entrata in vigore di detta legge e il giudice dichiara l’estinzione anche quando le condotte riparatorie siano state compiute oltre il termine della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado. All’uopo l’imputato, ex comma 3 di detto articolo 1 della legge 103/2017 nella prima udienza, fatta eccezione per quella del giudizio di legittimità (si vedano però sul punto le decisioni soprarichiamate sulla metamorfosi da attenuante a estinzione), successiva alla data di entrata in vigore di detta legge 103/2017, può chiedere la fissazione di un termine, non superiore a sessanta giorni, per provvedere alle restituzioni, al pagamento di quanto dovuto a titolo di risarcimento e all’eliminazione, ove possibile, delle conseguenze dannose o pericolose del reato di cui sopra si è detto. E al pari dell’ipotesi pure sopra esaminata, nella stessa udienza l’imputato, qualora dimostri di non poter adempiere, per fatto a lui non addebitabile, nel termine di sessanta giorni, può chiedere al giudice la fissazione di un ulteriore termine, non superiore a sei mesi, per provvedere al pagamento, anche in forma rateale, di quanto dovuto a titolo di risarcimento. In via transitoria vengono quindi ripetute le disposizioni già esaminate, così a norma del comma 4 dell’articolo 1 legge 103/2017 in tali casi il giudice, se accoglie la richiesta, ordina la sospensione del processo e fissa la successiva udienza alla scadenza del predetto termine e durante la sospensione del processo, il corso della prescrizione resta sospeso. Va applicato purel’articolo 240, secondo comma, del codice penale, che conferma le ipotesi di confisca. Si rimanda a quanto in precedenza si è visto con riferimento alla concessione del termine per il “pagamento” che sembrerebbe escludere la possibilità di percorso dell’offerta reale. Tali disposizioni transitorie vanno ora peraltro coniugate con l’elevazione generalizzata alla pena edittale fino a quattro anni per i reati perseguibili a querela introdotta dal Dlgs 10 aprile 2018 n. 36, a norma del cui articolo 12 (“Disposizioni transitorie in materia di perseguibilità a querela”) per i reati perseguibili a querela in base alle disposizioni del decreto stesso, commessi prima della sua data di entrata in vigore, il termine per la presentazione della querela decorre dalla predetta data, se la persona offesa ha avuto in precedenza notizia del fatto costituente reato. Dispone in particolare il comma 2 che se è pendente il procedimento, il pubblico ministero, nel corso delle indagini preliminari, o il giudice, dopo l’esercizio dell’azione penale, anche, se necessario, previa ricerca anagrafica, informa la persona offesa dal reato della facoltà di esercitare il diritto di querela e il termine decorre dal giorno in cui la persona offesa è stata informata. Dunque, ove sia stato esercitato il diritto di querela per cotal guisa in ordine a questi reati finora perseguibili d’ufficio, andranno seguite le disposizioni transitorie tracciate dai predetti commi 2, 3, 4 dell’articolo 1 della legge 23 giugno 2017 n. 103. Ma se per questi più gravi reati non è stata ancora disposta l’apertura del dibattimento in primo grado varranno né più né meno le disposizioni in generale recate dall’articolo 162- ter del Cp per i reati cosiddetti “bagatellari” ante Dlgs 10 aprile 2018 n. 36. Legge Pinto: indennizzi fotocopia per i processi lunghi di Ivan Cimmarusti Il Sole 24 Ore, 7 maggio 2018 La norma che sanziona una patologia della giustizia italiana - l’eccessiva durata dei processi - rischia di diventare essa stessa patologia, al punto che il suo uso “deviato” è strumento di truffe ai danni dello Stato. Sotto inchiesta è finito quello che potrebbe risultare un “meccanismo” di frode ai danni dei ministeri dell’Economia e della Giustizia, legato agli indennizzi per violazione della Pinto, la legge che sanziona le lungaggini processuali. Per un unico decreto di liquidazione danni emesso dalla Corte d’Appello, erano depositate anche cinque diverse istanze di indennizzo. Attraverso questo stratagemma si voleva indurre i ministeri a pagare denaro non dovuto. La norma prevede che, per ogni processo durato oltre i termini ragionevoli sanciti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (sei anni fino al giudizio di legittimità), la parte possa chiedere un solo risarcimento danni. In particolare, attraverso una istruttoria, il presidente della Corte d’appello competente ingiunge con decreto al ministero (Giustizia in caso di processi ordinari e Finanze per quelli amministrativi o contabili) di liquidare i danni. È stato il Mef ad accorgersi che per diversi procedimenti alcuni avvocati hanno presentato fino a cinque diverse istanze di liquidazione per lo stesso decreto della Corte d’Appello. Non si tratterebbe di un caso isolato, come emerge dagli accertamenti della Guardia di Finanza. Al contrario, sembrerebbe un fenomeno diffuso in diverse città italiane, tra le quali Roma e Napoli, dove già ci sono le prime denunce. Mezzo miliardo in tre anni - La vicenda non è di poco conto. Negli ultimi tre anni lo Stato si è trovato a liquidare per danni legati all’irragionevole durata dei processi ben 532,7 milioni di euro. Si tratta di denaro pagato dai ministeri dell’Economia e della Giustizia per i procedimenti di rispettiva competenza. Diversi interventi normativi hanno consentito di stringere le maglie degli indennizzi: (si veda l’articolo a fianco): dunque, rispetto agli anni passati c’è una flessione delle erogazioni. Stando ai dati congiunti sugli indennizzi pagati dai due ministeri, nel 2015 risultano liquidati 165,6 milioni di euro (relativi a 27.328 fascicoli che sono stati definiti), saliti nel 2016 a 185,3 milioni di euro (per 29.636 fascicoli) e nel 2017 a 181,7 milioni di euro (per 37.481 fascicoli). È chiaro che solo una parte degli indennizzi rientra tra le frodi. La stessa Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte condannato l’Italia per la durata eccessiva dei processi, sottolineando la necessità di snellire i procedimenti. Gli investigatori stanno lavorando proprio per mappare il fenomeno, che al momento appare un trend diffuso a macchia di leopardo. La segnalazione dal Mef - L’innesco dell’accertamento è una segnalazione giunta alla Guardia di finanza dal ministero dell’Economia. I tecnici di via XX Settembre si sono accorti che qualcosa non tornava in svariate richieste di indennizzo per violazione della legge Pinto. In particolare hanno trovato per alcuni procedimenti diverse richieste di danni che, però, erano connesse a un solo decreto di liquidazione dei danni. Atti provenienti dagli stessi avvocati e per i medesimi procedimenti per i quali si riteneva violata la norma. Subito è partito l’ordine di bloccare il pagamento dei doppioni. Ne sono nati dei contenziosi, con pignoramenti notificati direttamente alla Banca d’Italia. Un affare decisamente poco chiaro per il Mef che ha chiesto l’intervento della Finanza. Gli investigatori hanno passato al setaccio le documentazioni, scoprendo che si trattava di atti falsi. Richieste fotocopia - Stando ai riscontri, alcune istanze di indennizzo sono risultate identiche. Una frode in piena regola sfruttando le pieghe della farraginosa macchina burocratica. I documenti ritenuti illeciti sono stati acquisiti e analizzati. Alcuni di questi sono risultati chiaramente “fotocopie”, tanto da essere stati contestati agli avvocati. In alcuni casi gli investigatori hanno individuato anche un altro reato: il falso. In particolare, i legali sotto inchiesta avrebbero anche falsificato la firma dei loro clienti. Un aspetto non solo confermato a verbale dagli stessi clienti, ma emerso chiaramente dall’analisi calligrafica dei documenti. L’indennizzo ottenuto illecitamente, dunque, sarebbe finito direttamente nelle tasche dei legali. Questa frode ha già portato all’apertura dei primi procedimenti. Tuttavia sono stati individuati altri casi che farebbero supporre a un fenomeno diffuso a livello nazionale. A proposito della sentenza circa la trattativa Stato-Mafia di Biagio Riccio glistatigenerali.com, 7 maggio 2018 C’è qualcosa che non ritorna nella sentenza che ha per oggetto la trattativa tra Stato e Mafia. Come ben noto, sono stati condannati quei reparti dei Carabinieri nelle persone di Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, i primi due a 12 anni, il terzo ad otto anni: il reato ascritto è quello previsto dall’art. 338 codice penale che contempla la minaccia ad un corpo dello Stato. Nella specie si sostiene, come si legge nel dispositivo in quanto le motivazioni saranno note tra 90 giorni dal 20 aprile, che subito dopo la morte di Falcone fu intessuta dallo Stato una trattativa con i mafiosi per porre fine alle stragi che insanguinarono l’Italia negli anni dal 1992 al 1993. Il fulcro della trattativa era del seguente tenore: la mafia avrebbe terminato le sue stragi - si temeva addirittura per il premier Ciampi- se lo Stato avesse concesso alcune misure contenute nel famoso “papello” di Totò Riina. In modo particolare non doveva essere prorogato il carcere duro e di isolamento previsto dall’art. 41bis dell’ordinamento penitenziario italiano per tutti i mafiosi, decretato dopo la morte di Falcone (Decreto Antimafia Martelli-Scotti): solo in tal modo si poteva porre fine alla “stagione stragista”. La sentenza si fonda solo su deposizioni di pentiti ed è stato tenuto in considerazione quanto riferito dal figlio di Ciancimino, il quale, secondo l’accusa avrebbe rilevato che suo padre Vito era l’anello di congiunzione tra la mafia ed il reparto dei Ros. Sarebbe stato proprio l’ex Sindaco Ciancimino portatore delle volontà del papello scritto da Riina. Secondo la sentenza la trattativa ci sarebbe stata almeno sino al 1993 ed i risultati sarebbero stati contrassegnati da un affievolimento del regime per le carceri dure, grazie al ministro Conso che non avrebbe, in totale isolamento, prorogato il regime previsto dall’art. 41bis, nel novembre del 1993. Sarebbe stata continuata, grazie al senatore Dell’Utri anche, con il primo governo Berlusconi,1994. Da qui la condanna di Dell’Utri, anche se Berlusconi non figura come imputato. Sorgono forti dubbi: 1-Il generale Mori è stato quello che ha catturato Riina ed è stato assolto quanto alla grave colpa a lui addebitata per non aver perquisito il covo di Riina. Di questa fondamentale sentenza non si può non tenerne conto. 2-Lo stesso Mori esce assolto da un altro processo: quello per la mancata cattura del boss Provenzano. Anche di questa sentenza non può non tenersi conto. 3-Dell’Utri per i fatti successivi al 1992 per l’accusa da lui subita, di reato di concorso esterno di associazione mafiosa, è stato assolto. Dunque per gli stessi fatti, svoltisi nel medesimo torno di tempo, viene invece oggi dichiarato colpevole. Non può non tenersi conto della precedente sentenza(ricostruzione di Maria Teresa Conti Il Giornale del 22 aprile 2018). 4-Calogero Mannino non è comparso davanti alla Corte di Assise ed è stato assolto, avendo scelto il rito abbreviato. Mannino era stato indicato come altro politico che avrebbe dato vita alla detta trattativa. 5-Non è vero che Conso ha ceduto al ricatto dei mafiosi ed avrebbe perciò non prorogato il carcere duro, per una concessione frutto del papello di Riina. Come è stato sottolineato da Violante sulla questione della normativa del carcere duro è intervenuta la Corte Costituzionale. La sentenza-del 28 luglio 1993 n.349- della Corte delle Leggi stabiliva che il 41bis può essere applicato solo caso per caso, e deve essere motivato adeguatamente. Non può essere deciso in blocco per una categorie di detenuti. Per esempio quelli accusati di mafia. E siccome il 41bis era stato invece assegnato a quei 334 in blocco, non era valido e non poteva essere rinnovato. Ricordiamo che, secondo l’impianto accusatorio (al processo Stato-mafia), le revoche di diversi provvedimenti di 41bis decise da Conso sarebbero state uno dei segnali mandati dallo Stato alla mafia, a dimostrazione della linea soft scelta nel contrasto ai clan, in ossequio alla cosiddetta trattativa ed in cambio della fine delle stragi. 6-Non vi è il nome di nessun politico che abbia preso parte alla trattativa. Dunque i funzionari dei Ros a chi avrebbero riferito dell’oggetto di tal trattativa? Ha scritto Paolo Mieli :”Anche se, come qualcuno ha notato, nella sentenza compaiono sì i nomi dei capi mafiosi e degli ufficiali del Ros responsabili di aver “avvicinato” i boss, ma neanche uno di un qualche appartenente ai suddetti “massimi vertici dello Stato italiano”. L’unico, Nicola Mancino - per il quale Nino Di Matteo e gli altri pm avevano chiesto una condanna (sia pure per un reato minore: falsa testimonianza) - è stato assolto. Per il resto, niente nomi né cognomi”(Corriere della Sera del 25/4/2018). Questi forti dubbi, che possono essere superati solo da un’adeguata motivazione, fanno riflettere su come oggi vengono condotti i processi. Siamo nostalgici di Severino Santiapichi che irrogava pene solo dopo aver valutato le ragioni dell’altro: l’imputato con i suoi diritti ed i suoi doveri. Lo dimostrò con il processo Moro, per il quale presiedeva la Corte di Assise di Roma: il carcere, egli diceva, deve essere giusto, non spegnere l’uomo. “Vorrei mi aiutasse a capire”, chiedeva agli imputati, con l’umiltà di chi vuole ascoltare le ragioni della parte più debole. Negato il risarcimento a sorella di Lea Garofalo: “famiglia legata ai clan” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 7 maggio 2018 Dopo il sì dei giudici al riconoscimento di 50mila euro, il no del fondo vittime della mafia. La donna ha testimoniato durante il processo. I legali: una decisione paradossale. I giudici che hanno condannato gli assassini di sua sorella hanno stabilito che dev’essere risarcita: 50.000 euro per la morte di Lea Garofalo, la “testimone di giustizia” calabrese di Potilia Policastro, in provincia di Crotone, che testimoniò contro il marito, il cognato e altri personaggi legati alla ‘ndrangheta e alla famiglia d’origine. Storia tragicamente famosa: nel novembre 2009 Lea fu rapita con l’obiettivo di sapere che cosa aveva raccontato agli inquirenti, poi uccisa e bruciata per farne sparire i resti dall’ex convivente (nonché padre della figlia Denise) Carlo Cosco e i suoi complici. Condannati all’ergastolo. Quando la sentenza è divenuta definitiva Marisa Garofalo, sorella di Lea, ha chiesto al ministero dell’Interno il risarcimento previsto per le vittime di mafia: la somma che le hanno attribuito i giudici, più la metà che doveva andare alla madre Santina, morta nel frattempo. Totale: 75.000 euro. Ma dopo due anni e mezzo di attesa (la legge prevede una risposta entro 60 giorni), la prefettura di Crotone le ha comunicato che “il comitato ha espresso l’avviso di non accogliere la domanda”. Il motivo: “La Signoria vostra non risulta essere del tutto estranea ad ambienti e rapporti delinquenziali”, come invece prevede la norma. Proprio lei che, dopo l’omicidio di Lea, è divenuta a sua volta una testimone che ha contribuito a far condannare gli assassini, e gira l’Italia partecipando a manifestazioni e iniziative contro la mafia e per la legalità. Possibile? Possibile ma “destituito di fondamento e offensivo”, protesta il suo avvocato Roberto D’Ippolito, che ha presentato reclamo contro la decisione. A sostegno del diniego, la prefettura ha citato una nota del comando provinciale dei carabinieri, ai quali s’era rivolta per conoscere i precedenti di Marisa Garofalo. Fedina penale pulita, ma parentele con “elementi appartenuti in vita alla consorteria mafiosa di Petilia Policastro”. Per esempio il fratello e il padre, uccisi più di dieci anni fa nella guerra tra le cosche locali. Ma questo lo sapevano tutti ed è il motivo delle testimonianze di Lea: nata e cresciuta (come la sorella) in un contesto criminale, legatasi a un uomo di quello stesso ambiente, decise di ribellarsi diventando una collaboratrice di giustizia. Percorso accidentato, se è vero che all’inizio la richiesta di inserimento nel programma di protezione avanzata dalla Procura di Milano venne respinta dall’apposita commissione ministeriale; toccò al Consiglio di Stato ribaltare la decisione, ma poi fu Lea stessa a scegliere di uscire dal programma, dopo essersi accorta che l’ex compagno e i suoi complici avevano scoperto la “località segreta” in cui s’era rifugiata. In quel periodo decise di provare a tornare in Calabria, e i carabinieri registrarono una conversazione nella quale un esponente della ‘ndrangheta locale raccontava che Marisa Garofalo e sua madre Santina si erano fatte avanti “onde propiziare il ritorno di Lea nel borgo natio, al riparo da eventuali ritorsioni”, e che lui stesso aveva “ottenuto, a tal fine, le rassicurazioni dei fratelli Cosco”. Tuttavia la sorella e la madre “dissimularono lo status di “pentita” di Lea Garofalo, altrimenti non avrebbero ottenuto alcuna possibilità di protezione da parte del sodalizio”; particolare da cui gli investigatori deducono che “la famiglia originaria di Marisa Garofalo è sempre stata contigua alla criminalità organizzata di Petilia Policastro e aree limitrofe”. Ma i mafiosi, ribatte l’avvocato D’Ippolito, sapevano bene che Lea era passata dalla parte dello Stato, per questo la cercavano e avevano scoperto dove s’era rifugiata. Al punto da costringerla a una nuova fuga, e provare a tornare a casa. La “richiesta di permesso” della sorella e della madre, se davvero ci fu, nacque da lì “e dimostra esattamente il contrario di quello che pretenderebbero i carabinieri”, sostiene l’avvocato: “Appare piuttosto il sintomo sia della condizione di sudditanza a rispetto a coloro ai quali si chiedeva il “permesso”, sia della condizione di intimidazione rispetto a Carlo Cosco e sodali, dai quali Lea Garofalo temeva reazioni proprio per la posizione antimafia dalla stessa assunta. Timori che i drammatici eventi successivi avrebbero dimostrato essere tutt’altro che immaginari”. Quello che sembrava un semplice adempimento burocratico, insomma, s’è trasformato in un paradosso: il tentativo (fallito) di chiedere clemenza a chi in seguito l’avrebbe sequestrata, uccisa e bruciata, diventa motivo per adombrare rapporti sospetti e negare il risarcimento ai familiari rimasti in vita. E allunga una storia che non s’è conclusa con la terribile fine di Lea Garofalo. Il riconoscimento fotografico è prova atipica credibile grazie alle dichiarazioni di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 7 maggio 2018 Cassazione, sezione V penale, sentenza 20 aprile 2018 n. 17923. L’individuazione fotografica di un soggetto effettuata dalla polizia giudiziaria costituisce una prova atipica la cui affidabilità deriva dalla credibilità della dichiarazione di chi, avendo esaminato la fotografia, si dica certo della sua identificazione. Lo sostiene la quinta sezione penale della Cassazione con la sentenza 20 aprile 2018 n. 17923. Assolutamente pacifico è il principio secondo cui il giudice di merito può trarre il proprio convincimento anche da ricognizioni non formali (nella specie, si trattava di individuazione fotografica), utilizzabili in virtù dei principi di non tassatività dei mezzi di prova e del libero convincimento del giudice, atteso che la valenza dimostrativa della prova sta non nell’atto in sé, bensì nella testimonianza che dà conto dell’operazione ricognitiva (tra le tante, sezione II, 13 maggio 2009, Perrone). Al riguardo si è anche precisato che, in materia di riconoscimento fotografico non rilevano le modalità di formazione dell’album, integrate dalla scelta delle immagini effettuate dalla polizia giudiziaria, su cui viene operato il riconoscimento e per le stesse non viene in considerazione una questione di legalità della prova, giacché la relativa forza probatoria non discende dalle modalità formali, bensì dal valore della dichiarazione confermativa e quindi dalla credibilità della deposizione, al pari di quella testimoniale (sezione VI, 7 marzo 2017, Sabatini). L’introduzione in un garage integra il reato di furto in abitazione di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 7 maggio 2018 Cassazione, sezione IV penale, sentenza 18 aprile 2018 n. 17403. Anche alla luce dei principi delle sezioni Unite (sentenza 23 marzo 2017, D’Amico), integra il reato previsto dall’articolo 624-bis del Cp la condotta di chi commette un furto introducendosi all’interno di un garage, che costituisce pertinenza di un luogo di privata dimora, a nulla rilevando che il locale abbia un ingresso autonomo rispetto all’abitazione, ed essendo invece rilevante unicamente la destinazione d’uso del locale ad atti sicuramente non occasionali della vita privata del titolare, e di suo esclusivo utilizzo. Come nel caso di specie esaminato e risolto dalla Cassazione con la sentenza n. 17403 del 2018, essendosi accertato che il garage era di esclusiva pertinenza della persona offesa, che vi teneva conservati tra l’altro gli attrezzi da lavoro a lui sottratti. Sulla questione cfr. la sentenza delle sezioni Unite, 23 marzo 2017, D’Amico, che, affrontando la questione se rientra nella nozione di privata dimora, ai fini della configurabilità del reato di cui all’articolo 624-bis del Cp, il luogo dove si esercita un’attività commerciale o imprenditoriale (nella specie, si trattava di un ristorante), hanno fornito risposta negativa, salvo che il fatto non sia avvenuto all’interno di un’area riservata alla sfera privata della persona offesa. Al riguardo, con affermazione qui ripresa dalla sentenza n. 17403, precisandosi che rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi, anche destinati ad attività lavorativa o professionale, nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare. In termini, cfr. anche sezione II, 29 maggio 2012, Muffatti e altro, secondo cui integra il reato previsto dall’articolo 624-bis del Cp la condotta di chi commette un furto introducendosi all’interno di un garage, che costituisce pertinenza di un luogo di privata dimora. La responsabilità dell’omissione contributiva nelle imprese collettive Il Sole 24 Ore, 7 maggio 2018 Contribuzione previdenziale - Obbligo contributivo - Reato di omesso versamento dei contributi - Imprese collettive - Socio accomandatario - Discrimine della gestione dell’impresa. Il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali sulle retribuzioni corrisposte ai dipendenti non può essere ascritto al socio che non partecipa concretamente alla gestione dell’impresa, spettando il dovere dei suddetti versamenti al legale rappresentante dell’azienda. (Nel caso di specie la Corte suprema ha ritenuto responsabile il socio accomandatario effettivo legale rappresentante della ditta, in quanto responsabile dell’attività amministrativa e direzionale dell’azienda, ritenendo irrilevante che l’altro socio accomandatario fosse rimasto inerte alla notifica Inps dell’accertamento delle violazioni contributive, in quanto il dolo deve sussistere al momento della condotta omissiva e non può essere sopperito dalla successiva conoscenza delle violazioni già consumate). • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 9 aprile 2018 n. 15786. Reati previdenziali - Omesso versamento contributi - Reato a dolo generico - S.a.s. - Socio accomandatario - Titolare obbligo contributivo. L’obbligo di versare i contributi spetta al datore di lavoro e tale qualificazione nelle imprese collettive spetta al soggetto che, secondo il tipo e l’organizzazione dell’impresa, ha la responsabilità dell’impresa stessa o dell’unità produttiva. Nelle società in accomandita semplice tale potere spetta al socio accomandatario al quale è stata conferita l’amministrazione della società e, quindi, la rappresentanza nei rapporti con i terzi. Peraltro, il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali è a dolo generico, ed è integrato dalla consapevole scelta di omettere i versamenti dovuti. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 9 aprile 2018 n. 15786. Previdenza e assistenza (assicurazioni sociali) - Contributi - Omesso versamento - Soggetto responsabile - Datore di lavoro - Imprese collettive - Individuazione. L’obbligo del versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti grava sul datore di lavoro, ovvero, nelle imprese collettive, sul soggetto che, secondo il tipo e l’organizzazione dell’impresa, ha la responsabilità dell’impresa stessa o della unità produttiva. Nelle società in accomandita semplice tale potere spetta al socio accomandatario al quale è stata conferita l’amministrazione della società e, quindi, la rappresentanza nei rapporti con i terzi. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 21 maggio 2013 n. 21695. Previdenza e assistenza (assicurazioni sociali) - Contributi - Evasione contributiva - Reato di cui all’art. 2 legge n. 638 del 1983 - Imprese collettive - Soggetto responsabile - Individuazione. L’obbligo del versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti grava nelle imprese collettive sul soggetto che secondo il tipo e l’organizzazione ha la responsabilità dell’impresa stessa o della singola unità produttiva, non assumendo effetto scriminante la circostanza che la designazione sia fittizia. (Fattispecie relativa a società in accomandita semplice nella quale la Corte ha affermato la responsabilità del socio accomandatario, al quale era stata conferita l’amministrazione della società e la rappresentanza nei rapporti con i terzi). • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 7 luglio 2005 n. 24938. I ragazzi a rischio sono figli di tutta la città di Antonio Mattone Il Mattino, 7 maggio 2018 Una corsa per le strade del centro di Napoli e un campo estivo per i giovani a rischio. L’iniziativa di Maria Luisa Iavarone, la mamma di Arturo, per richiamare l’attenzione sulla violenza giovanile e per provare a dare qualche risposta concreta, ha già raccolto numerose adesioni. Personaggi del mondo dello sport, della cultura, della musica e cittadini comuni hanno fatto pervenire il loro sostegno e, tanti altri si stanno aggiungendo. Colpisce la caparbietà e l’ostinazione della donna che con queste proposte cerca di dare un senso alla violenza subita dal figlio, non per cercare una vendetta, ma piuttosto per scuotere la società civile della nostra città e trovare dei percorsi per contrastare il dilagare del bullismo e della violenza minorile. A questo impegno appassionato e fattivo fa da contraltare l’immobilismo delle istituzioni che, una volta spenti i riflettori sulla vicenda, non hanno fatto emergere alcuna proposta concreta. Abbiamo sottolineato più volte sulle pagine di questo giornale la mancanza di dati completi e strutturati sull’abbandono scolastico a Napoli. Un riscontro fondamentale per iniziare a comprendere, e quindi a contrastare, quella che è una grave emergenza soprattutto in alcuni quartieri cittadini. L’allontanamento dalla scuola è un campanello d’allarme, la spia di un disagio che tanto spesso si trasforma in violenza. Ma quali progetti sono stati messi in campo per monitorare questo fenomeno? Quella del campus estivo è un’idea che sicuramente sarà vincente e che dovrebbe vedere coinvolte le diverse anime presenti nella città. Ogni campo estivo in più, significa dare un’opportunità a una manciata di ragazzi che così potranno capire che la vita al di fuori del proprio quartiere chiuso, può essere bella, colorata, avvincente, stimolante e soprattutto più gratificante rispetto a quella in cui sono considerati “qualcuno”, o credono di esserlo, ma che toglie la libertà, il respiro, la dignità. Ho visto bambini che, partecipando a soggiorni estivi con associazioni di volontariato, hanno iniziato a guardare al mondo e alla propria vita in modo diverso, con curiosità e con speranza. Con la Comunità di Sant’Egidio ho partecipato anni fa alle colonie in alcune località della penisola, come Amatrice, Subiaco e Santa Maria di Castellabate. Qui i minori vivevano a stretto contatto con la natura, e potevano osservare paesaggi a loro sconosciuti. Ricordo la meraviglia di dodicenne di Scampia che non aveva mai visto il mare da vicino, così come una gita sul Vesuvio dove bastarono una chitarra, un pallone e una frittata di maccheroni a farne una giornata memorabile. Ma erano anche occasioni per conoscere meglio la vita, le ansie e i problemi di quest’infanzia marginale e per trasmettere dei valori. Un ragazzino, al termine dei giorni trascorsi insieme, fu intervistato da un giovane operatore su cosa volesse fare da grande, e la risposta fu spiazzante: “vorrei essere come te, un amico dei bambini!”. Noi adulti possiamo rappresentare dei modelli nel vuoto di riferimenti positivi che mancano nei loro quartieri o nelle famiglie dove vivono. Per questo è fondamentale mostrargli che la nostra città è anche e soprattutto altro. Un ulteriore percorso che forse vale la pena di intraprendere è quello di compiere dei viaggi all’interno della città, per far conoscere la cultura, l’arte e la musica. Un patrimonio di cui poter essere orgogliosi e che può rappresentare un’ occasione di vanto sano e non violento. Ci si può emozionare e sentirsi rispettati ostentando le proprie radici e la propria storia, invece che un coltello. L’esempio dei giovani di don Antonio Loffredo alla Sanità è sotto gli occhi di tutti. È arrivato il momento che la città di Napoli dica nuovamente con forza ai suoi bambini che la loro vita è importante, che sono la parte buona della nostra società e che siamo tutti pronti a correre insieme perché ogni vita sia salvata. La mamma di Arturo ha chiamato tutta la città a raccolta: mamme, anziani, bambini, adulti. Tutti insieme, perché i ragazzini di Napoli sono sempre stati i figli di tutti. Lodi: detenuto fugge dal carcere durante l’ora d’aria La Repubblica, 7 maggio 2018 Nel carcere è stata aperta un’inchiesta interna per capire come sia stato possibile. L’uomo era finito in carcere per spaccio pochi giorni fa. Un detenuto marocchino di 22 anni, Mohamed El Madoui, è riuscito ad evadere, ieri, dal carcere di Lodi. L’uomo era stato arrestato alcuni giorni fa per spaccio di stupefacenti, in esecuzione di un ordine di carcerazione. L’uomo, secondo quanto ricostruito, avrebbe approfittato dell’ora d’aria scavalcando l’alto muro di cinta e facendo perdere le sue tracce. Le forze dell’ordine lo stanno cercando nel Lodigiano ma anche nelle province limitrofe. Nel carcere di Lodi è stata aperta un’inchiesta interna per capire come sia stato possibile che l’uomo sia riuscito ad evadere durante l’ora d’aria. Sulla vicenda interviene polemico Donato Capece, segretario generale del sindacato autonomo di polizia penitenziaria Sappe: “È una evasione annunciata, frutto della superficialità con cui sono state trattate e gestite le molte denunce fatte dal Sappe sulle condizioni di sicurezza dell’istituto di pena, che ha portato la sicurezza al di sotto dei livelli minimi, sottoponendo la Polizia penitenziaria a rischi e disagi continui”. Torino: l’associazione San Maurizio in visita al carcere “Lorusso e Cutugno” di Giovanni D’Amelio sullascia.net, 7 maggio 2018 Il gruppo politico propone un incontro formativo sui luoghi di detenzione. Il primo appuntamento è per il 28 maggio al Fatebenefratelli di San Matirizio Canavese, propedeutico al percorso guidato del 29 maggio alla struttura torinese delle Vallette. Ad una anno circa dall’apertura sul territorio della Residenza per l’Esecuzione di Misure di Sicurezza (R.E.M.S.), strutture nate in sostituzione dei vecchi Ospedali Psichiatrici Giudiziari (O.P.G.) e destinate a ricevere e prendersi cura delle persone detenute affette da infermità psichica, l’associazione San Maurizio Domani estende lo sguardo fuori dal paese e organizza, con il coinvolgimento di Domenico Minervini, Direttore della Casa Circondariale di Torino “Lo Russo e Cutugno”, un’occasione di incontro informativo e formativo sui luoghi di detenzione. Il primo appuntamento è per lunedì 28 maggio alle ore 18 presso la Sala Conferenze del Presidio Ospedaliero “Fatebenfratelli”,di San Maurizio Canavese. Interverranno Domenico Minervini, Alessandro Jaretti Sodano, Direttore Sanitario R.E.M.S. San Maurizio Canavese, Amtonio Pellegrino, Coordinatore della Rete Regionale dei Servizi Sanitari Penitenziari del Piemonte, Emilia Rossi, Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà. Modera l’avvocata Fabiola Grimaldi. Il giorno dopo, martedì 29 maggio, dalle ore 9 alle 13, è in programma invece la visita guidata alla Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno”. Per partecipare all’iniziativa è prevista l’iscrizione obbligatoria, entro e non oltre l’ 8 maggio. Bisognerà indicare nella domanda nome, cognome, data e luogo di nascita, allegando la fotocopia del codice fiscale. Le iscrizioni dovranno pervenire al seguente indirizzo di posta elettronica: iscrizioni@sanmauriziodomani.it Nel caso il numero delle iscrizioni fosse tale da non consentire l’accesso in carcere in una sola mattinata, verranno programmati turni in altre giornate. La visita in carcere presuppone la partecipazione all’evento formativo del 28 maggio. L’obiettivo di San Maurizio Domani è portare a conoscenza della popolazione le vite vissute nei luoghi di detenzione, le garanzie, i diritti, la sofferenza, le speranze, la voglia di riscatto e di socializzazione, dando visibilità e informazione rispetto ad una realtà e ad una funzione dello Stato generalmente poco conosciuta. Catania: carcere Bicocca, al via seminario su primo soccorso lasicilia24ore.it, 7 maggio 2018 Il Rotary Club “Catania Etna Centenario” organizza un seminario su primo soccorso e uso del defibrillatore rivolto al personale di polizia penitenziaria del carcere di Bicocca. Il corso si svolgerà in due giornate, lunedì 7 e venerdì 11 maggio 2018, all’interno della struttura di massima sicurezza catanese. A curare la formazione sarà Francesco Di Pietro, responsabile del pronto soccorso pediatrico e risk management in Pediatria dell’azienda ospedaliera Cannizzaro di Catania. Il medico sarà affiancato da Marco Palmigiano, esperto in primo soccorso. Gli agenti riceveranno un diploma valido a livello internazionale che certifica la loro conoscenza delle principali manovre di rianimazione e l’uso del defibrillatore. Il Rotary “Catania Etna Centenario” collabora già con il carcere Bicocca nell’ambito di un’iniziativa che coinvolge i detenuti del penitenziario etneo e diversi professionisti. Il nuovo progetto, invece, vedrà protagonista il personale che presta servizio nella struttura. “Per poter fronteggiare qualsiasi emergenza di tipo medico è necessaria una formazione specifica. Per questo ci siamo offerti di organizzare un corso intensivo, affidandolo a due dottori specialisti del settore”, afferma Yolanda Medina Diaz, avvocato e presidente del Club. “Il nostro obiettivo è contribuire a una maggiore sicurezza per le persone che si trovano nel penitenziario e, allo stesso tempo, accrescere le competenze di quanti lavorano all’interno della casa circondariale di Bicocca”, conclude. Reggio Calabria: la storia di Francesco, “dottore” in carcere di Lucia D’Amore internationalwebpost.org, 7 maggio 2018 Francesco Leone è detenuto nella casa circondariale “Panzera” di Reggio Calabria, nella quale dovrà scontare una pena di dodici anni di reclusione per associazione mafiosa. La sua è una storia comune a molti altri studenti in vari istituti di pena, i quali hanno pensato di impiegare sui libri il tempo “libero” che forzatamente si trovano a dover vivere. Francesco si è impegnato fino a conseguire il titolo di dottore in Scienze Infermieristiche, ma la sua buona volontà è stata supportata da innumerevoli figure, quali educatori e personale della polizia penitenziaria, che hanno reso possibile la realizzazione di questo importante progetto di vita. Il ragazzo, di 25 anni d’età, ha potuto sostenere gli esami previsti nel corso di laurea, grazie ad un sistema di video conferenza in collegamento con la commissione d’esame del Dipartimento di Medicina clinica e sperimentale dell’Università di Messina. Leone, che ha discusso una tesi intitolata “L’infermiere e la prevenzione delle infezioni correlate all’assistenza”, rivolgendosi a tutti coloro i quali lo hanno supportato, ha affermato: “Ho il dovere di ringraziare la direttrice della Casa circondariale ‘Giuseppe Panzerà di Reggio Calabria, gli educatori e l’intero corpo di Polizia penitenziaria che mi hanno dato la possibilità di raggiungere questo importantissimo obiettivo, fondamentale per il mio futuro una volta che avrò pagato il mio debito con la giustizia”. “Un altro grazie - ha aggiunto - va ai miei genitori che nonostante tutto mi hanno dato ancora volta fiducia, e mi hanno sostenuto ed accompagnato in questa straordinaria avventura”. La storia di Francesco induce ad una riflessione sulla funzione del carcere e sulla rieducazione del detenuto, il quale al termine della detenzione deve essere reinserito nella società in modo tale da non delinquere ancora una volta. Affinché ciò accada è opportuno che si attui un percorso rieducativo e, se necessario, di studi come nel caso del protagonista del nostro racconto, siano essi universitari o professionalizzanti. Ben vengano, quindi, iniziative lodevoli quali l’attivazione di percorsi di formazione all’interno degli Istituti di pena, ad esempio corsi di cucina, sartoria ecc. In molte realtà carcerarie vi è inoltre la possibilità di frequentare la scuola secondaria e di utilizzare la biblioteca, spesso allestita grazie ad associazioni di volontariato e progetti privati. Il percorso da realizzare è tuttavia ancora in salita: queste iniziative andrebbero moltiplicate, i nostri Istituti di pena dovrebbero prendere a modello realtà di gran lunga più evolute, come quelle scandinave ad esempio, così che storie come quelle di Francesco non siano più l’eccezione ma semplicemente la regola. Libia. Guardia costiera-ong, sale nuovamente la tensione Il Secolo XIX, 7 maggio 2018 Ieri e sabato nuovi soccorsi con polemiche. È di nuovo alta tensione tra navi umanitarie e guardia costiera libica nel Mediterraneo. Tra sabato e ieri due gli episodi che hanno coinvolto la Astral della Proactiva Open Arms e la Aquarius di Sos Mediterranee mentre erano impegnate a soccorrere migranti in difficoltà. A bordo della Astral - che sostituisce la nave della ong spagnola prima sequestrata dalla procura di Catania e poi “liberata” dal gip di Ragusa - è imbarcato Riccardo Magi, deputato di +Europa e segretario di Radicali Italiani. È proprio lui a far sapere che sabato una motovedetta libica “si è avvicinata all’Astral, ci hanno chiesto se avessimo migranti a bordo e quando abbiamo risposto di no ci hanno intimato di andarcene via dicendo: “questo è un lavoro che dobbiamo fare noi”. I libici agiscono come pirati in acque internazionali, pretendendo che sia riconosciuta loro una autorità. Agiscono fuori dal diritto e lo fanno con mezzi forniti dal governo italiano”. Ieri la nave di Open Arms ha salvato 105 persone, tra cui donne e bambini, a bordo di un gommone sgonfio. È stato il Centro di coordinamento marittimo della Guardia costiera di Roma, informa Magi, ad invitare alle 5 di ieri mattina tutte le navi in zona a soccorrere un’imbarcazione in difficoltà. Subito dopo il Centro ha comunicato che la Guardia costiera libica aveva assunto il controllo dell’operazione. “Dopo la segnalazione - spiega - abbiamo chiamato più volte la Guardia costiera libica, ma non abbiamo ricevuto risposta. Quindi abbiamo avvisato il Centro di Roma che ci saremmo recati sul posto per verificare la situazione, visto che dalle informazioni in nostro possesso, il gommone con i migranti era senza motore e si stava sgonfiando. Solo al termine dell’intervento la Guardia costiera libica ci ha contattato per sapere come fosse andata l’operazione”. Altro “caso” è stato segnalato ieri da Sos Mediterranee, presente nel Canale di Sicilia con la nave Aquarius. L’imbarcazione umanitaria, fa sapere la ong, “ha assistito all’intercettazione di un gommone da parte della Guardia costiera libica al largo di Tripoli. Malgrado più persone fossero in acqua le nostre offerte di assistenza sono state ripetutamente ignorate. Ci è stato ordinato invece di allontanarci “. Analoga testimonianza arrivata dall’altra ong presente nel Mediterraneo, Sea Watch, che sabato ha salvato 37 migranti in difficoltà a 15 miglia dalle coste libiche. Arabia Saudita. In 4 mesi 48 condanne a morte di Massimo Persotti avantionline.it, 7 maggio 2018 L’Arabia Saudita ha messo a morte 48 persone nei primi quattro mesi del 2018, metà dei quali per reati non violenti legati alla droga. Sono quasi 600 le esecuzioni nel Regno dall’inizio del 2014, più di un terzo per crimini di droga, quasi 150 solo lo scorso anno. I dati drammatici sono stati resi noti in queste ore da Human Rights Watch (Hrw). Il rapporto tra pena di morte e reati di droga resta un tema centrale per gli attivisti per i diritti umani, nonostante siano solo quattro i paesi (Arabia Saudita, Cina, Iran e Singapore) che ufficialmente eseguano sentenze capitali per questa tipologia di reati (ma Amnesty International ritiene che non siano da escludere neppure Malesia e Vietnam, pur non dichiarandolo espressamente). Peraltro, si registrano tendenze discordanti tra paese e paese, perché se in Iran l’entità di esecuzioni di questo tipo si è ridotta dal quasi 60% del 2016 al 40% del 2017, probabilmente - spiega Amnesty nel suo recente rapporto sulla pena di morte - a causa delle modifiche legislative intervenute nel 2017 alle leggi antinarcotici, in Arabia Saudita invece le sentenze capitali eseguite per reati connessi alla droga sono aumentate dal 16% delle esecuzioni complessive nel 2016 al 40% nel 2017. L’Arabia Saudita punisce con la pena di morte anche reati come terrorismo, omicidio, stupro, rapine a mano armata e i condannati a morte sono decapitati con una spada. Ma le organizzazioni per i diritti umani hanno ripetutamente espresso preoccupazioni sulla equità dei processi nel Regno, che è governato da una rigorosa forma di osservanza della legge islamica. “È abbastanza grave che l’Arabia Saudita metta a morte così tante persone, ma molte di loro non hanno commesso un crimine violento - ha dichiarato al Guardian Sarah Leah Whitson, direttore di Hrw per il Medio Oriente. Qualsiasi piano per limitare le esecuzioni per reati di droga deve prevedere miglioramenti al sistema giudiziario che non prevede processi equi”. Il principe ereditario Mohammed bin Salman, erede al trono designato, ha rivelato recentemente in un’intervista alla rivista Time che il Regno avrebbe preso in considerazione la possibilità per alcuni reati, tranne l’omicidio, di cambiare la pena dalla condanna capitale all’ergastolo. Una speranza per le organizzazioni umanitarie, ma in molti temono che gli annunci del principe siano solo di facciata.