La riforma del sistema carcerario porterebbe più sicurezza di Igor Boni* orlandomagazine.it, 6 maggio 2018 Sono decenni che in tutte le nostre visite nelle strutture carcerarie verifichiamo le indicibili difficoltà che incontrano direttori e agenti di polizia penitenziaria e denunciamo casi di violazioni patenti dei diritti dei detenuti. Sovraffollamento in aumento, detenuti ammassati anche 4 per cella, ritardi nei processi, numeri inaccettabili di persone in attesa di giudizio definitivo, presenza di un terzo di detenuti legati alla violazione delle leggi sulla droga e di tossicodipendenti che dovrebbero essere seguiti in altro modo e non certo rinchiusi dietro le sbarre, immigrati di decine di nazionalità costretti a vivere uno accanto all’altro, sono la “normalità” delle carceri italiane. In questo, nord, centro e sud, sono perfettamente uniti. Nei giorni scorsi, dopo un percorso di anni spinto dall’azione dei Radicali e dalla nonviolenza degli stessi detenuti, il Consiglio dei ministri ha approvato una riforma del sistema carcerario che permetterà ai giudici di assegnare con più facilità misure alternative e che punta a migliorare la tutela dei detenuti e i loro diritti. Come prevede la nostra Costituzione, da tanti osannata e da quasi nessuno rispettata, la detenzione ha un obiettivo riabilitativo! Oggi, viceversa, le nostre galere non sono certo lo strumento per reinserire nella società chi ha commesso dei reati, ma spesso sono vere e proprie scuole di criminalità. L’obiettivo dichiarato dalla riforma, voluta dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando, è quello di abbattere la recidiva, migliorando le condizioni di vita di chi si trova in carcere e favorendo l’applicazione di misure alternative. Misure queste che, come più volte verificato, riducono il ripetere dei reati da parte di chi viene scarcerato. Malgrado tutto questo la riforma rischia di arenarsi proprio sulla linea d’arrivo, se non riuscirà ad avere il via libera dalle commissioni dell’attuale Parlamento. Eppure chi oggi, anche strumentalmente, chiede più sicurezza e conquista molti voti su queste parole d’ordine, se fosse veramente interessato all’obiettivo sarebbe con noi per chiedere di completare l’iter. Invece, è facile prevederlo, si continuerà a utilizzare demagogia a buon mercato per raggranellare ulteriore facile consenso. Noi, però, non ci fermiamo e non ci fermeremo. *Direzione nazionale Radicali Italiani Patriarca (Pd): non far sfumare riforma senza decreti Ansa, 6 maggio 2018 Non si tratta si svuotarle ma di diminuire le recidive. “Se non saranno varati presto i decreti attuativi, la riforma penitenziaria rischia di sfumare. Non si tratta di svuotare le carceri, come dicono Lega e Fdi, ma di diminuire le recidive. È ormai certo che le pene alternative non fanno altro che recuperare chi ha commesso reati”. Lo afferma il senatore del Pd Edoardo Patriarca. “Il giustizialismo della destra non ha motivo perché nei fatti contribuisce al sovraffollamento delle carceri e non aiuta nel diminuire le recidive. Una visione vecchia della pena, che non fa altro che ingolfare il nostro sistema penale”, conclude Patriarca. 41bis, strumento o tortura? di Roberta Galeotti ilcapoluogo.it, 6 maggio 2018 Il Capoluogo intervista l’avvocato aquilano Barbara Amicarella, che lavora da oltre 10 anni con detenuti sottoposti al 41-bis. Nella giornata di ieri, la quarta udienza al tribunale di L’Aquila, che vede alla sbarra Nadia Lioce, brigatista rossa condannata per gli omicidi dei giuslavoristi Massimo D’Antona e Marco Biagi e del sovrintendente di Polizia Emanuele Petri, ha fatto discutere molto in città. “41-bis, strumento o tortura?” Il Capoluogo intervista l’avvocato aquilano Barbara Amicarella, che lavora da oltre 10 anni con detenuti sottoposti al 41-bis. Un regime che ha lo scopo di recidere ogni legame con le organizzazioni dalle quali i detenuti provengono, obiettivo che nessuno mette in discussione, ma sul quale vorremmo aprire una riflessione dopo la protesta interna attuata dalla Lioce. Nadia Desdemona Lioce vive in regime di 41-bis alle Costarelle dal 2004 ed è la leader delle Brigate Rosse - Partito Comunista Combattente, condannata a tre ergastoli per gli omicidi, commessi con finalità di terrorismo, dei giuslavoristi Massimo D’Antona e Marco Biagi e del sovrintendente di Polizia Emanuele Petri. Il regolamento prevede che possa dialogare con una sola compagna di detenzione durante l’unica ora d’aria della giornata, cui si somma una visita al mese da parte dei familiari, senza contatto fisico e attraverso un vetro. La brigatista lamenta di poter tenere soltanto due libri e tre quaderni. Vietati il merluzzo servito crudo, i canali della televisione, i contenitori di plastica e le razioni di detersivo, che si possono tenere in cella e che le vengono tolti durante la notte. L’irriducibile Lioce non è piegata da 13 anni di carcere duro ma, pur definendosi ancora una “militante”, ha decisamente cambiato fronte di lotta. Come si legge nei ricorsi, nelle istanze e nelle richieste che incessantemente scrive nella sua cella di isolamento con finestrella sul nulla, a cui si accede dopo un lungo corridoio sotterraneo, nel carcere dell’Aquila. Su ogni argomento la Lioce tira in ballo i diritti umani e quando le sue richieste non vengono accolte ed esaudite, ecco che Nadia Lioce batte la scodella di metallo contro le sbarre della cella: “una battitura sonora ed ossessiva”, per cui è stata portata a processo. Il carcere duro è stato introdotto nel 1992 dopo la strage di Capaci, dove persero la vita Giovanni Falcone, sua moglie e gli uomini della scorta, dal decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (cosiddetto Decreto antimafia Martelli-Scotti), convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356. 41-bis l’intervista «Il 41-bis è un regime che vuole minare la stabilità mentale dei carcerati, al fine di riuscire a farli crollare e raccontare i dettagli delle cosche da cui provengono - racconta al Capoluogo l’avvocato aquilano Barbara Amicarella, che lavora da oltre 10 anni con detenuti sottoposti al 41-bis. Il regime di carcere duro, però, nel protrarsi degli anni non viene quasi mai revocato ed è continuamente confermato anche ai detenuti che, chiaramente, non hanno più ruoli significativi nelle organizzazioni malavitose. «Ci sono alcuni detenuti che sono in regime di 41-bis dal 1992. Alcuni di loro ricevono un paio di visite l’anno dai propri familiari che, non avendo disponibilità economiche, non possono permettersi di affrontare il viaggio dalla Sicilia per fare visita al loro congiunto una volta al mese, come permetterebbe la legge. Quelle persone, evidentemente, non hanno più ruoli e, a differenza di altri, potrebbero avere revocato il regime». 41-bis solo un numero minimo di foto appese in cella - «I detenuti in 41-bis hanno l’obbligo di tenere un certo numero ben preciso di fotografie dei familiari appesi in cella e non una di più - ci spiega l’avvocato Amicarella. Questa limitazione, come molte altre che nulla hanno a che fare con i collegamenti esterni, è sicuramente dettata dal voler imporre una costrizione psicologica che, in determinati casi, diventa una violenza gratuita ed inutile. Mi riferisco a chi è in questo regime da oltre 25 anni; a chi non ha effettivamente più nessun controllo sul potere esterno; a chi resterà in carcere per tutta la vita per scontare il malfatto e nulla più conosce delle organizzazioni esterne» conclude l’avvocato Barbara Amicarella. Le limitazioni del 41-bis - Isolamento nei confronti degli altri detenuti. Il detenuto è situato in una cella singola e non ha accesso a spazi comuni del carcere. L’ora d’aria è limitata rispetto ai detenuti comuni e avviene anch’essa in isolamento. Il detenuto è costantemente sorvegliato da uno speciale corpo di polizia penitenziaria il quale, a sua volta, non entra in contatto con le altre guardie carcerarie. Limitazione dei colloqui con i familiari e gli avvocati per quantità (massimo due al mese; nel caso degli avvocati questa norma è stata abolita dalla Corte costituzionale nel 2013), per qualità (il contatto fisico è impedito da un vetro divisorio) e per durata. Contatti con l’esterno limitati ad una telefonata al mese. Censura della posta in uscita e in entrata. Proibizione di tenere molti oggetti personali in cella (penne, quaderni, denaro, macchine fotografiche, bottiglie, ecc.). Il 41-bis delle Costarelle a L’Aquila - «La struttura è stata ultimata nel 1986, - come si legge sul sito del Ministero della Giustizia che descrive la casa Circondariale aquilana - ma l’istituto è entrato in funzione nel 1993. L’istituto è nato originariamente con una capienza regolamentare di 150 detenuti comuni. La capienza tollerabile è stata fissata a 300 detenuti comuni. Intorno al 1996, la struttura è adibita quasi interamente alla custodia di detenuti sottoposti a particolari regimi di sicurezza che alloggiano in celle singole». Su 173 detenuti che si trovano nella struttura, ben 147, tra cui 7 donne, sono sottoposti al regime del 41 bis. E se lo chiamano carcere duro, un motivo ci dovrà pur essere. Una visita durata un paio di ore, al termine della quale Federica Chiavaroli si è detta “molto provata. Si avverte proprio questo clima da carcere duro. È una struttura assolutamente ordinata”, ha detto all’uscita, “anche se qualche problema ce l’ha per quanto riguarda la carenza di personale, sul quale concentreremo la massima attenzione. È chiaro che poi la riflessione più profonda riguarda il 41 bis, Stiamo riflettendo su come assicurare condizioni di vita dignitose anche a chi si trova in 41 bis. Anche il presidente della commissione diritti umani, Luigi Manconi, ha parlato dell’umanizzazione del 41 bis”. Ripensare gli arredi destinati alle carceri: l’Ordine degli architetti lancia il concorso lecceprima.it, 6 maggio 2018 Un’idea unica, e innovativa nel panorama italiano: l’Ordine degli architetti ha lanciato il concorso nazionale d’idee per la progettazione degli arredi destinati agli istituti penitenziari. Il progetto nasce dalla collaborazione, inedita, con la Casa circondariale di Borgo San Nicola e l’Università del Salento e gode del patrocinio del Consiglio nazionale architetti, sostenuto da Fondazione Bpp e Ance Lecce. Il concorso è nato nell’ambito del Protocollo d’intesa del 2015 e si pone l’obiettivo di “umanizzare” gli spazi detentivi, restituendo dignità ad un luogo di pochi metri quadrati (quindi ad una cella standard) per migliorare la qualità della vita. Sono queste le sfide che “Six square meters_Persone, luoghi, dignità. Una nuova idea di arredo per gli spazi detentivi” lancia alla comunità nazionale degli architetti e dei designers. Il concorso d’idee del genere promosso dall’ordine e dal ministero di Grazia e giustizia è stato elaborato all’indomani della sentenza Torreggiani con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo, lo ricordiamo, aveva condannato l’Italia per le condizioni disumane delle carceri. Il progetto si avvale della ricerca condotta nell’università del Salento dall’équipe guidata dai docenti Carlo Alberto Augieri e Anna Maria Rizzo, e ha come fine l’avviamento di una vera e propria linea produttiva di arredi. Coniugando, in un unico logo, la qualità del progetto e della produzione con un obiettivo sociale e occupazionale, anche ai fini del reinserimento sociale. Il bando è scaricabile all’indirizzo htpps://www.concorsiawn.it/six-square-meters- ed il concorso si chiuderà il 2 luglio. La conclusione dei lavori della giuria è prevista per il 30 luglio. Proclamazione del vincitore entro il 17 settembre alla quale seguirà la manifestazione finale con presentazione di tutti i progetti partecipanti. “L’invito che rivolgiamo alla comunità nazionale e internazionale - dice Rocco De Matteis, presidente dell’Ordine - nasconde una sfida ancora più ampia: tornare a riflettere sul ruolo sociale della nostra professione e sulla centralità che l’architettura deve essere capace di riconquistare se abbiamo veramente a cuore la qualità e l’autorevolezza del nostro ruolo e la qualità degli spazi che siamo chiamati a progettare, di qualsiasi natura essi siano”. “Il progetto - aggiunge Rita Russo, direttrice della Casa circondariale di Lecce - rappresenta il risultato di un approccio consapevole e qualificato al problema delle carceri e della condizione detentiva in Italia, affrontando un tema che non può essere sottovalutato rispetto alla problematica del sovraffollamento”. Se per finire in carcere basta un pensiero di Daniele Pirozzi Il Foglio, 6 maggio 2018 Il neuro-diritto tra futuro distopico e seduzione. Con il progresso delle tecniche di brain imaging il lavoro di giudici e avvocati sarà sempre più permeato di nozioni neuro-scientifiche. Difficile dire se sia un bene o un male. Se c’e` qualcosa in grado di suscitare al tempo stesso fascino e timore, sono senza dubbio le neuroscienze con i loro studi sul cervello. Proviamo un’innata attrazione, controbilanciata dalla paura che le progressive scoperte, volte a identificare i correlati neurali dei nostri pensieri e comportamenti, porteranno un giorno la scienza a sconvolgere il modo in cui concepiamo noi stessi e gli altri in quanto esseri liberi e in grado di autodeterminarsi. Ad esempio, secondo gli scienziati Greene e Cohen, sostenitori della visione neuro-riduzionista, ciò che siamo e che facciamo è esclusivamente il risultato delle nostre reti neurali e l’evoluzione delle neuroscienze porterà a una rifondazione di concetti che da sempre sono alla base anche del diritto, come quelli di libero arbitrio e responsabilità. Oggi giorno non è raro che un giudice, intento a emettere una sentenza a carico di un imputato, possa avvalersi di prove ottenute con strumenti e tecniche in grado di esaminare la struttura e il funzionamento del cervello, come la risonanza magnetica per immagini (Mri) o la risonanza magnetica funzionale (Fmri). Eppure, sebbene queste tecniche abbiano fatto il loro ingresso nei tribunali a partire dal secolo scorso, il loro impiego e` ancora poco consolidato, ascrivibile di volta in volta al singolo caso e, soprattutto, oggetto di un dibattito che ha portato alla nascita di una nuova disciplina, il neuro-diritto. Sembrano esserci, però, delle aree che, più di altre, verranno influenzate dagli sviluppi futuri delle scienze cognitive: come la capacità di prevedere il rischio che una persona commetta un crimine nel corso della sua vita o stabilire se fosse consapevole di compiere un’azione illecita. In un esperimento condotto presso il Virginia Tech Carilion Research Institute, un gruppo di ricercatori è stato in grado di capire - per la prima volta e basandosi solo sulle diverse attivazioni cerebrali - se un reato veniva commesso con o senza consapevolezza. Divisi in due gruppi e sottoposti a Fmri, i partecipanti si trovavano di fronte alla decisione immaginaria di attraversare o non attraversare il confine di un paese con una valigia. Mentre il primo gruppo era consapevole di trasportare merce di contrabbando, il secondo sapeva che la valigia avrebbe potuto contenere sostanze illecite ma non era messo a conoscenza del suo reale contenuto. Basandosi unicamente sui dati ottenuti con le scansioni cerebrali, i ricercatori riuscivano a determinare con un alto grado di accuratezza quali soggetti erano consapevoli di infrangere la legge e chi, invece, agiva semplicemente in modo incauto. Anche se preliminari e ottenuti in via sperimentale, questi risultati potrebbero permettere in futuro di inferire, tramite le tecniche di brain imaging, a quale categoria legalmente rilevante appartenga un individuo, con importanti ripercussioni in sede giudiziaria. “Le persone”, conferma uno dei neuro-scienziati a capo della ricerca, Read Montague, “possono commettere esattamente lo stesso crimine in tutti i suoi elementi e circostanze e, a seconda dei loro stati mentali, la differenza potrebbe essere che uno andrebbe in prigione per quattordici anni e l’altro otterrebbe la libertà vigilata”. E se invece fosse il cervello a dire se un criminale, una volta uscito di prigione, commetterà un altro reato? Una ricerca condotta al The Mind Research Network di Albuquerque dimostrerebbe che con le brain imaging è possibile prevedere anche il rischio di recidiva di un ex detenuto. Nel loro studio, Kent Kiehl e collaboratori hanno scansionato, sempre tramite Fmri, il cervello di novantasei prigionieri maschi prossimi al rilascio, mentre eseguivano al computer attività che richiedevano di prendere decisioni rapide e inibire le reazioni impulsive. Concluso il periodo di detenzione, i partecipanti sono stati seguiti per i successivi quattro anni, ovvero dal 2007 al 2010. Nello specifico i ricercatori si sono concentrati sulla corteccia cingolata anteriore (ACC), un’area deputata al controllo degli impulsi e che, in caso di danneggiamento, si associa a comportamenti disinibiti, aggressivi e difficoltà a rilevare i propri errori, riconoscerli e modificare il proprio comportamento. È emerso che gli ex detenuti con una bassa attività dell’ACC avevano il doppio delle probabilità di essere nuovamente arrestati rispetto a chi mostrava una maggiore funzionalità della stessa regione. “Questo studio non solo ci fornisce uno strumento per prevedere quali detenuti potrebbero recidivare e quali no, ma fornirà anche un percorso per indirizzare i criminali a terapie mirate più efficaci per ridurre il rischio di future attività illecite”, ha spiegato Kiehl. Di fronte a questi risultati è profondamente umana la paura che in un futuro lontano e distopico potremo essere incarcerati in via preventiva a causa delle nostre reti neurali. Tuttavia siamo ancora lontani dallo stabilire un nesso causale diretto tra alcune caratteristiche cerebrali (come un’anomalia della corteccia cingolata) e il comportamento di un individuo. E sarebbe un errore confondere la correlazione con la causazione: il fatto che durante un’attività - sia essa scegliere di contrabbandare droga oltre un confine o premere un pulsante durante un compito - si attivano alcune aree del nostro cervello, non significa necessariamente che la loro attivazione sia la causa del nostro comportamento. Senza contare gli studi del premio Nobel per la medicina Eric R. Kandel che lo hanno portato a dimostrare come ambiente, cervello e comportamento siano in stretta relazione tra loro e che le nostre funzioni mentali subiscono l’influenza decisiva non solo dei geni ma anche di fenomeni come l’esperienza e l’apprendimento. Resta inoltre la difficoltà a interpretare la prova neuro-scientifica, definita dalla Corte Suprema degli Stati Uniti come una spada a doppia lama (two-edged sword), in quanto interpretabile sia a discolpa di chi commette un reato (poiché si dimostrerebbe una diminuita capacità di intendere e volere), sia in senso contrario, in quanto provante la sua pericolosità sociale. Così, una scansione cerebrale che mostra un cervello malfunzionante, potrebbe evocare empatia e deresponsabilizzare l’autore di un reato o, al contrario, indurre un giudice a optare per una pena più lunga, ipotizzando che una mente anomala commetterà di nuovo il crimine. Eppure non è facile resistere alla seduzione esercitata dalle neuroscienze. Alcuni studi hanno dimostrato come sia sufficiente aggiungere a un’informazione delle nozioni neuro-scientifiche (anche se irrilevanti) per indurre i non esperti in materia a percepirla come più affidabile e credibile. Per evitare che il potere seduttivo delle neuroscienze entri nelle aule di un tribunale, la Royal Society raccomanda di intervenire in sede universitaria: i corsi di giurisprudenza dovrebbero insegnare come viene condotta la ricerca neuro-scientifica, rafforzando così la capacità dei futuri giudici e avvocati di valutare la qualità delle nuove prove scientifiche. Mentre gli studenti di corsi di neuroscienze andrebbero sensibilizzati riguardo le applicazioni e le ripercussioni della scienza nella società. Fascino e timore, dicevamo. Inevitabilmente i risultati degli studi descritti sollevano domande di natura etica alle quali non sappiamo ancora rispondere. Ad esempio, può il cervello di una persona testimoniare contro di essa? Se in quanto sospettati di omicidio ci venissero richieste le impronte digitali o un campione del nostro dna, non potremmo opporci. Al contrario, però, potremmo avvalerci del diritto al silenzio e a non autoincriminarci. Secondo il sistema giuridico degli Stati Uniti, ad esempio, le prove autoincriminanti che non sono “fisiche” - come i nostri pensieri - sono protette dal Quinto Emendamento. Ma tra fisico e mentale dove vanno collocate le “prove” custodite all’interno del nostro cervello? Il dialogo tra neuro-scienziati e giuristi è appena iniziato. Aldo, arrestato per qualche piantina di cannabis e tornato a casa in una bara di Angela Marino fanpage.it, 6 maggio 2018 Il il 14 ottobre 2007 Aldo Bianzino, falegname 44enne e papà del piccolo Rudra, viene arrestato per aver coltivato nell’orto di casa, sulle colline umbre, alcune piantine di cannabis. Tornerà a casa in una bara. Il sospetto di un crudele pestaggio in cella dà il via alle indagini. Pietralunga, un’ora da Perugia, piccolo borgo nel verde delle colline umbre, è il posto dove Aldo Bianzino aveva scelto di vivere secondo il suo stile di vita. Pacifista, appassionato di filosofie orientali e di professione ebanista, Aldo, 44 anni, si era trasferito lì con la compagna Roberta Radici, l’anziana madre di lei e il piccolo Rudra per vivere la natura in un casolare. È lì che una sera di ottobre cinque poliziotti e un finanziere vanno a bussare. Dopo una perquisizione domiciliare, nel piccolo orto della famiglia Bianzino-Radici, i quattro funzionari in divisa trovano una manciata di piante di marijuana. “È per uso personale” si giustifica Aldo mentre li portano in carcere a Capanne e Rudra, 14 anni e sua nonna, 91, restano soli. Nel penitenziario marito e moglie vengono divisi. Roberta resta nel settore riservato alle donne, Aldo nell’ala maschile, per entrambi interviene un avvocato d’ufficio. Entrambi incensurati, né Roberta né Aldo, che da tempo avevano scelto quella vita pastorale, lontani da tutto e da tutti, di finire in prigione con l’accusa di detenzione di sostanze stupefacenti. Passano due giorni, la mattina di domenica 14 Roberta viene invitata a seguire una guardia carceraria in ufficio, dove le si presenta il vice-ispettore capo della polizia. “Signora, suo marito soffre di svenimenti? Ha problemi di cuore?”. Roberta è confusa, spaventata, chiede perché, ma l’ispettore insiste, si scalda: “Mi risponda!”. “No, no, mai”, assicura Roberta “mi dica perché…”. “Lo stanno portando all’ospedale Silvestrini, possiamo ancora salvarlo, risponda!”. Frastornata, Roberta conferma che il compagno è sempre stato in perfette condizioni, così viene scortata in cella, per essere richiamata tre ore dopo. Stessa stanza, stessa poliziotta, stesso ispettore, al suo fianco però c’è un altro uomo in borghese: “Lei è scarcerata, firmi” annunciano. “Quando posso vedere Aldo?” È la prima richiesta di Roberta dopo le domande inquietanti di tre ore prima. La risposta fa tremare i polsi: “Martedì, dopo l’autopsia”. È quello in cui modo in cui i funzionari delle forze dell’ordine informano Roberta Radici della morte del suo compagno, detenuto da 48ore. Oltre il dolore immenso, oltre lo choc devastante, in casa Bianzino c’è la rabbia di una morte inspiegabile, che richiede risposte. Gioia Toniolo, ex moglie di Aldo, interviene al fianco di Roberta per conoscere la verità: nomina avvocati e un medico legale di sua fiducia. Solo il corpo di Aldo può rispondere alle domande che in quei giorni tormentano le notti delle persone che lo hanno amato: che cosa è successo? Il corpo - rileva il medico legale - presenta ematomi, costole rotte e danni a fegato e milza. Un quadro, in poche parole, che al patologo appare incompatibile con un semplice malore. Quello, ipotizza il medico legale, può essere il quadro lesivo derivante da un pestaggio messo in atto con tecniche militari utilizzate per danneggiare gli organi vitali senza lasciare tracce. Il pm Giuseppe Pietrazzini - lo stesso che ha ordinato la perquisizione che ha portato all’arresto - indaga ora per omicidio. L’inchiesta viene archiviata due volte e mentre in difesa della parte civile subentra l’avvocato ferrarese Fabio Anselmo, noto per aver assistito le famiglie di altre ‘vittime dello Stato’ tra cui Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi. Passano otto prima di arrivare a una sentenza definitiva. Nel 2015 Gianluca Cantoro viene condannato a un anno di reclusione per il reato di omissione di soccorso. Secondo i giudici, infatti, a uccidere Aldo Bianzino è stato un aneurisma. Esclusa l’ipotesi del pestaggio, nonostante la famiglia continui a nutrire cocenti dubbi sui fatti di quel 12 ottobre. Roberta Radici è morta un anno dopo, nel 2008, per un cancro. L’eredità di quella storia è oggi nelle mani di Rudra, oggi venticinquenne, che si sta preparando a chiedere la riapertura del procedimento per omicidio a carico di ignoti. Perugia: detenuta muore per sospetta overdose Ansa, 6 maggio 2018 Una detenuta italiana di 46 anni, è stata trovata priva di vita nel carcere perugino di Capanne, per una sospetta overdose. La donna era appena rientrata da un permesso premio. L’ipotesi è che possa avere fatto uso di droga nella sua cella dopo avere trasportato in corpo lo stupefacente. In questo modo sarebbe riuscita a sfuggire agli stringenti controlli che vengono svolti al rientro dei detenuti nella struttura penitenziaria. Sull’accaduto sono in corso indagini della stessa polizia penitenziaria, coordinata dalla procura di Perugia. La donna stava scontando un cumulo di pena per vari reati, fra i quali quelli contro il patrimonio. Secondo quanto si è potuto apprendere, era nota come tossicodipendente. Verona: preso a sprangate in testa dal compagno di cella, detenuto in fin di vita veronasera.it, 6 maggio 2018 La brutale aggressione è avvenuta nel pomeriggio di venerdì nel carcere vicentino Del Papa, al termine di una discussione scattata tra i due uomini. Il 36enne, residente ad Arcole, è stato poi portato all’ospedale San Bortolo. La violenza è scattata improvvisamente nel pomeriggio di venerdì nel carcere Del Papa a San Pio X, a Vicenza, dove ha avuto la peggio un cittadino marocchino di 36 anni residente ad Arcole e solamente da poco lì rinchiuso. Secondo quanto appurato da Vicenza Today, ad essere colto dal raptus è stato un detenuto palermitano che stava scontando una pena fino al 2021. A dare il via all’episodio sarebbe stata una discussione scoppiata tra i due compagni di cella intorno alle 14 e andata avanti per diverse ore, fino a quando il palermitano non ha iniziato a colpire in testa il nordafricano con la gamba spezzata di una sedia. Un’aggressione selvaggia e feroce, che è proseguita anche mentre il 36enne era a terra privo di sensi: solo l’intervento delle guardie, costrette a bloccarlo con la forza perché aggredite a loro volta dal palermitano, è riuscito a mettere fine alla violenza. La vittima è stata poi soccorsa dal Suem e ricoverata in fin di vita all’ospedale San Bortolo, nel reparto rianimazione in prognosi riservata con fratture craniche multiple. Per l’aggressore invece potrebbe scattare l’accusa di tentato omicidio. Napoli: carceri e diritti umani, il convegno al Suor Orsola Benincasa con Adg Campania Il Velino, 6 maggio 2018 L’evento è stato organizzato dal Rotaract Club Napoli Posillipo e dalla Scuola Adg - Alta Docenza Giuridica, con il patrocinio dell’Università degli Studi di Napoli “Suor Orsola Benincasa” e in collaborazione con il Forum Regionale dei Giovani della Campania. I lavori sono stati introdotti dai saluti della prof.ssa Maria Valeria del Tufo, del Prorettorato dell’Università Suor Orsola Benincasa, del dott. Salvatore Di Sauro, Presidente del Club RAC Napoli Posillipo, e dell’avv. Tullio Tiani, Responsabile Organizzativo della Scuola ADG. Dagli interventi particolarmente seguiti sono emersi spunti di riflessione che hanno in particolar modo attratto l’attenzione dei presenti. Tra questi riprendiamo le parole della prof.ssa avv. Federica De Simone, che ha sostenuto come “Il sovraffollamento non è un problema solo italiano ma un problema particolarmente esteso, dalle dimensioni mondiali. In Italia si sono toccate punte molto elevate e oggi si oscilla dai 50.000 ai 56.000 detenuti presenti”. La riforma dell’ordinamento penitenziario punta soprattutto ai detenuti inseriti in una sorveglianza di “media sicurezza”, per la quale sono state introdotte innovazioni già dal 2011, quali il carcere aperto e la sorveglianza dinamica. Il primo si contrappone al regime chiuso e richiede valutazione ad hoc su ogni singolo detenuto sulla sua reale criminalità e reale capacità di recupero sociale. Si connota per un processo di responsabilizzazione del detenuto e tant’è che egli è tenuto a sottoscrivere un accordo. La sorveglianza dinamica, invece, è rivolta agli agenti di polizia penitenziaria e consiste in un’attività di intelligence molto spiccata nel tentativo di ottenere più informazioni possibili su ogni singolo detenuto relativamente alla propria particolare situazione al fine di garantire e modulare al meglio la risocializzazione del reo, attenuando il disagio che il detenuto vive sentendosi sempre sorvegliato, facendolo concentrare molto sulla sua responsabilizzazione. Il comm. Francesca Acerra ricorda come il problema da affrontare sia quello di “bilanciare i diritti umani e inviolabili con la carcerazione”. L’Italia, condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in diverse sentenze, per non aver approntato delle misure sufficienti a ridurre il sovraffollamento, sta cercando di fronteggiare questo problema ristrutturando strutture fatiscenti e abbandonate, adeguando la problematica della sorveglianza alle nuove esigenze. Da questo, i nuovi concetti di “porte aperte”, di “carcere aperto” e della cella quale “camera di pernottamento”, nel rispetto del diritto alla dignità dell’uomo detenuto. Non è però semplice mantenere un certo equilibrio e quindi non c’è una così diffusa consensualità al sistema del carcere aperto. Dopo alcune esperienze di vita carceraria, intensamente riportate dall’operatore suor Maria Lidia Schettino, che ha dedicato gran parte della sua vita all’ascolto e alla cura, spirituale e psicologica, dei soggetti in stato di detenzione inframuraria nelle diverse carceri di Napoli, sono arrivate le conclusioni del magistrato di sorveglianza, la dott.ssa Angelica Di Giovanni, già presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli. “Nella corsa all’ultima garanzia, alla tutela dei diritti umani, l’unico a non essere garantito è lo Stato. Il Magistrato di sorveglianza è il giudice della legalità della pena; ciò significa che deve far rispettare i diritti e i doveri da una parte e dall’altra: nel caso nostro dal condannato e dallo Stato. Esistono diritti che trovano il loro limite nei diritti dell’altro. Non vi è alternativa alla democrazia. E la democrazia si basa su diritti e doveri”. Il condannato, infatti, ha il diritto/dovere di espiare la pena e, quando detenuto, il diritto al trattamento penitenziario che tende alla rieducazione. “Oggi si richiede la riforma dell’ordinamento penitenziario, ma prima di addivenire a nuove norme, che sembrano essere più il frutto di una elaborazione virtuale che risultato di una sufficiente esperienza carceraria e penitenziaria con sovra-strutturazioni a volte rischiose e a volte ridondanti, bisognerebbe attuare la riforma del 1975 che poggiava su tre pilastri fondanti: scuola, lavoro, religione. Purtroppo dobbiamo riconoscere che nei nostri istituti penitenziari non sempre risultano attuate le tre direttive”. Tre sono gli elementi per perseguire il fine costituzionale della pena legale: pena certa da espiare, nei tempi, modi e quantum (certezza); pena che abbia un contenuto impegnativo e responsabilizzante (contenuto), pena che venga controllata nella sua esecuzione (controllo). “Il sistema al momento non funziona, lo diciamo da troppo tempo ormai e la soluzione non può essere certo la nuova riforma all’orizzonte”. Il programma completo è disponibile sul sito ufficiale della Scuola, www.adgroma.eu, nella sezione “Eventi”. Per conoscere tutti i prossimi eventi organizzati in Italia dalla Scuola ADG, invitiamo gli interessati a seguirci sui diversi canali social (Facebook, Twitter, Google+, Linkedin, Instagram). Per ulteriori informazioni, la Scuola è raggiungibile via e-mail all’indirizzo: segreteria@adgroma.eu. Voghera (Pv): progetto con il carcere, anche i detenuti puliranno lo Staffora di Alessandro Disperati La Provincia Pavese, 6 maggio 2018 Anche i detenuti del carcere di Voghera contribuiranno alla pulizia dello Staffora. È il frutto dell’accordo raggiunto tra l’amministrazione comunale e i vertici della casa circondariale di via Prati Nuovi. L’iniziativa è stata presentata a Palazzo Gounela dal sindaco Carlo Barbieri, dall’assessore all’ambiente Alida Battistella, dal presidente del consiglio comunale Nicola Affronti, dal capo della polizia penitenziaria Roberto Di Stefano e dal responsabile dell’area pedagogica del carcere, Fortunata Di Tullio. «Con questa iniziativa - ha sottolineato il sindaco - diamo la possibilità agli ospiti del carcere di essere protagonisti in positivo per Voghera. Così dimostriamo di essere una città aperta». In sostanza, due detenuti il 16, 17 e 18 maggio dalle 9 alle 13, affiancati - ovviamente - da un agente di polizia penitenziaria, effettueranno i lavori di pulizia del tratto di Staffora compreso tra il ranch e via Sturla. «I detenuti - ha sottolineato Battistella - ripuliranno un tratto di polmone verde che ha caratteristiche ambientali uniche e che è meta di numerosi vogheresi che in questo tratto di torrente effettuano passeggiate naturalistiche. Il nostro obiettivo è di guardare ai detenuti come risorsa per la società». Dello stesso avviso Di Tullio: «Ci auguriamo che questa sia solo la prima di una lunga serie di iniziative che vedono coinvolte i detenuti. Il nostro intento è quello di favorire un progressivo percorso rieducativo delle persone che si trovano all’interno della casa circondariale». Voghera (Pv): il magistrato e scrittore Gianrico Carofiglio incontra i detenuti vogheranews.it, 6 maggio 2018 Il Direttore reggente della Casa Circondariale di Voghera, Mariantonietta Tucci, ed il Capo-Area Giuridico-Pedagogico, Fortunata Di Tullio, hanno progettato a favore della popolazione detenuta dell’Istituto penitenziario vogherese un evento culturale che si svolto nei giorni scorsi. Presso il carcere di via Prati Nuovi, è stato infatti presente il magistrato e scrittore Gianrico Carofiglio, che nell’occasione ha presentato il suo libro “Le tre del mattino”. In particolare nella CC si sono svolti due incontri destinati a due gruppi differenti di detenuti, durante i quali si è tenuto un ricco dibattito ed un proficuo confronto tra l’autore ed i ristretti, in particolar modo incentrato sul tema della genitorialità. “L’evento è stato accolto con entusiasmo e partecipazione dai detenuti, dagli operatori e dalle persone invitate, a vario titolo impegnate in attività in istituto” fa sapere l’Istituto di pena. Roma: si conclude il corso per volontari “reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti” agensir.it, 6 maggio 2018 È in programma per lunedì 7 maggio la cerimonia conclusiva del II corso di formazione per i volontari impegnati negli istituti detentivi di Roma e del Lazio. L’evento, in programma alle 18 presso l’Isola Solidale, in via Ardeatina 930 a Roma, sarà anche l’occasione per la consegna degli attestai di partecipazione agli otre 30 volontari che hanno aderito all’iniziativa. Il corso, che quest’anno ha avuto come tema “Il reinserimento della persona detenuta nell’ambiente sociale e lavorativo”, è stato organizzato dall’Isola Solidale in collaborazione con l’Associazione Conosci. “Il programma - si legge in una nota - ha previsto 10 incontri con cadenza settimanale che sono stati tenuti da esperti nelle varie discipline giuridiche, sociali, psicologiche e mediche, affiancati anche da persone che si adoperano concretamente per realizzare i programmi di integrazione dei detenuti e per migliorare le loro condizioni sociali e lavorative”. Alla cerimonia di chiusura saranno presenti, tra gli altri, mons. Paolo Lojudice, vescovo ausiliare per il settore Roma Sud, Alessandro Pinna, presidente dell’Isola Solidale, Sandro Libianchi, presidente del Coordinamento nazionale degli operatori per la salute nelle carceri italiane (Conosci) e Daniele Sadun, psicoterapeuta. Terni: registi-detenuti, quando il carcere diventa un set di riscatto di Cinzia Ficco democratica.com, 6 maggio 2018 Sei detenuti della Casa circondariale di Terni si cimentano in un docu-film unico nel suo genere in Italia dal titolo “Fuori Fuoco”. Per due mesi, di giorno e di notte, con una telecamera in mano. Hanno ripreso se stessi e i propri compagni nell’ora d’aria, nelle partite di calcetto, a letto, nelle ore di lavoro. Ne è venuto fuori un docu-film, già proiettato in un cinema. Sono sei i detenuti (Erminio Colanero, Rosario Danise, Thomas Fischer, Rachid Benbrik, Alessandro Riccardi e Slimane Tali) della casa circondariale di Terni che, guidati dal filmaker, Oreste Crisostomi, (Terni, ‘82) hanno realizzato un lungometraggio, dal titolo: “Fuori Fuoco”. Un’operazione di verità in 78 minuti, l’ha definita Chiara Pellegrini (Terni, ‘65), da cinque anni direttore dell’istituto di pena umbro che ospita circa 450 carcerati di varia nazionalità, divisi in cinque gruppi e appartenenti alcuni al circuito di alta sicurezza e altri ad uno di media. Solo un piccolo numero è al 41 bis. “Un’opportunità - spiega Pellegrini - che non ho voluto negare, ma che non è stato semplice concedere e condividere con tanti detenuti. Far entrare le telecamere in carcere è un tabù perché mette a rischio i nostri sistemi di sicurezza. Quindi richiede una vigilanza maggiore. Per fortuna il personale ha aderito subito al progetto, permettendo al carcere di trasformarsi in un set cinematografico, relativamente protetto. Alcuni dei detenuti non hanno preso bene l’iniziativa. Il film diventerà in futuro la testimonianza di un passato che vorranno dimenticare e far dimenticare. Un marchio. Ma il progetto che mi ha proposto Oreste mi sembrava la giusta occasione per trasformare i nostri strumenti di controllo - le telecamere appunto - in mezzi per far conoscere la verità del carcere attraverso il punto di vista delle persone che sono lì ristrette. Perché sono stati scelti loro sei? Sono stati proprio i detenuti a chiedere al film-maker di fare qualcosa dopo aver visto in un cineforum il film: Cesare deve morire. I sei registi, scelti dall’équipe di osservazione e trattamento del carcere, facevano parte di una stessa sezione. E sono stati addestrati all’uso di una telecamera con un corso”. “Il titolo del film - spiega Crisostomi - è venuto fuori per gioco, durante le prime esercitazioni con la videocamera, quando spesso le immagini realizzate dai detenuti risultavano appunto sfocate, perché riprese con capacità incerte. Fuori fuoco, per alcuni di loro, significa anche lontano dal fuoco armato, circostanza che ha caratterizzato la loro vita precedente”. Del docu-film ci sono due versioni con durate diverse: una, televisiva da 52 minuti e l’altra, cinematografica, da 78. “I detenuti - continua il film-maker - hanno avuto a disposizione due videocamere per tutto il giorno e per oltre due mesi di riprese. Il progetto, però, è durato molto di più. Si sono filmati tra di loro. Non solo. I sei detenuti hanno formato una vera e propria squadra: sono stati autori, operatori, registi e attori del loro film. È stata un’officina aperta all’interazione dentro/fuori. Il carcere, sembrerà strano, non è l’oggetto del film, rappresenta il pretesto per delineare esistenze fuori fuoco, uno spazio che costringe all’immobilità, ma che è stato capace di creare, attraverso le immagini prodotte, stasi e movimento, un altrove non sempre visibile e raggiungibile, ma sempre presente, ripreso e fissato anche attraverso i permessi premio, ottenuti dai detenuti o mediante le misure alternative. All’interno del carcere si possono seguire le mansioni dei detenuti che lavorano o i momenti ricreativi”. Per l’esterno, la storia di Erminio Colanero, uno dei registi-detenuti, è stata ripresa presso la parrocchia di Santa Maria del Rivo, dove era in affidamento ai servizi sociali. Altro esempio, Alessandro Riccardi, faceva volontariato in una fattoria di San Gemini, grazie all’associazione C.A.R.T.A. Autismo, nell’ambito di un progetto di inclusione al lavoro di ragazzi disabili. “La reclusione - continua Crisostomi - riesce, nella pluralità delle voci, ad includere vastità compresse nel perimetro delle mura, ma destinate ad emergere dagli spazi fisici e mentali dei protagonisti. Il carcere, dunque, come luogo periferico, nascosto alla vita regolare, ma specchio di quella società dalla quale rischia di essere dimenticato. Nel film i protagonisti riescono ad ergersi a personaggi e a farsi portavoce di varie istanze, discorsi e caratteri diversi. La marginalità è solo geografica, esistenziale, legata alla persona che vive la sua condizione non perfettamente a fuoco. Definite e chiare, invece, sono le personalità di questi sei attori- registi. Così il carcere si offre all’esterno, alle famiglie, al lavoro, alla chiesa, al dibattito, al fuori”. Fatica. Ma anche condivisione, fiducia e affetto, fa capire Oreste, sono quello che non dimenticherà di questa esperienza, per il momento unica in Italia. Cosa è stato tosto in questa esperienza? “Tutto - continua - è stato molto difficile, a partire dai permessi. Ma le difficoltà si sono superate con un lavoro di squadra. Questo è stato determinante. All’interno della Casa Circondariale, poi, l’appoggio della direzione, del comando, dell’area educativa, della polizia penitenziaria e dei detenuti delle sezioni carcerarie coinvolte è stato essenziale. Alla fine del progetto ho visto i detenuti soddisfatti del loro lavoro, e questo mi sembra un successo”. Il film, nella versione da 52 minuti, è stato trasmesso su Raiuno il 15 aprile scorso, nello Speciale Tg1. Il 19 aprile scorso, invece, è stato presentato a Terni, al Cinema Politeama, ed è di nuovo in programmazione. Tra breve passerà in televisione la versione da 78 minuti. “Credo fortemente - conclude Oreste - in una distribuzione mirata del documentario, con eventi organizzati ad hoc, e vorrei che alcuni Festival si accorgessero del nostro lavoro. Inoltre potrebbero essere programmate proiezioni per le scuole”. Intanto il direttore, che ha permesso in passato anche la realizzazione di un Cd musicale da parte di alcuni detenuti, sta già pensando ad altri progetti. “Vorremmo - annuncia - far ripartire una serra, una falegnameria ed una panetteria. Mi auguro continui ad esserci quel clima di fiducia tra noi e molti dei detenuti, che ha permesso di arrivare sin qui”. La locandina del docu-film è firmata da Michelangelo Pistoletto. I brani del film, tra cui anche “Vita”, presente nel trailer, sono stati composti e arrangiati da Saz Mc, rapper napoletano, carissimo amico di Rosario Danise, uno dei registi-detenuti. Anche Saz, da giovanissimo, appena maggiorenne, ha conosciuto il carcere, un’esperienza ormai alle spalle. Saz ora ha un figlio, fa il musicista e lavora come artigiano per una delle più importanti botteghe di presepisti di Napoli. Pozzuoli (Na): trenta detenute in passerella, sfileranno in abiti da sposa Il Roma, 6 maggio 2018 Trenta detenute in passerella con abiti firmati da stilisti d’eccezione succede nel carcere femminile di Pozzuoli (Napoli) dove da alcuni anni si tiene l’evento “È Moda... per il sociale”, organizzato dalla P&P Academy, e promosso dalla Fitel Campania e dall’associazione Nirvana con il patrocinio della Regione Campania e dei comuni di Pozzuoli e Monte di Procida. All’appuntamento, in programma giovedì alle 15, saranno presenti la direttrice della casa circondariale Stella Scialpi, i sindaci dei comuni flegrei, la cantante Barbara Buonaiuto, Gli Svincolati di Made in Sud e lo chef stellato Pasquale Palamaro. Le detenute sfileranno con gli abiti degli stilisti Veronica Guerra, Intrecci di Luisa Castaido e Ciro Prato, dopo aver seguito un corso di portamento e di bon ton all’interno del carcere e saranno truccate da professionisti del make-up e del parrucco. Perché i diritti umani hanno fallito di Samuel Moyn* La Repubblica, 6 maggio 2018 Il movimento per i diritti umani è in crisi. Dopo decenni di conquiste, molti Paesi sembrano aver fatto passi indietro. Orbàn in Ungheria, Duterte nelle Filippine e altri leader populisti esprimono in modo sistematico un disprezzo totale nei confronti dei diritti umani e di chi li difende. Eppure, dai più importanti organi di controllo agli osservatori dell’Onu, il movimento per i diritti umani sembra trarre insegnamenti sbagliati dalle difficoltà. I sostenitori dei diritti umani hanno intensificato le vecchie strategie e non hanno dato risposte adeguate alle rimostranze delle maggioranze. «La lezione più importante dell’anno scorso è che, malgrado i venti contrari, una difesa vigorosa dei diritti umani può avere successo», ha sostenuto Kenneth Roth, a capo di Human Rights Watch. Naturalmente, l’attivismo può smuovere le persone. Se però i predicozzi sugli obblighi morali avessero fatto la differenza, il mondo sarebbe stato in condizioni migliori. Al contrario, chi ha a cuore i diritti umani farebbe bene a considerare cosa spinge così tante persone a votare uomini forti. In verità, l’espansione delle politiche internazionali a favore dei diritti umani si è accompagnata al fenomeno economico che ha portato all’ascesa del populismo radicale e del nazionalismo. L’attivismo per i diritti umani si è installato in un mondo plutocratico. Non doveva andare così. Si presumeva che la Dichiarazione universale dei diritti umani - promulgata ne11948 - avrebbe avuto cura delle tutele sociali. Negli anni Settanta, invece, quando negli Usa e in Europa gli attivisti iniziarono a fare propria la causa dei diritti umani per le vittime di regimi brutali, dimenticarono l’aspetto della cittadinanza sociale. Questo criterio iniziò a cambiare dopo la Guerra fredda. Anche allora, però, il patrocinio dei diritti umani non portò a riaffermare l’obiettivo dell’equità economica. Perfino quando sempre più attivisti sono arrivati a comprendere che la libertà politica e civile avrebbe stentato a sopravvivere in un sistema economico ingiusto, l’attenzione è stata rivolta alla sola sussistenza. Negli anni Novanta, le politiche a sostegno dei diritti umani e del mercato raggiunsero l’apogeo. In Europa orientale, gli attivisti per i diritti umani si impegnarono per destituire le vecchie élite, anche quando i beni statali furono svenduti agli oligarchi ed esplose la disuguaglianza. In America Latina, il movimento si impegnò per mettere dietro le sbarre gli ex despoti. Un programma neoliberale, però, dilagò nel continente insieme alla democrazia, mentre il movimento dei diritti non imparò granché sull’equità distributiva e su quanto potesse essere importante per impedire la disuguaglianza. Adesso il mondo raccoglie i frutti di ciò che la disuguaglianza ha seminato. Qualche recente segnale di un cambio di direzione c’è stato. La Ford Foundation ha annunciato che si sarebbe concentrata sull’uguaglianza economica. Soros ha osservato che le disuguaglianze contano. Alcuni hanno sostenuto che il movimento potrebbe cogliere la sfida della disuguaglianza ignorata per tanto tempo. Il movimento non deve sprecare l’occasione di riconsiderare come sopravvivere. Omettere di appoggiare una politica a più ampio raggio, basata sull’equità, è pericoloso. Per anni c’è stata la tentazione di credere che i diritti umani fossero il primo baluardo contro la barbarie. Un’agenda più ambiziosa dovrebbe offrire valide alternative ai mali della nostra epoca. *L’autore è professore di Giurisprudenza e Storia all’università di Yale (Stati Uniti) Ungheria. Al voto la legge che vuole mettere la morsa alle Ong di Riccardo Noury Corriere della Sera, 6 maggio 2018 Lunedì 8 maggio in Ungheria si terrà la prima seduta del neo parlamento eletto ad aprile. Tra le prime questioni in discussione c’è anche il cosiddetto pacchetto di leggi “anti-Soros” presentato a febbraio che, se approvato, imporrebbero un nulla osta di sicurezza nazionale e un permesso governativo a quelle organizzazioni non governative (Ong) che il governo considera “a sostegno della migrazione”. Una volta approvate, le nuove norme colpirebbero le Ong che promuovono campagne, condividono materiale informativo, organizzano reti e reclutano volontari per sostenere l’ingresso e la permanenza in Ungheria di persone che cercano protezione internazionale. Queste leggi richiederebbero, inoltre, alle Ong di pagare una tassa pari al 25% di qualsiasi finanziamento estero volto a “sostenere la migrazione”. Il mancato rispetto di questi requisiti potrebbe portare a sanzioni esorbitanti, alla bancarotta e infine alla chiusura delle Ong prese di mira. Il governo sarebbe dunque di fatto in grado di controllare e limitare le attività di molte espressioni organizzate della società civile ungherese. Tra le associazioni prese di mira c’è anche Amnesty International Ungheria, che rischia di chiudere. La sua direttrice Julia Ivan ha dichiarato: “Amnesty International ha tutte le intenzioni di portare la nuova legge repressiva sulle Ong in tribunale, a livello sia nazionale che internazionale. Non ci adegueremo fino a quando non avremo esaurito tutti i possibili ricorsi. Abbiamo fiducia che i tribunali ci daranno ragione e che questa legge repressiva sarà annullata. Nel frattempo, come altre Ong, porteremo avanti le nostra attività per chiamare il governo a rispondere del suo operato e stare dalla parte di chi subisce violazioni dei diritti umani”. C’è ancora una possibilità che il parlamento ungherese non approvi le leggi proposte. La società civile in queste settimane è più volte scesa in piazza. Qui, Amnesty International sta raccogliendo messaggi di solidarietà per la sezione ungherese e per le altre Ong a rischio in Ungheria.