Gratteri: “basta giornalisti innamorati dei pm, abbiamo bisogno di fatti e verità” di Davide Varì Il Dubbio, 5 maggio 2018 Il magistrato calabrese scopre la stampa indipendente. “I giornalisti non devono fare i piacioni, né tantomeno innamorarsi dei magistrati: abbiamo bisogno di giornalisti che raccontino con coraggio la verità, i fatti. In quanto a noi magistrati, vogliamo essere valutati e giudicati per quel che facciamo”. Parole e musica di Nicola Gratteri. Quel Nicola Gratteri: il magistrato simbolo dell’antimafia; lo stesso Gratteri che avrebbe dovuto prendere la poltrona di guardasigilli e che, di fronte al gran rifiuto dell’allora presidente della Repubblica Napolitano, si scagliò contro i poteri forti del Palazzo, evidentemente impauriti dalla forza “eversiva” e “antisistema” del magistrato calabrese: “Io sono troppo indipendente e il potere vero vuole che ci sia sempre qualcuno sopra di te, che garantisca per te”. Lo stesso Gratteri che non disdegna chiacchierate televisive, un tantino celebrative, con Fabio Fazio e Riccardo Iacona; né premi in giro per il belpaese. Premi meritatissimi, s’intende. Insomma, quel Gratteri lì oggi ci fa sapere che il giornalismo che copia e incolla le ordinanze dei magistrati e cha passa ore nelle di loro sale d’attesa non va (più) bene. E del resto che i giornalisti dovessero fare da “cane da guardia del potere”, di tutti i poteri, magistratura inclusa, era un dubbio che in questi anni aveva attraversato qualche temerario. Ma c’è di più, Il procuratore Gratteri ha criticato anche un altro cavallo di battaglia dell’antimafia militante: il sistema dello scioglimento dei comuni. “I Comuni - ha infatti dichiarato Gratteri - vengono sciolti per mafia nel 99% dei casi quando la procura, a conclusione delle indagini, invia gli atti alla prefettura e quindi, dopo l’istruttoria, si procede e viene nominato un ufficiale prefettizio. Il problema, in alcuni casi, è che il commissario si reca in Comune poche volte a settimana. Quindi sostanzialmente l’amministrazione viene congelata per due anni. La popolazione mediamente pensa che era meglio quando c’era il sindaco, che riuscita almeno a dare risposte” E dunque: “Occorre modificare la norma, il Commissario prefettizio deve stare al Comune sciolto per mafia sette giorni su sette”, ha aggiunto Gratteri. Potenziare le soluzioni alternative per una giustizia davvero accessibile di Antonella Trentini* Il Dubbio, 5 maggio 2018 Sull’efficienza e i costi della giustizia amministrativa si è scritto e detto tanto, spesso basandosi più pregiudizi che su dati reali. Partiamo quindi da alcuni numeri indiscutibili che non tutti gli italiani conoscono. La Pubblica Amministrazione è vittoriosa in oltre l’ 80% dei giudizi amministrativi patrocinati in house, sia innanzi ai Tar che in Consiglio di Stato. Si tratta di un successo importante che, a fronte di costi infinitamente più bassi rispetto agli affidamenti esterni, produce risparmi enormi per gli Enti e conferma che la giustizia italiana e la Pubblica amministrazione in genere funzionano. La politica a vario titolo e a varie riprese ha tentato di mettere mano alla riforma dei Tar, accusati di essere uno dei veri problemi della giustizia italiana perché "poco accessibili e troppo costosi". Ci provò Romano Prodi quando nel 2013 sostenne che l’abolizione del Tar e del Consiglio di Stato avrebbe avuto un immediato segno positivo sul Pil del Paese. Un anno fa è toccato a Renzi auspicare un ridimensionamento dei Tar, dimenticando però che per abolirli era necessaria una riforma costituzionale e nel referendum da lui proposto, peraltro bocciato dagli italiani, il tema della giustizia amministrativa non venne neppure menzionato. Quanto al tema dei costi e dell’accessibilità della giustizia ad alcuni delatori andrebbe precisato che, a differenza del giudizio penale, il giudizio amministrativo non viene avviato d’ufficio da un magistrato o da un tribunale, ma l’azione è su impulso della parte. In altre parole, se vi sono molti giudizi innanzi ai Tar è perché molti cittadini propongono ricorsi. Per questi motivi siamo contrari alla tesi secondo cui i costi alti della giustizia siano il risultato di Pubbliche amministrazioni scorrette. Un sillogismo che purtroppo si nutre di un approccio superficiale come quello di chi sostiene che ' i pubblici dipendenti rallentano ogni pratica sino a bloccare del tutto l’attività”. La Pubblica Amministrazione, va ricordato, agisce per lo più secondo modelli ormai virtuosi, trasparenti ed encoded, ed è noto che fra i dipendenti della Pubblica amministrazione italiana vi siano eccellenze riconosciute, anche se esistono sacche di resistenza, costituite da pigrizia, scorrettezza, casi di cattiva amministrazione e purtroppo corruzione. E se quest’ultima in certi segmenti o in certi Enti non cala evidentemente puntare il dito solo sulla Pubblica amministrazione o sulla giustizia amministrativa non basta, ma bisognerebbe interrogarsi sull’eventuale fallimento di quelle istituzioni create apposta per prevenire e combattere la corruzione. Esistono poi casi in cui il problema è un altro e attiene alla qualità e quantità delle leggi, sempre più scadenti e sempre più numerose. Qui tanto la Pubblica amministrazione quanto il cittadino possono trovarsi in difficoltà e adire il giudice amministrativo per avere chiarezza. Applicare norme malfatte può comportare procedimenti a loro volta imperfetti o rallentati. È questo che vogliamo considerare sinonimo di scorrettezza o forse sarebbe il caso di prendersela con il pressappochismo legislativo del nostro Paese? Per rendere più semplice, accessibile e meno costosa la tutela innanzi alla Pubblica amministrazione basterebbe valorizzare istituti esistenti come la Difesa civica. La mediazione civile è una delle procedure di Adr (Alternative Dispute Resolution) in cui il governo investe per ridurre il carico di lavoro giudiziario. Si tratta di una procedura amichevole di risoluzione delle controversie introdotta con il d. lgs. n. 28 del 2010. A parlare in favore di questo strumento sono anche qui i dati delle iscrizioni annuali di mediazioni. Nel 2011, al primo anno di istituzione del nuovo strumento sono state 60.810 per arrivare a triplicare il dato nel 2017 con 166.989 richieste registrate. Unaep propone di potenziare le Adr sul modello anglosassone e di inserire fra gli istituti della giustizia amministrativa più casi di difesa personale del cittadino in primo grado, ad esempio nelle cause di valore contenuto, senza più ausilio di difesa tecnica, così come avviene nel tributario e nel lavoro. Un modello che potrebbe essere replicato in giurisdizioni specialistiche come quella amministrativa. Estendere questa possibilità ad altri casi abbatterebbe certamente i costi della giustizia a carico dei cittadini e sarebbe quella rivoluzione 3.0 che noi avvocati dipendenti della Pubblica amministrazione andiamo chiedendo da tempo. *Presidente Unaep (Unione Nazionale Avvocati Enti Pubblici) Niente carcere per chi riporti una pena fino a 4 anni: la consulta fa il punto di Gelsomina Cimino filodiritto.com, 5 maggio 2018 Secondo il Gip rimettente, la disposizione censurata sarebbe in contrasto altresì con la finalità rieducativa della pena prevista dall'articolo 27 terzo comma della Costituzione in quanto comporta l'ingresso in carcere di chi può godere dell'affidamento in prova allargato. La Consulta ha ritenuto fondata la questione di legittimità rilevando che l’articolo 656 comma 5 ha subito, nel tempo, una serie di correttivi volti proprio a mantenere una sorta di parallelismo del limite previsto per la sospensione dell’ordine di esecuzione e di quello previsto, a favore dei condannati, per chiedere di essere sottoposti a un percorso risocializzante che non includa il trattamento carcerario. La Corte rileva altresì che, all’indomani dell’introduzione dell'affidamento in prova per pene da espiare fino a quattro anni di detenzione, non è stata adottata alcuna modificazione del termine indicato dalla disposizione censurata, non essendo stata ancora esercitata la delega legislativa conferita con la legge n. 103/2017 (Modifiche al codice penale, codice di procedura penale e all'ordinamento penitenziario) che ha previsto di fissare, in ogni caso, in quattro anni, il limite di pena che impone la sospensione dell'ordine di esecuzione. Ciò nonostante, prosegue la Consulta, occorre valutare caso per caso se esistano dei fattori (quali ad esempio la pericolosità del reato) che possano prevalere sulla coerenza sistematica e sul parallelismo dei limiti. Nel caso in esame, la rottura del parallelismo, imputabile al mancato adeguamento della disposizione censurata, appare di particolare gravità perché è proprio il modo con cui la legge ha configurato l'affidamento in prova allargato che reclama, quale corollario, la corrispondente sospensione dell'ordine di esecuzione. In conclusione, mancando di elevare il termine previsto per sospendere l'ordine di esecuzione della pena detentiva, così da renderlo corrispondente al termine di concessione dell'affidamento in prova allargato, il legislatore non è incorso in un mero difetto di coordinamento, ma ha leso l'articolo 3 della Costituzione. Si è infatti derogato al principio del parallelismo senza adeguata ragione giustificatrice, dando luogo a un trattamento normativo differenziato di situazioni da reputarsi uguali, quanto alla finalità intrinseca alla sospensione dell'ordine di esecuzione della pena detentiva e alle garanzie apprestate in ordine alle modalità di incisione della libertà personale del condannato. Nonostante il diverso parere dell’Avvocatura, la Corte ha quindi ritenuto che il Legislatore, attraverso l’istituto della messa alla prova allargata, abbia inteso equiparare detenuti e liberi ai fini dell’accesso alla misura alternativa, scelta che ben si giustifica, precisa la Consulta, in considerazione dell’obiettivo di deflazionare le carceri, non solo liberando chi le occupa ma anche evitando che vi faccia ingresso chi è libero. Di qui l’incostituzionalità del 5° comma dell’articolo 656 codice di procedura penale “nella parte in cui prevede che il pubblico ministero sospende l’esecuzione della pena detentiva, anche se costituente residuo di maggior pena, non superiore a tre anni anziché a quattro anni”. Milano: la Garante dei detenuti “dentro restano soprattutto i più poveri senza una casa” di Franco Vanni La Repubblica, 5 maggio 2018 Alessandra Naldi, Garante dei diritti dei detenuti per il Comune, perché le carceri del distretto della corte d’Appello di Milano sono così sovraffollate? “Dipende dall’attività delle forze dell’ordine sul territorio. A Milano, come in generale in Lombardia, si arresta molto, in risposta a una forte richiesta di sicurezza da parte dell’opinione pubblica”. Quindi, più che i condannati, l’anomalia milanese riguarda i detenuti in custodia cautelare? “A San Vittore il turnover è molto forte. La detenzione dura poco, ma riguarda moltissime persone, che entrano ed escono, o perché passano agli arresti domiciliari, o perché un giudice non ravvisa l’esigenza di tenerle in carcere”. Quanti sono gli stranieri a San Vittore? “Fra chi è in attesa di una condanna definitiva, sono fra il 65 e il 75 per cento sul totale. Molti finiscono dentro per reati di lieve entità, come tentati furti o spaccio di modestissimi quantitativi di droga”. E stanno lo stesso in cella? “Sì. Vale anche per i condannati. Stanno dentro perché spesso non hanno una casa dove potere trascorrere i domiciliari, o un lavoro che consenta l’affidamento in prova. Molti stranieri condannati avrebbero diritto alle misure alternative, avendo meno di due anni residui da scontare. Ma di fatto non hanno un posto dove andare. Chi ha una casa e un lavoro facilmente esce, per accedere alle misure alternative. Tanto a Milano, dove sono concesse più che altrove”. Sta dicendo che in galera restano solo i poveri? “Di fatto sì, se si escludono reati gravissimi, su cui il censo non influisce. È il caso di omicidi, gravi reati sessuali e mafia. Ma per i reati comuni, dalla rissa alla truffa, quasi tutti i detenuti sono poveri”. Poi ci sono i carcerati con disagio psichico. “Numerosi anche loro. Una volta liberi, smettono di curarsi con farmaci e tornano a commettere reati. Escono e rientrano di continuo”. Nell’ottica della rieducazione, è più efficace il carcere o lo sono le misure alternative? “Le e misure alternative sono mediamente molto più efficaci. Chi transita dal carcere nell’80 percento dei casi tende poi a commettere altri reati. Fra chi invece, prima e dopo il processo, sconta la pena fuori dal carcere la media di recidiva è sotto il 30 per cento”. Pesaro: reinserimento lavorativo dei detenuti, se n’è parlato in un convegno pesaronotizie.com, 5 maggio 2018 Interessante e partecipato incontro, promosso dall’associazione Bracciaperte, presso il carcere di Pesaro, per fare una panoramica sulle opportunità di reinserimento lavorativo dei detenuti e le risposte di imprese e istituzioni. Il lavoro in carcere è possibile? Che importanza hanno le occasioni di reinserimento professionale e formativo per i detenuti? Qual è la risposta del territorio, dal terziario alle imprese, in questo contesto? Di questi temi si è parlato nel corso del convegno “Lavoro oltre il muro”, tenutosi nei giorni scorsi presso il carcere di Pesaro, su iniziativa dell’associazione di volontariato Bracciaperte, con il contributo del Csv Marche: un incontro con operatori, volontari e detenuti per fare una panoramica riguardo le opportunità di reinserimento lavorativo dei detenuti, le disponibilità del tessuto imprenditoriale del territorio e le sensibilità dell’Istituto penitenziario e delle Istituzioni circa le problematiche inerenti il lavoro dei detenuti. Ad intervenire sono stati il presidente dell’associazione Mario Di Palma, la direttrice del carcere di Pesaro Armanda Rossi, l’assessore alla solidarietà del Comune di Pesaro Sara Mengucci, la consulente di orientamento professionale Lidia Ortelli del Centro per l’impiego di Pesaro e la sociologa scrittrice Nicoletta Borgia, che ha toccato in particolare tematiche inerenti la comunicazione e le difficoltà relative al reinserimento. L’iniziativa ha interessato i detenuti di tutte le sezioni ed erano presenti numerosi esponenti di realtà del volontariato, cooperative, imprese ed artigiani, che hanno non solo ascoltato, ma anche posto domande e fatto proposte, tanto che nel corso del dibattito seguente tra imprenditori, istituzioni e detenuti, sono emersi elementi utili all’avvio di un gruppo di lavoro e discussione per eventuali nuovi progetti futuri. Nella sua relazione, il presidente di Bracciaperte Mario Di Palma ha presentato un report delle attività svolte nel 2017 dall’associazione, che ha realizzato laboratori e corsi di formazione presso i carceri di Barcaglione e Montacuto in Ancona, di Pesaro, di Fossombrone e per la prima volta anche presso istituti che ospitano minori. Infine, nell’occasione sono stati consegnati gli attestati di frequenza ai detenuti che hanno partecipato al corso tecnico l’anno scorso. Dal Presidente Di Palma non sono mancati i ringraziamenti alla Direzione del Carcere di Pesaro, dove, circa 6 anni fa, ha iniziato la sua esperienza di volontariato, promuovendo progetti che, nel tempo, hanno coinvolto centinaia di detenuti. Un impegno solidale infatti, quello dei volontari dell’associazione pesarese Bracciaperte, portato avanti per migliorare la qualità di vita all’interno delle carceri marchigiane, attraverso l’organizzazione di corsi formativi professionalizzanti e donazioni di attrezzature e materiali. Roma: il Garante “Cie di Ponte Galeria indecoroso e inutile, esce l'85% dei migranti” Il Messaggero, 5 maggio 2018 Una struttura costosa, che tiene le persone in condizioni igieniche più che precarie e, per di più, inutile visto che pochissimi dei detenuti vengono effettivamente rimpatriati mentre gli altri tornano in strada. La metà degli ingressi al Centro di permanenza per il rimpatrio di Ponte Galeria “si risolve entro un mese”, anche perché il 45% dei rilasci avviene per “non convalida” e “solo il 15% viene effettivamente rimpatriato”: questo “apre una vecchia questione sull'effettiva utilità delle strutture. Parliamo dell'unico centro tutto femminile d'Italia con una popolazione tra le 40 e le 60 unità. Questo da un pò l'idea dell'inutilità dell'istituzione”, ha detto il Garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia, presentando la sua relazione al Consiglio regionale del Lazio. La struttura di Ponte Galeria, nel merito, è in condizioni “indegne, indecorose e malsane” ha sottolineato il garante: “Ha ambienti di pernottamento e di vita indecorosi, privi di qualsiasi suppellettile e di strumento di vita dignitosa. Su questo chiediamo all'amministrazione dell'Interno un intervento rapido ed efficace: in quelle condizioni non può proseguire la sua attività. Dovrebbe essere ristrutturato e adeguato anche alla vita civile. Sono dei grandi cameroni privi di tutto da cui si accede a cortili dove non c'è niente, nemmeno un albero. E ci sono tra le 40 e le 60 donne che vivono così la loro giornata. È una cosa inaccettabile”. In questo senso Anastasia ha invitato i consiglieri regionali a effettuare sopralluoghi esercitando la loro facoltà di accedervi “senza richiesta di autorizzazione”. Verona: il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni di Marcello Toffalini verona-in.it, 5 maggio 2018 Rafforzare le misure alternative al carcere, mettendo al centro il percorso riabilitativo del detenuto, è il punto di partenza per attuare l’urgente riforma carceraria. In tema di diritti dobbiamo ammettere che persiste da moltissimi anni una terribile sottovalutazione dei diritti deii detenuti. E malgrado una massima evangelica che in terra di tradizioni cattoliche dovrebbe essere tenuta ben presente (Ero in carcere e siete venuti a trovarmi, Mt 25, 31..46), pare che raramente questo cristiano “comando” trovi realizzazione, frenato anche da motivi di opportunità o contrastato da disposizioni di sicurezza. Insomma, dei detenuti non amiamo interessarci: ci bastano le notizie che ci arrivano dai giornali, radio e tv che raccontano di alcuni fatti che riguardano il carcere. Abbiamo appreso a gennaio che si è aperto un processo contro una ditta che per quasi un anno nel Carcere di Montorio (Verona) avrebbe somministrato ai detenuti cibo di qualità scadente e, a fine marzo, che un quartetto di detenuti, insieme agli scout, hanno permesso di ripulire e di ripristinare l’accesso ad una Galleria di contro-mina in zona San Zeno. Ci ha rattristato apprendere che nel penitenziario di Montorio vi sarebbero cinque islamisti radicalizzati e che in Italia sarebbero ben 500 i detenuti diventati jihadisti, in carcere. Altri, molti altri, sarebbero un po’ preoccupati dal modo con cui certi “media” utilizzano la poderosa immigrazione dai Paesi più poveri o da quelli insanguinati da guerre “civili” interne (di questi ultimi dieci anni) come causa principale della micro-criminalità e causa prima d’insicurezza sociale e di violenze all’interno delle carceri. Una tesi ingiustificata e sbugiardata dalle fonti statistiche nazionali e tuttavia diffusa ed irresponsabilmente utilizzata anche nel corso delle ultime consultazioni elettorali. In realtà poco o niente conosciamo delle condizioni di vita dei concittadini detenuti, che sono sì colpevoli di reati più o meno gravi per cui hanno ben meritato la restrizione della libertà ma non sono mai stati privati degli altri diritti umani: dal diritto di pensiero e di parola al diritto di qualche forma di affettività, dal diritto alla salute e alla cultura al diritto di esprimersi in senso religioso, artistico o professionale, per citarne alcuni tra i più noti. Provate voi a vivere venti ore al giorno in non più di tre metri quadrati, quando va bene, con una luce spesso fioca e certamente inadatta alla lettura o alla scrittura in ore serali, in condizioni di riscaldamento precarie e non condominiali, in compagnia di persone certamente non selezionate e spesso insensibili ai vostri bisogni, in celle servite da un wc e da una doccia con scarichi spesso intasati, con problemi di aerazione, d’igiene e di riservatezza sottovalutati o trascurati. Per non parlare delle biblioteche, delle palestre o dei laboratori talvolta assenti o malridotti. Ci sono il giornale e la televisione ma le relazioni umane? Sono condizioni che favoriscono un sano ripensamento sui reati compiuti o che incattiviscono gli animi spingendoli alla recidiva nei comportamenti delittuosi. Vi sono state, e sono in corso, importanti iniziative di apertura al contesto sociale esterno, come quelle gestite a Verona da benemerite associazioni come La Fraternità, MicroCosmo o da cooperative sociali come Progetto Riscatto, sostenute o appoggiate dalla direzione carceraria, ma rimangono spesso fiori all’occhiello per dimostrare più la benevolenza dell’istituzione carceraria verso limitate esperienze di promozione sociale di alcuni detenuti che una risposta corale e civica ai bisogni culturali e civili della maggioranza dei reclusi, per il loro pieno recupero nell’interesse loro e dell’intera società. “Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”, scrisse una volta Dostoevskij. Ce lo ricordava anche Guido Trombetti su Repubblica un mese fa in un suo articolo da Napoli sulla necessità della riforma carceraria. Sosteneva che due sono le funzioni del carcere: quella punitiva e quella correttiva. Ma “la prima delle due deve essere funzionale e subordinata alla seconda. Si può sostenere che la punizione ha un valore intrinseco, di pura retribuzione della colpa o di inesorabile vendetta, separato dalla finalità di recuperare il soggetto? Credo che nessuno lo pensi. Mi chiedo quindi se si possa ritenere salvaguardato l’interesse collettivo riducendo la funzione dello Stato unicamente a quella di colpire i rei con cieca determinazione. Non si rischia di trasformarla in un gelido ed ottuso meccanismo?”. Parole sante: basti pensare, per accorgersene, all’altissima percentuale di detenuti che usciti dal carcere tornano a delinquere, come bene ha spiegato con ricchezza di dati Il Sole 24 Ore, il 6 febbraio scorso. Se “nel 68% dei casi i detenuti nelle carceri tornano a delinquere” è evidente la grave difficoltà, il fallimento se non l’impossibilità del recupero sociale dei delinquenti. Ma di chi è la colpa se sono proprio le condizioni di vita dei detenuti che, anche a causa del sovraffollamento delle carceri, favoriscono e di certo non impediscono l’instaurarsi di rapporti violenti tra i singoli, sicuro prodromo alla recidiva una volta usciti? Recentemente pure lo scrittore Roberto Saviano ha trovato il modo di esprimersi sulle carceri e sui carcerati condannando una politica priva di coraggio, sorda e cieca ad ogni richiesta d’aiuto che avrebbe il governo italiano: “Chiunque, a vario titolo, abbia a che fare con il carcere, detenuti e loro familiari, giuristi, avvocati, associazioni che si occupano di diritti dei detenuti, educatori, direttori e personale che lavora nei luoghi di detenzione, tutti loro e anche noi, abbiamo oggi come unico avversario comune una politica priva di coraggio e spesso anche di competenze, sorda e cieca a ogni sollecitazione, a ogni richiamo e, finanche, a ogni richiesta d’aiuto”. Non sono serviti infatti né un prodigioso sciopero della fame di oltre 10.000 detenuti, né la recente condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo per i “sistematici trattamenti inumani e degradanti”, applicati nelle nostre carceri, a spingere il governo a pretendere dal Parlamento l’approvazione di un serio provvedimento di riforma del settore carcerario, per lenire le condizioni dei suoi detenuti e contribuire così a migliorare la sicurezza esterna dei cittadini. Così continuando, il carcere non aiuta la sicurezza dei cittadini, come ha recentemente sostenuto Susanna Marietti dell’associazione Antigone, nel suo articolo del 19 aprile. Dove si legge: “Dei 57.608 detenuti al 31 dicembre scorso, solo 22.253, meno del 37%, non avevano alle spalle precedenti carcerazioni. 7.042 ne avevano addirittura un numero che spazia dalle 5 alle 9. Le misure alternative garantiscono assai di più l’abbattimento della recidiva e dunque la sicurezza della società. E costano anche assai di meno del carcere”. Ma le misure alternative quali sono? L’affidamento in prova ai servizi sociali, la semilibertà, la liberazione anticipata e la detenzione domiciliare, che tendono (in forme opportunamente gestite e controllate) a realizzare la funzione rieducativa della pena, in ottemperanza dell’articolo 27 della Costituzione. Perché la pena non deve togliere ogni libertà o essere soltanto punitiva ma puntare sempre al recupero individuale e sociale del cittadino colpito, divenuto consapevole del reato commesso ed impegnato, già nei suoi rapporti interni con gli altri detenuti, a recuperare via via la sua dignità e la sua responsabilità sociale. Per un detenuto la possibilità di recuperare, una volta uscito, la sua dignità ed un’occupazione regolare e riconosciuta rappresenta uno stimolo decisivo ad un percorso di riscatto. In questo modo oltre a recuperare un cittadino detenuto si contribuisce realmente, e con minore spesa per la collettività, alla sicurezza sociale di tutti. Altro che “rinchiuderli e buttare la chiave” come certi populisti-identitari ci invitano a fare: è proprio il contrario che si deve perseguire. Non li recupereremo tutti ma una buona parte sì. Un modo razionale, oltre che economico, di affrontare il rinnovamento della vita carceraria e la questione della recidiva prevede l’appoggio alle misure alternative al carcere. Pienamente d’accordo dunque con la dottoressa Marietti: “Chi vuole usare la razionalità, non può che sperare in un loro incremento”. Napoli: i detenuti vincono la terza edizione di #GuerradiParole Redattore Sociale, 5 maggio 2018 A Napoli, nel carcere di Poggioreale, la gara di retorica - quest’anno sul tema del reddito di cittadinanza - fra detenuti e studenti universitari della Federico II. Trupia (PerLaRe): “Un modo per preparare studenti e detenuti alle sfide della vita e del lavoro”. Nella sfida fra detenuti e studenti universitari, sono i primi a vincere la “guerra di parole” sul reddito di cittadinanza, la gara di retorica andata in scena questa mattina all’interno del carcere napoletano di Poggioreale. Giunta alla terza edizione e organizzata da PerLaRe, Associazione Per La Retorica, l’iniziativa ha visto due squadre di 20 persone, una di detenuti del carcere, l’altra di studenti dell’università Federico II, confrontarsi a colpi di parole per affermare la propria tesi. L’evento, sostenuto da Toyota Motor Italia, ha visto la partnership della Crui, Conferenza dei Rettori delle Università Italiane, della Casa Circondariale Napoli Poggioreale e dell’Università Federico II, insieme all’Unione Camere Penali Italiane - Osservatorio Carcere Ucpi e Carcere Possibile Onlus. “La Guerra di Parole - ha raccontato il detenuto Salvatore - è stata un’esperienza bella e importante. Mi ha fatto sviluppare il senso di responsabilità. In carcere, poi, è fondamentale non stare lì a oziare, bisogna darsi da fare. Imparare cose nuove. È importante per sopravvivere”. La Guerra di Parole “è un gioco che ha lo scopo di rimettere al centro l’arte della retorica - ha spiegato Flavia Trupia, presidente di PerLaRe-Associazione Per La Retorica - come strumento per affermare e difendere le proprie idee. Allenarsi all’uso dell’eloquenza è importante sia per gli studenti sia per i detenuti. I primi sono chiamati a sostenere esami, presentare la tesi e sostenere colloqui di lavoro. I secondi dovranno ricostruire la propria vita e imparare a cogliere nuove opportunità, sostenendo le proprie ragioni solo con lo strumento pacifico della parola. La Guerra di Parole è un modo per preparare studenti e detenuti alle sfide della vita e del lavoro”. Per gli studenti universitari l'iniziativa ha rappresentato un momento importante: “Il motivo per cui ho deciso di partecipare è stato quello di poter dare voce a chi non ce l'ha - ha affermato Annagioia - è stato un vero e proprio scontro tra educazione e rieducazione, è stata molto bella come esperienza, bella soprattutto dal punto di visto umano”. Nicola, studente di ingegneria è stata una scoperta: “Studio materie non umanistiche, per me è stata un'opportunità di migliorare le mie competenze, delle qualità da affinare per accedere al meglio al mondo del lavoro. È stata un'esperienza sui generis, mi ha colpito stare a Poggioreale e 'duellarè con i detenuti, è stata un'occasione più unica che rara”. Per i detenuti imparare l'arte della retorica è importante, lo ha sottolineato Vittorio: “Usare la parola in modo pacifico serve per farsi conoscere e farsi capire. La comunicazione è un modo per entrare in contatto con gli altri senza prepotenza, per noi detenuti è importante soprattutto perché - una volta usciti da qui - dovremo cercare di demolire i mille pregiudizi che le persone hanno nei confronti di una persona che è stata in carcere. Non sarà facile, ma credo che, anche grazie a questo progetto, avremo qualche strumento in più”. I detenuti e gli studenti si sono preparati all'incontro con quattro incontri formativi sui temi dell’oratoria e del linguaggio del corpo organizzati da Flavia Trupia. Le due squadre, composte da 20 persone ciascuna, hanno scelto autonomamente i loro portavoce che si sono “scontrati” per 20 minuti ciascuno. La giuria della #GuerradiParole era composta da Mauro Caruccio, amministratore delegato di Toyota Motor Italia; Carlo Freccero, consigliere del Consiglio di Amministrazione della Rai, Valeria Della Valle, socia dell'Accademia della Crusca; Francesco Paolantoni, attore; Ludovico Bessegato, produttore creativo tv; Gaetano Eboli, magistrato di sorveglianza; Vincenzo Siniscalchi, avvocato penalista; Ema Stokholma, Dj e conduttrice radiofonica e Francesco Piccinini, direttore di Fanpage. Bari: “Caffè ristretto”, conclusione del progetto con i detenuti dell'Ipm comune.bari.it, 5 maggio 2018 L'assessora Romano all'evento conclusivo del progetto educativo rivolto a 20 detenuti. Si concluderà nel primo pomeriggio, alle ore 14.30, all’interno dell’istituto penale per minorenni “Fornelli”, il progetto “Caffè ristretto”, finanziato dall’assessorato alle Politiche educative e giovanili e rivolto a 20 detenuti, di cui 12 adulti ospiti della casa circondariale e 8 minori. L’iniziativa, giunta quest’anno alla quinta edizione, è stata pensata per creare, sia nella casa circondariale sia nell’istituto “Fornelli”, percorsi e spazi culturali aperti ai detenuti, supportare la personalizzazione dei percorsi di crescita di ciascuno di loro attraverso una offerta culturale coerente e raggiungere una condizione di apprendimento continuo in grado di coniugare la proposta culturale con il benessere e la realizzazione personale dei detenuti. Il viaggio è il tema del progetto condotto dalla scrittrice Teresa Petruzzelli e realizzato con 5mila euro: il programma delle attività, supportato dalla collaborazione con la Gazzetta del Mezzogiorno attraverso la produzione di articoli prodotti a seguito di workshop con giornalisti e operatori del settore, ha previsto incontri formativi con addetti ai lavori del mondo della cultura (librai, editori, scrittori, critici, artisti). Sono due le fasi in cui è stato suddiviso il programma: oltre alla struttura progettuale basata sui laboratori di scrittura e lettura (25 ore presso la Casa Circondariale e 15 ore presso l’istituto Fornelli), sulla produzione di testi e articoli per il format Newspaper Game e due incontri con autori, sono state organizzate due performance teatrali, una nella casa circondariale, l’altra nel Fornelli, sui temi affrontati nel corso dei laboratori. “Oggi si conclude la quinta edizione di Caffè ristretto - commenta l’assessora alle Politiche educative e giovanili Paola Romano, che presenzierà all’evento conclusivo del progetto. Assieme a Teresa Petruzzelli abbiamo voluto portare, all’interno degli istituti penali, i libri, le opere teatrali, gli scrittori, i giornalisti e gli attori, proponendo ai detenuti, adulti e più giovani, dei modelli alternativi. Da questi incontri è nato un bel confronto, fatto di aspettative e di sogni, che ha fatto emergere la ricchezza di tante persone che stanno scontando la loro pena: molti di loro sanno di aver commesso degli errori, hanno sete di conoscenza e cercano il loro riscatto personale”. Taranto: l'Asl e il carcere proseguono nel progetto "Giardino dei Giusti" corriereditaranto.it, 5 maggio 2018 L’Asl e la direzione del carcere di Taranto sono impegnate in un intervento di "Agricoltura sociale" con l’attuazione del progetto denominato "Giardino dei Gusti", che prevede l’impiego di un gruppo di detenute per l’impianto di un piccolo frutteto e di un orto nell’area verde del padiglione femminile, con incontri dedicati alla trasformazione dei prodotti agricoli. “Si tratta - spiega l’Asl in una nota - di un intervento attuato dall’Associazione Masserie Didattiche Grande Salento, che vede la sinergia di due mondi apparentemente lontani, quello agricolo e quello socio-sanitario, entrambi propensi a scambiare esperienze e competenze, favorendo l’integrazione in ambito agricolo di interventi di tipo socio-sanitario, allo scopo di prevenire disagi psicologici nella popolazione carceraria, anticipando quanto in Puglia la Legge Regionale n. 9 del 27 marzo 2018 ha disposto in materia di agricoltura sociale”. Il progetto si propone di “fornire alle detenute una speranza che consenta loro di riflettere sulla condizione attuale di internata e di quanto ne gioverebbe la loro vita futura iniziando a modificare i propri atteggiamenti e dandosi una opportunità altra; incrementare l’autostima e sollecitare l’attitudine al ‘lavoro’ come strumento di gratificazione, dedicandosi alle attività previste nel Giardino; lasciare traccia - attraverso un elaborato - dell’esperienza vissuta“. Rom e sinti “invasori” in Italia? Quelli senza casa sono solo lo 0,04% di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 maggio 2018 Vengono associati a criminalità e degrado, vittime di una stigma sociale anche quando compiono atti che non sono di per sé reato, come ad esempio lavarsi alla fontana, o che sono addirittura neutri, come passare in un luogo. Vengono poi considerati tra i primi sospettati per i reati che vengono commessi in una zona, per il solo fatto di abitarci anche loro. Parliamo di rom e sinti, o più comunemente “zingari”. Grazie a un recente rapporto dell’Associazione “21 Luglio” veniamo a sapere che in Italia sono circa 180.000, di questi circa 26mila - appena lo 0,04 per cento della popolazione italiana - vivono in emergenza abitativa, ovvero specifico in insediamenti formali e informali, in micro insediamenti e in centri di raccolta rom. Negli ultimi 12 mesi la difficoltà di vita all’interno di tali spazi ha spinto alcune famiglie, soprattutto di nazionalità rumena, a spostarsi in altri paesi o a fare ritorno nelle città di origine con conseguente leggero decremento delle presenze totali. “Una tendenza - si legge nel rapporto annuale dell’associazione “21 Luglio” - da leggere con attenzione e che allontana ancora una volta il fantasma della “invasione” incontrollata che, soprattutto nel periodo elettorale, rivive puntuale nelle parole di alcuni politici e nell’amplificazione operata dai media”. Il 43 per cento dei nomadi negli insediamenti riconosciuti è di nazionalità italiana, il 55 per cento è minorenne. Oltre un terzo del totale proviene dalla ex Jugoslavia e tremila persone sono apolidi, senza cittadinanza. Negli assembramenti abusivi, invece, l’ 86 per cento degli abitanti è rumeno. Il 9 per cento di origine bulgara. In Italia esistono 148 baraccopoli formali e sono presenti in 87 comuni di 16 regioni. Ospitano 16.400 nomadi in maniera stanziale. Altri 9.600 sono stimati all’interno di insediamenti cosiddetti informali. Un quarto delle baracche destinate a rom e sinti sono concentrate a Roma. Nella capitale, oltre alle 17 aree gestite dal Comune (sei ' formali' e undici ' tolleratè), ci sono trecento campi abusivi. Il rapporto sottolinea che a vivere sulla propria pelle le tragiche conseguenze della segregazione abitativa sono molti minori, il 55% secondo le stime dell’ associazione “21 Luglio”, con gravi ripercussioni sulla salute psico-fisica e sul loro percorso educativo e scolastico. A incidere sui livelli di scolarizzazione contribuiscono infatti in modo significativo sia le condizioni abitative sia la forte catena di vulnerabilità perpetrata dalle operazioni di sgombero forzato attuate in assenza delle garanzie procedurali previste dai diversi Comitati delle Nazioni Unite. Nella sua costante attività di monitoraggio, l’associazione “21 luglio” ha registrato in tutto il 2017 un totale di 230 operazioni: 96 nel Nord Italia, 91 al Centro (di cui 33 nella città di Roma) e 43 nel Sud. A proposito dell’odio, l’anti-gitanismo rimane uno degli elementi che continua a caratterizzare la nostra società. Nel 2017 l’Osservatorio “21 Luglio” ha registrato un totale di 182 episodi di discorsi d’odio nei confronti di rom e sinti, di cui 51 (il 28,1% del totale) sono stati classificati di una certa gravità. È da segnalare quindi un incremento del 4% rispetto al 2016, anno in cui l’Osservatorio aveva rilevato un totale di 172 episodi. Maglia nera è Roma. La capitale, infatti, detiene il triste primato del maggior numero di insediamenti presenti, 17 in totale di cui 6 formali e 11 cosiddetti “tollerati”. Nonostante le aspettative create a fine 2016 con la memoria di giunta e il “Progetto di Inclusione Rom” presentato il 31 maggio dalla sindaca Raggi che aveva come obiettivo il graduale superamento dei “campi” presenti all’interno della città - piano di cui l’associazione “21 luglio” aveva fin da subito evidenziato le fragilità - nel 2017 non è stato di fatto avviato alcun processo di inclusione. Caso esemplare quello dell’insediamento di Camping River, per il cui superamento la giunta ha promosso una serie di azioni che si sono dimostrate fallimentari e non hanno fatto altro che “declassare” l’insediamento da formale a informale. A proposito degli sgomberi forzati, il primato spetta sia nel comune di Roma che a quello di Milano. Nelle due città, anche per il 2017 si conferma un alto numero di sgomberi forzati. Nella capitale, il rapporto ha documentato 33 sgomberi forzati di baraccopoli informali e di micro insediamenti, mentre nella città metropolitana di Milano, in riferimento al medesimo anno, si sono registrati 25 sgomberi forzati di micro insediamenti rom. Da rilevare inoltre come il fenomeno degli allontanamenti di camper, furgoni ed autocaravan di famiglie rom da parte delle autorità pubbliche non inclusi nel computo numerico degli sgomberi forzati - risulti essere in crescita non solo a Milano ma anche nell’intera area del Centro-Nord, attraverso un utilizzo maggiore e reiterato di ordinanze sindacali - come nel caso del comune di Vicenza - volte a impedire lo stazionamento e la sosta ai veicoli e alle autovetture in determinate zone delle città. L’associazione “21 Luglio”, nella sua costante attività di monitoraggio, ha registrato per tutto il 2017 le seguenti operazioni di sgombero di famiglie rom: 96 nel Nord Italia, 91 nel Centro e 43 nel Sud per un totale di 230 sgomberi forzati. Migranti: "Aiutiamoli a casa loro", così la strage è invisibile di Alessandro Dal Lago Il Manifesto, 5 maggio 2018 Oggi, grazie a Minniti, annegano meno migranti. Infatti, muoiono altrove, tra lager libici e piste nel deserto che non portano da nessuna parte. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore, da ogni senso di umanità. È vero, in un anno gli sbarchi dei migranti nelle spiagge del sud, in massima parte in Sicilia, sono diminuiti del 34% rispetto al 2016. Lo affermano le Ong e il Ministero degli interni italiano. E così il ministro Minniti, l’uomo del Daspo urbano e dello slogan “percezione dell’insicurezza uguale insicurezza”, e cioè percezione uguale realtà, può essere contento. E magari lui e Gentiloni potranno strappare alla Ue - a parole - qualche milione in più per pattugliare il Mediterraneo e un po’ di rifugiati da distribuire in Europa. Evviva. Come ci sono riusciti, il Presidente del consiglio e il suo ministro? È semplice: delegando alla Libia il controllo e la detenzione dei migranti che si mettono in marcia verso l’Italia dall’Eritrea, dalla Somalia, dal Gambia, dalla Nigeria e così via. Nel 2016, poco meno di 180mila, oggi meno di 150mila. E quelli che non arrivano che fine hanno fatto? Nessuno lo sa. Ciò che invece sappiamo è che i campi di detenzione in Libia sono “infernali” (secondo la denuncia delle Nazioni Unite, di Oxfam ecc.). I migranti vi sono ammassati come bestiame, derubati e picchiati. Talvolta uccisi. Le donne violentate. E poi, se sopravvivono, rimandati nei paesi d’origine o, meglio, abbandonati nel deserto. Lo faceva già Gheddafi con i soldi stanziati da Prodi, Amato, Berlusconi ecc. Lo fa il governo Serraj e lo fanno le bande di armigeri che si spartiscono la Libia, dopo la guerra voluta da Cameron e Sarkozy, con il beneplacito di Napolitano, Berlusconi, Bersani ecc. Ma gli accordi dell’infaticabile Minniti sono qualcosa di profondamente diverso. Prima, apparentemente e di malavoglia, la priorità era umanitaria. I migranti si imbarcavano e bisognava salvarli, di fronte al mondo - anche se qualche volta la Guardia costiera era distratta, la Marina nicchiava, i maltesi non collaboravano e Frontex, l’infame agenzia di frontiera, si opponeva. E così 30mila donne, bambini e uomini sono annegati in vent’anni. Ma oggi, grazie a Minniti, ne annegano meno, in assoluto. Infatti, muoiono altrove, tra lager libici e piste nel deserto che non portano da nessuna parte. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore, da ogni senso di umanità. E così, la sorte di questa gente non interessa a nessuno. Alcuni la approvano calorosamente (Salvini, Berlusconi, Grillo), altri con un’ipocrisia che lascia senza fiato (“No ai taxi del mare”, “No al business dell’immigrazione”, proclama Di Maio), altri piangono lacrime false (il Pd). E non parliamo dell’Europa, che elogia Minniti e poi si inchina al fascista Orbàn e agli altri Gauleiter dell’est. Per ottenere questo bel risultato c’è voluta una certa intelligenza strategica, bisogna ammetterlo. Inizialmente, si sono diffamate le Ong che operavano nel Mediterraneo. Poi si sono avviate inchieste sul “business umanitario”, in cui non è mai saltata fuori una prova. Minniti ha operato a tenaglia, imponendo un codice di condotta alle Ong - in sostanza obbligandole ad accettare i suoi voleri - e contemporaneamente si è accordato con i libici, concedendo soldi, armi, motovedette ecc. in cambio della sparizione dei migranti dal nostro bel mare azzurro. Tutto quello che è seguito perfeziona il modello. Ogni tanto un solerte procuratore sequestra una nave, con l’incredibile motivazione che non si è subordinata al voleri dei libici, i quali sparano addosso a chi salva i migranti. Da parte sua Minniti - vista l’inesistenza di Alfano - si è autonominato ministro operativo degli esteri e organizza, su mandato di Gentiloni, inverosimili spedizioni nell’Africa profonda, in Niger, con l’obiettivo di lottare contro il terrorismo, in altri termini per bloccare i migranti alla partenza. Questa storia del Niger sarebbe comica se non fosse immersa in una realtà tragica. Nel 2017, Gentiloni dichiarava di voler fermare gli scafisti in Niger (in Niger, un paese che non ha sbocchi al mare?). Veniva così approntata una missione di 400 uomini, con blindati e armi pesanti, e 40 venivano inviati a preparare il terreno. Poi, poco alla volta non se ne è saputo più nulla. Prima si è data la colpa a Macron, che non avrebbe voluto gli italiani tra i piedi in quello che di fatto è uno spazio coloniale francese. Poi, alcuni ministri nigerini hanno dichiarato di non aver richiesto la presenza degli italiani. Infine, il silenzio su tutta la vicenda, dopo ridicole smentite del Ministero della difesa. La cosa più probabile è che, in questo momento, i 40 soldati dell’unità logistica in Niger si struggano di nostalgia per l’Italia lontana, la pizza e la pasta, mentre il vento soffia e li ricopre di sabbia. Ma c’è poco da ridere. Le strade e le piste che portano da villaggi, slum e periferie dell’Africa verso il nostro mondo sono disseminate di morti, così come il fondo del mare (dal 2,5 al 5% di chi si imbarca, dal 2016 a oggi, secondo diverse stime). Ma questo non importa ai nostri leader che si disputano il favore del popolo. Che volete che siano 5, 10 o 30mila morti stranieri, davanti ai milioni che ci hanno votato, immagino che pensino Salvini, Di Maio, Berlusconi e Renzi. Ma sì, aiutiamoli a casa loro. Copriamoci gli occhi, non guardiamo, pensiamo alle prossime elezioni. Libia. In condizioni disumane 800 migranti nel centro di detenzione di Zuwara di Giorgio Ruta La Repubblica, 5 maggio 2018 La denuncia di Medici Senza Frontiere per la sorte di rifugiati incarcerati in luoghi estremamente sovraffollati nella città portuale di Zuwara, a circa 100 chilometri a ovest di Tripoli. Bambini, donne e uomini detenuti in condizioni letteralmente indecenti e degradanti a più di cinque mesi, senza accesso adeguato a cibo e acqua. L'organizzazione umanitaria, Premio Nobel, Medici Senza Frontiere (Msf) denuncia la sorte di circa 800 migranti e rifugiati trattenuti in un centro di detenzione estremamente sovraffollato nella città portuale di Zuwara, a circa 100 chilometri a ovest di Tripoli. Alcuni uomini, donne e bambini sono detenuti in condizioni letteralmente disumane da più di cinque mesi, senza accesso adeguato a cibo e acqua. “La situazione è critica”, dice Karline Kleijer, responsabile per le emergenze di MSF. “Invitiamo con forza tutte le agenzie internazionali presenti in Libia, i rappresentanti dei Paesi di origine e le autorità libiche a fare tutto il possibile per trovare una soluzione per queste persone entro i prossimi giorni”. Avviato il processo di ritorno volontario. Martedì scorso l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ha trasferito via aerea 88 persone bisognose di protezione internazionale da Zuwara ad un altro centro di detenzione a Tripoli, dove saranno identificati i casi più vulnerabili potenzialmente soggetti ad un’evacuazione dalla Libia. Le autorità libiche hanno invece trasferito alcune persone in altri centri di detenzione nel tentativo di ridurre l'eccessivo sovraffollamento mentre l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM) ha avviato il processo di “ritorno volontario umanitario” per alcuni detenuti. Tuttavia, centinaia di persone restano ancora all'interno del centro senza una soluzione in vista. La situazione peggiora di giorno in giorno. Ogni giorno che passa la situazione peggiora sempre di più con un numero crescente di rifugiati e migranti detenuti arbitrariamente. Dal 18 aprile scorso, giorno in cui è iniziato l'intervento dell’équipe di emergenza di MSF, altre 500 persone sono state portate in una struttura già sovraffollata. Al momento, nel centro di detenzione di Zuwara c’è il quadruplo delle persone che potrebbe contenere il suo spazio, talmente ristretto che è quasi impossibile per le persone sdraiarsi a terra. Un gran numero di rifugiati, migranti e richiedenti asilo a Zuwara hanno già sopportato allarmanti livelli di violenza e sfruttamento in Libia e durante gli strazianti viaggi dai loro Paesi d'origine. Alcune delle persone portate al centro di detenzione erano malnutrite all'arrivo perché tenute prigioniere da reti di trafficanti nell’area. “Msf chiede nuovamente la fine della detenzione arbitraria di rifugiati, richiedenti asilo e migranti in Libia”, afferma Kleijer. Forze speciali Usa in Yemen. E Abu Dhabi occupa un’isola di Chiara Cruciati Il Manifesto, 5 maggio 2018 Rivelazione del New York Times: berretti verdi stanno partecipando attivamente al conflitto, il Pentagono mente. A Socotra, intanto, scoppiano le proteste popolari contro la presenza (militare e turistica) degli Emirati. Operazioni segrete, berretti verdi, insabbiamenti del Pentagono: le rivelazioni del New York Times sulla guerra yemenita aprono l’ennesimo squarcio sul muro di gomma occidentale. Forze speciali dell’esercito statunitense starebbero partecipando direttamente all’offensiva, a sostegno dell’Arabia saudita, al confine con lo Yemen. Non mera logistica, come finora detto dal Pentagono: i berretti verdi svolgerebbero attività di localizzazione e distruzione di depositi di missili balistici e basi di lancio dei ribelli Houthi. “Lo scorso anno un team di una dozzina di berretti verdi è arrivato al confine tra Arabia saudita e Yemen, un’escalation continua delle guerre segrete americane - scrive il Nyt - Questo contraddice le dichiarazioni del Pentagono secondo cui l’assistenza militare Usa alla campagna saudita in Yemen è limitata al rifornimento degli aerei, la logistica e la condivisione di intelligence”. La rivelazione non è così scontata: lo Yemen è da anni - dall’amministrazione Obama in poi - il modello della guerra a distanza Usa, una guerra dei droni senza truppe sul terreno. E se 12 soldati non sono un battaglione, la notizia è dirimente in un contesto di guerra globale. Perché quello in Yemen non è un mero conflitto interno, tra un movimento ribelle (Ansar Allah) e un governo (quello del presidente Hadi): è uno scontro che vede l’attiva partecipazione di attori internazionali, per buona parte intenzionati a ridurre l’influenza iraniana nella regione. Era già nota la presenza di 50 consiglieri militari Usa e di 200 soldati britannici. Come è noto l’enorme rifornimento di armi a Riyadh da parte dei governi occidentali, tra cui l’Italia (su cui i dati non sono certi: secondo Rete Disarmo, Roma non ha certificato tutte le commesse, all’appello mancherebbero 19.675 bombe nel 2016, per un valore complessivo di 411 milioni di euro). In prima fila, dopo Washington, c’è la Gran Bretagna con commesse da 6,2 miliardi di dollari dal marzo 2015, inizio del conflitto in Yemen. Ieri, però, chi si batte per l’embargo ha ottenuto una mezza vittoria: la Corte d’Appello di Londra ha stabilito il diritto della Campaign Against Arms Trade di appellare la sentenza del luglio 2017 della Corte Suprema secondo cui la vendita di armi a Riyadh non violerebbe la legge. Nel frattempo la guerra continua. Mentre a nord si apre la questione berretti verdi, a sud sale la tensione intorno al ruolo degli Emirati arabi. In rotta con l’alleato Hadi, Abu Dhabi segue una politica tutta sua, in contraddizione anche con quella saudita e diretta ad acquisire influenza nelle zone strategiche, ovvero la costa meridionale e lo stretto di Bab al-Mandab. Lo fa attraverso l’armamento delle forze separatiste meridionali, aprendo carceri e ora dispiegando soldati, carri armati e caccia nell’isola yemenita di Socotra (meraviglioso arcipelago patrimonio Unesco), a oriente del Corno d’Africa e del Golfo di Aden. La popolazione, 60mila persone, è insorta: proteste sono scoppiate contro la presenza straniera e la militarizzazione dell’isola, “ripulita” della presenza dell’esercito governativo yemenita e tramutata in una base emiratina per metà militare e per metà turistica: da mesi Abu Dhabi organizza tour per i propri cittadini e dispensa visti di lavoro e assistenza sanitaria. Come se Socotra fosse già sua. Il qatariota detenuto e torturato per 13 anni negli Usa di Francesco Manta occhidellaguerra.it, 5 maggio 2018 Ali al-Marri, un “terrorista dormiente” condannato, collegato ai pianificatori dell’11 settembre ha parlato per la prima volta del suo trattamento in prigionia, affermando di essere stato torturato e maltrattato durante 13 anni di detenzione in terra americana. Tre anni dopo la sua liberazione, Ali al-Marri afferma di essere innocente e vuole che i suoi interrogatori dell’FBI vengano portati a processo. Al-Marri fu arrestato dopo gli attacchi del 2001 e successivamente dichiarato “combattente nemico” da George W. Bush. Detenuto in isolamento senza condanne per sei anni in un carcere militare della Carolina del Sud, era l’unico cittadino non statunitense detenuto fuori Guantánamo. Le accuse di tortura di al-Marri sono supportate da registri di detenzione che sono pronti a riaccendere le polemiche sulla manipolazione di sospetti di al-Qaeda da parte degli Stati Uniti prima della nomina di Gina Haspel a direttore della CIA, una donna accusata di presiedere a “tecniche avanzate di interrogatorio“. Al-Marri, qatariota, arrivò a Chicago il 10 settembre 2001 con sua moglie e cinque figli. Nella loro stanza d’albergo, mentre i bambini cercavano il canale dei cartoni animati, sullo schermo apparvero le immagini dell’11 settembre. “Avevo una sensazione. Ho chiamato immediatamente la compagnia aerea - potremmo tornare a casa? Ma tutto era bloccato a terra. Non pensavo che Al-Qaida potesse farlo. Nel mio hotel la gente mi inveiva contro. Era chiaro cosa stesse succedendo”. Quando andò a raccogliere un baule spedito da casa, l’FBI venne avvertita. Al-Marri è stato arrestato il 9 dicembre. Sarebbero passati 13 anni prima che potesse vedere di nuovo la sua famiglia. Gli agenti dell’FBI hanno trovato un’enciclopedia con un segnalibro alla voce “corsi d’acqua degli Stati Uniti”, ricerche su internet di sostanze chimiche tossiche e stampe di centinaia di numeri di carte di credito americane. La sua asserzione sul fatto di essere andato negli Stati Uniti per studiare era messa in dubbio, poiché era arrivato con due settimane di anticipo rispetto all’inizio del suo corso e 10 anni dopo aver completato la sua prima laurea nel Paese. Gli agenti dell’FBI dissero che voleva avvelenare i laghi con il cianuro e distruggere il sistema bancario statunitense. Sostenevano che egli avesse visitato campi di addestramento di al-Qaeda in Pakistan, ed era in contatto con Khalid Sheikh Mohammed, la mente degli attacchi dell’11 settembre. Al-Marri non ha mai risposto alle accuse. Nel 2009, in un tribunale civile, si è dichiarato colpevole di cospirazione per fornire sostegno materiale ad al-Qaeda e fu incarcerato per 15 anni, una sentenza che teneva conto della sua precedente prigionia. Ora, sostenuto dal gruppo di difesa britannico Cage, vuole che “il governo americano porti la loro causa contro di me su un terreno neutrale. Sfido loro in questo modo“. Ciò che è indiscutibile è che dal 2003 al-Marri è stato detenuto in una cella volutamente raffreddata con periodi di nudità forzata. La sua testa e la sua barba sono state rasati e gli è stata data una rastrelliera di ferro su cui sdraiarsi. È stato sottoposto a privazione del sonno, interrogatorio e isolamento mentre veniva monitorato da telecamere di sorveglianza. Sostiene che l’11 marzo 2004 era “a bocca asciutta” - calzini appiattiti in gola e nastro avvolto intorno alla testa mentre era seduto incatenato al pavimento. “Stavo soffocando, stavo morendo“, ha detto. “La sofferenza, assapori il dolore, lo assaggi. Minacciavano di sodomizzarmi, minacciavano di violentare mia moglie, minacciavano di portare dentro i miei figli, è una tortura. Minacciavano di mandarmi in una base segreta, di diventare un topo da laboratorio militare, soffocarmi fino alla morte. Questa è tortura”. Al suo ritorno in Qatar, al-Marri ha ricevuto l’accoglienza di un eroe. Il primo ministro gli ha telefonato e si sono svolte delle celebrazioni. “La gente mi fermava per strada, scattando dei selfie con me”, ha detto. “Cosa stavano festeggiando? Un detenuto che ha trascorso il suo tempo in prigione ed è uscito? “Non credono che io sia un terrorista. Terrorista è un termine relativo; Chi per un uomo è un terrorista per un altro è un eroe. Il padre fondatore dell’America, George Washington, era un terrorista per gli inglesi. Ad Ovest, sì, sono un terrorista, ma per gli arabi non lo sono, sono un eroe. Quindi Osama bin Laden è un eroe? Quando mi chiamano terrorista o mi chiamano eroe, non comprendo la differenza. In una dichiarazione, l’FBI ha detto al Guardian che non avrebbero commentato il caso ma che “l’FBI non si dedica alla tortura e riteniamo che le tecniche di rapport-building siano il mezzo più efficace per ottenere informazioni accurate in un interrogatorio”. Repubblica Centrafricana, torna la violenza di Riccardo Noury Corriere della Sera, 5 maggio 2018 Almeno 20 civili uccisi tra cui un parroco, altri due arsi vivi per vendetta. Novanta feriti. Questo è il tragico bilancio della nuova ondata di violenza settaria che il 1° maggio ha insanguinato la Repubblica Centrafricana. Il tutto, come sempre, sotto gli occhi della Minusca, la missione delle Nazioni Unite, presente nel paese dal 15 settembre 2014 e peraltro accusata di violenze sessuali. La violenza è esplosa dopo che le forze di sicurezza sono entrate nel quartiere PK5 della capitale Bangui per arrestare un membro di un gruppo armato di “autodifesa”. Il gruppo ha reagito, aprendo il fuoco contro le forze di sicurezza e poi, per vendicare l’arresto, i suoi miliziani hanno assaltato la chiesa di Nostra madre di Fatima, dove era in corso la messa. Ecco una testimonianza diretta: “Abbiamo sentito i primi colpi di arma da fuoco alle 11. Poi hanno iniziato con le granate. Ci siamo riparati dietro l’altare. Intorno a noi c’erano persone a terra, sanguinanti. I ragazzi hanno aperto un varco nel muro posteriore della chiesa e siamo riusciti a fuggire. Ma mentre fuggivamo, vedevamo tanti ragazzi armati arrivare dal quartiere PK5”. Il parroco Toungoumalé Baba è stato ucciso. Aveva cercato di chiamare aiuto ma non si era fatto vivo nessuno e per lui non c’è stata via di scampo. I caschi blu delle Nazioni Unite sono arrivati due ore dopo. Ore dopo, due civili musulmani sono stati arsi vivi per vendetta. Da un mese, dopo un periodo di assenza di scontri, la Repubblica Centrafricana è nuovamente precipitata nell’orrore. Quell’orrore con cui la popolazione del paese convive dalla fine del 2013 (nella foto i resti di un villaggio assaltato nel 2014). Il 3 aprile un attacco delle milizie cristiane anti-balaka contro la base provvisoria della Minusca di Tagbara aveva causato il ferimento di 11 caschi blu e la morte di 22 aggressori.