Perché dopo anni di lavoro la riforma delle carceri è a rischio di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 4 maggio 2018 Se la riforma dell'ordinamento penitenziario è fortemente a rischio, la responsabilità è del governo di centrosinistra (formalmente ancora in carica “per gli affari correnti”) che non ha avuto la volontà e la determinazione di portare a compimento ciò che aveva costruito e approvato in un lungo percorso durato quasi tre anni. I decreti che estendono la possibilità di godere di alcuni benefici e misure alternative a un maggior numero di detenuti (ma non a mafiosi e terroristi, senza automatismi e sempre sotto il controllo della magistratura) sono stati infatti approvati solo il 16 marzo scorso, cioè dopo le elezioni che hanno sancito la sconfitta della maggioranza che sosteneva l'esecutivo guidato da Paolo Gentiloni, nonostante ci fosse ancora bisogno di un ultimo passaggio parlamentare. Il motivo fu il timore che l'approvazione di un simile provvedimento prima del voto potesse far perdere consensi al Partito democratico e ai suoi alleati; con il risultato che il Pd è uscito ugualmente sconfitto dalle urne, e ora in Parlamento non c'è più la maggioranza favorevole alla riforma. Anzi, i due vincitori, centro-destra e Cinque stelle, sono dichiaratamente contrari, seppure con motivazioni parzialmente diverse. Ma questo conterebbe poco, giacché trascorsi dieci giorni dalla trasmissione dei decreti, il governo potrebbe comunque approvarli definitivamente e mandarli al Quirinale per la firma che li renderebbe esecutivi. Il quesito tecnico da risolvere è da quando decorrono i dieci giorni: l'esecutivo, spinto dal ministro della Giustizia Orlando ha sollecitato le nuove Camere a mettere i decreti all'ordine del giorno della cosiddetta commissione speciale, ma la decisione spetta alla conferenza dei capigruppo di Montecitorio; se ciò non avvenisse a breve, si potrebbe ugualmente considerare trascorso il periodo previsto dalla legge e procedere con l'emanazione definitiva? È un problema di diritto parlamentare, al quale se ne aggiunge uno di tipo politico forse più rilevante: può un governo senza maggioranza procedere comunque su un tema che difficilmente si può considerare di ordinaria amministrazione? Gli avvocati hanno fatto due giorni di sciopero per ottenere questo risultato, e ieri in un convegno organizzato dall'Unione camere penali (al quale hanno partecipato fra gli altri l'ex presidente della Consulta Giovanni Maria Flick, il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, la leader radicale Rita Bernardini che da anni si batte per i diritti dei detenuti e il Garante nazionale Mauro Palma) hanno sollecitato governo e Parlamento ad accelerare i tempi e dare corso a una riforma che “non è uno svuota carceri, ma incide positivamente sulla sicurezza per i cittadini”, come spiega il presidente, dei penalisti Beniamino Migliucci. È infatti statisticamente provato, insistono gli avvocati, che una detenzione più aperta a benefici e misure alternative diminuisce la tendenza dei reclusi a tornare a delinquere. “E del resto chiediamo al governo di avere semplicemente il coraggio di dare seguito a ciò che ha già deliberato”, invoca il presidente della Camera penale di Roma Cesare Placanica. Ma il tempo stringe, e forse non è più solo una questione di coraggio. Che serviva prima delle elezioni. “La Costituzione impone la riforma del carcere” di Errico Novi e Valentina Stella Il Dubbio, 4 maggio 2018 Mascherin e Migliucci: sì al decreto, il governo ascolti gli avvocati. Di fronte a uno stallo interminabile, l’avvocatura chiede al governo di non esitare più e dare il via libera definitivo alla riforma del carcere: “Inutile illudersi che il Parlamento cambi idea e si decida a esprimere i pareri sul decreto: a questo punto il testo venga portato all’esame del Consiglio dei ministri per la definitiva emanazione”, chiedono i presidenti del Cnf e dell’Unione Camere penali, Andrea Mascherin e Beniamino Migliucci. L’appello arriva dal palco della manifestazione per il “Sì alla riforma penitenziaria” organizzata ieri dall’Ucpi a Roma, a suggello delle due giornate di astensione proclamate dagli stessi penalisti. Con l’avvocatura si sono schierati anche il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, il garante dei detenuti Mauro Palma e il presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick, intervenuti all’evento insieme con la dirigente radicale Rita Bernardini, che ha ricordato: “Non ha senso considerare la riforma un regalo ai mafiosi: nelle carceri sono pochi, ormai ci finiscono quasi solo tossicodipendenti, malati psichiatrici e poveri delle periferie degradate”. “Gentiloni, ora ascoltaci: emana il decreto sul carcere senza i pareri delle Camere” di Errico Novi Il Dubbio, 4 maggio 2018 Cnf e penalisti: possiamo fidarci solo di questo Consiglio dei Ministri. Adesso l’interrogativo è: a quale porta bussare? Al Parlamento refrattario? Al governo esitante? Nel giorno della mobilitazione, l’avvocatura si chiede a chi rivolgere il pressing affinché la riforma penitenziaria non vada al macero. “Credo che un solo Consiglio dei ministri possa emanare il provvedimento ed è quello attualmente in carica”, dice il presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin. Ed è questo l’auspicio condiviso, alla fine dell’evento voluto dall’Unione Camere penali a Roma, la manifestazione nazionale per dire “Sì alla riforma penitenziaria” e per “ripristinare la legalità nelle carceri”. A confidare nel successo del tentativo annunciato dal guardasigilli Orlando, bypassare “l’ostruzionismo” delle Camere e dare il via libera al decreto, è anche il presidente della stessa Ucpi, Beniamino Migliucci. Così come sono idealmente sospese a quell’auspicio le figure istituzionali e politiche presenti nella sala di via della Ripetta, dal vicepresidente del Csm Giovanni Legnini alla dirigente radicale Rita Bernardini. A questo punto, di alternative non ne restano. A spiegarlo è l’avvocato che guida l’Osservatorio carcere delle Camere penali, Riccardo Polidoro: “Nella lettera al Corriere in cui ipotizzava un percorso comune col Pd, Di Maio sosteneva che bisognerebbe realizzare una riforma complessiva dell’ordinamento penitenziario: basta combinare l’affermazione con i precedenti anatemi sul decreto per il quale siamo qui, e si capisce che il capo dei Cinque Stelle pensa a tutt’altra riforma”. Quindi inutile attendere i parei del Parlamento. Ma è davvero possibile farne a meno? Mascherin spiega perché è convinto di sì, e lo fa a partire da una premessa: “Non condivido l’idea di individuare in Orlando il responsabile del mancato via libera. È vero che il governo di cui fa parte si è fermato proprio quando avrebbe potuto compiere l’ultimo passo, ma non dimentichiamo che è questo il guardasigilli ad aver voluto gli Stati generali, ad aver presentato il provvedimento per il quale siamo qui. Perciò”, sostiene il presidente del Cnf, “noi dobbiamo dare forza all’esecutivo tuttora in carica: inutile illudersi che Fico convinca i gruppi parlamentari ad assegnare il decreto alla commissione speciale, meglio esprimere tutto il nostro consenso affinché il testo venga portato all’esame del Consiglio dei ministri per la definitiva emanazione. Proprio Orlando”, ed è questo lo snodo decisivo della questione”, ha ottenuto un parere tecnico, costituzionalmente orientato, che conferma la possibilità, per l’esecutivo, di emanare il provvedimento anche in assenza dell’ultimo parere atteso dalle Camere. Sulla legittimità di una procedura simile, d’altronde”, nota Mascherin, “è al presidente della Repubblica che spetta l’ultima valutazione”. È la strada di cui ha parlato Orlando nei giorni scorsi: un via libera governativo di fronte al “persistere dell’ostruzionismo”. Il parere tecnico in questione è firmato dall’ordinario di Diritto parlamentare della Luiss Nicola Lupo. Da quanto trapela, la decisione finale del premier Gentiloni è subordinata alla volontà di non mettere il Capo dello Stato Mattarella in una condizione di imbarazzo. La linea di Orlando, insomma, passa a condizione che il sì al decreto non appaia agli occhi del Quirinale come un’insostenibile forzatura. Certo è che con la manifestazione di ieri l’Ucpi e l’intera avvocatura fanno un appello al coraggio: “È appena arrivata una lettera di minacce ad alcuni colleghi penalisti di Civitavecchia, difensori degli imputati in un processo dal grande risalto mediatico”, ricorda in apertura Cesare Placanica, presidente della Camera penale di Roma. “Nella missiva c’era scritto “avete pure il coraggio di difenderli, quelli?”. Ebbene sì, noi il coraggio ce l’abbiano e invitiamo la politica a trovarlo”. L’avvocatura chiede di rompere gli indugi e di sacrificare un minimo di liturgia in modo da portare in salvo la riforma. “Sono convinto che questa battaglia la vinciamo”, ribadisce Mascherin, “e che noi avvocati ne usciremo ancora più forti del nostro ruolo costituzionale, quello di custodi dei valori che una democrazia solidale deve rispettare”. Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Consulta, si spinge anche oltre: “A proposito della riforma, un sociologo molto noto (Nando Dalla Chiesa, ndr) ha scritto su un periodico della polizia penitenziaria che ‘ sotto la veste dei benefici ai detenuti passano messaggi significativi per le organizzazioni mafiose’. Un articolo uscito all’indomani della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato- mafia. Ebbene, io mi sento chiamato in causa dall’accusa di compiere tentativi in grado di favorire la mafia, visto che come avvocato mi batto con orgoglio, davanti alla Corte di Strasburgo, per sostenere l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo. Auguro a me e a voi, amici avvocati, di continuare in questa trattativa a favore dei diritti”. La sfida si fa forte di un’adesione “praticamente totale”, ricorda Migliucci, “alle due giornate di astensione dalle udienze, di cui l’evento qui a Roma rappresenta il suggello”. E lo stesso presidente dei penalisti, pur dopo aver ribadito “il rammarico per un governo e un ministro della Giustizia venuti meno all’impegno preso a metà febbraio, quando Gentiloni promise di emanare subito il decreto”, alla fine dice: “Speriamo che il tentativo di Orlando vada in porto: se continuiamo a segnalare le sue incongruenze è per trasmettere uno stimolo. Noi sappiamo che questo decreto, il più qualificante della riforma penitenziaria, assicura in realtà un controllo giurisdizionale maggiore, nella concessione delle misure alternative, proprio grazie al superamento degli automatismi e alla individualizzazione dei percorsi. Chi dice il contrario”, spiega il presidente dell’Ucpi, “dimostra di non aver letto il testo. E correre dietro a chi ragiona così è inutile: il consenso alla fine premia l’originale, non chi tenta di imitare i populisti” Giustizia, avvocati e magistrati per la riforma: "non è uno svuota-carceri" di Teresa Valiani Redattore Sociale, 4 maggio 2018 Due giorni di astensione dalle udienze e, oggi, manifestazione nazionale a Roma dei penalisti italiani per appoggiare la riforma dell’ordinamento penitenziario. Legnini (Csm): “Chi vuole sostenere tesi contrarie, deve avere la pazienza e l’umiltà di entrare nel merito”. Palma (garante dei detenuti): "Siamo ormai a un punto decisivo". “Abbiamo la convinzione che molte persone questa riforma non l’abbiano letta. L’hanno utilizzata per fare campagna elettorale, ma la campagna elettorale è finita. Va ricordato a tutti che nelle nostre carceri c’è un suicidio a settimana. Che non ci sarà nessuno ‘svuota-carceri’, che le pene di cui si parla sono pene alternative che consentono di avere una minore recidiva. Uno dei momenti di maggiore vergogna che ho provato come cittadino è stato quando l’Europa ci ha richiamato sulle carceri, mettendo in rilievo la disattenzione dell’Italia per gli ultimi”. Due giorni di astensione dalle udienze e una manifestazione nazionale che ha mobilitato i penalisti italiani: è stata questa l’energica risposta dell’Unione Camere penali allo stop subìto dalla riforma dell’ordinamento penitenziario, bloccata sul filo di lana dalla mancata calendarizzazione nell’ordine del giorno della commissione speciale. E nelle parole del Presidente dell’Ucpi, Beniamino Migliucci, tutta la volontà di non retrocedere di un millimetro per sostenere un percorso molto accidentato che ora rischia di non portare a niente. “Condivido totalmente la posizione dell’Unione camere penali su questa materia e la sostengo convintamente - ha esordito nel corso della manifestazione, esprimendo la propria opinione, il vice presidente del Consiglio superiore della magistratura, Giovanni Legnini. Nel nostro Paese, soprattutto in materia di giustizia, spesso e fondatamente ci lamentiamo perché le riforme non sono organiche, di sistema, non sono dibattute sufficientemente in parlamento, non tengono conto dell’apporto degli specialisti e dell’opinione degli operatori sul campo, non tengono conto, spesso, della realtà. Ora invece, ci troviamo davanti a un caso forse unico, sicuramente raro, nel quale tutte quelle obiezioni che storicamente vengono rivolte a un legislatore a volte non attento, non possono essere rivolte in questo ambito. Anzi, in questo caso si è data risposta a tutte quelle obiezioni. Perché questa riforma - prosegue Legnini - è figlia di quell’iniziativa così importante, fortemente voluta dal ministro Orlando, degli Stati generali sull’esecuzione penale. E’ figlia delle battaglie radicali, della giurisprudenza costituzionale, della Corte europea dei diritti dell’uomo ed è il frutto anche dell’apporto di chi quotidianamente affronta i temi dell’esecuzione della pena. Ora, di fronte a un apporto così plurale, approfondito e specialistico, si può obiettare, ed è legittimo che questo accada, che quella impostazione non sia condivisibile. Ma di certo non si deve sostenere che quel pacchetto di disposizioni così prezioso, contenuto nel decreto delegato di riforme, produrrebbe effetti come quelli che sono stati indicati da più parti come "svuota carcere", sul 41 bis ecc. Perché se si vogliono sostenere quelle tesi bisogna avere la pazienza e l’umiltà di entrare nel merito. E nel merito quelle cose lì non ci sono”. “Dobbiamo avere il coraggio - ha spiegato il Garante nazionale di detenuti, Mauro Palma - di riaffermare il principio secondo il quale la privazione della libertà è il massimo della sofferenza che lo Stato è chiamato a dare: e che non si deve aggiungere altro. E’ quello, il senso della pena. Davanti a un vuoto politico e all’incapacità politica di dare nuove parole al senso comune, sono i momenti dei corpi intermedi, delle associazioni professionali e delle istituzioni di garanzia a farsi carico non solo di chiedere provvedimenti che doverosamente sono stati discussi per tempo dal Parlamento, ma anche di costruire culture diverse. C’è bisogno di colmare questo vuoto - sottolinea Palma -. Dal punto di vista normativo, e mi riferisco sempre al primo dei decreti perché trovo che sia legittimo e giusto che sugli altri due le commissioni di competenza di esprimano. E da quello culturale. Perché il vuoto non è mai vuoto: nel frattempo passano luoghi comuni, sensazioni anche un po’ di abbandono in alcuni istituti, che non fanno bene al sistema. Siamo ormai a un punto decisivo e ci sono tre possibili ipotesi, tutte praticabili: la prima, ne ha parlato già il ministro, è quella di considerare i 10 giorni decorsi dal momento della trasmissione. Il primo decreto è stato trasmesso e quindi il Consiglio dei ministri tra poco potrebbe essere nella posizione di emanarlo e non sarebbe una forzatura costituzionale. La seconda, ipotizzata dal presidente della Camera, Fico, è quella che la conferenza dei capigruppo lo assegni alla commissione speciale: in questo caso i 10 giorni ripartirebbero ma sarebbe una sorta di cortesia istituzionale. Nella terza ipotesi, il perdurare della situazione potrebbe anche determinare, nel frattempo, la formazione delle commissioni parlamentari. Ma è l’ipotesi più remota”. “Cosa fare se tutto si ferma? - si è chiesto il presidente Ucpi, Migliucci - Per quanto ci riguarda, noi continueremo a impegnarci da qui fino alla scadenza della delega”. Legnini: testo scritto dai giuristi, assurdo il “no” del Parlamento di Valentina Stella Il Dubbio, 4 maggio 2018 Il vicepresidente del Csm: “sto con gli avvocati”. Palma, Garante dei detenuti: “ora la svolta culturale”. “Come è possibile che la politica si opponga a un intervento sul carcere giudicato con favore sia dai magistrati e che avvocati?”. La domanda di Giovanni Legnini riassume tutta l’insensatezza del no alla riforma penitenziaria. È per questo che il vicepresidente del Csm, dal palco della manifestazione organizzata dai penalisti, non si rassegna all’ostruzionismo delle Camere: “Rivolgo l’appello al nuovo Parlamento affinché esprima al più presto i pareri previsti per consentire al legislatore delegato di completare l’iter. Come avvocato e come uomo delle istituzioni”, ribadisce Legnini, “condivido totalmente la posizione delle Camere penali e dell’avvocatura su questa materia, e la sostengo”. Quanto al Csm, ricorda il vicepresidente dell’organo di autogoverno delle toghe, “ha offerto un punto di vista approfondito ed esplicito, espresso con un parere largamente favorevole in occasione della discussione parlamentare sulla legge delega. Nel nostro Paese, soprattutto in materia di giustizia, spesso ci siamo lamentati del fatto che le riforme non fossero organiche, che non tenessero conto delle opinioni degli operatori del settore, e delle indicazioni degli organi giurisdizionali: ora ci troviamo di fronte a un caso forse unico, comunque raro, in cui queste obiezioni non possono essere rivolte al legislatore. Questa riforma”, ricorda ancora Legnini, “è figlia degli Stati generali dell’esecuzione penale, ma anche delle battaglie radicali, e tiene conto dei principi enunciati dalla Corte costituzionale e dalla Cassazione, nonché della giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’uomo. Di fronte all’apporto così plurale e approfondito si può obiettare che quella ispirazione non è condivisibile, ma di certo non si deve sostenere che quel pacchetto così prezioso di disposizioni produrrebbe effetti come quelli indicati da più parti, anche da qualche fonte magistratuale, pari a quelli di uno svuota- carceri: bisogna avere l’umiltà di entrare nel merito, e nel merito quei problemi non ci sono”. E poi, richiamando alla memoria l’accordo stilato nel luglio 2016 tra il Csm e il Cnf, nato tra l’altro come si legge nell’atto costitutivo - per “conseguire un miglioramento qualitativo dei servizi della giustizia italiana”, Legnini ha concluso chiedendo appunto “alle istituzioni rappresentative com’è possibile che una riforma del genere, condivisa insiene dalla magistratura e dall’avvocatura, improntata a un sistema giudiziario più efficiente, non decolli”. Alla sala convegni di via della Ripetta è intervenuta anche la vicepresidente della quinta e della sesta commissione del Csm, Paola Balducci: “Bisogna fronteggiare questo populismo imperante, questa situazione politica così delicata in cui l’ansia di sicurezza rischia di far accantonare questa riforma. Questa è una battaglia di civiltà e i nostri costituenti con l’articolo 27 ce lo ricordano. Mobilitiamoci per vedere se è possibile chiudere il percorso”. E per farlo, secondo il direttore del Dubbio Piero Sansonetti, occorre “riorganizzare un campo di lotta che non abbia paura di promuovere idee di sviluppo e non di riduzione della Costituzione. La battaglia garantista a favore dello Stato di diritto non porta consensi, tutti sono tentati prima o poi di seguire il vento populista. Ma, assodato che in ogni componente politica c’è una maggioranza o una corrente trasversale garantista, è importante capire come riorganizzare queste forze. In questo l’avvocatura può assumere un ruolo fondamentale”. Ha concordato con lui Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, secondo il quale “nel mondo dei contrari ci sono sensibilità diverse, persino nel Movimento Cinque Stelle. Bene, questo mondo va disarticolato: occorre rompere, ad esempio, l’egemonia di Gasparri in Forza Italia. Qualora il governo dovesse approvare la riforma non vorrei che ci trovassimo in una campagna elettorale dove tutti la usano strumentalmente contro”. In una fase del genere è fondamentale l’operato dei “corpi intermedi che debbono farsi carico non solo dei provvedimenti ma di costruire culture diverse e parole diverse per raccontare la complessità delle carceri”, ha sottolineato il presidente dell’Autorità garante dei detenuti Mauro Palma, che ha aggiunto: “In una situazione di vuoto politico si affermano due parole d’ordine: retribuzione e sofferenza, per cui il carcere deve essere afflizione aggiuntiva. Dobbiamo invece avere il coraggio di riaffermare il principio per cui la privazione della libertà è il massimo della sofferenza che uno Stato è chiamato a dare”. E sul concetto di pena si è concentrata anche Rita Bernardini, coordinatrice della presidenza del Partito radicale: “Il carcere è una realtà di disperazione: lo dimostrano gli atti di autolesionismo dei detenuti e i suicidi. Nelle carceri incontriamo moltissimi tossicodipendenti, malati psichiatrici, poveri delle periferie degradate, i mafiosi sono pochissimi. La cosa più difficile in questo Paese è discutere di giustizia, grandi pro- cessi a parte. Un confronto sulla giustizia che riguarda il cittadino è assente”. Bernardini ha concluso: “Il ministro Orlando, lo scorso 20 febbraio da Strasburgo, diede la riforma come approvata. Tutti sappiamo come è andata a finire. E in gioco ora è la tenuta democratica del nostro Paese in cui un’azione nonviolenta di diecimila detenuti non è stata minimamente presa in considerazione”. Minori e giustizia: diminuiscono reati e ingressi, ma imputazioni più gravi di Teresa Valiani Redattore Sociale, 4 maggio 2018 Furti e reati contro la persona le tipologie più diffuse. Il Capo Dipartimento, Gemma Tuccillo: “Coinvolgere famiglie, istituzioni e comunità non solo nel momento del recupero ma prima, quando le personalità in evoluzione sono esposte al rischio di scelte sbagliate”. Minori e giustizia: diminuiscono i reati e gli ingressi nel circuito penale ma si aggravano le imputazioni. Furti e reati contro la persona tra le tipologie più diffuse in una realtà prevalentemente maschile, in cui le ragazze sono soprattutto di nazionalità straniera e provengono dai Paesi dell’area dell’ex Jugoslavia e dalla Romania, mentre negli ultimi anni, alle nazionalità tipiche della criminalità minorile (Marocco, Romania, Albania e Paesi dell’ex Jugoslavia), tutt’ora prevalenti, se ne sono affiancate altre che hanno contribuito a rendere più complesso il quadro generale. Dai dati di flusso del 2017 del Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità, risulta che i minorenni e i giovani adulti in carico agli Uffici di servizio sociale sono stati 20.466: il 35 per cento dei quali preso in carico per la prima volta nel corso dell’anno ed il restante 65 nei periodi precedenti. Il numero complessivo dei soggetti è risultato in aumento nel 2015 e nel 2016 (+2 e +6 per cento rispetto all’anno precedente), mentre nell’ultimo anno è stata registrata una diminuzione del 6 per cento. Ma come si traducono questi numeri nella gestione quotidiana della giustizia minorile? Il Capo Dipartimento, Gemma Tuccillo, analizza i dati per Redattore Sociale. Sono 13.346, per un terzo stranieri, i minori e i giovani adulti in carico ai Servizi della Giustizia minorile al 15 febbraio 2018. Come si colloca questo dato rispetto all’andamento degli anni precedenti? “Nel complesso - risponde Gemma Tuccillo - si può osservare che a fronte di una leggera diminuzione dei reati e conseguentemente degli ingressi nel circuito penale, si registra una differenza, seppur ancora molto lieve, nelle tipologie di reato che si connotano per maggiore gravità delle imputazioni. Non può dunque parlarsi oggettivamente di un aumento della delinquenza minorile quanto piuttosto di una maggiore ‘disinvoltura’ con cui i giovani pongono in essere condotte devianti anche molto gravi. Questo impone una riflessione approfondita sulle modalità trattamentali, sui programmi di reinserimento, sulla imprescindibilità di coinvolgere famiglie, istituzioni e comunità non solo nel momento del recupero ma prima, nel momento in cui le personalità in evoluzione sono esposte al rischio di scelte sbagliate, troppo spesso per assenza di validi modelli di riferimento o di concrete alternative”. Per quanto riguarda i Servizi minorili residenziali, i dati registrano 1.275 ingressi nei Centri di prima accoglienza, 1.837 nelle Comunità, 1.837 collocamenti e 936 presenti in media ogni giorno. Negli Istituti penali per i minorenni: 1.057 ingressi (939 maschi e 118 femmine, per la metà stranieri) e 464 detenuti presenti in media ogni giorno. Prosegue la diminuzione degli ingressi nei Centri di prima accoglienza (nel 2017 -8 per cento rispetto all’anno precedente), mentre i collocamenti in comunità disposti nel 2017 (escludendo i trasferimenti tra le comunità) aumentano dell’1 per cento rispetto al 2016 con una presenza media giornaliera che segna un + 9 per cento. In diminuzione anche i detenuti negli Istituti penali per minorenni: rispetto al 2016 gli ingressi sono diminuiti del 7 per cento e la presenza media giornaliera del 2. Minori e criminalità organizzata. Recenti orientamenti della procura nazionale antimafia prediligono l’allontanamento dei minori dalle famiglie di origine. Come si coniuga questa necessità con le politiche del dipartimento che tendono a sostenere i legami familiari, considerati primo punto di forza per il reinserimento dei giovani? “Su questo tema - sottolinea il Capo Dipartimento - ritengo anzitutto importante non generalizzare e mai prescindere dalla valutazione del caso concreto cui far corrispondere interventi individualizzati. Del resto interventi limitativi della responsabilità genitoriali sono indispensabili anche in riferimento a contesti particolarmente degradati o di criminalità comune”. Tipologie di reato. I minori dell’area penale sono coinvolti prevalentemente nei reati contro il patrimonio (45 per cento nel 2017) e si tratta prevalentemente di: Furti (circa un quarto del totale con un 23,4 per cento nel 2017, 23,1 nel 2016, 24,1 nel 2012) rapine (9,4 per cento del totale dei reati del 2017, 9,2 nel 2016, 9,7 del 2012) ricettazioni (5,3 per cento nel 2017, 5,5 nel 2016, 4,8 nel 2012) danni (4.3 per cento nel 2017, 4,5 nel 2016, 4,8 nel 2012) estorsioni (2 per cento nel 2017, 1,9 nel 2016, 1,9 nel 2012). La seconda categoria da considerare è quella dei reati contro la persona, che complessivamente raccoglie il 24,3 per cento del 2017 (24,7 nel 2016, 25,4 nel 2012). Si distinguono per frequenza: le lesioni personali volontarie (10 per cento del totale dei reati del 2017, così come nel 2016 e nel 2012) le minacce (3,7 per cento nel 2017, 3,8 nel 2016) le violenze sessuali (1,8 per cento nel 2017, 1,7 nel 2016, 2,1 nel 2012) le percosse (1,3 per cento nel 2017, 1,2 nel 2016, 1,1 nel 2012) le risse (1 per cento nel 2017, 1 nel 2016, 1,3 nel 2012). Il Dipartimento completa l’analisi delle tipologie di reato in cui sono prevalentemente coinvolti i minorenni prendendo in esame: le violazioni legate alle sostanze stupefacenti, costituite prevalentemente dal reato di produzione, traffico e detenzione illecita (10,7 nel 2017, 9,7% nel 2016, 9% nel 2012) i reati di violenza e resistenza a pubblico ufficiale (4,7 per cento nel 2017, 4,5 nel 2016, 3,4 nel 2012) i delitti e contravvenzioni in materia di armi (5,1 per cento nel 2017, 4,9 nel 2016, 4,7 nel 2012). Il ruolo della società civile nella delicata opera di reinserimento: un bilancio delle attività del dipartimento impegnato a fornire sempre maggiori occasioni di incontro tra enti, associazioni e federazioni e le persone in esecuzione penale esterna o i minori. “Istruzione, avviamento al lavoro, sport, teatro, e progetti di inclusione sociale - spiega ancora Gemma Tuccillo - sono certamente i punti di forza del Dipartimento per la prevenzione, in uno con lo studio approfondito delle dinamiche che inducono alla devianza e dei fenomeni più ricorrenti, quali ad esempio, il bullismo, il cyber bullismo, le cosiddette ‘baby gang’, con il coinvolgimento del nucleo familiare, dei servizi territoriali e della società civile ed in costante dialogo con la magistratura minorile”. Un riforma al palo? Infine, un commento sulla riforma del sistema penitenziario che rischia di restare al palo nell’ultimo metro, dopo un percorso travagliato che ha visto anche il coinvolgimento della società civile, con gli Stati generali sull’esecuzione penale. “Auspico - sottolinea il Capo Dipartimento - che possano essere rivalutati i decreti attuativi della delega in materia di ordinamento penitenziario poiché ricchi di importanti novità specie in materia di vita detentiva, misure alternative, giustizia riparativa, e finalmente propositivi di un ordinamento penitenziario minorile da sempre atteso”. Stalking i dispetti e le umiliazioni continue al collega di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 4 maggio 2018 Corte di cassazione - Sezione I - Sentenza 2 maggio 2018 n. 18717. Scatta lo stalking per le continue prese in giro e i dispetti al collega. E se, come nel caso esaminato, il collega ha anche un handicap viene contestata anche l'aggravante. La Corte di cassazione, con la sentenza 18717 respinge il ricorso del “bullo” che si era dato come “mission” quella di umiliare un collega, colpito da un ictus che gli aveva provocato un'invalidità del 50%, motivo per il quale era stato assunto grazie alle quote riservate ai disabili, in una ditta di auto-spurgo. Vasta la gamma di “scherzi” che il ricorrente metteva in atto nei confronti del lavoratore più debole: dall'appendere in bacheca la foto in cui era sporco dopo essere caduto mentre era intento alla manutenzione dell'impianto fognario comunale, agli schizzi di acqua fredda sotto la doccia, fino al finto “furto” della bicicletta nascosta quando l'uomo ne aveva bisogno per andare ad una visita medica. Tutto era teso a ridicolizzarlo proprio per la sua menomazione. La Suprema corte, in una prima pronuncia sul caso, aveva annullato la condanna per stalking, considerando la sentenza della Corte d'appello non abbastanza esauriente per quanto riguardava la configurabilità del reato previsto dall'articolo 612-bis del Codice penale. La Corte territoriale ha ora convinto la Cassazione. Le azioni contestate all'imputato non si potevano considerare “scherzi” sporadici, ma vessazioni e umiliazioni sistematiche che si erano protratte per tutto il tempo in cui l'uomo aveva condiviso con il suo persecutore lo stesso posto. Una situazione che sarebbe stata di grande stress, precisa la Cassazione, per chiunque e non solo per chi si trovava in una condizione di “fragilità” come la vittima. Nello specifico l'uomo aveva sviluppato un grave stato ansioso che lo aveva portato a stare a lungo lontano dal lavoro, fino a quando era arrivato il suo licenziamento, prima di aver maturato la pensione. Per i giudici gli elementi dello stalking c'erano tutti: dal danno, al cambio di abitudini, all'ansia. Né si poteva pensare che la parte lesa avesse un accanimento accusatorio nei confronti dello stalker. I giudici hanno apprezzato la sua pacatezza, la semplicità e lo scrupolo nel non attribuire al collega condotte delle quali non era certo. La condanna per il reato non è esclusa, chiariscono i giudici, dal fatto che la vittima e il persecutore abbiano raggiunto bonariamente un accordo sul risarcimento. Appalti: per dimostrare l’inadempimento non è necessario procedere al collaudo di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 4 maggio 2018 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 3 maggio 2018 n. 19112. Per dimostrare il reato previsto dall'articolo 355 cp, ossia l'inadempimento di contratti di pubbliche forniture, non occorre procedere al collaudo della struttura realizzata, ma è sufficiente che ci sia una relazione redatta dal Rup (responsabile unico del procedimento) che dimostri come nel caso di specie siano stati utilizzati materiali di scarsa qualità e le modalità di esecuzione non fossero a norma. Questa la decisione (sentenza n. 19112/18) della Cassazione con la quale è stato condannato penalmente il socio e presidente del cda della srl appaltatrice dei lavori di ristrutturazione di un ospedale di Milano. Il ricorso - Contro la sentenza di condanna dei giudici d'appello ha proposto ricorso il presidente della società, evidenziando come i giudici di seconde cure avessero ritenuto provato l'inadempimento del contratto d'appalto pubblico con oggetto le opere di forniture edilizie e impiantistiche del progetto di ristrutturazione presso il nosocomio, sulla base di un ragionamento presuntivo basato sulle testimonianze del Rup, del Responsabile dei lavori e in base alla documentazione prodotta dalla parte civile, senza disporre le operazioni di verifica e controllo delle opere eseguite nel contraddittorio delle parti, sebbene obbligatorie e non sostituibili con altra modalità di accertamento. I Supremi giudici, a tal proposito, hanno rilevato che se da una parte il collaudo delle opere pubbliche è quel procedimento mirato a verificare che i lavori oggetto dell'appalto siano stati eseguiti a regola d'arte e secondo le prescrizioni tecniche pattuite nel contratto o oggetto delle eventuali varianti in corso d'opera, allo scopo di verificare la presenza di quelle condizioni per procedere al pagamento dei lavori svolti, dall'altra - si legge nella sentenza - l'articolo 355 cp, ai fini dell'incriminazione, richiede che dall'inadempimento degli obblighi derivanti dal contratto di fornitura concluso con lo Stato sia derivata la mancanza totale o parziale di “cose o opere che siano necessarie a uno stabilimento pubblico o a un pubblico servizio”. Il reato, pertanto, si integra a fronte da una qualunque inosservanza alle obbligazioni contrattuali che si traduca nella mancata fornitura, anche solo parziale, di quanto necessario per il funzionamento e per l'espletamento dell'attività di rilievo pubblicistico del committente pubblico. Situazione quest'ultima che i giudici di merito avevano provveduto ad accertare. In definitiva la Cassazione enuncia il principio secondo cui “in un sistema processuale penale, quale il nostro, nel quale non sono contemplate prove legali e, in assenza nella disciplina positiva della prescrizione di un formale accertamento con collaudo dell'inadempimento rilevante ai fini dell'articolo 355 cp, non v'è materia per ritenere che il giudice penale sia obbligatoriamente vincolato a ritenere integrare detto reato a condizione che l'inosservanza alle obbligazioni di un contratto di fornitura verso l'ente pubblico sia stato accertato mediante un collaudo (negativo)”. Il collaudo non è essenziale - Non è previsto da alcuna disposizione della legge penale-sostanziale o processuale - che il collaudo di un'opera costituisca modalità unica e imprescindibile per accertare l'inadempimento contrattuale ai fini della richiamata incriminazione potendo il giudice trarre la prova e il proprio convincimento dal fatto che l'appaltatore non abbia eseguito quanto si era impegnato contrattualmente a realizzare sulla base di prove raccolte nel corso del processo nel contraddittorio fra le parti. Sul fronte della condanna civile i giudici penali hanno rinviato la questione ai “colleghi” per determinare l'entità del danno morale subito dal nosocomio e segnatamente del nocumento all'immagine derivante dal non poter mettere a disposizione dei cittadini un proprio reparto di degenza chirurgica. In definitiva respinto il ricorso della ditta appaltatrice e condanna al pagamento delle spese processuali. Sardegna: ancora due bimbi detenuti insieme alle mamme L'Unione Sarda, 4 maggio 2018 Ci sono ancora due bambini che, nell'Isola, vivono in carcere con le loro mamme: a rilanciare la situazione, che "genera preoccupazione, ansia e sgomento riproponendo con forza la paradossale situazione in Sardegna dove non viene utilizzata una struttura esistente da 4 anni in grado di garantire uno spazio adeguato a creature in crescita" è Maria Grazia Caligaris, presidente dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme". I piccoli sono nelle strutture di Uta e Bancali. "Consideriamo inaccettabile - dice Caligaris - la presenza di un bimbo italiano a Sassari e uno straniero a Cagliari, soprattutto perché esiste un Icam inutilizzato. Attualmente gli Istituti a Custodia Attenuata per detenute Madri si trovano a Torino, Lorusso e Cutugno (11 posti); Milano San Vittore (10); Venezia Giudecca (8); Cagliari-Senorbì (4) e Lauro (Avellino) (35). In Sardegna però l’Icam, inaugurato nel luglio 2014, non è mai entrato in funzione nonostante disponga di 4 camere". Tutta la situazione, in particolare per il caso della provincia di Cagliari, rappresenta un evidente costo relativo all'impiego di un numero consistente di personale penitenziario femminile; l'attivazione di uno spazio per donne detenute con figli "a 40 chilometri dal carcere del capoluogo" è risultata "inadeguata e impraticabile". Occorre infatti garantire ai bambini, "oltre a una convivenza serena con la madre e adeguate relazioni con altri bambini in asili e/o scuole, le visite pediatriche accompagnandoli in ospedale con la mamma e la scorta". "Insomma - spiega Caligaris - quella di Senorbì è una struttura destinata all’abbandono. Ciò tuttavia non esime lo Stato di farsi carico degli innocenti al seguito della madre che sconta una pena detentiva provvedendo almeno alla realizzazione delle case-famiglia protette che impedirebbero al bambino, quando il reato commesso dalla madre non richiede la pena detentiva, di subire traumi nello sviluppo della sfera emotiva". Lombardia: a Pirellone convegno su violenza sessuale in carceri e su minori Adnkronos, 4 maggio 2018 “Nelle carceri, dove esiste una condizione di sovraffollamento con la Lombardia che vanta il triste primato nazionale del 134,2%, si verificano spesso casi di stupro nei confronti di giovani detenuti, che per paura o per vergogna non denunciano quasi mai. Spesso i casi non vengono denunciati anche perché esiste una omertà che coinvolge tutti: guardie carcerarie e carcerati stessi, oltre alle strutture mediche. Molto alto è anche il rischio di diffusione di gravi malattie infettive come l’Hiv, per cui dobbiamo porre l’attenzione sulla necessità di distribuire preservativi nelle carceri. Ma ancora più prioritario e importante è assicurare la possibilità che i detenuti possano avere rapporti sessuali costanti con i propri partner, come avviene in altri Paesi, facilitando così il mantenimento del legame all’interno del nucleo familiare”. Lo ha sottolineato questa mattina il difensore regionale della Lombardia Carlo Lio, che esercita anche le funzioni di garante dei detenuti, aprendo il convegno ‘Il Silenzio degli Innocenti’ al Belvedere di Palazzo Pirelli, a Milano. Il convegno si è rivelato un’occasione utile per fare il punto della situazione in Italia e in Lombardia sui casi di violenza sessuale ai danni dei minori e per mettere a sistema le procedure giudiziarie e gli interventi sociali e di psicoterapia indirizzati alle vittime a agli autori degli abusi e delle violenze: “Una particolare attenzione merita infine la situazione dei cosiddetti sex offenders, gli autori di reati sessuali che nella cultura carceraria vengono considerati infami e quando entrano in carcere vengono rinchiusi in reparti protetti, isolati dal resto dei detenuti”. In questo campo, ha evidenziato Carlo Lio, “il carcere di Bollate rappresenta un esempio e un punto di riferimento nazionale: qui infatti anche a questa tipologia di detenuti vengono offerte opportunità lavorative, formative e socio riabilitative. In questo carcere i sex offenders seguono un percorso terapeutico annuale in un’unità specializzata, in modo da potere vivere insieme agli altri detenuti e seguire un percorso riabilitativo vero e compiuto”. Lazio: Smeriglio (Regione) “per carceri ancora molto da fare, ruolo Garante preziosissimo" Askanews, 4 maggio 2018 “La presentazione dei dati sullo stato di salute delle carceri laziali, avvenuta oggi ad opera del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà della Regione Lazio, Stefano Anastasia, dimostra ancora una volta il prezioso ruolo del garante e l’importanza della funzione ispettiva. Un occhio competente e attento in grado di aprire le porte del carcere per valutarne la sua efficacia e per valutare la qualità della vita dei detenuti. Un aspetto importante se si ha come stella polare l’art. 27 della Costituzione e quindi il reinserimento sociale delle persone”. Così Massimiliano Smeriglio, Vicepresidente della Regione Lazio. Il rapporto annuale “ci restituisce una situazione ancora critica, in particolar modo per quel che riguarda il sovraffollamento. C’è quindi ancora molto da fare, anche in considerazione del fatto che le Regioni hanno competenze significative in materia di assistenza sanitaria, programmazione di interventi sociali e territoriali, formazione professionale, politiche attive del lavoro, diritto allo studio. Un lavoro già avviato nel Lazio, con molti progetti già in corso volti ad incoraggiare soluzioni alternative al carcere, per tutti quei casi relativi a pene di medio e corto periodo. La Regione Lazio intende infatti procedere su questa strada, nella convinzione che sia in campo una strategia finalizzata a consentire effettivamente a persone che hanno commesso reati minori di uscire più rapidamente dal carcere e allo stesso tempo umanizzare l’istituzione penitenziaria, favorire un effettivo reinserimento nella società, attuare a pieno il dettame costituzionale”. Napoli: in cella si muore anche di Aids, l’ultima vittima a Poggioreale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 maggio 2018 Muore a causa del virus dell’Hiv di cui era affetto da tempo. La tragica vicenda riguarda un detenuto di 44 anni che era recluso nel carcere di Poggioreale. A darne notizia tramite una nota, la sera di mercoledì scorso, è stato il Sindacato autonomo polizia penitenziaria attraverso le parole del segretario nazionale per la Campania, Emilio Fattorello. “Oggi verso le ore 15 e 30 - scrive il Sappe un detenuto muore per morte naturale. Napoletano, definitivo con fine pena al 18 maggio 2025, affetto da Hiv conclamata giunto a Poggioreale da Secondigliano proprio per cure. Nel pomeriggio di oggi un peggioramento repentino delle sue critiche condizioni di salute lo hanno portato alla morte. A nulla sono valsi i tentativi di rianimazione posti in essere dai sanitari dell’Istituto coadiuvati da quelli del 118 giunti sul posto per il trasporto in ospedale”. Con questa ennesima morte siamo giunti, dall’inizio del 2018, a un totale di 35 decessi, tra i quali 13 sono suicidi. L’episodio mette nuovamente in luce la situazione sanitaria delle nostre carceri, in particolar modo la facilità con la quale si contrare l’Hiv durante la detenzione. Secondo alcuni dei dati che emergono dalla ricerca condotta l’anno scorso su un migliaio di persone in 10 carceri italiane nell’ambito del progetto “Free to live well with HIV in Prison” oltre a contrastare lo stigma e a migliorare la prevenzione dell’infezione nelle strutture carcerarie, punta a favorire un mutamento nella gestione dell’infezione e a definire modelli di buone pratiche che possano essere adottati anche in altre strutture, è emerso che uno dei timori infondati dei detenuti di essere infettati è la scarsa igiene, punture di zanzare, resistenza da parte del virus ai disinfettanti. È risultato, però, che si sottostimano i rischi legati a eventuali risse tra detenuti (considerate innocue dal 60 per cento degli intervistati) e allo scambio di spazzolini e rasoi. La ricerca ha messo quindi in luce l’importanza dell’educazione tra pari per fare una corretta informazione sia nei confronti della popolazione carceraria sia della polizia penitenziaria. In questo senso, tra i molti aspetti considerati, l’attenzione si è concentrata sulla disponibilità degli stessi detenuti a diventare “educatori” nei confronti degli altri. Complessivamente il 47,7 per cento la considera una buona idea, dato che tra compagni ci si ascolta più facilmente e ci si capisce di più. Tra i dati emersi va sottolineato anche un dato preoccupante: la limitata fiducia nella terapia per l’infezione da Hiv. Solo il 68% dei detenuti la assumerebbe se si scoprisse sieropositivo. L’originalità del progetto è rappresentata dall’introduzione negli istituti, per la prima volta, dei test Hiv rapidi che, in associazione a un programma formativo allargato anche a personale sanitario e polizia penitenziaria, si sono dimostrati uno strumento di screening valido per la rapidità di risposta, l’immediatezza di esecuzione e la possibilità di realizzare un counselling efficace. Resta il fatto che nelle carceri, l’aids, l’epatite B e quella C sono le malattie più frequenti dove più di un terzo dei detenuti sono portatori dei virus, la metà dei quali ne è però inconsapevole. Le carceri si sono trasformate in luoghi in cui le malattie infettive proliferano più che altrove. A rendere possibile un simile scenario stando a quanto emerso durante ii convegni organizzati dalla Società Italiana di Medicina Penitenziaria - è stato anche il divieto vigente in Italia di far entrare nelle strutture siringhe monouso (da utilizzare per tatuarsi) e preservativi, che rappresenterebbero la prima barriera contro la diffusione delle infezioni. Questa proposta, in realtà, proviene anche dalla Commissione Europea, dall’Organizzazione mondiale della sanità e dalle agenzie Onu che si occupano di Aids e droga. Vibo Valentia: detenuti assunti dal Gruppo Callipo per lavorare in carcere di Nino Amadore Il Sole 24 Ore, 4 maggio 2018 Un occhio ai conti e uno al sociale in quella che ormai è diventata la tradizione della casa. Una casa con 105 anni di storia, quella del gruppo Callipo di Pizzo Calabro in provincia di Vibo Valentia. Un gruppo da 320 dipendenti cui fanno capo le attività della famiglia Callipo (agroalimentare, turismo, sport) e guidato da oltre trent’anni da Filippo Callipo (per tutti Pippo), oggi affiancato dal figlio Giacinto, che si distingue sempre di più per la sua attività e il suo impegno nel sociale. Il gruppo Callipo - che nel 2017 ha registrato un fatturato superiore ai 52 milioni, in crescita del 9% rispetto al 2016 - è protagonista in Calabria di interventi nel sociale in almeno due direzioni: nei confronti dei dipendenti e nei confronti dei detenuti del penitenziario di Vibo Valentia. Alla fine dell’anno scorso Callipo (per il terzo anno consecutivo) ha riconosciuto un premio di produzione di 500 euro a ciascun lavoratore della Giacinto Callipo Conserve alimentari e premi aggiuntivi di 500 euro ai “senatori”, ovvero a quei dipendenti così chiamati perché hanno compiuto 25 anni di servizio: un esborso di 160mila euro, a riconferma di una visione di impresa che fa della politica di welfare un punto fermo della strategia aziendale. Merita attenzione poi un’iniziativa che sta molto a cuore a Pippo Callipo, noto per le sue battaglie contro la ‘ndrangheta e per una regione, la Calabria, libera dal malaffare: quella legata alla convenzione con il penitenziario di Vibo Valentia che ha consentito, in occasione della campagna natalizia, l’assunzione di un gruppo di detenuti. In questa circostanza sette di loro sono stati contrattualizzati per due mesi con il compito di preparare, all’interno del carcere, 10mila confezioni regalo contenenti i prodotti Callipo: confezioni che sono state poi vendute in occasione delle festività natalizie. “Crediamo molto in questo progetto di formazione e lavoro - spiega Pippo Callipo. Un progetto che è stato accolto con entusiasmo e che abbiamo deciso di replicare. Vogliamo trasmettere un messaggio di speranza e di fiducia in un futuro migliore per i detenuti in un’ottica di reinserimento sociale. Ci auguriamo che questo possa diventare una catena virtuosa con il contributo di altre aziende del territorio che come noi credono nella collaborazione sociale”. I detenuti-lavoratori sono stati formati in carcere dal personale del gruppo Callipo con l’obiettivo di trasferire loro le tecniche di confezionamento, ma anche i “valori e le linee guida cui tutti i lavoratori devono attenersi”. Torino: situazione critica nel reparto di psichiatria del carcere “Lo Russo e Cutugno” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 maggio 2018 Visita all’istituto “Lo Russo e Cutugno” di Emilia Rossi, componente del collegio del Garante nazionale. Condizioni inferiori agli standard di decenza e salubrità, muffa, servigi igienici a vista, materassi scaduti e nessun momento di socialità e attività trattamentali. Sono queste le criticità maggiori riscontrate nel reparto psichiatrico del carcere “Lo Russo e Cutugno” di Torino dalla componente del Collegio del Garante Emilia Rossi, con l’ausilio dell’onorevole Bruno Mellano, Garante Regionale del Piemonte, e della Garante del Comune di Torino, Monica Cristina Gallo. Parliamo di un reparto particolare del carcere, chiamato “Il Sestante”. Istituito dalla Asl TO 2 Nord, attraverso il Dipartimento sanitario mentale “Giulio Maccacaro”, collocato nel padiglione A, il reparto è suddiviso in due articolazioni: la Sezione VII che ospita il reparto osservazione, a cui sono destinate persone sottoposte ad osservazione ex art. 112 o. p. provenienti anche da altri istituti e persone in fase acuta o sub- acuta che richiedono assistenza temporanea non terapica, e la Sezione VIII in cui è stato costituito il reparto trattamentale, destinato ad accogliere persone sofferenti di patologia psichica accertata, anche provenienti dalla settima sezione, ed ove si realizzano percorsi di adattamento alla detenzione ordinaria. Durante la visita, la delegazione guidata da Emilia Rossi, ha riscontrato nel Reparto Osservazione che le camere si presentano in condizioni strutturali e igieniche molto scadenti, sporcizia diffusa, prive di doccia e servizi igienici a vista. In alcune camere, i letti risultarono addirittura privi di lenzuola. Solo in 10 stanze risultano istallati televisori funzionanti. La Sezione è fornita di un passeggio, adeguatamente ampio ma privo di copertura a protezione dalla pioggia o dal sole forte. Per quanto riguarda il Reparto Trattamento, invece, le condizioni igieniche sono risultate nettamente migliori: le camere sono tenute in buone condizioni di pulizia e di manutenzione, dotate di bagni separati e arredate secondo gli standard. La qualità di vita detentiva tra le due sezioni, presentano quindi una differenza abissale. Nella relazione sottoscritta dal garante nazionale Mauro Palma si legge che “nella Settima Sezione vige il modello della custodia chiusa e non si pratica alcuna attività trattamentale in ragione dei brevi tempi di permanenza delle persone che vi vengono assegnate che non superano il mese, secondo quanto riferito alla delegazione”, e che “a parte le ore del passeggio e il tempo dedicato ai colloqui con medici ed educatori, le persone detenute in questa Sezione trascorrono la giornata dentro le rispettive stanze”. Ci sono anche delle positività che riguarda l’utilità del reparto psichiatrico. Il Garante sottolinea nella relazione che l’idea dell’assistenza sanitaria psichiatrica articolata tra la fase dell’osservazione e quella del trattamento “ha un indubbio valore positivo, soprattutto perché integrata dalla possibilità del passaggio dall’una all’altra nei casi in cui venga superata la situazione di sintomatologia acuta”. Le note critiche rilevate all’esito della visita specifica riguardano quindi le condizioni strutturali e di manutenzione della sezione VII del Sestante e alla qualità della vita detentiva che vi si trascorre. “La brevità dei tempi di permanenza, peraltro relativa - scrive il Garante -, non pare possa giustificare la sospensione di qualsiasi attività trattamentale e l’esclusione di ogni attività che consenta la socialità, soprattutto con riguardo alla popolazione detenuta proveniente dallo stesso istituto dove, verosimilmente, sono stati iniziati percorsi educativi, di studio, di lavoro o semplicemente risocializzanti”. Altra critica riguarda la mancata conoscenza del ruolo istituzionale del Garante. Emilia Rossi ha riscontrato uno scarsissimo livello di cooperazione da parte della polizia penitenziaria in servizio nella portineria ed era stato reso necessario l’intervento del Provveditore Regionale del Piemonte - Liguria - Valle d’Aosta, Luigi Pagano. Napoli: detenuti contro universitari, è #GuerradiParole sul reddito di cittadinanza Redattore Sociale, 4 maggio 2018 Domani nel carcere di Poggioreale un duello di retorica, a colpi di argomentazioni e contro-argomentazioni, fra detenuti e studenti dell'università Federico II: la sfida è sul reddito di cittadinanza. Terza edizione dell'iniziativa organizzata da Associazione Per La Retorica. Studenti universitari della Federico II da una parte, detenuti del carcere di Poggioreale dall'altra. Tutti impegnati in un duello retorico, una vera e propria #GuerradiParole, che vedrà i protagonisti sfidarsi sul tema del reddito di cittadinanza. Va in scena domani a Napoli (inizio ore 11), nel carcere di Poggioreale, la terza edizione dell'iniziativa organizzata da PerLaRe, Associazione Per La Retorica. La #GuerradiParole è un confronto dialettico che ha l’obiettivo di premiare la squadra maggiormente in grado di difendere la propria tesi con argomentazioni credibili e sintetiche, senza perdere la calma o insultare l’avversario. Un sofisticato esercizio di auto-controllo e di civiltà, che consiste nell’affermare le proprie ragioni solo con lo strumento pacifico della parola. Le gare di retorica hanno l’obiettivo di preparare i partecipanti ad affrontare la vita e il lavoro, contesti in cui è inevitabile confrontarsi con opinioni diverse. Rieti: "Al centro della scena", detenuti e studenti protagonisti sul palcoscenico Corriere della Sera, 4 maggio 2018 Nel teatro della Casa Circondariale di Rieti Nuovo Complesso detenuti e studenti esprimono la loro sensibilità nelle più varie sfumature dell’animo e dei contesti interpersonali e sociali, come valori di crescita, responsabilità e speranza. Il seguito del positivo riscontro delle precedenti edizioni è il sesto anno consecutivo che nel teatro della Casa Circondariale di Rieti Nuovo Complesso, la Sesta Opera San Fedele Rieti, Associazione di Volontariato Penitenziario, realizza il progetto educativo per i detenuti “Al Centro della Scena”. Il programma diretto dagli Assistenti Volontari Benedetta Graziosi e Francesco Rinaldi, si è svolto nel corso di sei mesi con la partecipazione di 31 detenuti, e 12 studenti ed ex studenti nella fase finale del progetto, del Liceo Artistico e del Liceo Linguistico di Rieti. Giovedì 6 maggio la recita finale del progetto educativo di questo sesto anno, “ABC come Amore Bellezza Coraggio : l’alfabeto dei sentimenti e delle emozioni”, un invito ai detenuti e agli studenti alla conoscenza, all’interpretazione delle opere e all’attiva collaborazione nella messa in scena, riflettendo su sentimenti ed emozioni importanti, con l’invito ad una azione di studio, interiorizzazione delle tematiche, recitazione, in cui esprimere la loro sensibilità a partire da testi, forme d’arte, scene di film e canzoni. Si conclude domani, giovedì, un lavoro impegnativo che ha visto amore, bellezza e coraggio, realizzarsi tra difficoltà per l’impegno nello studio e nella interpretazione, superate dalla speranza nella felice realizzazione dello spettacolo finale al quale assisteranno i familiari dei detenuti nel carcere di Rieti. “Premio Goliarda Sapienza”: detenuti e scrittori, una finestra sulla prigione Il Dubbio, 4 maggio 2018 Il 10 maggio cerimonia finale della settima edizione del “Premio Goliarda Sapienza”. Una finestra nella prigione, una finestra sulla prigione. Al settimo anno di attività, il Premio Goliarda Sapienza “Racconti dal carcere” si trasforma e amplia le sue prospettive. La fondatrice e curatrice Antonella Bolelli Ferrera ha voluto che alla gara vera e propria fosse affiancato un laboratorio di scrittura articolato in quindici incontri condotti con il metodo dell’e-learning - ovvero la teledidattica - per un totale di trenta ore di lezione tenute da noti autori della letteratura italiana. Questa sperimentazione è stata approvata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e ha previsto l’allestimento di aule dotate di tecnologia adeguata negli istituti che hanno partecipato: Casa di reclusione di Saluzzo, Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere, Casa di reclusione di Rebibbia e Casa circondariale femminile di Rebibbia. Sessanta i partecipanti che hanno interagito con la scrittrice-editor Cinzia Tani e gli scrittori- tutor Maria Pia Ammirati, Gianrico Carofiglio, Pino Corrias, Serena Dandini, Erri De Luca, Paolo Di Paolo, Nicola Lagioia, Dacia Maraini, Massimo Lugli, Antonio Pascale, Romana Petri, Federico Moccia, Giulio Perrone, Andrea Purgatori, Marcello Simoni. Gli scrittori hanno tenuto il loro dialogo dall’Università telematica eCampus. Spiega Antonella Bolelli Ferrera: “Per le persone detenute partecipanti è stato anche un momento di socialità, perché potevano avere uno scambio tra di loro e con i partecipanti degli altri istituti e gli scrittori all’esterno. Erano entusiasti, interessati. Molti di loro ci hanno chiesto libri da leggere, hanno discusso con noi di letteratura”. Tra i tutor, Erri De Luca e Nicola Lagioia hanno preferito tenere l’incontro all’interno di un istituto, collegandosi da lì con gli altri, per avere un contatto più concreto con i partecipanti. “A Saluzzo - racconta Ferrera - ci aspettavano con trepidazione e i detenuti che facevano i corsi di cucina hanno preparato un rinfresco, emozionatissimi all’idea di conoscere Nicola Lagioia. La partecipazione era volontaria, non tutti hanno un grande retroterra culturale, eppure tutti erano preparatissimi”. Al Salone del Libro di Torino, il 10 maggio, sarà proclamato il vincitore alla presenza della madrina del premio, Dacia Maraini, degli scrittori e giornalisti Pino Corrias, Erri De Luca, Paolo di Paolo, Andrea Purgatori, Nicola Lagioia e del presidente della giuria, Elio Pecora. I sessanta racconti nati dalla penna dei detenuti sono quasi tutti di carattere strettamente autobiografico, “storie incredibili”, commenta la curatrice. I quindici migliori sono diventati finalisti del Premio Goliarda Sapienza. Un’altra novità è che quest’anno la giuria non è composta soltanto da note personalità del giornalismo e della letteratura, ma anche da un nutrito numero di studenti delle scuole superiori, da alcuni gruppi di grandi lettori indicati dalle librerie. Inoltre è stato stipulato un accordo con Vatican News, media partner del premio: gli ascoltatori hanno potuto votare sulla piattaforma della testata e sono stati così numerosi che si è ritenuto necessario creare un premio ad hoc, il Premio Vatican News. A Torino sarà presentata l’antologia Avrei voluto un’altra vita. Racconti dal carcere pubblicata da Giulio Perrone Editore. Il volume curato da Antonella Bolelli Ferrera raccoglierà i quindici racconti finalisti. A proposito del contributo che il concorso può dare alla rieducazione dei detenuti di cui parla l’articolo 27 della Costituzione spiega la curatrice: “Molti dei partecipanti delle scorse edizioni continuano a scrivermi o a farmi chiamare da parenti, segno che l’esperienza è stata positiva. In alcuni casi ho saputo che alcune persone, una volta uscite dal carcere, hanno ricombinato qualche guaio e sono tornate dentro. Ci sono però esempi virtuosi che porto nel cuore. Si tratta di persone, certamente predisposte, che il concorso ha aiutato, perché poi, continuando a scrivere, a leggere, hanno intrapreso un percorso di consapevolezza e autocritica”. Edoardo Albinati. “Bene la scrittura, ma io dico: reclusione è imbarbarimento” Il Dubbio, 4 maggio 2018 “All’esterno si potrebbe pensare che il carcere sia un posto piacevole, dove si fanno il teatro, il cineforum. Così com’è la detenzione nel nostro Paese è del tutto non educativa”. Edoardo Albinati fa parte della giuria del Premio Goliarda Sapienza e insegna lettere in carcere, a Rebibbia. Che cosa può significare per le persone detenute la scrittura? Da una parte c’è un’attività che sia le persone detenute sia quelle libere svolgono: scrivere. Cosa diversa è la scuola che nel carcere è strutturata come nel mondo esterno. Nell’istituto tecnico- informatico in cui insegno faccio, appunto, il professore di lettere: spiego la grammatica, la Divina Commedia, e così via. Come professore di lettere sono chiaramente più vicino al tema della scrittura rispetto agli altri colleghi, per cui mi è successo di avere studenti che se la cavavano a scrivere ed erano buoni lettori. E al di là della scuola? L’attività dello scrivere narrativa o poesia è molto individuale. Avendo partecipato a molti di questi premi di prosa o di poesia, penso che se si riesce a “evadere” almeno un poco dallo stretto tema carcerario - che può diventare soffocante, ripetitivo, anche perché la vita carceraria è il contrario della varietà, è la monotonia - allora capita di leggere testi interessanti. In generale la scrittura è una delle pochissime attività disponibili, perché chiunque può praticarla, anche se all’interno di una cella dove si sta in quattro o sei, nei ritagli di tempo. Ritagli? In realtà la vita del detenuto è molto povera di tempo. È una routine molto impegnativa che fa sì che uno divida la propria giornata tra la cella, la socialità, l’aria, gli avvocati. Nella cella gli spazi spirituali e individuali sono molto ristretti. Se uno ha le forze di ricavare in tutto questo bailamme di rumori, odori e faccende, uno spazio per scrivere, anche solo un diario o una lettera, non c’è dubbio che svolga una delle poche attività umane possibili in carcere. È un’attività che io consiglio di svolgere comunque ai miei studenti, anche se non ci sono scopi letterari. Questo rientra in quello scopo rieducativo di cui parla l’articolo 27 della Costituzione? No, non rieducativo, semplicemente riflessivo. Scrivere una lettera non è rieducativo, ma ti costringe a un poco di concentrazione, a esprimere te stesso. La realtà carceraria non ha nulla né di educativo né di rieducativo. La scuola potrebbe avere in parte questo ruolo ma preferisco sempre parlare di “istruzione”. L’educazione la danno i genitori, quando la danno. Alcuni dei racconti che saranno pubblicati non parlano della vita carceraria. La scrittura aiuta a uscire dalle sbarre? È interessante anche la scrittura esperienziale, ma rischia di essere ripetitiva. Mentre è differente, quando si lascia spazio all’immaginazione, alla fantasia, o quando si raccontano episodi della vita libera. Spesso i detenuti, prima di essere carcerati, hanno vissuto una vita spericolata, se riescono a raccontarla può essere coinvolgente. Per loro, però, capita sia difficile, perché narrarla a volte significa rivelarsi, in un certo senso anche autoaccusarsi, se si tratta di una vita delinquenziale. C’è una certa cautela se si è fatta una vita fuori dalla legge, è una difficoltà oggettiva. Lei ha insegnato anche nelle scuole ordinarie. Quali sono le risorse particolari della scuola in carcere, in cosa si differenzia dalle altre? La differenza fondamentale, anche se può sembrare strano che sia solo questa, consiste nell’insegnare a persone adulte, come in una scuola serale. Sono adulti che spesso hanno alle spalle una vita intensa, difficile, avventurosa, hanno fatto tutto e il contrario di tutto. Gli svantaggi sono logistici: ci si trova in celle e non in aule scolastiche, fa molto freddo, i detenuti sono legati anche agli impegni giudiziari, per esempio, quindi possono doversi assentare per dei processi. È stimolante avere nella stessa classe persone di provenienza, istruzione di lingua molto diverse. Bisogna tentare un discorso che possa coinvolgere tutti. Un lato positivo è che non ci sono le famiglie, che guastano la vita dell’insegnante nel mondo esterno. Inoltre non ci sono telefonini né altre interferenze esterne. È chiaro, poi, che parlare di Machiavelli a un uomo che ha vissuto, ha conosciuto e ha praticato la violenza è più significativo che parlarne a un ragazzino di 15 anni. I grandi temi della vita sono stati vissuti. In questo periodo quanti ne segue? Essendo quasi la fine dell’ano scolastico sono rimasti in pochi. Si parte con classi molto affollate, anche di 20 o 30 persone, che poi si rimpolpano e si riducono a secondo delle vicende di ciascuno. Lei tende ad affezionarsi o a mantenere un distacco? C’è una giusta misura. Non si può familiarizzare troppo, altrimenti si finisce per diventare come degli assistenti sociali, dei confessori, o delle mamme surrogate. È inevitabile però che ci sia una vicinanza con persone con cui passi magari due o tre anni. Il fatto che siano adulti rende più simile, pur nella diversità, la tua esperienza alla loro. Ci sono dei temi comuni: delusioni, speranze, frustrazioni, il tempo che passa. Non credo però nell’empatia totale, perché sarebbe rischiosa per tutti. Spesso si è di fronte a persone dai caratteri o molto forti o molto deboli. Ci sono tante iniziative legate alle attività artistiche in carcere. Non si rischia di andare alla ricerca della “verità” sostituendo la vita all’arte? No, non è questo il rischio. Ce n’è un altro: quello di far pensare all’esterno che il carcere sia un posto piacevole, dove si fanno il teatro, il cineforum. Le iniziative, benvenute e sacrosante, sono sporadiche. Non devono far dimenticare la vita della cella, l’imbarbarimento quasi inevitabile della reclusione. Per qualche singolo individuo queste attività possono rappresentare una strada, come è stato per alcuni attori degli spettacoli di Fabio Cavalli. Ci sono esperienze positive, ad esempio un mio studente che si sta per laureare in ingegneria. Però si tratta di eccezioni in un panorama che resta desolante. Il suo giudizio finale sul carcere non è positivo? Come potrebbe esserlo? È una punizione. E non può essere un percorso di rinascita? No, non è un percorso di niente. Magari non si trova nulla di meglio, ma è un modo per mettere fuorigioco persone che hanno fatto del male alla società. Che crei un effettivo miglioramento delle condizioni delle persone che ci finiscono dentro è fuori di discussione che accada. Sia detto una volta per tutte. E io non sono un abolizionista del carcere, perché non ho idea di cosa si potrebbe creare di diverso dalla detenzione, ma so che così come è nel nostro Paese è del tutto non educativa, non rieducativa. Chi entra ha buone probabilità di uscire peggiore. Erri De Luca. “Una mia previsione? Spero che le carceri diventino musei” Il Dubbio, 4 maggio 2018 “La Costituzione è un pezzo di Carta molto nobile, ma solo a tratti, in alcuni Istituti, in alcune esperienze penitenziarie, si riesce a far sentire una responsabilità di lavoro, d’impegno, ai detenuti”. Erri De Luca, scrittura e libertà: un binomio efficace dentro le carceri? In principio direi “lettura e libertà”. Una persona che sta in prigione quando si mette un libro sotto il naso sta cancellando le sbarre e tutta la cella intorno, si sta facendo portare da un’altra parte. La lettura in carcere è un potentissimo strumento di sospensione della pena. A lungo andare si trasforma anche in una fornitura di vocabolario preciso che può raccontare l’esperienza di una vita, dei torti commessi o subiti, con delle parole più precise di quelle di cui si disponeva prima di cominciare la lettura. E sulla scrittura cosa può dirci? Quando le persone in carcere scrivono, scrivono di loro, della loro esperienza, di quel che hanno conosciuto. Per questo hanno una presa diretta sul lettore che è molto più forte, almeno per me lettore, di quella di chi sta inventando storie, elaborando personaggi e trame. Nell’ambito del Premio Goliarda Sapienza, lei ha tenuto una delle lezioni come tutor? “Lezioni” è una parola esagerata, per lo meno nel mio caso. Ho tenuto compagnia per un paio d’ore a delle persone. Sono loro che impostano il dialogo con l’invitato, sono loro che dirigono l’incontro, dando la linea, la marcia, che definiscono gli argomenti che li interessano. Lei è uno scrittore per cui l’impegno è molto importante. Ha avuto altre occasioni di entrare in contatto con l’universo carcerario? Sì, sono da molto tempo un frequentatore, invitato. Da cittadino prendo degli impegni che riguardano argomenti e temi della società in cui vivo. Come scrittore semplicemente sono uno che racconta storie. Non sono uno scrittore impegnato, ma un cittadino che ogni tanto prende degli impegni. Uno dei fini del carcere dovrebbe essere quello rieducativo. Lei pensa che riesca davvero ad adempiere questo compito così nobile? Non è nobile, è costituzionale. Ciò detto, la Costituzione è un pezzo di carta molto nobile. Solo a tratti, in alcuni istituti, in alcune esperienze penitenziali si riesce a far sentire una responsabilità di lavoro, d’impegno, ai detenuti. Le condizioni di oggi sono comunque meno diseducative di come lo erano prima. Lo si vede sulla base della recidiva. Le carceri che funzionano meglio dal punto di vista del coinvolgimento del detenuto in attività, in studi, in laboratori, hanno un indice di recidiva basso. C’è stato un fiorire importante d’iniziative culturali per le carceri, attività che hanno goduto anche di una buona visibilità. Non pensa che a volte questo possa far sì che si mitizzi il mondo del carcere e si nasconda “la polvere sotto il tappeto”? Il carcere è una segregazione. Solo che a lungo è stata una segregazione da tutto il resto della società. Queste attività, per esempio il Premio Goliarda Sapienza, voluto da Antonella Ferrera da molto tempo, hanno reso più porose le mura del carcere, più permeabili a quello che succede fuori, e hanno fatto sì che si conosca meglio quello che succede dentro. Queste iniziative fanno circolare ossigeno dentro quelle mura e lo trasmettono anche al resto della società esterna. Convincono persone come me, come altri, a occuparsene. Leggendo le sinossi dei racconti che saranno pubblicati dalla Giulio Perrone Editore, ci si rende conto che spesso siamo di fronte a storie di vita. Alcuni testi però vanno al di là dell’esperienza vissuta, del carcere. Cosa significa secondo lei? Questo dimostra il passaggio dall’autobiografia al racconto vero e proprio. C’è un tentativo di scrittura, di porsi come narratore e non semplicemente come relatore e redattore della propria esperienza. Comunque fa bene alla salute scrivere in prigione. Di solito l’attività che si fa più spesso consiste nello scrivere lettere. Il carcere è l’ultimo posto della nostra società in cui le comunicazioni avvengono ancora via lettera. In attesa della premiazione del 10 maggio al Salone del Libro di Torino, qual è l’augurio che vuole dare alle persone che partecipano al concorso Goliarda Sapienza? Ho inventato una formuletta. Di solito si dice: “Sono finito in carcere”. Attraverso questa scrittura si può rovesciare la frase e affermare: “Sono cominciato in carcere”. C’è un errore di grammatica, ma la formula vuole dire che quell’esperienza non è un tempo perso della propria vita, bensì un tempo di rimpasto e di riavvio della propria esistenza. Sul futuro della politica carceraria che idea ha? Alla lunga le carceri saranno abbandonate. Diventeranno dei musei. È una speranza? È una mia previsione. Parlamento europeo: “I minori non devono essere detenuti per fini di immigrazione”. migrantesonline.it, 4 maggio 2018 “I minori non devono essere detenuti per fini di immigrazione” e la Commissione europea dovrebbe agire contro gli Stati membri dell’UE “in caso di detenzione prolungata e sistematica dei minori e delle loro famiglie”, ha dichiarato il Parlamento in una risoluzione non legislativa approvata per alzata di mano. Secondo gli ultimi dati dell’Agenzia UE per i diritti fondamentali nel settembre 2016 la Bulgaria era il Paese con il maggior numero di bambini migranti detenuti, mentre in Grecia, Ungheria, Polonia e Slovacchia se ne registra ugualmente un numero elevato. Nessun minore invece è stato trattenuto nei giorni in cui sono stati effettuati controlli in loco a Cipro, Danimarca, Estonia, Germania, Italia, Irlanda, Malta, Spagna o Regno Unito. Secondo le stime, sono 5,4 milioni i bambini migranti che vivono in Europa, rileva la risoluzione. Si tratta di 1 bambino migrante su 6 nel mondo (dati Unicef). Quasi la metà di coloro che sono arrivati negli ultimi anni erano bambini non accompagnati o separati dalla propria famiglia. I deputati sottolineano che la mancanza di informazioni affidabili e la lunghezza del ricongiungimento familiare e delle procedure di nomina dei tutori, nonché il timore di essere detenuti, rinviati o trasferiti, si traducono molto spesso nella fuga dei bambini, che vengono così esposti alla tratta, alla violenza e allo sfruttamento. Il Parlamento esorta le autorità nazionali ad accelerare le procedure per la nomina di tutori per i minori non accompagnati, i quali dovrebbero essere poi ospitati in strutture separate da quelle degli adulti, al fine di evitare qualsiasi rischio di violenza e abuso sessuale. I deputati chiedono sia data priorità al trasferimento di minori non accompagnati dalla Grecia e dall’Italia, ma anche che tutte le procedure pendenti di ricongiungimento familiare siano portate a termine senza ritardi. Il Parlamento sottolinea l’importanza di istituire un solido sistema di identificazione e registrazione per garantire che i minori entrino in sistemi di protezione nazionali. Richiede inoltre una maggiore cooperazione tra le autorità preposte all’applicazione delle norme e alla tutela dei minori per individuare e proteggere i bambini scomparsi. I deputati sono particolarmente preoccupati per lo sfruttamento delle ragazze a fini di prostituzione e chiedono agli Stati membri di intensificare gli sforzi e la cooperazione transfrontaliera per identificare i minori vittime di tratta, abuso e ogni altra forma di sfruttamento. Per quanto riguarda le procedure di verifica dell’età, la risoluzione sottolinea che le visite mediche dei bambini dovrebbero sempre essere effettuate “in modo non invadente e nel rispetto della loro dignità”. Il Parlamento ha inoltre respinto l’uso della coercizione per l’acquisizione di dati biometrici dei bambini. Il prezzo della libertà di stampa, 530 giornalisti uccisi in 5 anni Il Manifesto, 4 maggio 2018 World Press Freedom Day. L’Unesco: minacce, incarcerazioni e torture per chi denuncia corruzione e malaffare. Chi vede nel loro lavoro un pericolo pur di farli tacere, impedirgli di indagare e denunciare malaffare e corruzione è pronto a tutto: metterli in prigione, torturarli, ma anche rapirli. Senza esitare ad uccidere, se necessario, facendoli sparire per sempre nel nulla. Solo negli ultimi cinque anni, dal 2012 al 2017, sono stati 530 i giornalisti uccisi nel mondo, in un’escalation continua di violenze. La denuncia arriva dall’Unesco che ieri, in occasione della 25esima giornata per la libertà di stampa, ha pubblicato due report in cui vengono riassunte le condizioni spesso proibitive in cui in molte parti del mondo chi fa informazione è costretto a lavorare. Quattro i fattori dei media presi in esame: la libertà, l’indipendenza, la sicurezza e la pluralità, ponendo l’accento anche sulla facilità o meno di poter accedere alle informazioni. E le conclusioni a cui giunge l’Unesco sono preoccupanti: “Il giornalismo è sotto attacco”, denuncia infatti l’organismo dell’Onu, e se il pubblico che ha accesso alle informazioni è oggi più ampio rispetto al passato, sono cresciute anche le occasioni per diffondere odio e false notizie, elementi che portano con loro la diminuzione della libertà di espressione e di conseguenza della libertà di stampa e che spesso - denuncia sempre l’Unesco - finiscono per avere come esito l’omicidio di chi si batte per la ricerca della verità. Certo non mancano anche dati positivi come il fatto che quasi la metà della popolazione mondiale (il 48% nel 2017 contro il 34% nel 2012) può accedere ad internet, mentre sempre più Paesi hanno adottato leggi sulla libertà di stampa (passando dai 90 del 2012 ai 112 nel 2016) ma parallelamente sono aumentati anche gli attacchi dei governi contro i giornalisti che controllano il loro operato. Attacchi che si concretizzano anche nella chiusura di siti internet (sono stati 18 nel 2015 e 56 nel 2016). Oppure in campagne contro giornalisti sgraditi, come accaduto in Italia da parte del M5S che più volte ha reso noti i nomi dei professionisti sgraditi al movimento. Una delle zone più pericolose al mondo per i giornalisti è l’America latina. L’Ipi, l’International press institute, denuncia come maggiormente a rischio sia chi svolge inchieste sul narcotraffico e la corruzione politica, ma anche l’alto grado di impunità del quale gode chi uccide un giornalista. L’Unicef e il Guillermo Cano Word press Freedom Prize (dedicato al giornalista colombiano ucciso nel 1986) hanno deciso quest’anno di premiare il fotoreporter egiziano Mahmoud Abu Zeid, in carcere in Egitto da cinque anni con accuse pesantissime soltanto per aver svolto il proprio lavoro. La Turchia, la più grande prigione al mondo per i giornalisti di Riccardo Noury Corriere della Sera, 4 maggio 2018 In occasione della Giornata mondiale per la libertà di stampa, molti giornalisti turchi hanno preso la parola per denunciare il clima di paura che circonda chi fa informazione in Turchia. Zehra Dogan, artista e direttrice dell’agenzia di stampa curda JINHA, composta da sole donne e chiusa nell’ottobre 2016, sta scontando una condanna a quasi tre anni di carcere per i suoi disegni e suoi scritti. Dalla prigione di Diyarbakir ha mandato questo messaggio: “Sono in prigione ma non sono prigioniera. Ogni giorno stiamo dimostrando che l’arte e il giornalismo non possono finire in carcere. Continueremo a lottare e a dire che ‘il giornalismo non è un reato’ fino a quando tutti i giornalisti non saranno liberi”. Çagdas Kaplan, direttore del portale online Gazete Karinca, ha detto: “Lavorare sotto la costante minaccia di essere arrestati e condannati rende la vita estremamente difficile, ma il giornalismo è la nostra professione e dobbiamo portarla avanti. C’è una verità ampiamente visibile in Turchia, ma c’è anche il tentativo di nasconderla alla società. Qualcuno deve parlarne e questo è quanto cerchiamo di fare”. Questo è il messaggio di Hakki Boltan, dell’Associazione dei liberi giornalisti, chiusa nel novembre 2016: “La Turchia è diventata una prigione per i giornalisti. Quando l’Associazione è stata chiusa, avevamo 400 iscritti: 78 di loro oggi sono in carcere. L’unico modo di cambiare le cose è che i giornalisti di ogni parte del mondo stiano dalla nostra parte in solidarietà”. Murat Sabuncu, direttore del quotidiano di opposizione Cumhuriyet, che il 25 aprile è stato condannato a sette anni e mezzo per “terrorismo”, ha dichiarato: “Amo il mio paese e il mio lavoro. Voglio la libertà in Turchia e nel mondo, non per me stesso ma per tutti i giornalisti in carcere e il solo modo di ottenere questo risultato è attraverso la solidarietà”. Dal fallito colpo di stato del luglio 2016, in Turchia è in corso un tentativo di porre fine al giornalismo indipendente. Oltre 120 giornalisti sono finiti in carcere per inesistenti accuse di “terrorismo” e almeno 180 mezzi d’informazione sono stati chiusi. Il paese è diventato la più grande prigione al mondo per i giornalisti, alcuni dei quali sono stati condannati all’ergastolo solo per aver fatto il loro lavoro. Nella classifica della libertà di stampa di Reporter sans frontières, la Turchia è al 157° posto su 180. E la prossima settimana, col verdetto del “processo Zaman”, potrebbero esserci altre dure condanne. Per far conoscere al mondo la situazione dei giornalisti in Turchia e sollecitare espressioni di solidarietà nei loro confronti, è nata la campagna #FreeTurkeyMedia, diretta da Amnesty International col sostegno di PEN, Reporters sans frontières, Article 19, Committee to Protect Journalists, Index on Censorship e altre organizzazioni. La campagna chiede alle persone di esprimere sostegno pubblicando un “selfie” con un cartello contenente la propria firma e l’hashtag #FreeTurkeyMedia. Insieme a decine di giornalisti, compresi i tre giornalisti di al Jazeera che hanno trascorso oltre 400 giorni nelle carceri egiziane, hanno aderito molte celebrità tra cui l’artista Ai Weiwei, la scrittrice Elif Shafak, l’attore Ross Kemp e tanti disegnatori che stanno postando su Twitter le loro opere.