La riforma non si può fermare di Glauco Giostra* Il Dubbio, 3 maggio 2018 Riforma del carcere, la legge delega non prevede l’ostruzionismo del Parlamento. Sui contenuti della riforma penitenziaria non mette più conto tornare: ormai si è capito che i suoi detrattori lo sono “a prescindere”. Meno inutile è occuparsi del problema procedurale. La riforma è rimasta ferma all’ultima stazione prima del capolinea legislativo. Ma la legge delega non prevede l’ostruzionismo del Parlamento. Sui contenuti della riforma penitenziaria non mette più conto tornare: ormai si è capito che i suoi detrattori lo sono “a prescindere”, il dato normativo li lascia indifferenti. Nessuno può impedire loro di ravvisarvi, con visionarie intuizioni fuori dalla portata dei comuni giuristi, pericoli esiziali per la sicurezza e per lo Stato di diritto. Come nell’indimenticabile Natale in casa Cupiello, comunque si dovessero allestire le figure normative nel presepe della riforma, costoro, gettando appena uno svogliato sguardo, sentenzierebbero: “‘o presepe nun me piace”. Quando ci spiegheranno con argomenti possibilmente giuridici dove si anniderebbero i rovinosi rischi proveremo sommessamente a rispondere. Meno inutile è occuparsi del problema procedurale. La riforma è rimasta ferma all’ultima stazione prima del capolinea legislativo. Questo lo stato dell’arte. Il governo ha già presentato alla Camere uno schema di decreto che attua soltanto una parte, ancorché qualificante, del complesso progetto di riforma imbastito dalla delega. Nei quarantacinque giorni di tempo previsti le competenti Commissioni parlamentari hanno espresso i loro pareri. Non avendo recepito tutte le osservazioni in essi contenute, il governo ha ritrasmesso - come vuole la delega - la versione aggiornata dello schema di decreto legislativo alle Camere per consentire loro di emettere il secondo e ultimo parere. La transizione dal vecchio al nuovo Parlamento ha complicato l’espletamento di questo passaggio: la trasmissione è infatti avvenuta il 20 marzo, cioè proprio alla vigilia dell’insediamento delle nuove Assemblee legislative. La legge di delega (art. 1 comma 83) stabilisce che i pareri definitivi delle Commissioni competenti siano “espressi entro il termine di dieci giorni dalla data della nuova trasmissione” e che, “decorso tale termine, i decreti possono essere comunque emanati”. Teoricamente, quindi, il governo sarebbe stato legittimato ad emanare la riforma sin dal 30 marzo. Non v’è dubbio, peraltro, che procedere in tal modo avrebbe significato ignorare inaccettabilmente l’insormontabile difficoltà che aveva il Parlamento a esprimere i previsti pareri, dovendo il già ridottissimo termine di dieci giorni essere ulteriormente diviso tra vecchia e nuova composizione (le attuali assemblee legislative si sono insediate il 23 marzo). È altrettanto innegabile, però, che l’atteggiamento di un Parlamento che protraesse indefinitamente l’emanazione dei propri pareri non assegnando alle Commissioni speciali il relativo compito e pretendendo un conseguente stand by della riforma, di fatto trasformerebbe l’esercizio del potere legislativo delegato, di cui è esclusivo titolare il governo, in un atto a codecisione obbligata. Un tale comportamento violerebbe lettera e spirito della Delega. La lettera, perché la disposizione sopra richiamata individua il dies a quo da cui far decorrere i dieci giorni nella trasmissione alle Camere, e non già nell’assegnazione alle Commissioni ritenute competenti. Lo spirito, perché, prevedendo che decorso il termine di dieci giorni “i decreti possono essere comunque emanati”, la Delega non contempla la possibilità che il Parlamento impedisca o ritardi l’esercizio del potere legislativo che ha conferito al governo. Se il Parlamento si fosse voluto attribuire un discutibile potere di interdizione, avrebbe previsto nella delega che l’Esecutivo non potesse emanare i decreti legislativi senza aver ottenuto il parere dalle Commissioni parlamentari, mentre vi ha stabilito, correttamente, che può emanarli “comunque”. Sarebbe stato fortemente auspicabile che le Camere assolvessero il loro dovere istituzionale emanando i prescritti pareri; in difetto, però, il governo ha la responsabilità politica e la legittimazione giuridica di non mandare al macero una riforma che attua la Costituzione, scongiurando ulteriori, ustionanti condanne da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo *Presidente della Commissione per la riforma dell’Ordinamento penitenziario Riforma carceri, scioperano i penalisti. Orlando: ma il testo può andare avanti di Sara Menafra Il Messaggero, 3 maggio 2018 Uno sciopero al fotofinish, per spingere il governo a fare il passo decisivo sulla riforma penitenziaria, quello che finora non ha voluto compiere. Durerà anche tutta la giornata di oggi, l'astensione degli avvocati penalisti che chiedono al parlamento o palazzo Chigi di dire l'ultimo sì alla riforma delle carceri che dovrebbe migliorare le condizioni di vita dei detenuti, ampliando gli spazi di vita comune e l'uso delle pene alternative al carcere: a Roma le camere penali hanno organizzato un convegno che durerà tutta la giornata, con la partecipazione del vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, a Milano ci sarà un flash-mob sulle scale del Palazzo di giustizia. “Non è facoltà della politica disattendere quello che la Costituzione prevede con chiarezza”, dice il presidente del Consiglio nazionale forense, Andrea Mascherin: “Tutti gli indicatori di cono che chi accede alle penale alternative torna a delinquere in percentuali radicalmente più basse di chi invece è entrato in galera, il governo concluda il suo mandato avendo il coraggio di contraddire i populisti”. L'adesione ieri è stata particolarmente alta, specie a Milano dove sono slittati il processo all'ex vice presidente della Regione Lombardia Mario Mantovani e quello sul presunto rapimento della modella inglese Chioe Ayling. Segnali positivi ne sono arrivati, dice il presidente dell'Unione delle Camere penali. Beniamino Migliucci. Il riferimento è all'apertura da parte del presidente della Camera, Roberto Fico, che ha fatto appello alla "Commissione speciale" perché discuta il decreto, dando l'ultimo ok. “A noi ha fatto piacere, perché in questi mesi sull'argomento si è scatenata una battaglia populista - aggiunge Migliucci - invece con questa riforma non escono ne ladri, ne mafiosi ne terroristi. C'è solo il giudice che valuta caso per caso se un detenuto ha compiuto miglioramenti e può accedere alle misure alternative”. A sbloccare la situazione potrebbe essere il governo, ovviamente. Anzi, il Ministro della Giustizia Andrea Orlando ha già chiesto che il prossimo consiglio dei ministri sblocchi definitivamente il decreto legislativo, visto che i tempi tecnici in cui il Parlamento non ha dimostrato la volontà di agire per modificare il testo sono già scaduti. Secondo la legge 103, “i pareri definitivi delle commissioni sono espressi entro 10 giorni dalla nuova trasmissione”. Non è chiaro se Gentiloni recepirà l'indicazione. Già subito prima delle elezioni, sebbene la riforma sia stata promossa proprio dal governo, palazzo Chigi aveva preferito frenare per placare la polemica su un testo destinato ad ampliare l'accesso alle misure alternative, alle forme di pena “riparatorie” e a regolamentare diversamente la vita carceraria. Carceri, riforma ancora bloccata. I penalisti: “la politica se ne occupi al più presto” Il Fatto Quotidiano, 3 maggio 2018 Manifestazioni in programma in tutta Italia. A Milano slitta il processo all’ex vice presidente della Regione Lombardia Mario Mantovani e salta il giudizio sul presunto rapimento della modella inglese Chloe Ayling. Due giorni di scioperi degli avvocati penalisti contro la mancata approvazione della riforma sull’ordinamento penitenziario e la scelta delle Commissioni speciali parlamentari di non occuparsene. Mentre il Parlamento non decide e nonostante siano già scaduti i 10 giorni in cui gli organi avrebbero dovuto esprimersi, ancora non si ha notizia del provvedimento. Sul tema lo stesso presidente della Repubblica Sergio Mattarella era intervenuto per chiedere alle Camere, vittime delle stallo politico di queste settimane, che non accantonassero il decreto. Anche per questo l’Unione della Camere penali ha deciso di proclamare la mobilitazione nazionale e, tra le varie iniziative, il 3 maggio ci sarà una manifestazione a Roma e un flash mob sulle scale del Palazzo di Giustizia di Milano. La protesta è stata decisa dalle Camere Penali del Distretto della Corte d’Appello di Milano: “Si tratta di una riforma fondamentale che cerca di dare piena attuazione al principio costituzionale del finalismo rieducativo della pena”, sostengono gli avvocati milanesi”. E l’urgenza di approvarla, sostengono, è confermata dall'aggravarsi della situazione di sovraffollamento carcerario, anche nel Distretto di Milano, come dimostra la recente morte di un detenuto nel carcere di Busto Arsizio”. Intanto oggi, a causa dello sciopero, a Milano è slittato il processo all’ex vice presidente della Regione Lombardia Mario Mantovani e altre 12 persone accusate a vario titolo di corruzione, concussione e turbativa d’asta. A segnalarlo è stata l’agenzia Ansa che ricorda, è saltato anche il giudizio sul presunto rapimento della modella inglese Chloe Ayling. A difendere lo sciopero e a chiedere che ci sia al più presto un intervento della politica nel merito è stato il presidente dell’Unione delle Camere penali Beniamino Migliucci: “Il presidente della Camera Roberto Fico, ha dichiarato, “nei giorni scorsi ha fatto una apertura che abbiamo apprezzato dicendo “ne discuta la Commissione Speciale”. Il ministro Orlando ha avanzato al governo la richiesta di procedere comunque. Due possibilità per sbloccare la situazione, nessuna però si è avverata. La nostra manifestazione serve a chiedere alla politica di provvedere in un modo o nell’altro”. Fico era stato invitato alla manifestazione del 3 maggio, ma non potrà esserci per impegni istituzionali. “Fico ci ha fatto però sapere che apprezza la nostra riflessione”, ha concluso. La mobilitazione degli avvocati per spingere la riforma di Valentina Stella Il Dubbio, 3 maggio 2018 Iniziative anche nei singoli distretti: a Milano la Camera penale ha indetto un flash mob di protesta per oggi alle 13, sulle scale del palazzo di giustizia. La riforma dell’ordinamento penitenziario è ancora in bilico. Dopo un iter lungo e accidentato e una approvazione più volte annunciata ma mai portata a casa dal governo Gentiloni, un barlume di speranza l’aveva dato il presidente della Camera Roberto Fico, il quale lo scorso 17 aprile, su input del Presidente Mattarella, aveva chiesto ai gruppi parlamentari di intraprendere una “riflessione”, affinché sul testo venisse espresso un parere da parte della Commissione speciale di Montecitorio, da dove era stato bandito per l’ostruzionismo del Movimento 5Stelle e del centrodestra, Lega in testa. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, anche avanzato l’idea di procedere comunque. Due possibilità per sbloccare la situazione, che però non si sono avverate. Da quel dì nulla è cambiato e la riforma, già condivisa da avvocati, magistrati ed esperti del diritto e del mondo penitenziario si radica sempre di più in un terreno di lotta tra chi la vorrebbe porre nell’oblio e chi invece è di nuovo in prima linea nel richiedere il rispetto dei diritti di tutti i detenuti. Su questo secondo fronte di battaglia c’è sicuramente l’Avvocatura, con i penalisti in testa, che oggi prosegue la due giorni di astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria e si riunisce a Roma dalle 9,30, presso la Residenza di Ripetta, dove si svolgerà la manifestazione nazionale organizzata dall’Ucpi e dalla Camera Penale di Roma e patrocinata dal Consiglio Nazionale Forense “per ripristinare la legalità nelle carceri” e per “sensibilizzare la politica, l’opinione pubblica e l’informazione” su una riforma - come più volte dichiarato dai promotori dell’iniziativa - che mira al rispetto della legalità costituzionale, e non rappresenta invece uno “svuota carceri” come una parte della politica erroneamente va affermando. Infatti, come ha ribadito nel messaggio di convocazione il Presidente delle Camere Penali Beniamino Migliucci, a cui sono affidate le conclusioni dell’assemblea odierna, si tratta di un provvedimento che mira a rafforzare la sicurezza e non a scarcerare pericolosi delinquenti: “lo dicono le statistiche e i magistrati di sorveglianza. Chi impara un lavoro in carcere ha percentuali di recidiva vicino all’ 1%, chi ottiene una pena alternativa pari al 30%, chi sta solo in carcere al 70%. Il che vuol dire che il carcere crea nuovo carcere. Dal 1975 con la riforma Gozzini sono diminuiti gli omicidi e le rivolte in carcere: ora quella riforma va attualizzata. Anche per evitare che l’Italia sia nuovamente richiamata dall’Europa per le condizioni delle carceri. Il rischio c’è perché ci stiamo avvicinando di nuovo ai 59mila detenuti”. Stamane interverranno il Vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, l’accademico Giovanni Fiandaca, il garante dei detenuti Mauro Palma, il Presidente del Cnf Andrea Mascherin, Rita Bernardini del Partito Radicale, il Presidente della Camera Penale di Roma Cesare Placanica, il Presidente di Antigone Patrizio Gonnella e Piero Sansonetti. Il presidente della Camera Roberto Fico era stato invitato alla manifestazione, ma non potrà esserci per impegni istituzionali. Saranno invece presenti delegati delle varie Camere penali italiane che hanno anche organizzato iniziative sui loro territori, come nel capoluogo lombardo dove gli avvocati del Distretto della Corte d’Appello di Milano hanno previsto per oggi alle ore 13 sulle scale del Palazzo di Giustizia un flash mob di protesta per la mancata approvazione di “una riforma fondamentale che cerca di dare piena attuazione al principio costituzionale del finalismo rieducativo della pena”. Cedu: oltre 7.500 cause pendenti, 389 dall’Italia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 maggio 2018 Undicesimo rapporto annuale del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa sulla supervisione dell’esecuzione delle sentenze e delle decisioni della corte europea dei diritti dell’uomo. Lo scorso aprile è stato pubblicato l’undicesimo rapporto annuale del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa sulla supervisione dell’esecuzione delle sentenze e delle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo ed è emerso che sono stati archiviato ben 3.691 casi (2.066 nel 2016), arrivando a una diminuzione del 24% di quelli pendenti. Alla fine del 2017, però, sono ancora 7.584 i casi pendenti: nella classifica la Russia al primo posto (1.689 casi), seguita dalla Turchia (1.446), dall’Ucraina (1156) dalla Romania (553) e dall’Italia (389). Tuttavia, in ogni caso, un risultato positivo tenendo conto che circa 3 anni fa la quota arrivava a 11.000 casi. Mancano all’appello delle sentenze eseguite ben 1.379 leading cases, molti dei quali - scrive il Comitato - relativi a importanti problemi strutturali, anch’essi diminuiti del 7%. Progressi importanti sono stati raggiunti nell’ambito delle condizioni di detenzione, delle inefficienze dei sistemi giudiziari, della libertà di associazione, del riconoscimento di diritti a coppie dello stesso sesso. Per quanto riguarda l’Italia, Roma è al primo posto per il numero di casi chiusi nel 2017 (2.001 di cui ben 1.975 ripetitivi), seguita, a grande distanza, dalla Russia (354). Ci sono stati quindi 7.584 casi pendenti alla fine del 2017, rispetto a circa 11.000 casi di tre anni prima. Il numero di casi in sospeso alla fine dello scorso anno era di 1.379 casi, evidenziando importanti problemi strutturali, mentre gli altri erano per lo più casi ripetitivi. Il rapporto afferma che le riforme in corso, il miglioramento della cooperazione con le autorità nazionali e le modifiche alla politica per i casi di chiusura, hanno contribuito all’elevato numero di chiusure nel 2017. In molti paesi sono stati inoltre registrati progressi significativi nella risoluzione di problemi spesso di vecchia data, compresi quelli relativi alle azioni della polizia e delle forze di sicurezza, l’efficienza del sistema giudiziario e le pessime condizioni di detenzione. Ciononostante, rimangono importanti sfide per garantire che le riforme avvengano in modo rapido ed efficiente, per fornire tempestivamente ricorso ai richiedenti e per prevenire casi ripetitivi. E quindi arriviamo all’Italia. Secondo il rapporto, il nostro Paese non è ancora dotato di disposizioni penali in grado di imporre sanzioni adeguate ai responsabili di atti di tortura o altre forme di maltrattamento vietate dall’articolo 3 della Convenzione. La nuova legge che reintroduce il reato di tortura, infatti, è stata criticata dagli organismi internazionali perché appare come un reato comune e sarà imputabile a chiunque, non solo al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio, come invece prescritto dalla Convenzione delle Nazioni Unite. Per sussistere, inoltre, il reato deve essere stato compiuto con crudeltà e mediante più condotte e deve provocare un verificabile trauma psichico. Una legge, quindi, difficilmente applicabile perché lanciano ampi spazi discrezionali. Altro punto esaminato dal rapporto, è la sentenza della Cedu Nasr e Ghali contro Italia. Nota come il caso Abu Omar. Il ricorso è stato presentato alla Corte europea da Abu Omar (all’anagrafe Osama Mustafa Nasr) e dalla moglie, Nabila Ghani, nel 2009, per violazione degli articoli 3 (divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti), 5 (diritto alla libertà e sicurezza), 6 (diritto all’equo processo), 8 (diritto alla vita privata e familiare) e 13 (diritto a un ricorso effettivo) della Convenzione europea. Nella motivazione della sentenza di condanna, la Corte aveva affermato che le autorità italiane hanno proceduto alla “extraordinary rendition” in ottemperanza al programma della Cia nonostante fossero a conoscenza dell’elevato rischio che il ricorrente sarebbe stato sottoposto ad atti di tortura e ad altre gravi violazioni della libertà e dell’incolumità personale. Nel rapporto annuale viene riportato che l’Italia, a tal proposito, ha fornito delle informazioni nel luglio del 2017 e il Consiglio europeo ancora le deve valutare. La giustizia e il compleanno di Pannella di Dimitri Buffa L'Opinione, 3 maggio 2018 Oggi Marco Pannella, l’amato leader radicale, avrebbe compiuto 88 anni. E se non fosse morto il 19 maggio di due anni fa, avrebbe senz’altro partecipato alle manifestazioni indette dall’Unione delle camere penali - corredate da due giorni di astensione dalle udienze - con cui inizierà la stagione di lotte per far sì che il governo in carica approvi finalmente il disegno di legge per il riordinamento del sistema penitenziario. Una riforma fortemente voluta dal composito fronte garantista e timidamente sostenuta dal ministro della Giustizia Andrea Orlando nella scorsa legislatura. Reo di avere pensato - a due passi dal traguardo quasi come un Dorando Petri della politica - più ai sondaggi e alle elezioni incombenti dello scorso 4 marzo che agli interessi del Paese, tra cui la sicurezza sociale. Che contrariamente a quanto propagandano i profeti del “buttiamo le chiavi”, i vari manettari di quest’orrenda stagione giudiziaria inauguratasi il 17 febbraio 1992 con l’inchiesta milanese di “Mani pulite” - gente che sulla forca mediatica ha costruito le proprie fortune editoriali, ma anche di carriera in politica o al Csm o nella stessa magistratura - non viene assicurata con il pan-penalismo e con la carcerizzazione totale di un Paese, bensì ritornando allo Stato di diritto e alla Costituzione. La stessa che si sventola proditoriamente contro i leader politici (che non piacciono a questi signori) e che poi s’ignora quando gli articoli da applicare sono ad esempio quello che parla di amnistia o quello che prevede che le pene da applicare ai criminali non siano in ogni caso disumane e degradanti. Invece in Italia, e Pannella lo sapeva benissimo come anche la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) che ci ha condannato per questi motivi in continuazione, le carceri sono dei lager, delle discariche sociali sovrappopolate e delle fucine di nuova delinquenza. Sempre più organizzata e spietata. E alimentata economicamente da un assurdo proibizionismo su tutte le droghe, comprese quelle leggere che ormai quasi ovunque nel mondo occidentale non sono più nemmeno considerate tali. E anche questa era una grande battaglia radicale e pannelliana. Ecco, i garantisti sanno che proprio per “garantire” più sicurezza - in una cornice statistica dove quasi tutti i reati sono comunque in calo da anni a dispetto del giornalismo in malafede che parla di fenomeni “percepiti” o “da percepire” - occorrono più umanità nelle pene e più sforzi per riabilitare chi delinque. Non la “terribilità” della legge e delle pene di cui parlava Leonardo Sciascia. Quella stessa “terribilità” che viene usata per propaganda politica di basso rango dai partiti populisti che per ora ipnotizzano gli italiani, allo sbando a causa di una crisi economica che proprio lo stesso populismo, nella sua veste giudiziaria, ha provocato e alimentato da trent’anni. Tutte queste cose in molti le sanno e le portano avanti anche nel nome di Pannella che le ha insegnate a tutti noi. Ma i “molti” sono ancora pochi. Per questo la maniera migliore di augurare ancora una volta “buon compleanno” a Marco resta quella di iscriversi al Partito radicale transnazionale che proprio lui volle per estendere a tutto il mondo le battaglie sullo Stato di diritto e sul diritto alla conoscenza e all’informazione corretta. La Commissione Ue: condizionare i fondi all’indipendenza della giustizia di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 3 maggio 2018 Le proposte della Commissione per il budget 2021-2027. Possibile sospensione dei fondi per gli stati che non rispettano l’indipendenza della giustizia. Ira dell’est europeo. Un bilancio in aumento, malgrado la Brexit, con tagli alla Pac e ai Fondi di coesione. Austria e Olanda non vogliono pagare di più. Dagli scambi di Co2 possibile aumento delle risorse proprie. La Commissione europea si è svegliata. Di fronte alla triplice crisi vissuta dalla Ue negli ultimi anni - crisi finanziaria, crisi dei migranti e crisi dei valori comuni - Bruxelles propone una reazione attraverso una consistente riforma del bilancio per il periodo 2021-2027. Un bilancio difficile da chiudere, visto che nel 2020 interverrà la Brexit e la Ue perderà i 12-14 miliardi di euro di contributo britannico. La Commissione affronta per prima la crisi dei valori: propone di condizionare il versamento dei fondi all’indipendenza della giustizia. Una bomba per i paesi nel mirino di Bruxelles: Polonia, Ungheria, Malta e anche Romania. I paesi dell’est europeo sono i maggiori beneficiari dei fondi Ue. Contro la Polonia, la Commissione ha aperto una procedura nello scorso dicembre, destinata a finire nel nulla perché attuata in nome dell’articolo 7, che richiede l’unanimità (e l’Ungheria voterà contro e magari non sarà la sola). Invece, utilizzando l’articolo 322, che prevede la possibilità di sospensione dei fondi, il voto richiesto è a maggioranza qualificata. La Polonia ha già protestato, accusando Bruxelles di voler fare della gestione dei fondi uno strumento politico. Per far fronte alla crisi dei rifugiati e forzare la mano ai recalcitranti, la Commissione propone di destinare una parte del Fondo sociale all’integrazione dei migranti (nel budget attuale, 2014-2020, il Fondo sociale è dotato di 100 miliardi). La Commissione prevede un bilancio di 1279 miliardi di euro su sette anni, pari all’1,11% del pil Ue, in aumento rispetto ai 1087 miliardi attuali (a 28). Ma per compensare il “buco” britannico, ci dovranno essere dei tagli: la proposta di Bruxelles è diminuire del 6% la Pac (oggi 37% del bilancio Ue) e dell’8% i Fondi di coesione (oggi 35%), cioè un altro colpo ai paesi dell’est, grandi beneficiari. Addirittura, la Commissione delinea la possibilità di riorientare parte di questi fondi, a favore di paesi con forti squilibri regionali e con una massiccia disoccupazione giovanile. L’Austria e l’Olanda hanno già messo le mani avanti e hanno ribadito che non vogliono sentir parlare di aumento dei versamenti per i paesi contributori netti. Francia e Germania sono invece aperte all’ipotesi di un aumento dei contributi, ma a Parigi dovranno fare i conti con la diminuzione dei contributi all’agricoltura, importanti per i francesi. Far quadrare il prossimo bilancio non sarà facile. La Commissione prevede un aumento considerevole delle spese per la difesa, portate a 13 miliardi. E’ allo studio un aumento delle “risorse proprie” (la Ue non impone tasse a suo nome), che ora dipendono da tre fonti: diritti doganali, Iva e contributi degli stati. La Commissione vorrebbe destinare la tassa sugli scambi di diritti a emettere Co2. Bruxelles non solo vuole molte novità per il nuovo bilancio, ma intende anche mettere fretta ai 27 stati membri. Il budget 2021-2027, nelle intenzioni di Bruxelles dovrà essere approvato prima delle elezioni europee del maggio 2019, due mesi dopo la Brexit definitiva. Intanto, con Londra la tensione cresce su tutti i fronti. L’ultimo episodio riguarda Galileo, il concorrente europeo del Gps statunitense, previsto per essere operativo nel 2026. Per Bruxelles, Brexit significa anche uscire dai programmi comuni europei, Galileo compreso. La Gran Bretagna è infuriata, pretende la restituzione dei soldi già investiti e minaccia di mettere a punto un proprio sistema. Bruxelles si inquieta per un possibile spionaggio industriale. E’ già stato deciso che una base di controllo di navigazione satellitare, ora in Gran Bretagna, sarà spostata in Spagna. Caso Zucca. G8, la Cedu dà ragione al pm: “i funzionari andavano rimossi” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 3 maggio 2018 “Le sentenze sui fatti del G8 di Genova sono estremamente chiare, non possono dare adito ad incertezze interpretative”, dice al Dubbio Guido Raimondi, presidente della Corte europea dei diritti dell’uomo. A margine di un convegno organizzato ieri a Roma dalla Luiss sulla Convenzione dei diritti dell’uomo, Raimondi è intervenuto a proposito delle dichiarazioni pronunciate qualche settimana fa dal sostituto pg di Genova Enrico Zucca sui vertici della polizia di Stato. Zucca è il magistrato che ha condotto le indagini sulle violenze perpetrate dalla polizia durante il G8 del 2001 e che a marzo, nel corso di un evento formativo sul diritto internazionale, alla presenza dei genitori di Giulio Regeni, aveva affermato che “chi ha coperto i torturatori del G8 di Genova, come dicono le sentenze della Corte di Strasburgo, sono i vertici della polizia, come possiamo chiedere all’Egitto di consegnarci i loro torturatori?”. Frasi che avevano immediatamente suscitato l’ira del capo della polizia Franco Gabrielli con polemiche durate giorni. Una pratica era stata aperta al Consiglio superiore della magistratura, sollecitata dal consigliere laico di centrodestra Antonio Leone che aveva parlato di “affermazioni inaccettabili”, per verificare se a carico della toga genovese potesse essere disposto un trasferimento per incompatibilità ambientale. Secondo il pg di Genova, i dirigenti della polizia che avallarono, con falsi verbali e prove artefatte, i pestaggi nei confronti dei manifestanti del Social Forum all’interno della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto, tutti condannati in via definitiva, non potevano rientrare in servizio. La Convenzione europea dei diritti dell’uomo, oltre alla condanna penale, dispone infatti anche la rimozione dall’incarico per i pubblici ufficiali riconosciuti responsabili di tali condotte. I funzionari di polizia, invece, scontata la condanna che prevedeva pure un periodo di interdizione dai pubblici uffici, sono tornati, tranne chi nel frattempo è andato in pensione, al proprio posto. Alcuni con incarichi di prestigio, come Gilberto Caldarozzi attuale n. 2 della Direzione investigativa antimafia. I procedimenti disciplinari, aperti dal Dipartimento della pubblica sicurezza nei confronti dei dirigenti condannati, si erano poi tutti conclusi con un sostanziale nulla di fatto. “È vero, la Convenzione prevede la rimozione dei pubblici funzionari”, dice il presidente della Corte Edu, chiudendo dunque le polemiche sul caso Zucca. “Il problema - continua Raimondi -, ma questo è solo uno dei tanti esempi, riguarda l’esecuzione delle sentenze della Corte Edu da parte degli Stati membri: sull’aspetto dell’ottemperanza, però, Strasburgo può fare ben poco”. Nessun “rimedio”, quindi, nei confronti del ministero dell’Interno che ha in questi anni sempre sistematicamente disatteso sul punto le sentenze dei giudici europei. Le stesse argomentazioni di Raimondi erano state utilizzate dai consiglieri togati di Area-Md al Csm Ercole Aprile e Piergiorgio Morosini, la corrente progressista della magistratura associata alla quale è legato Zucca. “La drammatica vicenda del G8 del 2001 oggetto di sentenze non solo della magistratura italiana ma anche della Corte Edu, impone grande cautela nella valutazione delle dichiarazioni Zucca”, aveva detto Morosini. “Prima di formulare giudizi, anche di tipo deontologico, è bene conoscere i passaggi salienti dell’intervento e il contesto in cui le frasi sono stare riferite stante la delicatezza dei temi affrontati”, aveva aggiunto, sottolineando come “nessuno ha intenzione di mettere in discussione l’operato delle Forze di polizia: sanzionare comportamenti illegali significa che nella nostra democrazia sono presenti gli anticorpi per garantire lo Stato di diritto”. Contro i rumori molesti basta la denuncia del singolo di Saverio Fossati Il Sole 24 Ore, 3 maggio 2018 Non serve che a denunciare il reato di “disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone” (articolo 659 del Codice penale) sia una pluralità di persone: ne basta anche una sola, se emerge che potenzialmente il fracasso ne disturba anche altre. Questo, in estrema sintesi, il senso della sentenza 18521, depositata ieri dalla III Sezione penale della Cassazione, che ha dato così un’interpretazione più severa di quella di numerose precedenti pronunce (dalla 45616/2013 quella più risalente 1406/97), che richiedevano “la produzione di rumori idonei ad arrecare disturbo o a turbare la quiete e le occupazioni non solo degli abitanti dell’appartamento sovrastante o sottostante la fonte di propagazione, ma di una più consistente parte degli occupanti il medesimo edificio”. Per la Cassazione di ieri, invece “per la configurabilità della contravvenzione di cui all’art. 659 cod. pen. non sono necessarie né la vastità dell’area interessata dalle emissioni sonore, né il disturbo di un numero rilevante di persone, essendo sufficiente che il disturbo venga arrecato a un gruppo indeterminato di persone e non solo a un singolo, anche se raccolte in u ambito ristretto, come, ad esempio in un condominio”. Il caso è partito dal rumore prodotto da un’associazione culturale, per cui il rappresentante legale era stato denunciato da una famiglia. Il tribunale, nel compiere gli accertamenti, aveva escluso che si configurasse solo un illecito amministrativo (per violazione dei limiti di cui alla legge 447/95 e al Dpcm del 14 novembre 1997) perché il disturbo aveva configurato il reato dell’articolo 659 del Codice penale. Infatti, come aveva chiarito il Tribunale, le emissioni sonore erano tali da arrecare sicuramente disturbo a molti, e anzi una condomina aveva cambiato casa (anche senza denunciare il fracassoni) tempo addietro. La Cassazione ha quindi respinto il ricorso del rappresentante legale dell’associazione culturale, che aveva basato le sue ragioni su argomentazioni di merito in relazione agli accertamenti del Tribunale ma soprattutto sulla questione del mancato coinvolgimento nel disturbo di una pluralità di persone e in un ambito territoriale ampio. Argomentazioni smontate dalla Corte proprio sulla scorta dell’irrilevanza del fatto che a lamentarsi sia anche una sola persone se di fatto il rumore arrivi a estendersi anche in abitazioni ubicate a 20 o 30 metri di distanza. Sulla stessa linea per lo stesso reato si è mossa la III Sezione con la sentenza 18522, sempre depositata ieri: l’imputato aveva infierito con musica ad alto volume con gli amplificatori collocato all’esterno del locale di sua proprietà. Anche in questo caso il Tribunale aveva accertato che, anche se i denunciati erano pochi, le emissioni di fatto erano in grado di disturbare moltissime persone e quindi il reato era pienamente configurato. In ambedue i casi i ricorrenti sono stati condannati a pagare le spese processuali e 2mila euro alla Cassa ammende. L’F24 è un atto pubblico, scatta il falso per chi mente di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 3 maggio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 18803/2018. Falso in atto pubblico per il contribuente che attesta falsamente all’impiegato della banca, che partecipa alla redazione dell’F24, di essere stato autorizzato a dedurre dal proprio debito fiscale il credito di un altro soggetto. La Cassazione (sentenza 18803) accoglie il ricorso della parte civile. I giudici di appello, riformando il giudizio di primo grado, avevano assolto l’imputato considerandolo non più punibile grazie alla depenalizzazione del reato di falso in scrittura privata (articolo 485 del Codice penale). Alla base dell’errore c’era la riqualificazione del fatto come falso in scrittura privata, mentre la contestazione iniziale, ritenuta corretta dal Tribunale, era di falso in atto pubblico (articolo 483 del Codice penale). La Cassazione chiarisce che il modello F24, prova l’adempimento dell’obbligo tributario da parte del contribuente. E che si tratti di un atto pubblico si deduce anche dal Dlgs 241/1997 che detta le norme per semplificare dichiarazione dei redditi e pagamenti Iva. L’amministrazione finanziaria delega, infatti, agli istituti bancari il compito di incassare le somme dovute, attribuendo sia alla banca sia agli impiegati che seguono l’operazione, gli stessi poteri di attestazione dei suoi dipendenti. L’atto di versamento e di ricevuta rilasciato ha pari efficacia di quello formato dai funzionari pubblici e prova il pagamento. E il falso detto all’impiegato della banca fa scattare il reato. La Suprema corte non condivide i precedenti con i quali si è sostenuta la natura di scrittura privata del modello F24. Nel caso esaminato i giudici annullano la sentenza impugnata ai fini del risarcimento da stabilire in sede civile, essendo ormai il reato prescritto. Napoli: a Poggioreale muore detenuto italiano 44enne, era affetto da Hiv conclamato Askanews, 3 maggio 2018 Un detenuto di 44 anni è morto ieri pomeriggio nel carcere Poggioreale di Napoli. A dare la notizia è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il cui segretario generale Donato Capece proprio in mattinata aveva visitato il carcere napoletano. Emilio Fattorello, segretario nazionale Sappe per la Campania, ricostruisce i drammatici momenti: “Ieri verso le ore 15,30 un detenuto muore per morte naturale. S.A. nato a Napoli il 29 maggio 1974, definitivo con fine pena al 18/06/2025 affetto da HIV conclamata giunto a Poggioreale dal C.P. di Secondigliano proprio per cure. Nel pomeriggio di oggi un peggioramento repentino delle sue critiche condizioni di salute lo hanno portato alla morte. A nulla sono valsi i tentativi di rianimazione posti in essere dai sanitari dell’Istituto coadiuvati da quelli del 118 giunti sul posto per il trasporto in Ospedale. Ancora un evento critico con epilogo drammatico nel Carcere più affollato d’Italia che vede oggi superare i 2300 detenuti con un sovraffollamento di 1000 unità a fronte di gravi carenze organiche della Polizia Penitenziaria”. “La situazione nelle carceri resta allarmante: altro che emergenza superata”, commenta Donato Capece, segretario generale Sappe, “dal punto di vista sanitario è semplicemente terrificante: secondo recenti studi di settore è stato accertato che almeno una patologia è presente nel 60-80% dei detenuti. Questo significa che almeno due detenuti su tre sono malati. Tra le malattie più frequenti quelle infettive, che interessano il 48% dei presenti. A seguire i disturbi psichiatrici (32%), le malattie osteoarticolari (17%), quelle cardiovascolari (16%), problemi metabolici (11%) e dermatologici (10%)”. Padova: i “Piccoli Passi” che allargano gli Orizzonti Ristretti di Biagio Campailla Ristretti Orizzonti, 3 maggio 2018 Vorrei raccontare come si svolgono alcuni permessi dei detenuti di Padova nella casetta “Piccoli Passi”. Il mio nome è Biagio, da un paio di anni mi sono stati concessi dei permessi dal magistrato di Sorveglianza, per andare nella Casa di accoglienza “Piccoli Passi”, una struttura, messa a disposizione dal Comune di Padova, che è gestita dall’associazione O.C.V. Gruppo Operatori Carcerari Volontari. Quasi ogni due mesi mi ritrovo per alcuni giorni nella Casa dei “Piccoli Passi”, con la mia famiglia e i miei genitori. Vorrei precisare che la mia famiglia proviene dal Belgio, la mia mamma e una delle mie figlie, hanno gravi patologie, per loro trovare la disponibilità di una casa così accogliente è una gioia. La casa dei “Piccoli Passi” è composta di un gran piazzale, con un capannone, dove è immagazzinato dell’abbigliamento depositato per essere donato ai detenuti disagiati, un grandissimo giardino con alberi da frutta ben curati e barbecue, tutto ciò è recintato e controllato da videocamere di sorveglianza, e da un custode volontario. Al piano terra si trovano un grande soggiorno, una cucina completa, un salotto con telefono sia a scheda che di utenza fissa, che la stessa casa mette a disposizione del detenuto, un computer con cui si può studiare. Il primo piano è composto di quattro camere di pernottamento complete d’arredamento lenzuola, coperte e TV, con due bagni separati e completi di doccia, acqua calda, un salotto, una grande cucina attrezzata per cucinare a disposizione per i familiari dei detenuti. Nella struttura si fa anche la raccolta differenziata. Il mondo dei detenuti è molto complesso e disagiato, tante volte il carcerato non ha la famiglia che lo venga ad incontrare e non sa dove andare per il permesso premio. Il volontario si occupa di venirlo a prendere in carcere e riaccompagnarlo il giorno del suo rientro, e spesso durante la permanenza del detenuto gli prepara dei pasti caldi. In molti casi i detenuti non hanno neppure il denaro per telefonare o per comprare i francobolli per scrivere ai genitori, figli, o mogli. Tante volte questi volontari portano in carcere vestiti e scarpe e regalano persino dei francobolli, ma la cosa più importante è che portano un sorriso ogni settimana, perché vengono ad incontrarci in carcere e in questo mondo ristretto, ricevere un sorriso serve molto al detenuto. Tanti di noi nella vita libera non hanno posseduto mai una casa di lusso, c'è anche chi ha dormito in macchina, chi, emigrato, ha finito per dormire nei vagoni ferroviari, chi non ha mai avuto con regolarità pasti caldi e un posto per ripararsi. I miei familiari sono delle persone umili e oneste, gente che è emigrata negli anni 70 in Belgio per lavorare nelle miniere di carbone o nelle fabbriche. Mi raccontano di avere vissuto in trenta dentro una casa piccolissima, dove mangiavano lardo e patate, per riportare lo stipendio quasi intero nelle loro famiglie del Sud d’Italia e fare loro vivere una vita dignitosa. Hanno conosciuto la fame, i sacrifici, il freddo e l’umiliazione. La mia famiglia, quando viene a trovarmi, deve acquistare i biglietti di aereo, affrontare tantissime spese. Quando arrivano a Padova, trovare la disponibilità di una casa come quella dei “Piccoli Passi” così confortevole, per loro è importante. Una famiglia che viene a trovare il suo caro è pronta a dormire ovunque, non fa caso alle cose materiali, per loro esiste solo l’importanza di vivere l’amore del proprio caro. La mia famiglia ha sofferto tanto quando veniva a trovarmi in altri carceri d’Italia, e doveva pernottare negli alberghi a pagamento. Noi detenuti non siamo tutti figli di direttori di banca, o di dottori, anche se posso dire che ci sono pure alcuni di loro in questi luoghi, oggi anche loro capiscono che questo posto appartiene a tutti, e non è affatto una casa “poco nobile”. Per noi persone emarginate, o che comunque abbiamo molte difficoltà, la casa dei “Piccoli Passi” è un castello, un albergo a cinque stelle. Io in queste persone ho trovato la mia ricchezza, ho potuto, tramite il volontariato. conoscere la realtà dei poveri e delle persone sofferenti che esistono anche in questo nostro paese, e io stesso ho iniziato a fare anche quel tipo di volontariato. Il giorno di Natale, quattro di noi detenuti, siamo andati a servire il pranzo per i poveri, con i volontari di Sant’Egidio, nella chiesa dell’Immacolata di Padova, dove tutti abbiamo servito tutti. Ho incontrato i poveri che vivono nella stazione di Padova, ed oggi anche mia moglie, quando viene a Padova, va a fare lei stessa volontariato per portare i panini ripieni e una bevanda calda per i poveri. Oggi grazie a loro e a Ristretti Orizzonti con il progetto di confronto tra le scuole e il carcere, ho riconosciuto, confrontandomi con gli studenti, le mie colpe, e ho così ritrovato con umiltà la mia dignità e il mio percorso di vita. Non mi interessa vivere con mobili costosi e in ambienti lussuosi, ma conoscere la sofferenza delle persone, alcune delle quali non hanno neanche un posto per dormire o mangiare. Io è da un ventennio che mi trovo detenuto, ed è la prima volta che passo la festa di capodanno con la mia famiglia. Se non esistesse la “Casa dei Piccoli Passi” non avrei potuto in questa, come in altre occasioni, incontrare la mia famiglia e arrivare a conoscere bene i miei nipotini. In quella casa non mi sono mai sentito ospite, mi sono sentito una persona come loro, ho conosciuto tutti i volontari, ho trovato sempre sostegno e disponibilità, e non c'è stato mai alcun problema tra detenuto e persone esterne. Questa casa è di tutti noi cittadini detenuti, e tutti noi ci dobbiamo assumere le responsabilità di rispettare quest’ambiente e apprezzare il lavoro e la disponibilità di questi meravigliosi volontari. Questa casa è un piccolo-grande passo per noi. Grazie a chi ospita noi cittadini reclusi. Caltagirone (Ct): nel tribunale di sole donne “siamo magistrati e basta” di Felice Cavallaro Corriere della Sera, 3 maggio 2018 Sono passati “solo” 55 anni dal 3 maggio 1963, quando per la prima volta furono ammesse le donne in magistratura. Ricorrenza ignorata quasi dappertutto, ma non a Caltagirone perché nella città delle ceramiche dove nacque Don Sturzo, proprio in questi giorni, si insedia un tribunale di sole donne. Dodici su dodici. Il cento per cento. Dalla presidente alla più giovane Giudice per le indagini preliminari. Mamma di quattro femmine, compresa una magistrata in servizio a Ragusa, guida la truppa rosa di Caltagirone la presidente Giovanna Scibilia, la prima che vorrebbe evitare confronti fra sessi: “Finché saremo noi donne a sottolineare la differenza finiremo per confermarla. Uomo o donna, siamo magistrati e basta. Anche se un problema c’è e va affrontato a livello generale perché se qui arrivano nuove leve, fresche di tirocinio, rischiano di fioccare i congedi per maternità... ci servono dunque più sostituzioni”. Come già accade sia per Carla Miceli, una delle dodici, diventata mamma da poco, assente fino alla prossima estate, sia per la napoletana Daniela Vecchiarelli, sulla soglia della sala parto. Ed è Concetta Grillo, Cochita per amici e colleghe, due figli, il marito avvocato, presidente di sezione in questo angolo siciliano con 38 mila abitanti e l’Etna per fondale, a fare della maternità battaglia da Consiglio superiore della magistratura, visto che è candidata al Csm per le elezioni dell’8 luglio. “Occorre la massima attenzione a questo fenomeno che i padri della Costituente non avevano certo previsto”, spiega lei, in corsa con “Unità per la costituzione”, rileggendo i saggi sull’ingresso delle toghe femminili. “La Costituzione, un po’ ambigua, rinviò la scelta al legislatore. E ci vollero 15 anni”. Riprende le riflessioni di studiose come Gabriella Luccioli e Carlotta Latini ed evoca quel primo concorso del ’63: “Furono otto le prime vincitrici. Adesso ai concorsi siamo oltre il 50 per cento. Oggi Su 8.678 magistrati, sono 4.672 gli uomini, 4.006 le donne. Presto saremo maggioranza. Ma le donne dirigenti di uffici giudicanti sono appena il 18 per cento. Negli uffici di procura l’11 per cento. Nessuna come procuratore generale di corte d’appello. In Cassazione 3 donne presidenti di sezione su 44. E 59 consigliere su 230...”. Il conteggio è bilanciato dall’en plein di Caltagirone e la dottoressa Cochita sorride pensando al suo affannato esordio. In un paesino agricolo, a Ramacca, trent’anni fa, da pretore: “Era la mia prima di un giudice donna in quel pezzo di profondo Sud. Entra l’imputato, un contadino, mi guarda e crolla a terra. Temetti di cominciare la carriera con un cadavere in aula. Si riprese, ma sempre turbato dall’idea di una donna sullo scranno...”. Ascolta divertita la più giovane della squadra, Carla Caponcello, figlia d’arte, il padre avvocato generale e la madre presidente di sezione a Catania: “Giurisprudenza adesso è zeppa di donne. Forse più protette dalle famiglie per studi lunghi e concorsi difficili, tante di loro provano il salto in magistratura, a differenza di ragazzi subito in cerca di lavoro”. Sposata da un anno, torna anche lei al tema della maternità: “Diciamo che siamo tutte “a rischio”. E guarda la trentenne Daniela Angelozzi, altra matricola “vicina alle nozze”. Considerata fra le più “anziane” di Caltagirone. Come Cristina Cilla, 33 anni, già funzionaria al ministero dell’Istruzione, catapultata qui da Roma: “A differenza dei grandi tribunali, non ci sono specializzazioni. Tutte fungibili. Grande palestra. Ma sempre con l’ansia di dimostrare che non c’è differenza di genere sul lavoro”. Come ormai hanno capito i dirimpettai della Procura, quasi tutti maschi, solo una donna fra i quattro sostituti del procuratore Giuseppe Verzera, compiaciuto di questo anniversario che le “magnifiche dodici” si preparano a ricordare inaugurando “un’aula incontro” per una pausa relax, per un panino o un tè, fra pareti colorate e comode poltroncine, “tutto autofinanziato”, precisa la presidente Scibilia. Con Cochita Grillo pronta ad offrire un caffè anche ai colleghi, ma soprattutto a convincere il Csm a moltiplicare i posti di “magistrato distrettuale” quei jolly senza sede fissa, destinati a coprire i vuoti. A cominciare dai congedi per maternità. Rieti: progetto educativo e recitazione di studenti e detenuti nel carcere di Vazia Il Messaggero, 3 maggio 2018 “Abc come Amore Bellezza Coraggio: l’alfabeto dei sentimenti e delle emozioni”. Nel teatro della Casa Circondariale di Rieti Nuovo Complesso detenuti e studenti esprimono la loro sensibilità nelle più varie sfumature dell’animo e dei contesti interpersonali e sociali, come valori di crescita, responsabilità e speranza. "Il seguito del positivo riscontro delle precedenti edizioni - spiega una nota - è il sesto anno consecutivo che nel teatro della Casa Circondariale di Rieti Nuovo Complesso, la Sesta Opera San Fedele Rieti, Associazione di Volontariato Penitenziario, realizza il progetto educativo per i detenuti “Al Centro della Scena”. Il programma diretto dagli Assistenti Volontari Benedetta Graziosi e Francesco Rinaldi, si è svolto nel corso di sei mesi con la partecipazione di 31 detenuti, e 12 studenti ed ex studenti nella fase finale del progetto, del Liceo Artistico e del Liceo Linguistico di Rieti. Giovedì 6 maggio la recita finale del progetto educativo di questo sesto anno, “ABC come Amore Bellezza Coraggio : l’alfabeto dei sentimenti e delle emozioni”, un invito ai detenuti e agli studenti alla conoscenza, all’interpretazione delle opere e all’attiva collaborazione nella messa in scena, riflettendo su sentimenti ed emozioni importanti, con l’invito ad una azione di studio, interiorizzazione delle tematiche, recitazione, in cui esprimere la loro sensibilità a partire da testi, forme d’arte, scene di film e canzoni. Si conclude domani un lavoro impegnativo che ha visto amore, bellezza e coraggio, realizzarsi tra difficoltà per l’impegno nello studio e nella interpretazione, superate dalla speranza nella felice realizzazione dello spettacolo finale al quale assisteranno i familiari dei detenuti nel carcere di Rieti". Trento: un confronto tra le istituzioni locali sul carcere e la città di ufficiostampa.provincia.tn.it, 3 maggio 2018 Nell’ambito del progetto “Liberi Da Dentro”, finalizzato a diffondere sul territorio una conoscenza reale del mondo del carcere, delle pene e del loro effetto sulle persone, domani 3 maggio alle ore 17.00, si svolgerà la tavola conclusiva del percorso culturale “Punire, Rieducare, Ripartire? Riflessioni sulla sanzione penale oggi in Trentino”, dove si confronteranno Alessandro Andreatta, Luca Zeni, Valerio Pappalardo, don Mauro Angeli e Andrea de Bertolini. A chiudere la prima fase del progetto, venerdì 4 maggio alle 20.30 sarà messo in scena il recital “Dalla viva voce. Storie dal Carcere”, proposto dall’associazione Quadrivium, con Amedeo Savoia, voce narrante, e Nicola Straffelini al pianoforte. L’incontro e il recital si terranno a Trento alla sede della Fondazione Franco Demarchi. Domani, la tavola rotonda si focalizzerà sul tema “La città di Trento e il carcere” e sarà introdotta dalla testimonianza di una persona che ha vissuto l’esperienza della detenzione e dell’affidamento in prova al servizio sociale nel Comune di Trento. A seguire hanno dato la disponibilità ad esserci e a confrontarsi sulle domande sorte durante il percorso culturale, Valerio Pappalardo, direttore della Casa Circondariale di Trento, Alessandro Andreatta, sindaco del Comune di Trento, Luca Zeni, assessore alla Salute e Politiche Sociali della Provincia Autonoma di Trento, Andrea De Bertolini, presidente dell’Ordine degli avvocati, don Mauro Angeli, cappellano della Casa Circondariale di Trento e rappresentanti del volontariato e del terzo settore. Venerdì, a conclusione del percorso, sarà proposto il recital “Dalla viva voce. Storie dal carcere”, per voce narrante, pianoforte e video a cura dell’Associazione Quadrivium. Costruito sulla convinzione che “la persona è diversa dal suo reato”, questo spettacolo rappresenta l’espressione di alcuni frammenti di storie personali scritte da detenuti della Casa Circondariale di Trento, che ha hanno trovato la voglia e il coraggio di condividere il difficile racconto della loro vita. Amedeo Savoia, insegnante che da anni lavora anche in carcere, ha raccolto in questo recital alcuni frammenti di storie personali scritte da detenuti della Casa Circondariale di Trento e li ha affiancati ad articoli contemporanei di cronaca nera, ai relativi commenti dei lettori online e a riflessioni sulle carceri di personalità del passato, risalendo fino a Cesare Beccaria. Il confronto fra le emozioni e le riflessioni che queste voci suscitano intende condurre lo spettatore a una più consapevole considerazione della funzione rieducativa che la Costituzione italiana attribuisce alla sanzione penale. Il progetto “Liberi Da Dentro” è sostenuto dalla Fondazione Caritro e ha come promotori: Scuola di Preparazione Sociale, Fondazione Franco Demarchi, Associazione “Dalla Viva Voce”, Associazione Quadrivium, Comune di Trento, Comune di Lavis, Comune di Riva del Garda, Rivista UnderTrenta, Sistema Bibliotecario Trentino, Museo Diocesano, Cooperativa ABCittà, Cinformi, Apas, Atas, Conferenza regionale volontariato carcere Trentino Alto Adige, con il patrocinio della Provincia autonoma di Trento. Padova: teatro-carcere “Alla ricerca del tempo presente”, l’esempio di speranza dai detenuti Corriere del Veneto, 3 maggio 2018 Lo spettacolo è particolare, perché realizzato con le persone detenute nel carcere “Due Palazzi” di Padova. È l’appuntamento che andrà in scena giovedì 10 maggio (all’interno del carcere) e domenica al centro universitario di Padova e che rientra nel programma del Festival Biblico, che vede al centro il tema del “Futuro”. Lo spettacolo s’intitola “Alla ricerca del tempo presente” e riunirà i detenuti del carcere patavino membri dell’associazione “Teatrocarcere”, che saranno protagonisti della stessa rappresentazione teatrale. L’iniziativa nasce all’interno del progetto artistico e culturale “Papillon - operatori di relianza” ed è dedicata alle persone della casa di reclusione del capoluogo padovano. L’evento, con la regia di Maria Cinzia Zanellato e la direzione del coro da parte di Giulia Prete, si arricchirà degli interventi del direttore della struttura carceraria e del vescovo di Padova, monsignor Claudio Cipolla. Migranti. Più fondi a chi accoglie ma niente sanzioni ai Paesi che respingono di Carlo Lania Il Manifesto, 3 maggio 2018 Tramonta la speranza di una maggiore solidarietà tra Stati membri. Alla fine a prevalere sembra essere stata la linea suggerita da Emmanuel Macron quando, intervenendo poche settimane fa a Strasburgo, il presidente francese ha proposto di finanziare maggiormente le comunità disposte ad accogliere i rifugiati piuttosto che continuare a litigare in Europa cercando di imporre quote obbligatorie di richiedenti asilo a quei Paesi che fino a oggi si sono dimostrati recalcitranti all’accoglienza. A leggere la proposta di nuovo bilancio europeo presentato ieri dalla Commissione Ue la volontà (o meglio, la necessità) di evitare una rottura su un tema delicato come l’immigrazione ha prevalso sull’esigenza di una maggiore solidarietà tra gli Stati membri nel far fronte a nuovi possibili arrivi. Il risultato è che la voce dedicata alle spese per l’immigrazione è sì tra le poche a beneficiare di un cospicuo aumento, 2,6 volte in più rispetto ai fondi attuali, ma i migranti continueranno a essere un problema del Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, primi fra tutti Italia e Grecia. Va detto che complessivamente è tutto il pacchetto legato alla gestione dei migranti che vede aumentare le proprie risorse. La Commissione ha proposto di destinare una quota del Fondo sociale europeo (Fse), parte dei fondi strutturali (circa 100 miliardi per il budget 2014-2020), all’integrazione dei migranti. Ulteriori finanziamenti sono inoltre destinati ai controlli delle frontiere esterne della Ue che complessivamente passano dai 13 miliardi di euro di oggi a 33. Soldi con i quali sarà possibile dotare Frontex, l’Agenzia europea per il controllo dei confini, di 10 mila guardie di frontiera. L’intenzione più volte annunciata dalla cancelliera Angela Merkel di condizionare i fondi europei all’accoglienza dei richiedenti asilo sembra quindi definitivamente tramontata, sostituita dalla scelta di aiutare economicamente i Paesi mediterranei maggiormente sottoposti alla spinta migratoria. Questo significa che Italia e Grecia riceveranno probabilmente in futuro dalla Ue più soldi, ma continueranno ad avere l’intera responsabilità di quanti sbarcheranno sulle loro coste, dall’accoglienza all’eventuale rimpatrio. Una convinzione che rischia di essere rafforzata dalla discussione sulla riforma del regolamento di Dublino che per cominciare e Bruxelles. ieri gli ambasciatori Ue hanno ricevuto la bozza messa a punto dalla presidenza di turno bulgara che non contempla alcun sistema obbligatorio e automatico di quote come più volte richiesto da Italia, Spagna, Grecia, Malta e Cipro, ma duramente osteggiato dai quattro Paesi del blocco Visegrad (Ungheria, Repubblica Ceca, Polonia e Slovacchia). Viceversa sono previsti interventi diversi a seconda degli scenari di crisi che si potrebbero verificare. La bozza sarà oggetto del prossimo consiglio Affari interni, ma bisognerà aspettare il consiglio europeo di giugno - al quale spetta l’ultima parola - per capire quale dei due schieramenti l’avrà spuntata. Terrorismo. Estrema destra e militari: prolifera il mercato nero delle armi di Gabriele Annicchiarico Il Manifesto, 3 maggio 2018 Sempre più facile procurarsi un'arma da fuoco: l'allarme nel rapporto del Flemish Peace Institute. Il Belgio uno dei paesi più toccati dal fenomeno; In Italia a gestire il traffico sarebbe la mafia. Procurarsi un’arma da guerra sarebbe sempre più facile sul territorio europeo. È l’allarme lanciato dal rapporto Firearms acquisition by terrorists in Europe, presentato al Parlamento fiammingo (una delle regioni federali del Belgio) la scorsa settimana dal Flemish Peace Institute. E proprio il Belgio sarebbe uno degli Stati in cui più facilmente si possono acquistare armi da fuoco, leggere o da guerra, forte di uno dei mercati neri fra i più proliferi del continente. Una reputazione nota da tempo e che aveva spinto, nel 2010, un quotidiano locale, La Dernière heure, a mostrare quanto facile fosse l’acquisto di un’arma, inviando un giornalista camuffato da acquirente alla ricerca di un kalashnikov. Una missione, ripresa in un reportage, che aveva fatto scalpore, compiuta in pieno giorno e in meno di sei ore. Secondo il rapporto, la maggior parte delle armi oggi presenti sul mercato nero proviene dai Balcani, come diretta conseguenza della fine del conflitto degli anni ’90. La maggior parte sarebbero in dotazione a organizzazioni criminali e in parte forse anche a individui appartenenti o simpatizzanti dell’estrema destra. “Parliamo soprattutto di armi da fuoco leggere usate da organizzazioni criminali e in misura minore di armi da guerra come i kalashnikov, commercializzate sotto forma di armi acustiche disattivate, ma che possono essere attivate con facilità da esperti e gruppi criminali”, spiega Nils Duquet, ricercatore e relatore del rapporto. Queste armi sarebbero infatti state acquistate dai fratelli El Bakarauoi, morti kamikaze negli attentati di Bruxelles del 22 marzo 2016 e usate per compiere gli attentati di Parigi del 15 novembre 2015. “I fratelli El Bakraoui rappresentato i prototipi degli utilizzatori d’armi da fuoco, passati dalla piccola alla criminalità organizzata e poi migrati nelle frange jihadiste”, precisa Duquet. Sarebbero state acquistate in Slovacchia, dove una legislazione soft avrebbe permesso ai gruppi terroristici di armarsi. Flusso che raggiunge spesso paesi come Belgio, Olanda e Francia. Un fenomeno che coinvolge anche simpatizzanti dell’estrema destra, “individui che spesso riescono ad acquisire armi depotenziate per vie legali”, precisa Duquet, che aggiunge: “È questo un fenomeno che riguarda anche persone appartenenti alle forze armate, affascinate dall’estrema destra e in grado di attivare queste armi acustiche; in Germania ad esempio sarebbero 400 i militari sotto sorveglianza dall’intelligence perché considerati potenzialmente a rischio”. In Italia il mercato nero delle armi sarebbe altrettanto prolifero, per lo stretto rapporto fra organizzazioni criminali italiane e albanesi. La vendita delle armi sarebbe gestita direttamente dalle organizzazioni mafiose che però non vendono (almeno direttamente) questo tipo di armi a organizzazioni terroristiche, limitando (per così dire) il mercato alle sole organizzazioni criminali. Un’azione repressiva per limitare il fenomeno, si legge nel rapporto, dovrebbe passare per un ruolo di primo piano di Europool (la polizia europea) che però trova grossi limiti nella bassa collaborazione fra Stati membri. “Un’azione efficace dovrebbe passare per una maggiore collaborazione fra le strutture di intelligence degli Stati e da una armonizzazione delle legislazioni in materia di possesso d’armi da fuoco, al fine d’evitare che in alcuni Stati sia più facile entrare in possesso di armi da fuoco”, conclude Duquet.