Le riforme annunciate: illiberali e incostituzionali di Valter Vecellio lindro.it, 31 maggio 2018 Una fortuna che il “contratto” M5S-Lega sia saltato, ma continuano le evasioni definitive. L’ultimo “evaso” definitivo è un uomo di 38 anni. Lo hanno trovato con le lenzuola annodate attorno al collo: R.Z., marocchino, era in carcere a Verona per una rapina con resistenza di un paio di scarpe da 35 euro. Il suo compagno di cella che lo trova privo di sensi con le lenzuola annodate attorno al collo. I soccorsi arrivano subito, ma per R.Z., non c’è nulla da fare. Dopo il ricovero all’ospedale, muore. Un suicidio denunciato dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute che punta il dito contro la mancata emanazione del decreto di riforma dell’ordinamento penitenziario. “Non aveva precedenti, non era mai stato arrestato. Qui a Verona non aveva parenti”, dice il suo avvocato, che dopo la condanna in primo grado aveva presentato ricorso in appello (ancora in attesa) e chiesto misure di sostituzione del carcere mai accolte. Un dramma su cui interviene la Camera Penale Veronese: “La riforma è urgente e indifferibile, lasciata a languire nel nulla per motivi incomprensibili”, dice il presidente Claudio Avesani. “E intanto in carcere si continua a morire”. Già: la riforma tanto sospirata e che non è stata varata per le titubanze e le incertezze proprio di coloro che maggiormente avrebbero dovuto operare perché lo fosse. È svanita una riforma che avrebbe inciso sulla concessione di misure alternative al carcere. In particolare, si innalza da tre a quattro anni il limite massimo di pena che consente di accedere alle misura alternative alla detenzione. Contrariamente a quanto hanno denunciato i detrattori della riforma, la misura non si sarebbe applicata a tutti i condannati a una pena superiore ai quattro anni. Per accedere alle misure alternative al carcere, infatti, è necessaria una decisione in tal senso del giudice. Non si prevedevano automatismi. Riguardo l’affidamento ai servizi sociali, ad esempio, il secondo comma dell’articolo 47 della legge sull’ordinamento penitenziario dice così: “Il provvedimento è adottato sulla base dei risultati della osservazione della personalità, condotta collegialmente per almeno un mese in istituto, nei casi in cui si può ritenere che il provvedimento contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati”. Il periodo di osservazione di un mese può non essere necessario se il condannato, dopo la commissione del reato, ha tenuto un comportamento tale da renderlo. Dunque se fosse stata approvata la riforma, sarebbe stato possibile che persone condannate e pene inferiori a quattro anni (ad oggi, fino a tre) possano finire in carcere, se la personalità è ritenuta pericolosa o se la concessione di una misura alternativa al carcere non si ritiene possa servire alla rieducazione del reo e alla prevenzioni di altri reati. Inoltre, chi beneficia di una misura alternativa alla detenzione deve rispettare le prescrizioni del magistrato di sorveglianza, che può in caso contrario revocare le misure alternative e riportare così in carcere il condannato. Si tratta di un istituto che già esiste, solo che ha un limite leggermente inferiore per i casi “normali” (3 anni invece che 4) e lo stesso (4 anni) per una serie di ipotesi particolari. Un istituto che il contratto M5S-Lega vorrebbe addirittura rivedere. Ci si può consolare col fatto che per ora il governo Conte, Di Maio, Salvini non ha visto la luce. Sul campo della giustizia sarebbe stato, se si deve dar credito al loro “contratto” di programma, un gravissimo vulnus allo stato di diritto e ai principi costituzionali. La pena è concepita come mera retribuzione, in antitesi con quanto previsto dall’articolo 27 della Costituzione che tende alla risocializzazione del condannato. La soluzione prospettata è quella di costruire nuove carceri, trascurando che chi è ammesso a pene alternative al carcere registra un tasso di recidiva di gran lunga inferiore (più della metà) rispetto a chi sconta la pena in carcere. Le ricette proposte si allontanano dal giusto processo e, dunque, comportano un grave arretramento dal rito accusatorio; si abbandona il tema della terzietà del giudice, mentre di converso si privilegia il carcere, e dunque implicitamente anche la custodia cautelare, dimenticando che la percentuale dei detenuti presenti nelle nostre carceri, in attesa di giudizio, e dunque presunti innocenti, supera il trenta percento. Per l’avvocato Valerio Spigarelli, già presidente dell’Unione delle Camere Penali, “il contratto è infarcito di chiacchiere basate sul tradimento della realtà”. Ma ormai quella che si vive è una vera e propria maionese impazzita, e non si vede quale tipo di addensante possa essere usato per obbligare i prodotti di base a uscire da questa situazione. E per quel che riguarda le tematiche della giustizia, la “maionese” è impazzita più che mai. Il gioco più che mai si fa duro. Il guaio è che non si vede ombra di duri che siano in grado di giocare. I lavori “domestici” non sono lavoro vero di Mariangela Cirrincione Il Dubbio, 31 maggio 2018 Le critiche del presidente della Cooperativa Giotto. Il tema dei lavori “domestici” all’interno delle strutture carcerarie è oggetto da tempo di un acceso dibattito. Nicola Boscoletto, presidente della cooperativa Giotto che, dai primi anni 90, opera all’interno del carcere Due Palazzi di Padova, evidenzia alcuni aspetti problematici dell’affidamento di queste attività, come il cuoco o lo “spesino”, necessarie alle esigenze delle strutture carcerarie, direttamente ai detenuti, che divengono “dipendenti” dell’amministrazione penitenziaria. “Vengono chiamati in maniera impropria lavoro tutta una serie di istituti che niente hanno a che fare con il lavoro professionalizzante e risocializzante”. L’impegno nei lavori domestici consente di maturare un guadagno che porta una certa autonomia nelle spese essenziali alla vita in carcere, ma non consegna contestualmente un sapere pratico e una formazione spendibile una volta acquisita la libertà, risultando quindi come semplice diversivo per tenere occupati i reclusi. “È il carcere che si deve adeguare al mondo del lavoro e non viceversa ed ogni attività deve rispondere ad un fine rieducativo e formativo che dia un senso profondo all’impegno profuso dal recluso”. Nel 2003, alcune realtà penitenziarie avevano avviato un fruttuoso percorso di sperimentazione “interrotto bruscamente - afferma Boscoletto - a fine 2014” che prevedeva l’esternalizzazione del servizio mensa per i detenuti a cooperative sociali specializzate in tale settore. “La positiva esperienza decennale non ha avuto la dovuta attenzione e siamo tornati indietro”. Ciò non è riconducibile all’insufficienza dei finanziamenti, in quanto “oggi il vero problema - commenta - è che vengono usati male i fondi che ci sono. I lavori domestici costano 6 volte di più e non portano nessuno beneficio di reinserimento sociale e abbattimento della recidiva”. Sembra dunque essere il lavoro presso imprese e cooperative a concretizzare in modo più efficace la rieducazione del condannato auspicata dalla Costituzione così come confermato dalla Sezione centrale di controllo sulla gestione delle Amministrazioni dello Stato della Corte dei Conti nel 2013: “si può affermare con certezza che la “Legge Smuraglia” - che prevede agevolazioni per chi assume detenuti - sia stata l’unica forma di attivazione del lavoro carcerario che non fosse semplice assistenzialismo o pietismo”. Alla domanda perché dare lavoro ai detenuti in piena crisi occupazionale, Boscoletto afferma che “mentre si fanno polemiche, non si dice che ogni milione di euro investito nel principale pilastro del trattamento rieducativo, che è proprio il lavoro, si risparmiano nove milioni e si guadagna in sicurezza sociale”. La ricerca del male comune e l’esempio (ignorato) della storia di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 31 maggio 2018 In quest’epoca, la parola “mediazione” viene considerata spregevole. E tutti i leader - da Salvini a Di Maio, a Renzi - rifiutano la ragionevole presa d’atto di una situazione che chiederebbe responsabilità, e non l’esposizione del proprio ego. Siamo immersi in un’atmosfera avvelenata in cui, nella politica, la parola “mediazione” è diventata spregevole, “moderazione” un vizio morale da deridere e sinonimo di debolezza sbiadita, e non parliamo di “compromesso”, orribile espediente per raggirare il popolo e per nascondere un “inciucio”. Viene premiata invece la spettacolarizzazione dell’intransigenza, il trionfo del protagonismo da duello rusticano, la durezza verbale che manda in visibilio la curva tifosa. Alla vigilia del 2 giugno, celebrazione della nostra identità repubblicana, il rispetto dell’interesse nazionale, quel senso del bene comune che limita e disciplina il virtuoso dispiegarsi del conflitto democratico, della battaglia anche aspra delle idee, e tuttavia entro una cornice di valori e progetti condivisi, quel semplice e forse banale, ma importantissimo, amore per il proprio Paese, tutto questo rende impossibile per i leader politici la minima propensione all’auto-moderazione. Nell’emergenza nazionale, e queste ore lo sono, a prescindere da come andrà a finire questa storia che ci lascia tutti sgomenti e con il fiato sospeso, scatta invece la corsa alla scelta apparentemente più conveniente per sé, a scapito del bene comune e dell’interesse nazionale. Se si chiede non già un cruento sacrificio, bensì la ragionevole presa d’atto di una impasse dalle conseguenze molto negative per tutti noi, i leader che occupano il palcoscenico della politica rispondono offesi come se la richiesta rappresentasse un’intollerabile umiliazione di fronte a un elettorato scatenato che considera un semplice passo indietro un indizio di tradimento. Tutti i leader, nessuno escluso. In primis Matteo Salvini, che preferisce far saltare all’ultimo chilometro un governo in procinto di nascere tra mille tormenti pur di non apparire come un capo tremebondo, che media invece di fare la faccia feroce. E poi Luigi Di Maio, che ha tenuto appeso per mesi l’esito delle trattative per un nuovo governo con la pretesa di incarnare l’unico candidato possibile a Palazzo Chigi, con alle spalle un formidabile 32,5 per cento di consensi, clamoroso ma non sufficiente per ottenere la maggioranza: salvo poi accettare tardivamente un ridimensionamento quando la possibilità di un governo con i 5 Stelle è sembrata sfumare. E non si dimentica nemmeno la performance baldanzosa in diretta tv di Matteo Renzi, segretario dimissionario di un Partito democratico ridotto al suo minimo storico, che ha smentito la delegazione del Pd sfilata al Quirinale per dare l’immagine di un leader in trincea, pronto a cannoneggiare, munito di dosi adeguati di popcorn, ogni ipotesi di “inciucio” con gli odiati grillini. Eppure la storia, non solo italiana, ha mostrato la grandezza di leader che hanno saputo controllare il loro smisurato Ego per salvare la coesione di un Paese in difficoltà e sotto assedio. Senza andare troppo indietro nel tempo (e senza ricordare gli innumerevoli virtuosi “compromessi” che hanno segnato la stessa nascita dell’Italia come Stato unitario), basti menzionare la prudenza di Pietro Nenni per assecondare la svolta storica rappresentata dalla nascita del centrosinistra tra democristiani e socialisti. O il coraggio, pagato a carissimo prezzo, di Enrico Berlinguer e Aldo Moro, per contenere nell’alveo di una politica di unità nazionale (o di “compromesso storico”) l’emergenza del terrorismo, anche sfidando le inevitabili critiche delle rispettive basi di militanti ed elettori. E via via, fino ai nostri giorni, con il sempre vituperato Berlusconi che accettò senza strepiti lo stop del presidente Scalfaro sul nome di Cesare Previti, l’avvocato dell’allora nuovo premier, al ministero della Giustizia. E con Pier Luigi Bersani che nella tempesta del 2011, anziché giocare la partita elettorale per lucrare sulle difficoltà catastrofiche del centrodestra, scelse la strada del governo tecnico di Mario Monti per rimettere in piedi un’Italia in ginocchio. Per poi pagarne un prezzo elevatissimo, certo. Ma lo pagò anche, per fare esempi clamorosi della storia europea, Charles De Gaulle quando per il bene della Francia decise, abbracciando una politica opposta a quella promessa ai francesi, di accettare l’indipendenza dell’Algeria, scatenando l’ira golpista e terroristica dei suoi sostenitori che si sentivano traditi. Paragoni troppo azzardati? No, perché l’Italia vive oggi momenti drammatici, che esigono comportamenti purtroppo disertati dai suoi leader attualmente più in voga. Non conosciamo ancora bene, mentre si approntano le celebrazioni del 2 giugno festa nazionale, la pur provvisoria conclusione di questa stagione politica così caotica. Ma un profondo limite culturale è comunque venuto alla luce, e nel momento peggiore. E c’è davvero poco da festeggiare, nel compleanno di questa Repubblica. La sfida anti-sistema al Csm di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 31 maggio 2018 Una nuova associazione guidata da Davigo attacca le correnti storiche. Una “forza” politica che si contrappone a tutte le altre. Una requisitoria drastica e circostanziata di (quasi) tutto quanto fatto in precedenza. Un programma definito anche con una consultazione online. Un voto alle porte. Una nuova forma di populismo, forse. Ricorda qualcosa? Magari le ultime, ma anche le prossime elezioni politiche? Non proprio, perché il contesto è diverso, e tuttavia, per certi versi, le dinamiche sono analoghe. Qui il riferimento è alla magistratura e al prossimo voto per rinnovare il “parlamento” delle toghe, il Consiglio superiore della magistratura (Csm). E la coincidenza, quanto a tempi, con le elezioni di Camera e Senato (ne scriviamo al plurale ormai) passate e future, è troppo suggestiva per non contribuire a innescare un parallelo. Tra poco più di un mese, l’8 e 9 luglio, giudici e pubblici ministeri saranno chiamati a definire il nuovo assetto del Consiglio. Almeno per quanto riguarda i 16 componenti togati. E nel frattempo infuria una campagna elettorale stile “uno contro tutti”, del tutto irrituale, posto che le campagne elettorali debbano avere un rito, con l’ultima nata tra le correnti, quell’Autonomia e indipendenza (A&I), spin off di Magistratura indipendente (Mi), guidata da un leader carismatico come Piercamillo Davigo, che martella in maniera ossessiva sull’aspetto forse più qualificante della consiliatura che si sta chiudendo, le nomine dei vertici degli uffici giudiziari. A&I che, meno di un anno fa, si è sfilata, a rimarcare ancora una volta la propria “alterità” dalla gestione unitaria dell’Anm. L’abbassamento della età pensionabile Aspetto cruciale già di solito, quello delle nomine, ma di massima rilevanza in questi ultimi anni, dopo che il governo Renzi ha deciso l’abbassamento da 75 a 70 anni dell’età pensionabile dei magistrati, innescando un ricambio straordinario nei tribunali. Solo qualche numero, per dare le dimensioni dell’impatto: dal 1° ottobre 2014 al 18 maggio 2018, il totale degli incarichi conferiti dal Csm è stato di 905 (387 direttivi, 518 semi-direttivi) e altri 65 sono in attesa del passaggio in plenum, mentre 89 sono quelli tuttora in discussione in commissione. Alla fine saranno più di 1.000 i posti assegnati. Lavoro imponente certo, ma oggi epicentro della polemica tra le correnti. Con A&I che contesta l’elevatissima percentuale di decisioni prese all’unanimità (a marzo, 599 nomine su 832), testimonianza evidente, a suo dire, degli accordi spartitori presi tra le varie componenti in Consiglio. Logiche di appartenenza, quindi, tra i gruppi tradizionali. Ma anche logiche, si contesta, che hanno visto sempre più spesso una saldatura tra togati e laici. Di più, nel mirino finiscono anche la recente riforma della dirigenza e i nuovi criteri che un margine più ampio sembravano lasciare alla discrezionalità. Discrezionalità che, se c’è stata, è stata male utilizzata, visto che, lamenta A&I, le nomine hanno riguardato magistrati molto meno anziani rispetto ad altri concorrenti e privi di fatto di requisiti di spessore tale da giustificarne la prevalenza. Quasi una rivendicazione postuma di quell’anzianità senza demerito che più di altri criteri aveva guidato la stagione passata. Ora se ne apre un’altra, all’insegna di un “populismo” che investe anche il mondo delle toghe e che, più di altre componenti, mette in difficoltà Area, il raggruppamento di sinistra, con l’alleanza tra Magistratura democratica e Movimenti per la giustizia, indiziato di pagare il maggior dazio al nuovo clima. Un documento che accusa Fa discutere tra le toghe allora un denso documento nel quale Autonomia e indipendenza mette nero su bianco, senza fare nomi, ma per gli addetti ai lavori questi sono facilmente riconoscibili, 20 casi critici di mala gestione da parte del Csm. Qualche esempio: la nomina come presidenti di Corte d’appello di magistrati che non avevano mai svolto funzioni di secondo grado, né avevano mai svolto in precedenza funzioni direttive neppure in primo grado ma, in alcuni casi, erano ex consiglieri del Csm. Oppure la nomina come presidente di tribunale di chi non solo in passato è stato fuori ruolo al Csm, ma soprattutto è stato per lunghi anni parlamentare con importanti incarichi politici, tra l’altro, si sottolinea, preferito a magistrati titolati, più anziani e mai fuori ruolo, dei quali uno già ricopriva l’incarico di Presidente di Sezione presso il medesimo ufficio. E ancora le costanti “nomine a pacchetto” per la copertura di tutti i posti in Cassazione, nomine deliberate sempre all’unanimità da Area, Unicost e Mi. Sistema che consente la nomina dei singoli candidati sulla base di punteggi attribuiti senza una motivazione comparativa tra diversi profili professionali idonea a dare trasparentemente conto delle ragioni per cui taluni vengano preferiti rispetto ad altri. Tutte accuse che alzano il livello delle polemiche. Con Area, che sottolinea come “nessun gruppo (vecchio o nuovo, nato da fusioni o da scissioni) può pretendere di presentarsi come l’unico estraneo al “sistema”, come quello che da anni lo denuncia inascoltato. Ci sembra una tesi stucchevole, prima ancora che falsa”. Di più: “Consideriamo, inoltre, grave sul piano istituzionale che, per mere ragioni di propaganda elettorale, il gruppo Autonomia e indipendenza censuri come illegittime e frutto di accordi illeciti nomine di magistrati, facilmente individuabili (anche senza indicazione dei nomi), che attualmente ricoprono incarichi direttivi in Uffici anche delicatissimi, delegittimando la loro funzione, l’intero Ufficio e i magistrati che vi lavorano”. E dal congresso di Unicost, concluso pochi giorni fa, si contesta: “Si cerca il consenso elettorale attraverso critiche demolitive che producono l’effetto di creare nella generalità dei colleghi - spesso quelli più giovani - un clima di sfiducia e disaffezione nei confronti della vita associativa e di chi è chiamato a tutelare l’indipendenza interna ed esterna dell’istituzione giudiziaria”. Dalla penale ai fondi europei, le fake news non salvano il Tav di Livio Pepino Il Manifesto, 31 maggio 2018 Martellante la campagna per denunciare che la rinuncia all’opera comporterebbe, per l’Italia, il pagamento di mirabolanti e insostenibili multe. Da qualche tempo si alza, di tanto in tanto, un coro per deprecare le fake news che invadono i social provocando disinformazione e tensioni disgregatrici dell’ordine costituito. Naturalmente tacendo che - come è stato scritto di recente da Gianandrea Piccioli “l’enfasi con cui si condannano generalmente le fake news dei cittadini diventati sudditi sembra funzionale al conflitto per il monopolio della verità, che deve appartenere solo alle élites finanziarie che hanno azzerato la politica e organizzato la governance mondiale secondo criteri aziendalistici”. Gli esempi di questo spregiudicato condizionamento dell’opinione pubblica sono infiniti, a cominciare, su scala internazionale, dall’invenzione angloamericana del possesso di armi di distruzione di massa da parte di Saddam Hussein, funzionale a giustificare la guerra all’Iraq con connessa “esportazione della democrazia” in quel paese. Più in piccolo accade in Italia in questi giorni, a margine del programma concordato tra Movimento 5Stelle e Lega per quello che avrebbe dovuto essere il Governo della Repubblica, ma con una validità che va oltre la contingenza. Un passaggio di quel programma (“Con riguardo alla Linea al Alta Velocità Torino-Lione ci impegniamo a ridiscutere integralmente il progetto nell’applicazione dell’accordo tra Italia e Francia”), seppur modesto e corrispondente a una richiesta risalente di tecnici e intellettuali oltre che del movimento No Tav, ha, infatti, riportato al centro del dibattito la questione del Tav in Val Susa. Immediata la fibrillazione e il fuoco di fila dei promotori (pubblici e privati) dell’opera, dell’establishment affaristico finanziario che la sostiene e dei grandi media ad esso collegati, sfociata in una martellante campagna per denunciare che la rinuncia all’opera comporterebbe, per l’Italia, il pagamento di mirabolanti e insostenibili “penali”. In questa campagna - nella quale si è distinta, sin dal primo giorno, Repubblica - si sono, esibiti, senza preoccuparsi di fornire pezze d’appoggio, editorialisti, opinion makers, “esperti” di ogni ramo del sapere e sconclusionati ospiti fissi di talk show televisivi alla ricerca di audience (da ultimo, a Carta Bianca, Massimo Cacciari e Mauro Corona). E ciò - si noti - a fronte non già della ventilata rinuncia all’opera ma della semplice intenzione di avviare un confronto al riguardo con il Governo francese. Eppure l’affermata esistenza di penali consistenti - quantificate da solerti gazzettieri in due miliardi o più - altro non è che una clamorosa fake news o, per dirla in modo più casereccio, una colossale bufala. In realtà la rinuncia all’opera non comporterebbe alcuna penale. Infatti: - non esiste alcun documento europeo sottoscritto dall’Italia che preveda penali di qualsiasi tipo in caso di ritiro dal progetto; - gli accordi bilaterali tra Francia e Italia non prevedono alcuna clausola che accolli a una delle parti, in caso di recesso, forme di compensazione per lavori fatti dall’altra parte sul proprio territorio; - il nostro codice civile prevede, in caso di appalti già aggiudicati che, ove il soggetto appaltante decida di annullarli, le imprese danneggiate hanno diritto a un risarcimento comprensivo della perdita subita e del mancato guadagno che ne sia conseguenza immediata (per un ammontare che, di regola, non supera il 10 per cento del valore dell’appalto). In ogni caso, ad oggi, non sono stati banditi né, tanto meno, aggiudicati appalti per opere relative alla costruzione del tunnel di base. Egualmente infondata è l’affermazione, talora affiancata quella relativa alle penali, secondo cui l’eventuale rinuncia imporrebbe all’Italia la restituzione all’Unione europea dei contributi ricevuti per la realizzazione dell’opera. Infatti i finanziamenti europei sono erogati solo in base all’avanzamento dei lavori (e vengono persi in caso di mancato completamento nei termini prefissati), sì che la rinuncia di una delle parti interessate non comporterebbe alcun dovere di restituzione di contributi (mai ricevuti) bensì, semplicemente, il mancato versamento da parte dell’Europa dei contributi previsti. Si aggiunga che ad oggi i finanziamenti europei ipotizzati sono una minima parte del 40 per cento del valore del tunnel di base e che ulteriori (eventuali) stanziamenti dovranno essere decisi solo dopo la conclusione del settennato di programmazione in corso, cioè dopo il 2021 (e dopo le elezioni del Parlamento europeo nel 2019). La fake news non potrebbe essere più clamorosa. E c’è di più. I meno sbracati tra i sostenitori della nuova linea ferroviaria glissano sulle penali e sostengono che, comunque, la rinuncia all’opera comporterebbe per l’Italia una perdita secca di quanto sinora speso per le attività preparatorie (compreso lo scavo del tunnel geognostico), pari a circa un miliardo e 500 milioni. Vero. Ma l’affermazione è, a ben guardare, un boomerang. Se, come sostengono le analisi più accreditate di costi e benefici (da quella risalente di Prud’Homme a quella più recente di Debernardi e Ponti), la realizzazione del tunnel di base determinerebbe per gli Stati interessati una perdita economica oscillante tra i 3,4 e i 10 miliardi di euro, la domanda diventa del tutto retorica: conviene di più contenere i danni (mettendo una croce sopra il miliardo e mezzo colpevolmente speso sino ad oggi) o continuare in uno spreco di miliardi per un’opera che più passa il tempo più si rivela inutile? Uso dell’intercettazione legato al mandato di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 31 maggio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 24451/2018. Via libera all’utilizzo dell’intercettazione del colloquio con un avvocato se non esiste un mandato per la difesa. La Cassazione (24451) respinge il ricorso con il quale si eccepiva la violazione del diritto di difesa per l’uso di una conversazione tra l’imputato e l’avvocato. Una “chiacchierata” che la Corte d’Appello aveva considerato amichevole e non professionale. Alla base della decisione c’erano due considerazioni. L’assenza di un mandato e di un’iscrizione nel registro degli indagati del ricorrente. La Cassazione ricorda che il divieto di intercettare le conversazioni o le comunicazioni dei difensori, non si estende a tutti colloqui di questi solo in virtù della qualifica, ma solo alle conversazioni che riguardano la funzione esercitata. La ratio dell’articolo 103 del Codice di rito penale va, infatti, individuata nel diritto di difesa. La Suprema corte, in un precedente (sentenza 26323/2014) che riguardava l’intercettazione di una telefonata tra un indagato e un avvocato, legati da un rapporto di amicizia, ha chiesto ai giudici di merito di fare una serie di verifiche. E dunque di valutare se quanto detto dall’indagato fosse finalizzato a ottenere consigli difensivi professionali o si trattasse di confidenze fatte ad un amico e se le risposte del legale potessero essere considerate pareri professionali o solo affermazioni “consolatorie”. Nello specifico l’avvocato si era limitato a capire quale era il problema e ad indicare il nome di un collega. Il valore del medico non esclude l’imperizia di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 31 maggio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 24384/2018. Non si può escludere l’imperizia del medico, solo in virtù del suo noto valore clinico. La nozione, infatti, non va associata alla persona ma al singolo atto. La Cassazione (sentenza 24384) accoglie il ricorso di un medico condannato in appello per omicidio colposo in seguito alla morte di una paziente avvenuta nel corso del post operatorio. Il camice bianco era accusato di non aver diagnosticato una perforazione, che poteva essere verificata con appositi esami diagnostici e di aver scelto una linea “attendista”, tratto in inganno da sintomi comuni anche ad altre patologie. I giudici di appello avevano bollato il comportamento del dottore come “imprudente”: una conclusione che impediva l’applicabilità dell’articolo 590-sexies del Codice penale, introdotto dalla legge Gelli Bianco. La norma, invocata dalla difesa, esclude la punibilità in caso di “imperizia” quando sono rispettate le linee guida o, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali. Per i giudici territoriali la conformità alle best practies nel caso specifico non c’entrava per nulla. La logica imponeva al sanitario di formulare una diagnosi alternativa e di verificarla: non facendolo aveva abdicato alla sua funzione di medico e questo non aveva nulla a che vedere con le linee guida. Di diverso avviso la Cassazione, secondo la quale i giudici di merito non avevano considerato un tema centrale ai fini dell’individuazione della condotta colposa del medico come quello dell’osservanza delle buone pratiche clinico-assistenziali. Nello specifico, in assenza di linee guida concordanti sul punto, il riferimento doveva essere ai criteri della “vigile attesa” accreditati dalla letteratura scientifica. Né era corretto escludere l’imperizia solo sulla base del valore del dottore. Per la Suprema corte di giudici hanno escluso l’imperizia, scegliendo l’imprudenza, proprio per evitare la non punibilità prevista dalla Gelli bianco. Allo stesso modo hanno omesso di verificare il grado di colpa che, se lieve, avrebbe fatto scattare la scriminante prevista dalla legge Balduzzi per il sanitario che segue le linee guida anche in caso di imperizia, negligenza o imprudenza. La condanna viene dunque annullata con rinvio. Abruzzo: allarme dopo il suicidio di un detenuto, “è strage di legalità” abruzzoweb.it, 31 maggio 2018 Riflettori puntati, ancora una volta, sulla complicata situazione delle carceri abruzzesi. A lanciare l'allarme Amnistia giustizia libertà (Agl) Abruzzo, Partito Radicale e Rifondazione Comunista, nel corso della conferenza stampa “Le morti in cella: una strage annunciata?”. Punto di partenza la vicenda di Massimo Russi, pescarese con problemi di salute che lo scorso 17 maggio si è tolto la vita nella sua cella della casa circondariale di San Donato a Pescara. All'iniziativa, proprio davanti al carcere, hanno preso parte l'avvocato Stefano Sassano, legale di Massimo Russi e presidente dei difensori d'ufficio del Tribunale di Pescara, Rita Bernardini, membro della presidenza del Partito Radicale e candidata garante dei detenuti abruzzesi, e Vincenzo Di Nanna, segretario di Amnistia Giustizia e Libertà Abruzzi. Assente a causa di un impedimento Maurizio Acerbo, segretario nazionale di Rifondazione, che ha sostenuto comunque l'iniziativa. Sassano ha ricordato la vicenda di Russi. “Oltre alla depressione - ha detto l'avvocato - il mio assistito soffriva di epilessia, di epatite B e C, perciò fu chiesta su mia iniziativa l'incompatibilità assoluta col regime carcerario, in quanto esponeva se stesso, i compagni e il personale a problemi di contagio; ma la richiesta è stata rigettata senza approfondire”. “Ci troviamo davanti a 200-250 casi psichiatrici gravi in carcere - ha sottolineato Bernardini -. Per chi ha patologie psichiatriche, tanto più se unite al problema della tossicodipendenza come nel caso di Russi, il carcere è il posto meno idoneo, come è stato detto da tutti gli esperti. Il Partito Radicale ha intrapreso una lunga battaglia per l'approvazione della riforma, attraverso scioperi della fame cui hanno aderito moltissimi detenuti anche dall'Abruzzo”. “Gli istituti penitenziari italiani - ha proseguito - sono ancora oggi in una condizione di totale illegalità: non solo non svolgono la funzione rieducativa prevista dalla Costituzione, ma vi è il sovraffollamento, le condizioni di vita sono contrarie al senso di umanità e grava l'assenza di quelle figure di garanzia previste dalla legge, a cominciare dai garanti regionali. L'Abruzzo è stata una delle prime regioni ad approvare la norma istitutiva del garante e l'ultima a darle attuazione”. Di Nanna ha parlato di una “strage di legalità che continua: da un lato l'Abruzzo detiene ormai un record nazionale nella mancata attuazione della legge istitutiva del Garante dei detenuti, dall'altro l'Italia non ha approvato la riforma dell'ordinamento penitenziario. Nella proposta di riforma, la normativa attuale sarebbe stata modificata estendendo l'ambito di applicazione del differimento della pena anche alle infermità di tipo psichico. Molte morti in cella - ha concluso - dipendono dalla mancata modifica della norma”. Basilicata: linee guida per la prevenzione degli atti di autolesionismo in carcere italpress.com, 31 maggio 2018 Su proposta dell’assessorato alle Politiche della persona, la giunta regionale della Basilicata ha approvato le “linee di indirizzo per la prevenzione del rischio suicidario e autolesivo negli istituti penitenziari per adulti”: il documento era stato sottoscritto il 19 ottobre scorso nella seduta congiunta dell’Osservatorio permanente e del Gruppo di lavoro tecnico scientifico della Sanità penitenziaria. Le aziende sanitarie regionali (Asp e l’Asm) sono ora tenute “a definire e rendere operativi i conseguenti protocolli locali con ciascuno degli istituti penitenziari di proprio riferimento, formalizzando i profili organizzativi, logistici e tutto quanto dovesse essere necessario all’operatività entro e non oltre 90 giorni dalla data di approvazione del provvedimento”. Fra gli obiettivi delle linee di indirizzo, quello di aiutare il personale a riconoscere i comportamenti a rischio da parte dei detenuti e ad intervenire in maniera adeguata in seguito ad adeguati percorsi formativi. Ma anche quello di adottare appositi protocolli da adottare all’interno degli istituti penitenziari, per fronteggiare il fenomeno. “L’influenza in qualche modo sconvolgente che l'ambiente carcerario esercita sull'individuo - è spiegato nel documento approvato dalla giunta regionale - è la fonte originaria cui bisogna risalire per comprendere i meccanismi che si innescano nella mente di una persona costretta a confrontarsi con un mondo sconosciuto e promiscuo. Da molti il carcere viene vissuto come una imposizione di regole rigide e di nuovi codici di comportamento dove ogni idea di futuro diviene improponibile ed il presente diventa un susseguirsi di comportamenti ripetitivi. Il suicidio è quindi un fenomeno che necessita di un approccio interdisciplinare, poiché pur essendo un gesto individuale, di solito è determinato da ragioni plurime, sulla cui causa concorrono motivazioni culturali, sodali e biografiche”. “Il rischio suicidario - è messo in chiaro - va tenuto ben distinto dal fenomeno dell'autolesionismo. L'autolesionismo è, per lo più, un mezzo di comunicazione utilizzato da chi è privo di voce o ritiene di non possederne abbastanza da farsi sentire. È l'espressione di un'aggressività autodiretta, oppure volontà di ottenere un beneficio dal gesto di protesta o di autodifesa. Il suicidio, invece, se pure è talvolta una forma di comunicazione, non chiede e né cerca risposta. Atti di autolesionismo, tentativi di suicidio, gravi episodi depressivi o psicotici, dipendenza da sostanze, sono manifestazioni fin troppo frequenti di un grave malessere che trae motivo dalla mancanza di riferimenti e dallo smarrimento nella condizione di privazione della libertà personale”. Da qui, per la Regione, la necessità di intervenire in maniera adeguata, ma soprattutto di prevenire i comportamenti autolesionisti dei detenuti. Toscana: carceri e Rems, Scaramelli (Pd) chiede più attenzione e monitoraggio gonews.it, 31 maggio 2018 Tenere alta l’attenzione sulla situazione delle carceri e implementare le visite, con l’obiettivo di cercare di migliorare il più possibile il sistema sanitario dei detenuti. Continua il suo lavoro di attento monitoraggio sul tema della salute nella detenzione la commissione Sanità guidata da Stefano Scaramelli (Pd) che stamani ha ascoltato la relazione del garante dei detenuti Franco Corleone. “Abbiamo affrontato - ha detto Scaramelli - temi come la correlazione dei problemi sanitari e sociali dentro le carceri e nel contempo il problema dei malati psichiatrici, delle Rems, della detenzione degli stranieri e scomputo della pena nel paese di origine, cosi come le ripercussioni dei Trattamenti Sanitari Obbligatori. Non abbiamo solo visitato le carceri ma soprattutto abbiamo cercato di risolvere le problematiche diffuse. Riguardo alla salute, primario resta il funzionamento della sanità in carcere, l’attenzione alle problematiche della infermità psichica e il monitoraggio dei trattamenti sanitari obbligatori. La commissione Sanità ha espresso parere secondario favorevole a una proposta di risoluzione che impegna l’assemblea regionale ad assicurare, attraverso il garante, la finalità rieducativa della pena e il reinserimento sociale dei condannati. Nell’atto si chiede, inoltre, che venga sostenuta e rafforzata l’efficienza dell’ufficio del garante anche con un incremento di personale”. Stefano Scaramelli (Pd) ha poi espresso a nome di tutti i consiglieri l’impegno ad implementare una serie di visite nelle carceri per approfondire eventuali problematiche in apposite sedute e sostegno all’attività di Corleone. Torino: morì dopo un Tso, condannati tre vigili e uno psichiatra di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 maggio 2018 Andrea Soldi, 45 anni, malato di schizofrenia paranoide, morì il 5 agosto 2015. I tre vigili urbani e uno psichiatra che applicarono il Tso ad Andrea Soldi, che poi morì, sono stati condannati in primo grado a un anno e 8 mesi. I quattro, accusati di omicidio colposo, erano presenti in aula al momento della sentenza. La condanna è andata oltre la pena richiesta dal pm Lisa Bergamasco, che aveva chiesto per i quattro 1 anno e 6 mesi. Il Tribunale di Torino ha inoltre stabilito un risarcimento del danno da definire in sede civile, ma ha disposto una provvisionale immediatamente esecutiva di 220.000 euro al padre Renato Soldi e di 75.000 euro alla sorella Maria Cristina Soldi che gli imputati dovranno pagare in solido con il Comune di Torino e l’Asl, citati in giudizio come responsabili civili. I rappresentanti legali dei tre vigili e dello psichiatra condannati in primo grado hanno già annunciato che ricorreranno in appello, mentre l’avvocato della famiglia Soldi ha parlato di “riconoscimento di un percorso che è iniziato nell’agosto 2015 e che ha sempre avuto come unico obiettivo la giustizia per Andrea e con questa la restituzione della dignità che gli è stata tolta”. Commossa la sorella di Andrea, Maria Cristina Soldi, che all’uscita del Tribunale ha dichiarato: “Mi auguro che qualcuno si metta intorno a un tavolo e ragioni sul Tso, perché le cose cambino”. In merito alla condanna, la donna ha aggiunto: “Noi non abbiamo mai pensato a giorni, mesi, anni. Abbiamo pensato sempre a una condanna morale per il fatto, per chi ha fatto e per chi non ha fatto quel 5 agosto 2015. Quello che è successo a mio fratello non deve succedere mai più a nessuno”. Andrea Soldi aveva 45 anni e viveva a Torino. Dal 1991 era malato di schizofrenia, una malattia psichiatrica che danneggia molto duramente le capacità cognitive e relazionali di chi ne soffre. Fino ai primi anni 2000, Soldi lavorava nell’azienda di suo padre e seguiva una squadra di calcio di ragazzi del quartiere. Negli ultimi anni però sue condizioni erano peggiorate: Soldi passava le giornate in casa propria oppure su una panchina del parco di Piazza Umbria, che si trova a nordovest del centro di Torino. Secondo diverse persone che lo conoscevano, Soldi non era una persona violenta: frequentava spesso un bar della zona e giocava all’aperto con alcuni bambini. Negli ultimi anni Soldi aveva spesso interrotto le cure ed era stato interessato da cinque interventi di Tso (che devono essere richiesti da due medici e approvati dal sindaco o dall’assessore competente). Un nuovo intervento era stato richiesto nell’agosto del 2015 da suo padre, all’epoca ottantenne, e che aveva molte difficoltà a gestire la condizione di Soldi. Nel primo pomeriggio del 5 agosto, tre vigili urbani dei Nucleo dei Progetti e Servizi Mirati di Torino, uno psichiatra e un infermiere sono intervenuti per eseguire un Tso su Soldi, che si trovava al parco di Piazza Umbria. Diversi testimoni hanno raccontato che Soldi ha rifiutato l’intervento e che di conseguenza è stato trascinato a forza all’interno di un ambulanza con metodi non conformi, addirittura tenendolo a testa in giù durante il tragitto con l’ambulanza. Soldi poi arrivò all’ospedale Maria Vittoria di Torino in crisi respiratoria ed morì poco dopo. Cagliari: va in pensione lo storico direttore dell’ex carcere di Buocammino di Alessandro Congia sardegnalive.net, 31 maggio 2018 Eccetto Tempio e Oristano, Pala ha retto tutti gli Istituti della Sardegna con incarichi temporali. “Gianfranco Pala, lo “storico” direttore della Casa Circondariale di Cagliari “Buoncammino”, è ormai in pensione. Nel formulargli gli auguri per questo importante traguardo, i volontari di Sdr ne sottolineano l’umanità e l’equilibrio nella gestione delle risorse professionali degli operatori, di quanti indirettamente hanno collaborato con l’Istituto e dei detenuti”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente di “Socialismo Diritti Riforme”, l’associazione che dal 2009, grazie a una convenzione sottoscritta con l’Istituto, opera stabilmente nella struttura penitenziaria. “Aldilà della professionalità dell’attuale direttore del principale Istituto detentivo dell’isola Marco Porcu - sottolinea Caligaris - la storia del nostro sodalizio è legata a quella di Gianfranco Pala che ha dato a Sdr la possibilità di collaborare garantendo da subito i colloqui bisettimanali con le persone private della libertà e favorendo un rapporto di cordiale dialogo e scambio di proposte culturali e sociali per migliorare la vita dei detenuti. Ciò in particolare durante gli anni in cui la struttura cagliaritana di viale Buoncammino registrava dei gravi limiti per il sovraffollamento e per le oggettive difficoltà derivanti anche dalla mutata fisionomia dei detenuti, con sempre maggiori problematiche legate alla droga e al disagio sociale”. “Pala, che ha curato anche gli aspetti organizzativi del trasferimento, il 23 novembre 2014, dal ottocentesco Istituto di “Buoncammino” al più recente carcere di Uta, la cui costruzione è iniziata nel 2005 e non è ancora conclusa, è ricordato da moltissimi detenuti “storici” per l’umanità e per la conoscenza personale e familiare della quasi totalità dei ristretti, anche quando i “numeri” dei presenti dentro le mura dell’Istituto di Pena a Cagliari e a Uta hanno raggiunto cifre esorbitanti”. “Nel ringraziarlo per la fiducia accordata all’associazione - conclude la presidente di SDR - rinnoviamo cordiali auguri per una nuova stagione che auspichiamo piena di soddisfazioni anche per il ruolo di Presidente del Comitato regionale Federboxe che ricopre con successo dal 2014. Originario di Decimomannu, 60 anni, sposato e padre di 2 figli, Gianfranco Pala, laureato in Giurisprudenza ha iniziato la carriera nell’amministrazione penitenziaria nel 1986, quando dopo aver superato il concorso per 25 posti, ha ottenuto l’incarico di Vicedirettore nella Casa Circondariale di Cuneo. Nel 1989 è arrivato a “Badu e Carros” dove, dopo due mesi, è stato nominato Direttore in sostituzione di Francesco Massidda impegnato nel corso per Dirigente. Sono trascorsi due anni ed è arrivato un “battesimo” impegnativo. Dal 1991 al 1998 Gianfranco Pala è stato Direttore della Casa di Reclusione dell’Asinara dove l’anno successivo al suo incarico è stata aperta la sezione di massima sicurezza. Anni cruciali per la presenza nell’Istituto di rappresentanti di peso della criminalità organizzata come Francesco Schiavone, Salvatore Riina, Leoluca Bagarella, Renato Vallanzasca, Carmelo Musumeci. Successivamente è stato responsabile di Alghero e quindi dal 1999 di Cagliari Buoncammino e Uta. Eccetto Tempio e Oristano, Pala ha retto tutti gli Istituti della Sardegna con incarichi temporali. Roma: la Sindaca Virginia Raggi e i nuovi detenuti al servizio della città di Dario Caputo farodiroma.it, 31 maggio 2018 Virginia Raggi è intervenuta con un lungo comunicato stampa per annunciare che sono sempre di più i detenuti che si stanno impegnando per pulire parchi e giardini della città capitolina. “Ieri mattina è iniziato il corso di formazione per altri 14 volontari della Casa circondariale di Rebibbia, che tra una settimana potranno così iniziare a lavorare a titolo gratuito come ‘giardinierì”. Questi si andranno ad aggiungere ai primi 18 detenuti che hanno iniziato il lavoro lo scorso marzo da Colle Oppio. “L’iniziativa si è sviluppata grazie a un intenso lavoro di squadra che ha coinvolto gli assessori Baldassarre, Frongia e Montanari nella sottoscrizione dell’Accordo congiunto Roma Capitale - Ministero della Giustizia e nella successiva firma del Protocollo d’Intesa per il progetto Lavori di pubblica utilità e recupero del patrimonio ambientale”. La Sindaca ha precisato che il progetto tiene conto delle specifiche professionalità e attitudini lavorative, promuovendo un percorso di sensibilizzazione al rispetto del bene comune, alla legalità, all’osservanza delle regole e delle norme, come elementi imprescindibili per il percorso di reinserimento dei detenuti. “Stiamo garantendo piena attuazione all’articolo 27 della Costituzione, che prevede la funzione rieducativa della pena. Mettiamo al centro la persona: una comunità solidale si costruisce con il contributo di tutti, nessuno escluso”. Ferrara: sempre più concreto lo sciopero degli infermieri del carcere estense.com, 31 maggio 2018 Si protrae lo stato d’agitazione proclamato dalla Fials per le condizioni di lavori degli infermieri nel carcere dell’Arginone, fino a far diventare sempre più concreta la possibilità dello sciopero. Dopo la prima minaccia di incrociare le braccia arrivata a inizio maggio, il sindacato ha infatti chiesto formalmente all’Ausl di Ferrara - accusata di avere “in spregio le regole e gli accordi da lei stessa sottoscritti” - di avviare “la procedura di raffreddamento fra le parti”, prevista dal contratto e dalle leggi, al fine di arrivare a una conciliazione. Il termine per avviare il confronto è quello di cinque giorni a far data dal 30 maggio, scaduto il quale la Fials sembra intenzionata a passare dalle parole ai fatti. Il sindacato lamenta le condizioni di sotto-dimensionamento del personale, costretto a fare i salti mortali per prestare i servizi necessari alle cure dei pazienti carcerati. Situazione che, secondo la Fials, senza interventi risolutori sarebbe destinata a peggiorare con l’arrivo dell’estate e delle ferie. Fermo: la normalità dei detenuti raccontata dagli studenti dell’Ipsia cronachefermane.it, 31 maggio 2018 Da una parte gli studenti, gli occhi sbarrati sul futuro e sui loro sogni. Dall’altra i detenuti che i sogni li hanno smarriti per strada e sul futuro hanno poche speranze. È un incontro che ogni volta si rinnova e fa crescere tutti, stavolta nella casa di reclusione di Fermo sono passati una trentina di studenti dell’Ipsia Ricci, ultimo anno di scuola prima della maturità. Si è trattato del passaggio finale del progetto che le insegnanti hanno fortemente voluto e che ha previsto discussioni in classe, per parlare di legalità, di Costituzione, di carcere, di diritti e di doveri. Molto atteso l’incontro dietro le sbarre, per i ragazzi è stato aperto il locale della palestra, per dar loro modo di porre domande e ascoltare testimonianze. Curiosi e attenti, rispettosi e per niente in soggezione si sono dimostrati i ragazzi, contanti e per niente imbarazzati i detenuti che si sono sentiti carichi della responsabilità di dare un esempio positivo, per provare ad evitare che altri facciano il loro stesso errore. Queste le parole che Michela, 5 MB, ha usato per raccontare l’incontro: “Ciò che più mi ha impressionato appena siamo entrati è stato vedere questi lunghi corridoi sui quali si aprivano le celle e vedere tanti uomini appesi alle sbarre delle porte che gridavano per attirare la nostra attenzione. E questo mi ha creato una specie di ansia. Però, quando poi abbiamo cominciato a parlare, nella palestra, l’ansia è sparita e ho percepito la loro sensibilità, il loro bisogno di parlare e la loro voglia di cambiare”. Per Erona, 5 MB, ad entrare in carcere si prova disagio e un senso di claustrofobia: “Prima di incontrare i detenuti avevo l’idea che questi fossero persone del tutto diverse da noi, quasi dei mostri, invece dopo aver parlato con loro mi sono resa conto della loro normalità e del fatto che ciascuno di noi può passare quel limite e diventare uno di loro. Tra quello che ci hanno detto quello che mi ha colpito di più è stato il consiglio di un detenuto dominicano che, parlandoci come un padre, ci ha consigliato di ‘contare fino a 10 o anche fino a 20 prima di fare qualcosa che sai che è sbagliato perché poi tornare indietro è difficile se non impossibilè. Questo mi ha fatto capire di quanto sia facile sbagliare e quanto invece sia poi difficile rimediare ai propri errori”. Le insegnanti erano Michela Pagliarini e Elisabetta Onori che hanno lavorato in maniera approfondita con i ragazzi, col supporto della dirigente Stefania Scatasta, c’era anche Patrizia Serafini che in carcere insegna inglese. Incontri fortemente voluti dalla direttrice del carcere, Eleonora Consoli, e dal responsabile dell’area trattamentale Nicola Arbusti, col supporto della Polizia penitenziaria e del comandante Loredana Napoli. Si esce dal carcere col cuore un po’ più aperto, con la bellezza di avere la libertà piena e la possibilità di scegliere e di costruire la vita in maniera seria e serena. Sassari: le storie “liberate” raccontate dai detenuti La Nuova Sardegna, 31 maggio 2018 Tredici detenuti di lunga pena oggi mettono in scena, nel carcere di Bancali (alle 15), la drammatizzazione teatrale, dal titolo “Storie liberate”. Dietro l’iniziativa c’è un lungo lavoro fatto insieme ad Alessandro e Vittorio Gazale, che hanno curato la regia e la sceneggiatura della rappresentazione. Nello spettacolo anche uno spazio artistico di valore con alcune videoclip originali e musiche del cantautore Piero Marras (il cantautore sarà presente in carcere). L’iniziativa sarà presentata dalla direttrice del carcere Patrizia Incollu insieme alla referente per l’Area educativa Ilenia Troffa e la direttrice dell’Ifold Mariolina Fusco. “Storie liberate” è il racconto del lavoro di recupero degli archivi storici delle colonie penali della Sardegna, salvati dall’abbandono, un lavoro svolto da un gruppo di detenuti nei sotterranei umidi del carcere di San Sebastiano. E la drammatizzazione porta in scena gli aspetti emozionali dell’attività, con i dialoghi reali degli “archivisti speciali” durante la fase di lettura, di interpretazione e di elaborazione dei documenti, dove hanno messo a disposizione la loro stessa esperienza di vita vissuta, di errori e punizioni. La sceneggiatura finale è, quindi, un intreccio di racconti provenienti dal passato e dalla quotidianità odierna, con uno spaccato della vita detentiva italiana dal 1860 ad oggi. Il lavoro fa riferimento a un progetto iniziato nel 2009 a Sassari (prima a San Sebastiano e poi a Bancali) sviluppato in stretta collaborazione con l’Area educativa del carcere, l’Archivio di Stato e i Parchi dell’Asinara e di Porto Conte, con il recupero dei vecchi archivi delle ex colonie penali della Sardegna. L’attività ha permesso il ritrovamento e lo studio di un eccezionale materiale inedito e la pubblicazione di alcuni volumi in collaborazione con la Delfino e l’allestimento di due moderni musei multimediali sulla storia del carcere. Andria (Bat): oggi un convegno sulle misure alternative al carcere videoandria.com, 31 maggio 2018 Si parlerà di misure alternative alla pena in carcere ed in particolare dell’istituto della messa alla prova, ma si parlerà anche di stato di salute di questi nuovi strumenti e del delicato ed essenziale ruolo del mondo del volontariato in questo senso. Ecco il convegno “Riparattiva”, ovvero costruire la rete territoriale con prospettive di integrazione e metodologie di intervento nell’applicazione dell’istituto della messa alla prova. Convegno che si svolgerà ad Andria, all’interno dell’Hotel Ottagono giovedì 31 maggio a partire dalle ore 9. Un progetto nato da una lunga collaborazione e fortemente voluto sia dalla Federazione Regionale delle Misericordie di Puglia assieme alla Misericordia di Andria e sia dall’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna per la Puglia e la Basilicata. Un convegno, diviso in due parti tra mattino e pomeriggio, con un parterre particolarmente nutrito ed importante con la presenza di numerosissime autorità sia tra gli ospiti che tra i relatori del convegno e nei workshop pomeridiani. Un convegno che sarà occasione propizia per la firma di due protocolli d’intesa tra le due organizzazioni. Parteciperà direttamente da Roma, per esempio, il Dott. Vincenzo Starita, del Dipartimento di Giustizia Minorile di Roma, nello specifico direttore della direzione generale del personale, delle risorse e per l’attuazione dei provvedimenti del Giudice Minorile. Procuratori, giudici, avvocati, assistenti sociali e giornalisti, chiamati assieme a comprendere una misura alternativa alla pena in carcere con il coinvolgimento essenziale del mondo del volontariato. Il convegno gode del patrocinio del Comune di Andria e della Diocesi di Andria oltre che l’accreditamento formativo di tre ordini come quello degli avvocati, degli assistenti sociali e dei giornalisti. Siena: reportage dal carcere, delizie gastronomiche preparate dai detenuti di Laura Valdesi La Nazione, 31 maggio 2018 A realizzarle sono stati i reclusi che frequentano la sezione di enogastronomia della scuola attivata in carcere. I colori? Rosa, verde e azzurro. Rosso. Esaltano la vita, i dipinti alle pareti. Un inno alla gioia. Raccontano di case e castelli. Fanno dimenticare di essere fra le sbarre. Reclusi. Senza telefono, né affetti. Impossibile prendere la macchina e andare lontano. La realtà è solo immaginata. All’orizzonte. Scorre fuori dalle finestre blindate e dalle porte perennemente chiuse. Eppure i colori delle stanze dove i detenuti incontrano gli occhi dei loro cari, con lavagna e giochi, sanno di normalità. Almeno per un giorno. È un via vai di vassoi e di bevande. Di dolci e di pasta. C’è anche la panzanella. Una trentina di uomini, giovani ma anche di mezza età, guanti e cappello da chef in testa, li sistemano sulle tovaglie rosse sopra cui campeggiano alcune rose. Della stessa tinta. Sono detenuti del carcere di Ranza, quei cuochi, camerieri e barman. Una casa di reclusione di massima sicurezza. Chi è qui sconta anche pene di decine di anni. L’ergastolo. Eppure non si distinguono dai professori che hanno insegnato loro come realizzare le costolette di agnello e il mille foglie con chantilly e amarene. Una delizia. Insieme ieri hanno accolto alcuni rappresentanti della comunità locale e del volontariato con un banchetto. Miracolo degli insegnanti della sezione enogastronomica del ‘Ricasolì di Siena attivata a Ranza anni fa. “Una realtà affermata - spiega con orgoglio il preside Tiziano Neri - tanto che riceve domande di trasferimento da altre case di reclusione. Sarebbe bello adesso poter allestire una biblioteca”. E quando tutto e pronto e saluta gli invitati ringraziando gli artefici del pranzo “per la loro competenza”, affiancato dalle educatrici che sono ‘faro’ in questa realtà difficile, la festa ha inizio. Si legge negli occhi degli studenti-detenuti che è una gioia poter mostrare cosa hanno imparato. Intorno la gente comune. Che si mette a tavola mentre loro si prodigano per servirla al meglio. Siena: “Note da dentro”, il coro dei detenuti insieme a DaltroCanto gazzettinodelchianti.it, 31 maggio 2018 Un coro intitolato “Note da dentro”. È quello dei detenuti del carcere di alta sicurezza di Ranza che si è esibito in un concerto insieme alle voci del coro DaltroCanto, diretto dal maestro Keren Davidovitch e accompagnato dal pianista Ivan Morelli, direttore della Scuola di Musica Il pentagramma di San Gimignano, nello spazio Teatranza, all’interno del penitenziario alla presenza del sindaco di Barberino Giacomo Trentanovi e dell’assessore alla Cultura di San Gimignano Carolina Taddei. “È stata un’occasione unica per comprendere, conoscere la realtà del carcere e sentirsi vicini ai percorsi dei detenuti - ha detto Ivan Morelli - con la visione di chi vive fuori abbiamo condiviso un’esperienza incredibile con chi sta dentro, abbiamo provato ad annullare le differenze e a sentirci liberi attraverso la forza e la bellezza della musica che riscalda l’anima e risveglia buoni sentimenti”. Sotto la guida e la direzione del maestro Gianni Franceschi, il Coro Quodlibet di San Casciano, nell’ambito della diciottesima edizione della rassegna corale Itinerari vocali, si esibirà invece il 9 giugno alle ore 20 nella millenaria Pieve di San Pancrazio. Il coro chiantigiano eseguirà un concerto insieme al Coro de La Uniò Musical de Paiporta (Valencia), diretto da Sara Lliso Mas. L’evento si intitola “Allegria di naufragi” ed è ispirato al titolo di una raccolta di poesie composte da Giuseppe Ungaretti. Il programma prevede alcune letture di poesie dello scrittore a cura di Gianni Mazzei, l’esecuzione dei brani e improvvisazioni corali su testi di Ungaretti. “Allegria ha un significato augurale - spiega il maestro Franceschi - esprime la volontà di rialzarsi dopo gli orrori della guerra, mentre il termine naufragi recepisce la crisi che il conflitto ha generato in ogni uomo”. Nel programma sono previste musiche di Martin, Mendelssohn, Dubois, Rheinberger. L'Italia è un Paese fondato sull'insulto: da noi il dibattito online più violento d'Europa di Mauro Munafò e Francesca Sironi L'Espresso, 31 maggio 2018 I risultati di una ricerca esclusiva che ha coinvolto 4 paesi sui commenti nei profili dei politici. Da cui emerge quanto siano tossiche le conversazioni in Rete. Soprattutto grazie a leader come Salvini che aizzano i follower. La nuova democrazia degli sciami ha preso casa. Le due forze politiche che hanno provato a formare in questi giorni un governo comune hanno già molto in comune, e da tempo, sul web. Nella realtà ormai concreta della Polis digitale e dei suoi sciami d’opinione, d’odio e d’amore via internet, Lega e 5 Stelle non rappresentano un’avanguardia solo per l’Italia, ma per tutta l’Europa. Matteo Salvini e Luigi Di Maio sono infatti i politici più attivi sui social network, quelli che pubblicano con maggiore frequenza, che ricevono più risposte e condivisioni, i candidati che avevano già sancito per successo di clic il loro exploit alle urne. Nel nostro paese, certo. Ma hanno un primato anche rispetto ai loro omologhi tedeschi, francesi e svizzeri, in quanto ad attivismo digital. Il “Ruspa” può vantare poi un altro record nel continente. La coalizione di centrodestra con cui è stato eletto batte infatti tutti gli avversari in quanto a tossicità delle conversazioni: il 9,2 per cento dei commenti condivisi sui profili dell’ormai ex asse elettorale è un insulto o un’offesa nei confronti di altri, degli “invasori mercenari di Soros” dei “clandestini che distruggono Firenze” di “quella mucca con i capelli viola” (una signora che contestava il sindacato di polizia), dello “strozzinaggio e potere bancario”. I messaggi sulle loro pagine sfrigolano disprezzo, avversioni e fantasmi in misura maggiore di quanto accada, per dire, sui social del gruppo parlamentare del Front National, in Francia. Se in tutta Europa la voce dell’estrema destra sembra così più propensa ad aggregare e sparpagliare veleno web rispetto alle altre formazioni, in Italia questo accade con particolare intensità. Sono alcuni dei risultati di una ricerca esclusiva condotta dall’Espresso insieme a un team di giornalisti internazionali. Partendo da un campione randomizzato, statisticamente significativo, di 320 politici, uomini e donne, in Italia, Francia, Germania e Svizzera, sono stati raccolti in maniera casuale i commenti che hanno ricevuto i deputati sui propri profili pubblici Twitter e Facebook per quattro settimane, dal 21 febbraio al 21 marzo 2018. A questo nucleo sono state aggiunte le conversazioni di 10 leader di partito in ogni paese. Sono stati così esaminati oltre 40 mila messaggi per valutarne l’aggressività, sulla base di una scala elaborata da “Articolo 19”, un’organizzazione che lavora sulla libertà d’espressione in Rete. Ogni insulto è stato quindi indicizzato sulla base di alcune categorie, dall’antisemitismo all’omofobia al sessismo. Fra le prime conclusioni di questo lavoro di analisi c’è una sorpresa positiva: i commenti tossici sono meno del sei per cento del totale. In Italia e Francia la conversazione digitale è più inquinata che negli altri due paesi. Ma resta comunque sotto controllo. Mediamente la conversazione online, sulle pagine dei politici, è insomma abbastanza serena o moderata. Scorre quieta fra il sostegno e la chiacchiera, fra l’indifferenza e il “vergogna” di passaggio. L’aggressività non è trasversale, non è un dato comune e costante del rapporto fra il “popolo del web” e i propri eletti. Piuttosto: si concentra. Si coagula su target o argomenti ben precisi, contro cui lo sciame si rafforza e si amplifica. No Vax, no casta, no donne - Un esempio è quanto accaduto a Beatrice Lorenzin. Il 22,7 per cento delle parole che le sono state rivolte sui social nel mese del monitoraggio svolto dall’Espresso insieme ai colleghi europei suonavano al tono di “Bastarda bastarda bastarda” o del più grave “Ti maledirò finché avrò un alito di respiro” per la legge sui vaccini. Decine e decine di frecce. Sulla scia della stessa avversione, spesso pronta a virare in vere e proprie minacce di morte, è finito anche un suo compagno di partito: Paolo Alli. Contro di lui le frange anti-vaccini sono arrivate a scrivere post quali: “Lorenzin e Alli. Per avere tradito l’Italia e gli italiani una sola soluzione: fucilazione”. Ci sono spigoli del dibattito che più di altri forgiano parole ostili. In Germania il risentimento è dominato dallo spettro anti-immigrati. In Francia le offese aumentano con il sessismo. In Italia sono vere entrambe. Nei confronti di Maria Elena Boschi ad esempio abbondano le reazioni pubbliche che vanno dal “sei bellissima!” al “Sei solo gnocca”, a “Perizoma please!!” fino al “La aspetto sempre tra sei mesi sulla statale”. Nel campione della ricerca non sono state trovate differenze sostanziali per quanto riguarda il numero di offese personali rivolte alle donne rispetto a quelle inviate agli uomini. Ma quando si guarda alle deputate con maggiore visibilità l’aumento è rilevante sia in Italia che in Francia. Le donne politiche più in vista ricevono cioè molti più insulti dei loro pari maschi. È molto più facile trovare così attacchi come “Vergognosa parassita radical chic!” o: “Vada a fare la casalinga che è più consono alla sua natura” sotto una riflessione di Anna Finocchiaro, di quanto accada per un suo collega di partito. Le voci dei capi - Se il sessismo è una sponda facile da cui salire all’attacco, ancora più semplice è attorcigliare la lingua quando il tema batte sulla consueta divisione noi-e-loro. “Pure l’immigrante climatico vogliono portare!”, lamenta un seguace di Salvini su Twitter; “Ha la pistola… doveva sparargli”, si augura un altro rispondendo al leader che commentava: “Prima in galera, poi espulso nel suo Paese. Basta!!!” in calce a un episodio di molestie di cui era stata vittima una carabiniera di Milano. Il catalogo è scadente e arcinoto. E si inzeppa di “piani Kalergi”, “bombe nucleari sulla Libia”, “No niente galera solo tante legnate” sempre in risposta a un commento del capo che recitava: “Prima galera, poi castrazione chimica, poi espulsione!”. È un cupo gioco al rialzo: “La tossicità arriva spesso dall’alto, dagli stessi leader e partiti politici”, ricorda Leonardo Bianchi, autore del saggio “La Gente” pubblicato da minimum fax: “Sui social le persone si sentono legittimate a esprimersi in un certo modo”, seguendo le orme dell’intolleranza. “Purtroppo bisogna riconoscere che quel linguaggio ha pagato”, riflette Edmondo Cirielli, deputato di Fratelli d’Italia, autore di uno dei post più divisivi tracciati dalla ricerca: un semplice manifesto elettorale accompagnato da un incoraggiamento. “Era la prima volta che pubblicizzavo un post su Facebook, e sono rimasto sconvolto dagli insulti che ho letto”, racconta, contro Giorgia Meloni - “Vai a fare la mamma”, “fotoshopp... leccaculo di Berlusconi...” - e contro di lui. “Sono persone frustrate”, dice. Il cui linguaggio è però avallato spesso dall’alto. Ma quando la guida del suo partito parla di “feccia umana” rispetto a due stranieri, per Cirielli, “si tratta solo di una valutazione politica”. Giovanni Ziccardi, professore di Informatica giuridica all’Università di Milano, parlando del suo libro “L’odio online” in un intervento su DoppioZero, ricordava chiaramente: “Il politico che parla, per la sua posizione, dovrebbe avere una maggiore responsabilità: il suo potere diffusivo di pregiudizi nei confronti, ad esempio, di un gruppo preso di mira è assai ampio grazie alla camera di risonanza fornita dai mass media di cui può, in ogni momento, usufruire”. Ma l’esercizio di quella responsabilità sconta il successo del suo esatto contrario. Social Fascismo - Gli “immigrati”, i vaccini, le donne. E poi gli sciami si scagliano di volta in volta contro banche, complotti, finanziamenti occulti, o genericamente contro i politici. In un ricco intervento su Nuova Rivista Letteraria ripreso da “Giap”, Alberto Prunetti definiva il linguaggio di questi sciami un “trogolo, dove sono miscelati pastoni e retoriche un tempo considerate altamente tossiche, oggi sdoganate”, da un “fascismo del senso comune” che alimenta raid virtuali contro i nemici del momento. Sandra è una 49enne di Milano che a Emanuele Fiano ha scritto frasi come “Sputatevi in faccia speriamo che i vs fratelli africani vengano cercarvi (sic) presto per farvi stessa festa subita dalla povera Pamela Mastropietro allora si che gli italiani perbene festeggeranno davvero”, tutto in stampatello. Oggi risponde cortese alle nostre domande. “Sono una persona tranquilla”, dice: “Ma dal 2011 la mia vita professionale è andata peggiorando”. È da lì, sostiene, che le è salito l’odio per “questi politicanti di sinistra che tutto facevano tranne tutelare i cittadini italiani. Quando lei sente un politico che inventa problemi come il fascismo che non esistono per distogliere la gente da quelli veri, una qualunque persona di buon senso non può che arrabbiarsi”. Che il fascismo sia però tutt’altro che una malattia immaginaria lo racconta la filigrana molto più esplicita politicamente di un altro degli sciami intercettati dalla ricerca. Davide Mattiello a febbraio è un parlamentare uscente e candidato Pd a Torino. “Questa mattina ho presentato un esposto in Procura nei confronti delle organizzazioni politiche Forza Nuova e Casa Pound”, scrive il 22 sui social network: “Perché credo che le suddette organizzazioni integrino la fattispecie di reato contenuta nella legge Scelba”. Basta a spalancare lo Stige. “Fanculo w il Duce” è una delle reazioni più caute, le altre scadono nell’omofobia più greve o nei “comunista di merda” fino ai “Perché non ti impicchi?”. “Non mi sono mai preoccupato per questi commenti”, racconta ora lui: “Fa parte del mio dovere politico, credo, manifestare il mio pensiero nelle piazze dove si trova la gente. E oggi queste sono i social network. Io ci sto con la consapevolezza della loro conflittualità”. Ma sono piazze dove le voci che si fanno sentire alla gran cassa sono però monocordi. Dove l’intolleranza, gli “a Noi!” e le paranoie securitarie vanno per la maggiore. “È una tendenza che riguarda tutte le democrazie liberali in Occidente”, ragiona Leonardo Bianchi: “Nessuno sa come proporre contro-narrazioni all’egemonia di discorsi che trattano l’immigrazione ad esempio attraverso le stesse immagini di “barconi” o “invasioni” da trent’anni. E con il crollo dei partiti social democratici il vuoto viene riempito da chi ha le idee più chiare o dice di averle”. Così le conversazioni in rete si fanno prima terra di conquista. Praterie intere di propaganda dove sciamare. Oasi grillina - Al riparo da questi stormi ostili sta il movimento che al web è legato dalla culla. Solo lo 0,5 per cento dei commenti scritti sulle pagine dei politici del Movimento 5 Stelle è offensivo personalmente nei loro confronti, il 3,3 nei confronti d’altri. È direttamente sulle pagine dei politici avversari che si va magari a pubblicare una fila di stelle come segno di riconoscimento, allora, oppure a indicare, condannare, offendere. Sotto i flussi dei “propri” rappresentanti eletti prevale invece l’appartenenza, l’entusiasmo, la comunità. E pochi si insinuano in quelle oasi per svuotare reciproci sacchi di fiele. Con chi si interfacciano allora, i politici in rete? Solo con chi li blandisce o li vitupera? Le eccezioni esistono. Nel campione analizzato dalla ricerca un esempio è quello di Stefano Quintarelli. Un esperto informatico, imprenditore, ex deputato, che alimenta lunghe conversazioni anche su temi ostici come l’identità digitale. Dove non si registrano risse. Ma sono una rarità. Per il resto i thread sembrano un fiorire di cuori e entusiasmo, di conferme quindi, in gran parte. Oppure di insulti, in quel sei per cento di sciami all’attacco dai pulpiti rumorosi delle nuove piazze digitali dove, come diceva Danny Wallace in un’intervista a “D di Repubblica”: “O attacchi, o sei attaccato, o taci”. Nota: La ricerca è stata realizzata dall’Espresso insieme a Rania Wazir; Vincent Coquaz; Alexander Fanta, Marie Bröckling, Julian Pütz e Leo Thüer per netzpolitik.org; ?Alison Langley per Deutsche Welle. Sono stati analizzati oltre 40mila messaggi randomizzati ricevuti da 360 politici di Italia, Germania, Francia e Svizzera. I post sono stati valutati su una scala che va dai commenti neutrali (0), a quelli molto scortesi (1), alle offese esplicite (2) fino al discorso d'odio (3). Terrorismo. Soldi e carcere, i fili da spezzare per colpire i jihadisti di Souad Sbai ilsussidiario.net, 31 maggio 2018 Dopo l’attentato di Liegi è opportuno riflettere su come poter limitare la minaccia del terrorismo jihadista, anche con interventi nelle carceri. L’attentato di Liegi ci dice tre cose. In primo luogo che il proselitismo della fratellanza musulmana, di stampo jihadista e radicalista, non molla la presa in Europa e continua a fare adepti. E che finché non si metterà fine al mare di denaro che affluisce nelle casse degli agenti della fratellanza dal Qatar non ci sarà mai uno stop significativo nella loro attività; ogni volta che un jihadista colpisce in Europa dovrebbe risuonare questo imperativo: niente soldi, niente jihad. Se non si pone mano in maniera massiccia alla prepotente cascata di denaro che nutre la fratellanza e arma indirettamente la mano degli jihadisti per l’Occidente la speranza è appesa a un filo: e le domande sul perché nessuno spezza questo filo rosso sono moltissime, peccato che i grandi analisti nostrani non si azzardano a farle nemmeno per sbaglio. In secondo luogo, seguendo la linea di cosa è successo a Liegi, ci si imbatte nella scelta di non uccidere la donna ostaggio perché di fede musulmana. E anche qui il concetto è piuttosto semplice: nella farneticante visione imposta dai proselitisti nelle menti malate di coloro che poi compiono questi gesti c’è chiaro e semplice l’obiettivo di eliminare chiunque sia di intralcio all’avanzata della fratellanza musulmana in Occidente. Chiunque non si possa considerare allineato con un certo pensiero, il che nella testa destrutturata e poi ristrutturata dal messaggio proselitista coincide con il fatto che un musulmano possa eventualmente anche non essere considerato un obiettivo da colpire. Senza stare a pensare se quella persona sia o meno coerente con un determinato pensiero. E c’è da pensare che la signora potesse non esserlo. In terzo luogo l’elemento a mio modo di vedere più rilevante in tutto questo parlare di cause e di modalità del terrorismo jihadista: le carceri. Il soggetto era un ex detenuto, radicalizzato in carcere e appena uscito ha messo in atto il compito che chi era in quel penitenziario gli ha programmato in testa. E ciò che deve far riflettere ancora di più è il fatto, venuto alla luce solo a ventiquattro ore di distanza, che il jihadista aveva ucciso il giorno prima un altro ex detenuto. Il che lascia a intendere che possa essersi trattato di un personaggio con cui magari il soggetto aveva avuto dei contrasti in carcere, forse proprio per questioni legate all’estremismo. Questo porta a ribadire ancora una volta il ruolo delle carceri come vero e proprio ricettacolo di proselitismo in tutta Europa: si pensi ai detenuti radicalizzati fuggiti in Francia e a quello scappato in Italia e poi ripreso. E come sia importante la formazione degli agenti della penitenziaria in questo ambito. Settimana prossima inizierà l’ennesima sessione di corsi appositi che abbiamo messo in campo dedicati proprio agli agenti del corpo penitenziario, perché loro sono i primi occhi capaci di vedere, capire, fermare. Troppo spesso il carcere come luogo di proselitismo è stato sottovalutato, e ogni volta che un radicalizzato compie un attentato pare si cada dalle nuvole. Forse perché anche collegare è diventato un atto contrario al politicamente corretto. I migranti e il paese senza guida di Gianandrea Gaiani Il Mattino, 31 maggio 2018 Difficile credere alle coincidenze osservando quanto accaduto nelle ultime 72 ore in concomitanza con la crisi politico-istituzionale italiana. Mentre ci si fronteggia sul campo della sovranità nazionale, pochi sembrano far caso ad alcune vicende che contribuiscono a sottolineare il progressivo deficit di credibilità di cui soffre l'Italia. Non si tratta di essere o meno critici nei confronti dell'euro e dei trattati Ue ma di questioni legate strettamente agli interessi nazionali quali la crisi libica, i flussi di migranti illegali e la mai decollata missione militare in Niger. La conferenza sulla Libia organizzata a Parigi da Emmanuel Macron conferma la volontà transalpina di imporre la propria leadership nel difficile processo di pace nella ex colonia italiana ma il fatto che il summit sia stato organizzato dall'Eliseo in pochi giorni sottolinea l'evidente volontà francese di approfittare dell'impasse italiana. Nessun documento è stato firmato al termine del vertice parigino in cui le parti si sono però impegnate a favorire la stabilizzazione del Paese e l'unificazione delle istituzioni in vista del voto parlamentare il 10 dicembre. Un blando successo che dovrà fare i conti con le 13 milizie dell'Ovest, tra cui alcune delle più importanti, che non si sono presentate a Parigi e con le condizioni poste dai Fratelli Musulmani, molto forti in Tripolitania e sostenuti da Turchia e Qatar. Paesi che, con la Francia, stanno mettendo all'angolo l'Italia, la cui influenza è in fase calante con l'uscita di scena del ministro Marco Minniti che aveva assunto precisi impegni a sostegno delle comunità della Tripolitania e della regione meridionale del Fezzan. Oltre 2mila arrivi da navi delle immancabili Ong, che continuano a raccogliere migranti nelle acque assegnate al pattugliamento della Guardia costiera libica, ma anche da navi militari italiane, francesi, britanniche e spagnole. Era dal luglio scorso che non si assisteva a flussi così ingenti, da aggiungere a quelli crescenti in atto dalla Tunisia, a conferma di come siano già venuti meno i frutti delle iniziative varate da Minniti per disciplinare l'operato delle Ong e potenziare le forze navali di Tripoli nel soccorrere i migranti e riportarli in Libia per affidarli alle agenzie dell'Onu che ne curano il rimpatrio. Dopo il calo del 78% degli sbarchi (13.303 dall'inizio dell'anno contro 60.228 dello stesso periodo dell'anno scorso), se si confermasse la tendenza degli ultimi giorni potremmo tornare presto ai livelli dell'emergenza dell'estate scorsa. Molto dipenderà dalla credibilità di Roma nel ribadire lo stop all'immigrazione illegale, la cui latitanza consentirebbe indubbi vantaggi e spazi di manovra alle lobby del soccorso e dell'accoglienza ben radicate in Italia come ai nostri rivali stranieri. L'ultimo umiliante esempio a questo proposito giunge dal Niger dove da mesi Roma tenta di far decollare la missione militare (Misin) approvata in gennaio dal Parlamento ma che il governo di Niamey dice di non volere. Da mesi ormai 40 militari italiani hanno piantato le tende nel campo da basket della base statunitense all'aeroporto della capitale nigerina in attesa che il governo del paese del Sahel accrediti la missione, definendo i compiti addestrativi dei nostri militari (che dovrebbero salire a 140 e poi a oltre 400) e firmando un accordo che offra anche garanzie giuridiche ai militari italiani. I nigeriani e soprattutto i francesi (ancora egemoni in quella regione africana) non hanno apprezzato il rifiuto di Roma di affidare al contingente compiti di combattimento e di porlo sotto il comando di Parigi. Per questo boicottano la Misin mentre l'Italia cerca di blandire il governo Niamey con donazioni di medicinali (27 tonnellate in un mese), l'ultima avvenuta lunedì, accolte con cortese freddezza da Niamey. Difficile digerire che la settima potenza economica mondiale e tra le prime 15 per spesa militare si faccia prendere per il naso da uno dei tre Stati più poveri del mondo a cui abbiamo donato l'anno scorso 100 milioni di euro di aiuti. Anche se, a proposito di credibilità, persino in Niger governano i partiti che hanno vinto le elezioni. Ungheria. Passa la legge contro le Ong che aiutano i migranti di Andrea Tarquini La Repubblica, 31 maggio 2018 Il partito di Orbàn approva la norma che punisce chiunque dia sostegno agli immigrati illegali: per i critici è un modo per colpire il rivale George Soros. Dopo il trionfo elettorale dell'8 aprile, il popolare, carismatico premier sovranista ungherese Viktor Orbán lancia l´offensiva finale sul fronte dei migranti e contro ogni altro presunto avversario. È ormai pronta e passata ieri sera dalla maggioranza assoluta detenuta dalla Fidesz (il partito di Orbán, membro dei Popolari europei) allo Orszagház, il Parlamento magiaro, la cosiddetta legge “Stop Soros” che punirà come reato penale ogni aiuto agli immigranti illegali fornito da ong o da qualsiasi organizzazione umanitaria. Secondo la legge, qualsiasi organizzazione ma anche qualsiasi singolo cittadino che si renda colpevole di aiuto a entrare e restare in Ungheria a persone che non hanno i titoli per chiedere asilo politico sarà passibile di pene detentive. Una seconda legge, sempre promossa dalla maggioranza, afferma che sarà necessario introdurre un emendamento nella Costituzione ungherese per affermare esplicitamente che sarà vietato far installare o aiutare a installarsi in Ungheria qualsiasi “popolazione aliena”, cioè in sostanza non conforme con valori occidentali e cristiani del paese magiaro. Il pacchetto di leggi ungheresi è stato immediatamente condannato dall´Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). Nelle leggi si afferma tra l'altro che “abbiamo bisogno di un piano d´azione per difendere l'Ungheria” e che “chi fornisce aiuti finanziari o di altro tipo a un ingresso e permanenza illegale nel nostro paese deve essere punibile con pene detentive fino a un anno di reclusione”. Immediata e durissima è stata la reazione dello Unhcr: in un appello urgente ha chiesto all'Ungheria di annullare subito le nuove leggi. Sottolineando che tali leggi, se non verranno ritirate, “toglieranno ogni diritto da chi fugge da guerre e rischio di morte e al tempo stesso infiammeranno un dibattito politico già caratterizzato da forti pesanti toni xenofobi”. Nei giorni scorsi, un altro show di potere della maggioranza è stato il sequestro degli scritti inediti del grande filosofo marxista critico e oppositore sotto il regime comunista, Gyorgy Lukacs, trasportati a destinazione ignota, e la chiusura della casa di Lukacs dove fino a un giorno prima studiosi di tutto il mondo lavoravano all'edizione postuma di sue opere. Nicaragua. Feroce strategia repressiva contro i manifestanti di Riccardo Noury Corriere della Sera, 31 maggio 2018 In un mese e mezzo di proteste contro la riforma (poi ritirata) che intendeva aumentare il contributo sociale dei dipendenti e dei datori di lavoro e tagliare le pensioni, i morti sono stati almeno 81 (al 28 maggio) e i feriti 868, oltre a 438 arresti. Questo drammatico conto delle vittime chiama in causa le massime autorità del Nicaragua, che secondo Amnesty International hanno adottato sin dall’inizio una strategia repressiva basata sulla regola “spara per uccidere”. In un suo recente rapporto, l’organizzazione per i diritti umani denuncia l’uso di armi letali da parte della polizia, il ricorso a gruppi armati filo-governativi, l’ampio numero di manifestanti feriti a colpi di arma da fuoco, così come le traiettorie dei proiettili, l’elevata incidenza dei colpi sparati a testa, collo e petto e, infine, l’apparente tentativo di ostacolare la giustizia e nascondere la natura delle uccisioni. Già nel secondo giorno delle proteste la polizia ha sostituito i proiettili di gomma con quelli veri. L’ordine era evidentemente quello di fare tante vittime. La strategia repressiva pare diretta dai più alti livelli governativi. Il presidente Ortega e la vicepresidente Murillo hanno ripetutamente demonizzato i manifestanti e negato che ci fossero stati dei morti. Dal canto loro, funzionari dello stato hanno negato assistenza medica alle vittime, hanno manomesso prove e hanno rifiutato di svolgere autopsie e altri accertamenti medico-legali. L’uso di gruppi armati filo-governativi, chiamati anche “masse sandiniste”, ha avuto un ruolo fondamentale nella soppressione delle proteste: a loro le autorità hanno permesso di aggredire manifestanti, incitare alla violenza e diffondere la paura nella popolazione, rafforzando in questo modo la risposta repressiva dello stato e mettendolo maggiormente in grado di negare ogni responsabilità. Nelle prime settimane della crisi, le autorità hanno anche violato il diritto dell’opinione pubblica all’accesso all’informazione, impedendo la messa in onda dei servizi di quattro reti televisive dedicati alle proteste. La redazione di una radio è stata data alle fiamme, oltre 10 giornalisti sono stati derubati, minacciati o aggrediti e uno di loro, Ángel Gahona, è stato ucciso mentre faceva una diretta su Facebook dalla città di Bluefields. Una delegazione di Amnesty International ha visitato il Nicaragua dal 2 al 13 maggio per indagare sulle denunce di violazioni dei diritti umani nelle città di Managua, León, Ciudad Sandino ed Estelí. Il rapporto che ne è scaturito è basato su oltre 30 interviste, sull’analisi di 16 casi (tra cui nove uccisioni), sull’esame di fotografie e video e sul contributo di esperti nel campo delle armi da fuoco e delle munizioni. La delegazione ha verificato che il 20 aprile almeno tre ospedali pubblici hanno rifiutato di prestare cure mediche a persone che erano state ferite in modo grave durante le proteste, compreso il 15enne Álvaro Conrado, colpito mentre forniva acqua ai manifestanti. Il personale di sicurezza dell’ospedale Cruz Azul ha vietato l’ingresso al ragazzo, che è morto il giorno dopo nella clinica privata Bautista. Il personale sanitario di questo centro ha dichiarato che il ragazzo avrebbe potuto sopravvivere se gli fossero state prestate immediate cure mediche. Il rapporto di Amnesty International documenta anche svariati casi in cui le autorità hanno impedito di effettuare autopsie sui corpi di manifestanti uccisi e hanno subordinato la consegna delle salme ai familiari a una dichiarazione, da parte di questi ultimi, che non avrebbero presentato denunce. Molti familiari delle vittime hanno dichiarato di essere stati minacciati e intimiditi dalla polizia per dissuaderli dal parlare in pubblico o sollecitare l’incriminazione dei responsabili. Amnesty International ha chiesto al presidente Ortega, nella doppia veste di capo dello stato e di massimo dirigente della polizia nazionale, di porre immediatamente fine alla violenta repressione delle proteste, alle intimidazioni e alle minacce nei confronti dei familiari delle vittime e alla stigmatizzazione dei manifestanti. Le autorità nicaraguensi dovrebbero consentire la nomina di una commissione di esperti indipendenti che garantisca indagini rapide, imparziali e a tutto tondo sulle esecuzioni extragiudiziali e altre violazioni dei diritti umani, comprese quelle attribuite ai gruppi armati filo-governativi. Bangladesh. Azioni antidroga “alla Duterte”: almeno 100 vittime di Matteo Miavaldi Il Manifesto, 31 maggio 2018 Il governo difende la polizia: “Hanno ucciso spacciatori che hanno reagito agli arresti”. Lo scorso 15 maggio le autorità del Bangladesh hanno inaugurato una campagna antidroga nazionale, con l’obiettivo di mettere in ginocchio la diffusione di yaba - un derivato a basso costo della metanfetamina mischiato con caffeina - nel paese. La “guerra alla droga” promossa dalla premier e leader del partito Awami League, Sheikh Hasina, ha già mietuto oltre un centinaio di vittime, cui si aggiungono arresti e condanne lampo per almeno 12mila persone. Le modalità di intervento delle forze dell’ordine bangladeshi ricordano la campagna antidroga inaugurata due anni fa nelle Filippine dal presidente Duterte: una mattanza condotta in spregio dei diritti umani che, secondo il senatore filippino Antonio Trillanes, ha già superato la cifra record di 20mila omicidi extragiudiziali. All’inizio del mese la premier Hasina, durante un comizio per celebrare il 14esimo anniversario della fondazione del Rapid Action Batallion (Rab, corpo d’élite della polizia nazionale), dichiarava: “Abbiamo avuto successo nella campagna militare contro la militanza dell’estremismo islamico. Ora dobbiamo continuare, occupandoci dell’abuso di droghe”. Pochi giorni dopo, le teste di cuoio del Rab sono state dispiegate in tutto il Paese. Secondo l’agenzia di stampa Afp, il bilancio ufficioso degli scontri a fuoco tra il Rab e i sospetti spacciatori al 29 maggio ha raggiunto quota 102 morti, trenta in più rispetto al conteggio fatto solo tre giorni prima. Il Rab, per contro, sostiene di aver ucciso 24 “grandi spacciatori”, colpevoli di aver aperto il fuoco per primi: circostanze che non sono supportate da alcuna prova. Il ministro dell’interno Asaduzzaman Khan, difendendo l’operato delle forze di polizia, ha spiegato ad Afp: “Non c’è dubbio che le vittime degli scontri a fuoco siano spacciatori. La maggior parte di loro era armata e ha aperto il fuoco non appena ha visto la polizia. Non sono brave persone, c’erano tra i 10 e i 12 capi d’accusa contro ognuno di loro”. Secondo le autorità bangladeshi, tutte le vittime della guerra alla droga sono morte o in sparatorie con i reparti del Rab, o in sparatorie tra gang rivali. Lunedì 28 maggio, la Bangladesh National Human Rights Commission ha dato seguito alle preoccupazioni già palesate da attivisti per i diritti umani locali e internazionali, condannando ufficialmente la scia di omicidi extragiudiziali nel Paese. Il presidente della commissione, Kazi Rezaul Hoque, ha dichiarato: “Vogliamo che i criminali, chiunque essi siano, affrontino conseguenze all’interno di procedure legali”. Critiche all’operato del governo Hasina sono arrivate anche dai partiti d’opposizione, che hanno denunciato una serie di morti sospette di avversari politici dell’Awami League giudicati dalle autorità “capibastone” del racket di yaba di Teknaf, località al confine col Myanmar. Lo spaccio di yaba in Bangladesh è alimentato dalle importazioni illegali provenienti dal Myanmar, responsabile per oltre il 90 per cento della produzione di metanfetamine su scala globale. L’ultimo rapporto della narcotici bangladeshi indica che il giro d’affari della yaba supererebbe i 600 milioni di dollari. In Bangladesh ci sarebbero almeno 7 milioni di tossicodipendenti, di cui almeno 5 dipendenti da yaba. Diffuse in particolare tra i giovani della classe media, la yaba è venduta sul mercato locale a un prezzo che oscilla, in base alla qualità del prodotto, tra gli 8 e i 20 euro a pasticca. Etiopia. Amnistia per 500 detenuti, liberato leader opposizione condannato a morte Dire, 31 maggio 2018 È stato liberato in Etiopia Andargachew Tsige, leader del gruppo di opposizione Ginbot 7, condannato a morte in absentia nel 2012. Tsige, con doppia cittadinanza etiope e del Regno Unito, era detenuto dal 2014, dopo essere stato estradato dallo Yemen in una mossa condannata dalle Ong per i diritti umani, del governo britannico e di altri membri della comunità internazionale. La scarcerazione, motivata da Addis Abeba con l'esigenza di facilitare la riconciliazione nazionale, è arrivata ieri pomeriggio, nello stesso giorno in cui la procura generale ha confermato di aver fatto cadere le accuse contro Berhanu Nega, altro leader della stessa organizzazione. “Ginbot 7” significa 7 maggio in amarico: il nome ricorda la data delle elezioni del 2005, quando centinaia di persone furono uccise nel corso delle proteste legate a presunti brogli. Il gruppo, fondato da Nega nel 2008 negli Stati Uniti, è stato bandito dalle autorità di Addis Abeba e incluso nella lista delle organizzazioni terroristiche. Insieme ad Andargachew, secondo la tv nazionale “Fana Broadcast Corporate”, sarebbero usciti di prigione oltre 500 prigionieri. Inoltre, fa sapere “Fana”, anche le accuse riguardanti due tv etiopi basate negli Stati Uniti sono state ritirate. Le emittenti sono la 'Ethiopian Satellite Television' e 'Oromia media network', il cui fondatore Jawar Mohammed, critico del governo, era stato accusato di terrorismo.