“Ragazzi fuori”. Vite tra carcere e comunità di Andrea Gualtieri La Repubblica, 30 maggio 2018 Ci sono sedicenni con un curriculum criminale di primo piano. E ragazzi che fino al giorno dell’arresto avevano visto il palazzo di giustizia solo passandoci davanti in autobus o motorino. Alcuni l’hanno fatta talmente grossa da dover vivere in carcere un numero di anni che è quasi la metà di quelli trascorsi da quando sono nati. Sanno che, quando usciranno, si saranno giocati la gioventù. E si chiedono da dove ripartiranno. Se lo chiedono, in realtà, anche le centinaia di educatori che li seguono nei 17 istituti penali minorili e nelle decine di comunità sparse per l’Italia. Tra loro ci sono figure instancabili e appassionate. In carcere - ripetono da Torino a Catanzaro, da Cagliari a Catania - i ragazzi devono restare il meno possibile: alla loro età, anche chi ha sbagliato ha bisogno di altro. Le statistiche riferiscono che in questo senso il modello italiano funziona. “La giustizia minorile è un sistema del quale dobbiamo essere fieri: riesce realmente a residualizzare il carcere e relegarlo a numeri minimi”, afferma Susanna Marietti, coordinatrice nazionale dell’associazione Antigone, che da anni monitora la situazione delle carceri e che ai minori ha dedicato un dettagliato rapporto uscito alla fine del 2017. Le cifre aggiornate riferiscono che nelle celle ci sono poco meno di 500 ragazzi: oltre metà di loro sono giovani adulti, cioè detenuti con meno di 25 anni che stanno scontando nelle carceri minorili le pene per reati commessi quando ancora non avevano raggiunto la maggiore età. Decisamente più ampio è invece il numero di coloro che passano per la cosiddetta “messa alla prova”, una soluzione che permette ai giudici di imporre ai ragazzi un periodo in comunità al termine del quale valutare il percorso di maturazione ed eventualmente dichiarare estinto il reato, senza lasciarne traccia sul casellario giudiziario. Nel 2016 ne hanno beneficiato oltre 3.700 giovani. Ed è nelle comunità che per loro si svolge la parte più difficile del percorso: prendere coscienza di cosa si è fatto e, soprattutto, muovere i primi passi verso il ritorno alla normalità. I miei 35 anni nella scuola della prigione - La sua classe la definisce “eccezionale”, perché si trova in un luogo “di massima eccezione”. Mario Tagliani dal 1983 insegna all’istituto penale minorile di Torino. “Quelli che mi trovo davanti - dice - sono giovani che nelle scuole all’esterno vengono sospesi, espulsi. A volte persino promossi pur di levarseli davanti. E quando arrivano in carcere, l’idea di entrare in aula equivale per loro a una tortura aggiuntiva”. La sfida di farli sedere ai banchi, l’ingegno per interessarli ad un argomento, lo sforzo di accompagnarli ad un risultato. “Se li metti davanti a un foglio bianco, te lo strappano perché è come trovarsi davanti a se stessi. E il computer è una salvezza, perché lì le correzioni non si vedono: avere davanti un testo pasticciato li fa sentire frustrati, stampando uno scritto pulito si accorgono invece che anche loro possono fare qualcosa di dignitoso”. Perché il problema, spiega Tagliani, è proprio la motivazione: “Mi chiedono: a cosa serve studiare se tanto sono un disgraziato? E lì si deve far capire che studiare è l’unica speranza per scoprire cosa li può tenere lontani dal carcere”. Le esperienze “Evadere” in barca a vela e in aereo - “Io mai avrei immaginato che in carcere mi avrebbero fatto prendere per la prima volta un aereo per portarmi dal Papa”, racconta il ragazzo recluso nell’istituto minorile di Catania. Sono gli spiragli di luce nei giorni cupi delle carceri minorili. A Palermo, ad esempio, i detenuti dell’istituto penale minorile hanno collaborato al restauro di una delle imbarcazioni simbolo della città e ora periodicamente partecipano a corsi di vela: “In mare imparano a collaborare e a rispettare le regole”, spiegano i volontari dell’associazione che cura il progetto e che, come la barca, si chiama “Liscabianca”. Un’esperienza simile è stata promossa anche per i ragazzi che scontano la loro pena nella comunità Jonathan di Napoli: a bordo dell’imbarcazione “Scugnizza” si sono allenati e poi cimentati nella Regata dei Tre golfi. E la loro voglia di prendere il largo li ha spinti a conquistare il secondo posto. Le faide Fuga dalla paranza - La comunità Jonathan di Napoli è un luogo emblematico per capire il fenomeno della paranza dei bambini. “Esiste la recidiva, noi andiamo oltre: la maggioranza dei minori che sono passati da qui li abbiamo visti poi sui giornali perché vittime o carnefici dei fatti di sangue della città”, dice Vincenzo Morgera, uno dei fondatori della struttura che dal 1992 ha ospitato oltre 800 ragazzi. Nell’elenco di chi ha scontato una condanna nelle stanze di Jonathan c’è anche Emanuele Sibillo, ES17: il baby boss protagonista della webserie prodotta da Repubblica. “Quando escono da qui - spiega Morgera - molti tornano alle loro logiche d’appartenenza. E anche se da noi avevano avuto un rapporto di convivenza normale, non hanno remore poi a uccidersi fra loro”. La missione della comunità, spiegano, “è provare a destrutturare la visione bipolare che porta a ridurre il mondo in un insieme di amici o nemici”. E con qualcuno si riesce anche a risvegliare il desiderio di fuggire dalla paranza per cercare un futuro diverso. “Si tratta di offrire un’opportunità ma se fuori c’è il deserto è difficile”, spiega Silvia Ricciardi, la responsabile della comunità. Una collaborazione con la Indesit-Whirlpool ha permesso ad alcuni ragazzi di avere un rapporto stabile di lavoro. “Pensavo che la mia vita sarebbe andata a finire male, mi sono aggrappato a questa possibilità perché sentivo che era lamia unica speranza”, racconta uno di loro. Il giudice che strappa i giovani alla ‘ndrangheta - Lo hanno definito un “ladro di bambini”, accusato di organizzare “deportazioni di minorenni”, di ledere i “diritti costituzionali” delle famiglie. Ma Roberto Di Bella è convinto della sua posizione: la ‘ndrangheta, dice, si eredita. E le famiglie mafiose operano un indottrinamento dei ragazzi: “Li educano a logiche di vendetta, impongono loro stili di vita, sanciscono persino patti criminali sulla base di fidanzamenti decisi a tavolino”, spiega il giudice messinese che da decenni guida il tribunale dei minori di Reggio Calabria. È per questo che lui insiste con un programma basato sulla revoca della responsabilità genitoriale per i boss. “I ragazzi vengono affidati a educatori o famiglie di volontari e sperimentano che esiste una vita diversa, lontana dai lacci della ‘ndrangheta”. Sono quelli che, in assonanza con i pool antimafia, lui definisce “pool educativi antimafia”. Per strutturare questa rete, insieme all’associazione Libera, il tribunale reggino ha promosso un protocollo d’intesa chiamato “Liberi di scegliere” che coinvolge i ministeri della Giustizia e dell’Interno. “Quello dei minori di ‘ndrangheta è un fenomeno sottovalutato, non si può fare una lotta alla criminalità organizzata se non si spezzano queste perverse catene familiari”, afferma Di Bella. E racconta che ormai molte madri si rivolgono al tribunale, chiedendo di mettere in salvo i loro figli e, in alcuni casi, anche se stesse. E dal carcere, persino qualche capocosca ha scritto per ringraziare il giudice: “Ci ha detto che al figlio abbiamo offerto un’occasione che lui non aveva mai avuto”. Le ricette per il futuro - Il futuro che sognano i ragazzi nelle prigioni minorili contiene tre elementi costanti: trovare un lavoro, sposarsi, avere figli. Tre passaggi che i giovani detenuti raccontano con il tono di chi non crede a quello che dice. Soprattutto quando si parla del primo elemento. Nell’istituto penale minorile di Palermo hanno sperimentato “Cotti in fragranza”, un laboratorio esterno al carcere, nel quale i ragazzi fanno esperienza durante la detenzione e possono continuare a lavorare anche dopo la fine della pena, per garantirsi un primo stipendio e reinserirsi nella società. Sfornano biscotti, ai quali hanno dato nomi evocativi per i ragazzi di strada siciliana. A Torino, invece, su iniziativa della cooperativa sociale Spes all’interno del carcere si produce cioccolato. E anche questa è un’esperienza che permette ai giovani detenuti di avviare un percorso lavorativo per il futuro. Il cancello aperto di Borgo Amigò - Viaggio nella comunità di Roma dove i minori sono “messi alla prova” dal giudice dopo aver commesso un reato. Padre Gaetano Greco, da 36 anni cappellano del carcere di Casal del Marmo e fondatore di Borgo Amigò, afferma: “I ragazzi non devono andare in carcere, i danni che produce la detenzione a quest’età non sono poi rimediabili”. E sull’importanza dei genitori nel recupero dei ragazzi spiega: “Sminuire i loro errori è lo sbaglio più grave. Il problema nasce quando si crede che i propri figli siano immuni dai reati” Tra i minori detenuti che vivono del loro lavoro - “Il carcere è assistenzialismo, qui i ragazzi devono vivere con quello che guadagnano: solo così imparano ad essere autonomi e dare il giusto peso alle cose”. Don Ettore Cannavera spiega così il paradigma che regola la vita alla “Collina” di Cagliari. In questa comunità, i minorenni del circuito penale entrano solo se possono guadagnarsi uno stipendio. E con quei soldi alimentano una cassa comune che serve a pagare le bollette e il cibo. Uno degli ospiti racconta: “Avevo una normale vita di paese, poi a 17 anni ho commesso un errore che mi ha portato in carcere. Ma lì non si può fare vera rieducazione, perché il reinserimento avviene solo vivendo nella società”. E aggiunge: “Questa comunità è una realtà aperta, qui ho preso un diploma, la patente, mi sono fidanzato e ho trovato lavoro”. Le 8 proposte dei radicali per rifare lo Stato di diritto di Valentina Stella Il Dubbio, 30 maggio 2018 Da domani la raccolta firme per le leggi d’iniziativa popolare sulla giustizia. Da domani partirà in tutta Italia la raccolta firme promossa dal Partito radicale su otto proposte di legge di iniziativa popolare per riformare giustizia, sistema elettorale, servizio pubblico dell’informazione. Servono almeno 50mila firme certificate su ogni proposta, nel giro di 6 mesi. Al termine verranno depositate in Senato dove, ha spiegato ieri in conferenza stampa il segretario di Nessuno tocchi Caino Sergio D’Elia, “si avrà la certezza che vengano discusse, in virtù di una recente modifica del regolamento”. I temi sono quelli storici del partito di Marco Pannella: amnistia e indulto concessi con la maggioranza assoluta del Parlamento, riforma dell’ergastolo ostativo, del 41 bis e delle norme sull’isolamento diurno in quanto, come ha ricordato Elisabetta Zamparutti, “non esiste Stato di diritto se una misura emergenziale diviene ordinaria”; e ancora, abolizione degli incarichi extragiudiziari per i magistrati; revisione delle misure di prevenzione e delle interdittive antimafia; revisione delle procedure di scioglimento dei Comuni per mafia perché, come ha sostenuto l’avvocato Giampaolo Catanzariti, “le misure attuali hanno fallito, visto che ci sono Comuni sciolti per ben 3 volte a causa di infiltrazioni criminali”; cancellazione del monopolio della Rai e sua messa all’asta; in ultimo, elezione del Parlamento con il sistema uninominale secco e del Parlamento europeo con il collegio unico nazionale e proporzionale puro. Accanto ai radicali ancora una volta i penalisti: Vincenzo Comi, vicepresidente della Camera penale di Roma, annunciando la piena adesione anche del segretario Ucpi Francesco Petrelli, ha spiegato: “Noi non siamo un sindacato ma un’associazione che tutela i diritti fondamentali dei cittadini coinvolti nel processo penale, quindi per noi è stato automatico aderire all’iniziativa del Partito radicale, i cui obiettivi sono in linea con la realizzazione dello Stato di Diritto”. Gli ha fatto eco l’avvocato Giuseppe Belcastro: “Il nostro impegno accanto ai radicali rappresenterà anche il tentativo di una riforma culturale. Nel contratto fra Lega e 5 Stelle sulla giustizia c’è una controriforma rispetto agli approdi scientifici condivisi sulla questione penitenziaria. Credo che chi ha redatto quel capitolo non abbia mai visitato, ad esempio, un reparto del 41bis”. Secondo Rita Bernardini, componente della presidenza del Partito radicale, la riforma è tanto più urgente quanto più assoluto è “il disinteresse di tutte le forze politiche nel voler affrontare i problemi della giustizia che toccano da vicino migliaia di cittadini. Il popolo italiano si è più volte espresso a favore di un sistema uninominale”, ha poi ricordato Bernardini, “ma il regime lo ha tradito, optando ora per leggi anticostituzionali ora per altre che mantenevano la quota proporzionale, svilendo il rapporto diretto tra eletto ed elettore”. Dal Csm alla Consulta, tutti i rischi fatali di un’Opa gialloverde di Errico Novi Il Dubbio, 30 maggio 2018 Servirebbe una rivoluzione populista. Permanente. Una sorta di soviet gialloverde. È l’unica via che consentirebbe a Lega e Cinque Stelle di mettere le mani sulla Corte costituzionale. Eppure l’obiettivo non è così nascosto. A insospettire, anzi a svelare un’intenzione non inserita nel contratto di governo, è stata un’esclamazione di Matteo Salvini diffusa via twitter sabato scorso: “Il buon senso sarebbe incostituzionale? Pazzesco. Ma cambiare si può!”. Parole criptiche se non fosse per gli hashtag, che rimandano a una sentenza con cui la Consulta aveva appena bocciato una legge regionale del Veneto sugli asili nido. I giudici costituzionali hanno ritenuto incompatibile con la Carta la norma, voluta da Zaia, che nelle graduatorie per gli asili nido dava precedenza a chi risiede in Veneto da almeno 15 anni. Regola che alla Corte è sembrata discriminatoria nei confronti dei migranti, dunque in contrasto con il principio di uguaglianza sancito all’articolo 3. Il governatore leghista si è lamentato, altrettanto ha fatto il segretario. Che si è appunto consolato con quel “cambiare si può”. Ecco: cambiare cosa? La composizione della Corte costituzionale e, dunque, l’orientamento sulla legittimità delle leggi? È il sospetto che quel tweet suscita. Ma certo, tra i tanti “cappotti” che un’eventuale alleanza tra lumbàrd e grillini potrebbe determinare, quello alla Consulta è tra i più lontani. A mettere al riparo dal ribaltone è la permanenza in carica dei giudici costituzionali: 9 anni. Vuol dire che in tempi brevi Salvini e Di Maio potrebbero al massimo accordarsi per indicare il componente di nomina parlamentare attualmente mancante. Potrebbero farcela, intendiamoci, solo dopo un’eventuale clamorosa vittoria alle prossime Politiche, visto che in questi casi il Parlamento in seduta comune ha bisogno della maggioranza dei due terzi. I quattro giudici eletti dalle Camere tuttora in carica arriverebbero a completare i 9 anni solo tra il 2023 e il 2024: si tratta dei professori di Diritto del lavoro Silvana Sciarra e Giulio Prosperetti e dei costituzionalisti Franco Modugno e Augusto Barbera. Ce ne vorrà, prima di poterli avvicendare. Ma intanto non si può ignorare il rischio che un pieno di voti di Lega e Cinque Stelle provochi, nel lungo periodo, un mezzo terremoto anche in questo supremo organo di garanzia della Repubblica. Tra i vari indizi di una rottura del centrodestra e dello stabilizzarsi dell’asse gialloverde va annoverata anche un’altra frase di Salvini: il leader leghista ha detto che il contratto del cambiamento sarà attuato, nei limiti del possibile, già a legislatura in corso, all’interno delle commissioni speciali. Può essere un dettaglio marginale. Ma anche la premessa di una svolta che, eventualmente, stravolgerebbe persino gli equilibri nel Csm. Oltre al giudice mancante alla Consulta, infatti, le nuove Camere saranno chiamate a scegliere gli 8 componenti laici del nuovo Consiglio superiore. Già si dava per scontato un pacchetto di almeno 3 nomi in quota Cinque Stelle. Cifra che potrebbe persino raddoppiare, se Salvini e Di Maio si alleassero. Ne deriverebbe un asse giustizialista anche nell’organo di autogoverno della magistratura. I consiglieri in quota gialloverde finirebbero per lavorare in sintonia con i “togati” che saranno eletti da Autonomia & Indipendenza, la corrente di Piercamillo Davigo. Sarebbe il sigillo definitivo alla svolta ultra-manettara del Carroccio, risucchiato nella versione giudiziaria del populismo. Rivoluzione forse meno insidiosa di quella a Palazzo della Consulta, ma certo più a portata di mano. E dalle conseguenze imprevedibili. L’agente sotto copertura è una boiata pazzesca di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 30 maggio 2018 La proposta irrealizzabile dei 5Stelle e di Davigo. Nel pacchetto di misure per il contrasto della corruzione del M5s continua ad essere presente in bella vista l’introduzione “dell’agente provocatore”. Ciò nonostante numerose sentenze della Corte Edu abbiano negli anni evidenziato con estrema chiarezza - l’incompatibilità di tale figura con la Convezione dei diritti dell’uomo. Tralasciando le dichiarazioni di autorevoli esponenti del Movimento da sempre a favore dell’agente provocatore, come Alessandro Di Battista o Luigi Di Maio, anche alcuni importanti magistrati hanno manifestato in questi mesi il loro apprezzamento per il “Serpico” antitangenti. Fra questi, in particolare, l’ex procuratore nazionale Antimafia Franco Roberti e il presidente di sezione della Cassazione Piercamillo Davigo, futuro candidato ad un posto di consigliere al Csm. I due, presenti la scorsa settimana alla Festa del Fatto Quotidiano a Gattatico (RE), hanno auspicato che il Parlamento introduca quanto prima la figura “dell’ufficiale di polizia giudiziaria che operi all’interno della trama corruttiva già in atto: osserva, rileva gli elementi di reato e li riferisce al pm”. Una puntualizzazione non da poco rispetto al programma grillino: non “agente provocatore” ma “agente sotto copertura”, estendendo quindi ai reati contro la PA quanto già previsto nelle indagini cd. antimafia e antidroga. I fautori di questa riforma citano continuamente la Convenzione Onu di Merida del 2003, ratificata dall’Italia sei anni più tardi. Tale risoluzione prevede l’adeguamento delle norme anticorruzione da parte degli Stati. Nello specifico, la previsione di “tecniche investigative come la sorveglianza elettronica e le operazioni sotto copertura”. Il tutto “nei limiti consentiti dai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico” di ciascun Stato. Questo escluderebbe in radice la possibilità che il maresciallo vada in giro per i comuni o i ministeri ad offrire denaro ai funzionari pubblici per poi arrestare coloro che lo abbiano accettato. Nella pratica, però, il ruolo di agente sotto copertura per il contrasto ai reati contro la PA è estremamente difficile da realizzare. Ed infatti nessuno fino ad oggi ha spiegato come in concreto dovrebbe svolgersi l’attività del Serpico antitangenti. Per poter agire sotto copertura il maresciallo dovrebbe - verosimilmente - crearsi la falsa identità di imprenditore per poter partecipare, ad esempio, alla gara per un appalto pubblico. Un falso imprenditore, di una falsa azienda, con una falsa partita Iva e un falso Durc, dei falsi dipendenti in una falsa sede, un falso conto in banca, un falso sito internet aziendale. Il maresciallo dovrebbe poi avere il know how tecnico professionale dell’imprenditore, con estrema dimestichezza nel settore delle opere pubbliche o dei servizi. Una competenza che si acquisisce con anni di esperienza e non con un articolo di legge. Essendo poi estremamente semplice verificare da parte di chiunque se un’azienda esista o meno, è credibile che l’ipotetico pubblico amministratore corrotto non si accorga che quello che ha davanti è un “fake imprenditore”? Soprattutto se il pubblico amministratore è uno abituato a maneggiare tangenti? E ammesso che si riesca a dar vita ad una azienda “fantasma”, che costi si dovrebbero affrontate con lo scopo di effettuare un’unica operazione di servizio? Una soltanto, ovvio, perché qualora l’indagine si concludesse positivamente il nome della fake azienda sarebbe ormai conosciuto da tutti e nessun pubblico amministratore in odore di corruzione vorrebbe più intrattenervi dei rapporti sapendo che è costituita da marescialli dalle manette facili a caccia di tangentisti. L’agente sotto copertura è dunque la classica boutade elettorale. E se in nessun Stato europeo si svolgono indagini in questo modo un motivo ci sarà. Tetti sfondati e aule inagibili, dal Trentino alla Sicilia la giustizia cade a pezzi di Alessandra Ziniti La Repubblica, 30 maggio 2018 A Gela il tribunale è abusivo, a Pavia crolla una finestra. A Lucera il sindaco si incatena e viene pure indagato. Fossero solo i palazzi di giustizia “vecchi” a cadere a pezzi si potrebbe sperare che le risorse (poche) investite nella costruzione dei “nuovi” andranno pian piano rendendo più fruibile il sistema giustizia da un capo all’altro dell’Italia. Ma quando a essere abusivi e in parte inagibili sono edifici costruiti ad hoc e da pochi anni come a Gela o a Vibo Valentia o a Vicenza, c’è solo da constatare che lo stato dell’edilizia giudiziaria in Italia è semi-disastroso e soprattutto vittima di un continuo rimpallo di responsabilità tra ministero e Comuni. Con magistrati, avvocati e soprattutto cittadini costretti a fare la gimkana tra transenne, nastri bianchi e rossi, udienze in corridoio, ascensori che restano bloccati, scale pericolanti. A sentire parlare i procuratori dei palazzi interessati, ultimo quello di Bari dove da qualche giorno i processi si svolgono in tre tensostrutture refrigerate tirate su in un parcheggio dalla Protezione civile, le segnalazioni al ministero di Grazia e giustizia con accorate richieste di interventi più o meno urgenti sono lunghe quindici anni. Ma nessuno ha mai risposto. Provate a dirlo al sindaco di Lucera Antonio Tutolo che pochi giorni fa si è incatenato (e subito dopo gli è pure arrivato un avviso di garanzia per omissione di atti d’ufficio) davanti all’edificio del 700 che ospitava il tribunale di Lucera e che da cinque anni è stato messo a disposizione del tribunale di Foggia. Alla manutenzione di quel palazzo d’epoca che vanta pure aule con i tetti affrescati non pensa assolutamente nessuno. E a chi toccherebbe poi? Di norma ai Comuni, in quanto proprietari degli edifici, ma di soldi nelle casse pubbliche non ce ne sono e dunque nessuno interviene fino a quando non cade giù qualcosa. Nella migliore delle ipotesi parti di controsoffitto o pezzi di intonaco dai tetti delle aule: nei mesi scorsi è accaduto a Vibo Valentia, nell’androne principale del nuovo tribunale, dove una parte dell’edificio non ha ancora ottenuto l’agibilità e il Comune non ha i soldi per completare i lavori. Come stupirsi visto che, nel 2013, uno dei titolari delle ditte che si sono aggiudicati i lavori era stato indagato per il sospetto che il palazzo fosse stato realizzato in modo difforme dal progetto e forse con materiali non idonei. Come probabilmente accaduto per la costruzione della nuova ala del palazzo di giustizia di Caltanissetta. Dalla Sicilia al Trentino Alto Adige, gli ordini degli avvocati fotografano, girano video e redigono desolanti dossier dello stato degli edifici in cui, in condizioni troppo spesso poco dignitose, viene amministrata giustizia. Visto da fuori il palazzo di giustizia di Reggio Calabria, ospitato in una delle torri del centro direzionale, ad esempio, trae in inganno. All’interno, il palazzo è fatiscente, le stanze piccolissime e ingombre di faldoni ormai ammucchiati nei corridoi, climatizzatori inesistenti che costringono a udienze a temperature improponibili sia d’estate che d’inverno, l’inevitabile attraversamento dei bagni per passare da un corridoio all’altro negli uffici di Procura. Di fronte quello che sarà (forse) un giorno il nuovo palazzo di giustizia è invecchiato già prima di essere completato, in costruzione da 14 anni, bloccato dal fallimento della ditta e da un lungo contenzioso con il Comune. Ora la situazione, grazie all’intervento dell’Amministrazione comunale, sembra sbloccata, i lavori sono ripresi e la consegna del palazzo è annunciata entro il 2020. Da Perugia a Imperia, da Avellino ad Arezzo, da Prato a Torre Annunziata è una lunga teoria di “incidenti”; pezzi di intonaco che cadono e che per fortuna non hanno mai colpito nessuno, metal detector fuori uso, scale rotte, muffa e umidità sui muri e infiltrazioni e allagamenti ad ogni temporale. Ad Arezzo si sono attrezzati con sacchi di segatura e contenitori vari per raccogliere l’acqua piovana che filtra dal tetto. A Bolzano è andata bene che non sia successo nulla con quel vecchio alimentatore elettrico che si è staccato da un soffitto, ha sfondato un vetro ed è piombato accanto alla porta di un’aula. A Pavia s’è staccata persino una finestra caduta in strada da un’altezza di dieci metri. E sempre a Bolzano chissà se l’impiegato invalido costretto per mesi a rimanere a casa, prima in ferie e poi in malattia per il guasto a tutti gli ascensori, è riuscito a tornare al lavoro al secondo piano. Mafie. La storia di Gaetano di Attilio Bolzoni La Repubblica, 30 maggio 2018 È rimasto nella sua Calabria, non se n’è voluto andare. Non ha cambiato identità, la sua azienda è ancora a Palmi, nella grande piana. E poi non ha mai chiesto un centesimo allo Stato. Mai una protesta, mai un’intervista sopra le righe, mai una “piazzata” davanti a un Tribunale o a una Prefettura per gridare la sua solitudine o - come usano alcuni suoi colleghi che hanno capito come funziona - a battere cassa, chiedere soldi e ancora soldi e sempre soldi. Ha fatto quello che sentiva di fare. E oggi, nel bene e nel male, fa i conti con la sua scelta di libertà. Gaetano Saffioti è un esempio molto raro di calabrese e di imprenditore. Qui raccontiamo la sua storia raccolta da Giuseppe Baldessarro - che già l’anno scorso aveva scritto un bel libro (“Questione di Rispetto”, Rubbettino editore) - da quando ha conosciuto la ‘Ndrangheta da bambino sino al giorno che ha deciso di non sottostare più ai ricatti e alle umiliazioni dei boss. È un testimone di giustizia, dal 2002 è sotto scorta per avere denunciato i più pericolosi capibastone della Piana, terra fertile e terra maledetta, giardini di aranci e l’inferno dei Piromalli, dei Bellocco, dei Gallico, dei Nasone. Nomi che fanno sprofondare una regione intera negli abissi, uomini che sono stati sfidati da un piccolo imprenditore che per anni e anni aveva subito estorsioni fino a quando si è ripreso la sua dignità. Nel racconto di Giuseppe Baldessarro c’è tutta la vita di Gaetano. Dal giorno che per la prima volta ha sentito parlare di “maffia” (con due “f”, come si diceva una volta) alle prime richieste di denaro per poter aprire i suoi cantieri, dalla paura che ha accompagnato la sua esistenza sino al coraggio di presentarsi davanti a un ufficiale della Guardia di Finanza a un procuratore della repubblica. È una storia semplice quella di Gaetano Saffioti. E nella sua semplicità spaventosa. Non solo per la ferocia degli aguzzini della ‘Ndrangheta, soprattutto spaventosa per la viltà di coloro che stanno intorno a carnefici e a vittime, per la loro rassegnazione, la sottomissione. Con il suo gesto Gaetano mostra a tutti noi che si può fare. Lui l’ha fatto. “Quelle spaventose telefonate alla sera”, di Giuseppe Baldessarro “Sono brutta gente Tanino, sono gli uomini di rispetto, sono quelli della Maffia..”. Era la prima volta che Gaetano sentiva pronunciare quella parola. Maffia, con due f. Dopo la morte di suo padre Vincenzo non c’era stato il tempo per piangere. Non c’era mai tempo al frantoio dell’Acqualiva dove i ritmi erano dettati dalle olive e dalla terra. Neppure per i lutti. Annunziata e i suoi figli avevano dovuto raccogliere in fretta il loro dolore, lo avevano stipato in un angolo dell’esistenza e avevano ricominciato a percorrere il sentiero della quotidianità. Era dura. Ci si alzava prima del sole, si lavorava per alcune ore e quando gli altri ragazzi iniziavano la loro giornata a scuola, i Saffioti si erano già buttati alle spalle diverse ore di fatica. Dopo le lezioni ce ne sarebbero state altre, identiche, dure, lunghe e, non sembri un paradosso, entusiasmanti. Aveva 15 anni quando Gaetano ha iniziato ad accorgersi che c’era qualcosa di strano, di inquieto nelle espressioni di sua madre. Arrivavano telefonate la sera. Prima occasionali, poi più frequenti. Quasi sempre a rispondere era Giuseppe, il più grande dei fratelli. Poggiava l’apparecchio all’orecchio, annuiva, parlava a bassa voce, cambiava colore, cercava la madre con gli occhi spaventati e gli porgeva la cornetta. Annunziata sussurrava qualcosa e metteva giù piano. Quegli squilli avevano un effetto immediato inquietante, il clima cambiava rapidamente. Un venerdì sera Annunziata afferrò il telefono con energia inusuale e inizio a parlare più forte del solito. “Ma vi rendete conto? Sono una femmina sola con sei figli, dove li prendo venti milioni? Alla banca del sapone?”. Non c’era rabbia nelle parole della madre, solo angoscia, disperazione. Tanino chiese di capire cosa stesse succedendo. E la risposta fu: “Vogliono soldi, sono brutta gente, sono quelli della Maffia”. La parola ‘Ndrangheta non esisteva ancora. Tanino non l’aveva mai sentita pronunciare. Non sapeva cosa fosse la ‘Ndrangheta e non sapeva neppure cosa fosse la Maffia, come la chiamava sua madre. Per questo aveva continuato a cercare di scoprire la verità, tentando di mettere assieme gli elementi. “Chi sono?”…. “Mamma chi sono?”. Annunziata non sapeva come spiegare, non voleva pronunciare nomi, indicare volti. Difendeva i suoi figli non dicendo loro oltre, non potendo dire oltre. Si trattava di gente pericolosa, sanguinari senza scrupoli che comandavano da sempre e i nomi non si potevano neppure sussurrare. Poi fatto un lungo sospiro Annunziata aveva iniziato a rovistare nella memoria cercando di trovare le parole giuste. E aveva iniziato a raccontare di quando suo padre era andato a prenderlo alla colonia estiva perché lo avevano minacciato. E gli aveva detto anche che “l’incendio del frantoio, la notte della Befana del ‘71, non era stato causato da un corto circuito, ma da qualcuno che li aveva voluti male, un dispetto di vendetta”. Così gli aveva detto. Tanino non ha mai saputo se sua madre pagò la richiesta estorsiva arrivata per telefono. O meglio, non ha mai saputo quanto pagò e in che forma. Seppe poi che rivoltasi ad alcuni parenti, erano stati loro a tentare di trovare un punto di mediazione, un compromesso. A Palmi comandava “U lupu i notti”. Il boss Gaetano Parrello in città faceva il bello e il cattivo tempo, era la legge. A lui dovevi rivolgerti se volevi “aggiustare” le cose, con lui bisognava parlare per “sistemarle” al meglio. Bisognava cercare “U lupu i notti”. Parrello lo hanno ammazzato come un cane, quasi dieci anni dopo, il 25 settembre del 1986. Due giovanotti gli si affiancarono con la macchina e gli scaricarono contro le armi mentre era con la figlia Concetta e i tre nipoti. Tra l’odore della polvere da sparo, in un lago di sangue, ha smesso di determinare i destini della gente. Sangue che avrebbe poi chiamato altro sangue, in una faida con i Gallico. Tanino all’epoca delle telefonate non lo sapeva ancora cos’era la Maffia, né chi erano i Parrello, e non conosceva neppure i Condello e i Gallico. All’epoca non lo sapeva, ma li avrebbe incontrati tutti. Aversa (Ce): pazienti dell’Opg maltrattati, 14 medici sotto processo www.casertanews.it, 30 maggio 2018 Le indagini avviate dopo un suicidio. Oggi udienza fiume dinanzi al Presidente Orazio Rossi del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere a carico di 16 tra Medici Psichiatri specialisti e Medici di Guardia dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario (Opg) di Aversa, tra cui l’ex direttore sanitario Adolfo Ferraro (difeso dall’avvocato Domenico Ciruzzi e dall’avvocato Alessandro Motta) per i reati di maltrattamenti e sequestro di persona ai danni di 27 ex internati nella struttura. I fatti contestati sarebbero stati commessi tra il 2006 fino al gennaio 2011. Secondo l’accusa, sostenuta in udienza dal Pubblico Ministero Ida Capone le vittime - alcune costituite parti civiili con l’avvocato Antonio Mirra - sarebbero state costrette a restare a letto per un periodo superiore a quello consentito e qualcuno sarebbe addirittura rimasto fermo nel letto per un periodo di 12 giorni senza alcuna assistenza. Le indagini partirono nel gennaio 2011 dopo il suicidio di un detenuto: la polizia giudiziaria sequestrò cartelle cliniche, documenti e foto. Fu avviata una Commissione d’inchiesta del Senato sul Servizio Sanitario Nazionale presieduta dal Senatore Ignazio Marino; all’Opg di Aversa “Filippo Saporito” arrivarono i Nas. Oggi in una udienza accesa sentiti alcuni consulenti specialisti della difesa tra cui il professore Antonello Crisci docente di neuropsichiatria all’Università di Salerno per l’imputato Cristofaro Diana (difeso dall’avvocato Salvatore Vitiello) e il professore Antonio Cavezza docente di medicina legale nell’ Università di Napoli per l’imputato Francesco Pisauro (difeso dall’avvocato Raffaele Crisileo e dall’avvocato Gaetano Crisileo). Oltre a Ferraro, Diana e Pisauro sono imputati i medici Nugnes, Borrelli, Andriani, Iaccarino, Principe, Pommella, Signoriello, Vassallo, Di Tommaso, Pisauro, Ruocco, Petrosino, Cristiano, Zagaria, Cappiello. L’udienza è stata aggiornata al 3 luglio prossimo per terminare l’audizione dei consulenti di parte dei difensori. L’Opg di Aversa, unitamente agli altri cinque manicomi giudiziari è stato chiuso nel marzo 2015 e le competenze sono state trasferite alle Residenze per le Misure di Sicurezza (Rems) della Regione Campania. Campobasso: ecco la scuola dove i detenuti studiano e fanno gli agricoltori di Pierangelo Soldavini Il Sole 24 Ore, 30 maggio 2018 In cambio hanno rifatto l’edificio. A breve, non appena arriva l’ultimo via libera burocratico, è pronto ad aprire quello che potrebbe essere il primo negozio all’interno di una struttura scolastica. Non sarà effetto di una sponsorizzazione da parte di un privato pronto a sfruttare nuove opportunità, ma il frutto di un coraggioso progetto didattico che viene da lontano. Sugli scaffali della bottega che aprirà all’interno dell’Iiss Leopoldo Pilla di Campobasso saranno messi in vendita i prodotti dei terreni alla periferia del capoluogo che servono da laboratorio per i ragazzi dell’istituto agrario, tra cui spiccano quelli di un ettaro di terra affidati ai detenuti della vicina casa circondariale. Ci sono le bottiglie del Tintilia doc molisano e i prodotti a chilometro zero della coltivazione, ma anche il miele di due ex detenuti che alla fine di vent’anni di pena sono diventati apicoltori a tutti gli effetti dopo aver seguito i corsi dell’istituto agrario. Il terzo si è perso per strada all’uscita dal carcere, ma non è questo a frenare la dirigente Rossella Gianfagna che non sembra fermarsi davanti a nulla: “A volte penso di aver forse esagerato nel prendermi responsabilità personali senza seguire le lungaggini burocratiche: oggi mi dico che alla fine ne è valsa la pena perché abbiamo stravolto la scuola ma abbiamo dato vita a un progetto inclusivo di integrazione tra scuola e territorio”. Per un “fallimento” ci sono tanti altri obiettivi raggiunti: a partire dai due detenuti che tra un mese affronteranno l’esame di diploma in ragioneria. Dalla lingua alle prospettive economiche la scuola ha un ruolo fondamentale nell’integrazione dei migranti. Sono i primi che arrivano a completare il percorso scolastico messo a punto con il carcere, nato quattro anni fa dall’intuizione di Gianfagna che, come tantissime scuole in tutta Italia mal ridotte, si è trovata a dover affrontare una struttura scolastica cadente con aule che perdevano i pezzi e pareti scrostate. La risposta degli enti locali era la solita litania: fondi inesistenti e personale insufficiente per la manutenzione. Come fare? La dirigente non si è persa d’animo e ha affrontato la situazione di petto, proponendo al carcere quasi confinante uno scambio tra prestazione d’opera e formazione a 360 gradi a favore dei detenuti. Detta così potrebbe alimentare polemiche a non finire. Ma alla fine la soluzione innovativa nata allora e messa nero su bianco con una miriade di protocolli d’intesa è andata affinandosi - e arricchendosi - in questi quattro anni producendo consapevolezza comune e inclusività. Arrivando a superare il ginepraio di regole e codicilli che, per esempio, impediscono ai detenuti di poter accedere a internet o di stare in classe insieme agli altri compagni, anche se poi finiscono per vivere negli stessi ambienti. Per le lezioni i docenti da organico potenziato, quelli derivanti dalla legge della “Buona scuola” che nel resto d’Italia hanno avuto enormi difficoltà di inserimento, qui sono stati mandati in carcere a insegnare. Famiglie e studenti. Mentre i detenuti ammessi al regime di permesso straordinario per lavori socialmente utili alla mattina si prendono cura dei lavori di manutenzione dell’edificio. Ma non si tratta solo di manutenzione straordinaria, perché Gianfagna ha coinvolto l’istituto in una destrutturazione degli ambienti scolastici per adottare una didattica flessibile e aperta che ha rivoluzionato la classica aula scolastica. Con il risultato che entrare nell’istituto sembra quasi di accedere in un albergo. I collaboratori scolastici sono pienamente coinvolti nel progetto e sono responsabilizzati diventando tutor-formatori del piano personalizzato fatto sui singoli detenuti. Tra questi c’è anche il ragazzino che aveva commosso l’Italia qualche anno fa quando aveva attraversato il paese attaccato sotto il fondo di un tir: oggi è in carcere per un furto ed è ammesso al piano di formazione concordato con il Pilla. Ma Gianfagna non si è fermata qui: “Non abbiamo avuto nessuna criticità con le famiglie, che anzi hanno compreso da subito la portata educativa del progetto e non hanno frapposto ostacoli: i ragazzi dell’istituto hanno imparato a conoscere la realtà carceraria e ho potuto assistere a momenti in cui i detenuti stessi riprendevano i ragazzi che non rispettavano le regole all’interno dell’istituto”. L’alternanza scuola-lavoro prevede così che i ragazzi dell’agrario vadano in carcere per mettere a punto un giardino interno che “diventa scopo di vita per gli ergastolani, i detenuti che non hanno alcuna speranza di uscire”. D’altra parte Gianfagna è abituata alle “missioni impossibile”. Prima di arrivare al Pilla era dirigente di una scuola media in uno dei quartieri più critici di Campobasso, recuperata da un centro sportivo abbandonato: allora la piscina abbandonata era stata riutilizzata come centro telematico dove i ragazzi andavano a fare informatica. La creatività della dirigente ha sempre saputo integrare incisività e innovazione didattica in un processo che appare davvero “win-win” da qualsiasi parte lo si guardi. C’è da scommettere che non si fermerà alla bottega scolastica o ai primi diplomi di detenuti. D’altra parte ribadisce più volte che “ne è valsa la pena”. Napoli: emergenza legalità, se non basta una bandiera di Vittorio Del Tufo Il Mattino, 30 maggio 2018 Il fermo-immagine dell’ambulanza circondata e sequestrata nel cortile del Vecchio Pellegrini descrive, meglio di tante analisi sociologiche, il lessico di una camorra diffusa, stracciona, pulviscolare, profondamente innervata nei comportamenti di strati sempre più ampi della popolazione. Le continue aggressioni ai danni degli operatori del 118 e dei medici e infermieri dei pronto soccorso sono solo l’ultimo fronte, quello più caldo, di una violenza urbana che si declina ormai, e forse più del passato, in moltissime forme: dagli assalti delle baby gang alle faide per il controllo delle piazze di spaccio, dalle risse nella casbah del Vasto e del “pianeta ferrovia” alle notti folli e violente di una movida senza regole e senza controlli. Esplosioni di violenza sempre più frequenti che, sia pur diverse l’una dall’altra e riconducibili a motivazioni e contesti diversi, producono lo stesso riverbero negativo sull’immagine della città, rafforzando la percezione di insicurezza tra i cittadini e i turisti. Proprio allo scopo di “lavorare a un grande progetto educativo rivolto alle giovani generazioni” e di predisporre “misure di prevenzione, di videosorveglianza, di contrasto forte a fenomeni di illegalità dovunque si manifestino” il governatore De Luca ha voluto dare ieri un segnale forte, chiamando in giunta l’ex procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, e assegnandogli la delega alle politiche per la sicurezza. Una scelta di altissimo profilo. La materia su cui dovrà lavorare Roberti è molto vasta. Dalla lotta alle baby gang all’occupazione abusiva di immobili pubblici, dagli assalti al personale del 118 alle strategie per combattere l’illegalità diffusa, l’ex procuratore antimafia dovrà muoversi su un territorio molto ampio, mettendo a disposizione la sua lunga e fruttuosa esperienza al servizio di un obiettivo talmente ambizioso da apparire velleitario. Tuttavia ci sembra che il segnale lanciato da De Luca vada nella direzione giusta. Fermare lo tsunami di violenza, porre un argine alla barbarie non può essere solo un affare di polizia e di magistratura. Di fronte al fallimento delle principali agenzie educative di cui disponiamo - la scuola e la famiglia - e a una criminalità che in molte zone della città appare ormai come una scelta di vita praticata sin dall’infanzia, ogni nuovo episodio, ogni nuova fiammata di violenza urbana serve a ricordarci che l’immensa area metropolitana di Napoli è tuttora immersa in un’emergenza educativa e civile senza precedenti. Se è una guerra quella che lo Stato è chiamato a combattere, questa guerra non può essere combattuta solo dall’avamposto degli uomini in divisa. Né le risposte possono essere confinate nel solo perimetro - investigativo e repressivo - dell’azione repressiva. Se la violenza urbana è una malattia che s’innerva, come un cancro, nel tessuto civile e sociale della città, allora è di una bonifica civile, pedagogica e sociale a tutto campo che c’è bisogno, con interventi mirati a ridurre la dispersione scolastica, diffondere la cultura della legalità, finanziare i progetti per i minori a rischio e per gli assistenti sociali. Quella contro l’illegalità diffusa, il vero brodo di coltura della violenza e dei fenomeni criminali, è una battaglia che va combattuta con il contributo di tutti; ma perché abbia successo, e non si limiti a una mera declamazione di buone intenzioni, occorre che poggi su tre architravi: certezza delle regole, efficacia delle sanzioni, effettività delle pene. Sono le precondizioni senza le quali ogni progetto di bonifica civile è destinato a fallire. Vi è anche un’altra precondizione necessaria per dare forza e sostanza all’ingresso di un’autorevolissima figura, come quella dell’ex procuratore Franco Roberti, nella giunta regionale. E per evitare che possa apparire come un’operazione di facciata o di bandiera. Ci riferiamo alla collaborazione istituzionale tra il sindaco della città e il governatore De Luca. I quali, lunedì sera nel palco reale del teatro San Carlo, si sono resi protagonisti di una scena desolante e imbarazzante, scegliendo di non stringersi la mano e di ignorarsi, platealmente, per l’intera serata dedicata alla consegna del premio Serao. Dimenticando o fingendo di dimenticare, per l’ennesima volta, che la collaborazione tra chi guida la Regione e chi governa la città è un preciso dovere, non una gentile concessione. Napoli: il dramma dei trans in carcere “la legge non chiarisce dove collocarli” napolitoday.it, 30 maggio 2018 Qual è la condizione delle persone transgender detenute nelle carceri italiane? In un convegno a palazzo San Giacomo si è discusso di questo delicato tema in occasione della settimana di studi legata alla Giornata mondiale contro l’omofobia e la transfobia. Il termine transgender esprime meglio di transessuale la complessità dei casi: mentre infatti il vocabolo “transessuale”, stabilizzato nell’uso italiano, denota una persona che transita o aspira a transitare dal maschile al femminile (o viceversa), il più ampio termine “transgender” include anche quelle circostanze in cui nessuna delle due identità maschile/femminile costituisce un approdo definitivo della persona. Nei casi in cui la transizione di sesso si conclude con l’intervento chirurgico, la detenuta viene coerentemente accolta in un carcere femminile. Quando invece manca il cambio chirurgico del sesso, la situazione comporta valutazioni più ampie e le scelte sono meno chiare; questo benché dal 2015 le persone non operate possano egualmente modificare la loro identità anagrafica in armonia col loro sentire. Nel corso della settimana di studi sulle questioni Lgbt non è mancata la riflessione sull’importanza della cultura scientifica per il superamento dei pregiudizi su orientamento sessuale e identità di genere. Benevento: mafie, vittime e rei, risalire la china andando oltre la pena di Enrico Marra Il Mattino, 30 maggio 2018 Il rapporto tra vittima e autore del reato percorre nuove strade e ci si interroga su come evolverà nel futuro. Lo hanno fatto ieri sera magistrati, sacerdoti e cittadini che annoverano tra i propri familiari una vittima della mala. L’occasione l’ha data “La giornata della memoria” sul tema “Vittima ed autore del reato, sanzione, riparazione, riconciliazione”, promossa dalla Procura della Repubblica, dalla prefettura, dall’Unisannio, dall’Associazione nazionale magistrati sezione distrettuale di Benevento, dal Conservatorio “Nicola Sala” e dalle associazioni Libera e Astrea. “Bisogna dare un senso alla pena, infatti in caso di riparazione si riduce anche la recidiva. Ci deve essere l’opportunità di riconciliazione”: così ha introdotto i lavori il procuratore della Repubblica Aldo Policastro. “Lo stesso Consiglio superiore della magistratura di recente ha affrontato con un nuovo protocollo il tema della violenza di genere e quindi i rapporti che intercorrono tra uomini che si rendono protagonisti di violenza e le loro vittime” ha voluto ricordare Riccardo Fuzio, procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione. Ma in quale direzione vanno indirizzati i rapporti tra gli autori del reato e le loro vittime? Ha iniziato con il dare una risposta il procuratore generale presso la Corte di Appello di Napoli Luigi Riello, secondo cui “il perdono appartiene alla sfera personale, la riconciliazione è cosa diversa e comunque non può essere un atto formale”. E ha integrato questa impostazione Raffaele Piccirillo, capo dipartimento per gli affari penali del Ministero della Giustizia, secondo cui le vittime vanno tutelate anche con provvedimenti extraprocessuali. Inoltre un ruolo decisivo può essere svolto da validi mediatori, ha suggerito Francesco Occhetta di “Civiltà Cattolica”. Il percorso verso un’evoluzione del rapporto è comunque difficile, ha testimoniato Bruno Vallefuoco, referente delle famiglie delle vittime di mafia, che ha ricordato la morte del figlio ucciso insieme ad altri due giovani per errore dalla criminalità. Nel corso dei suoi incontri con i detenuti, ha però aggiunto, ha avuto modo di assistere a delle modifiche negli atteggiamenti di chi è dietro le sbarre. Proprio sui cambiamenti sperimentati dai rei si è soffermato in conclusione del convegno il procuratore aggiunto Giovanni Gonzo, ricordando la sua esperienza professionale che lo ha portato a seguire il caso del capoclan Bidognetti, che giorno dopo giorno ha portato avanti la sua collaborazione con la giustizia, nonostante gli avessero ucciso alcuni familiari. Hanno portato il saluto ai convegnisti Marilisa Rinaldi, presidente del Tribunale, il prefetto Paola Galeone, il rettore di Unisannio Filippo de Rossi, il presidente dell’Anni di Benevento Gerardo Giuliano, il direttore del “Nicola Sala” Giuseppe Ilario. Federico Cafiero de Raho, procuratore nazionale antimafia e Giovanni Legnini, vicepresidente del Csm non potendo intervenire hanno inviato messaggi di saluto. Il convegno è stato moderato dalla giornalista Francesca Ghidini. In conclusione un concerto dell’orchestra sinfonica del Conservatorio diretto dal Maestro Luca Signorini. Bologna: fuori dal carcere c’è la “Casa nel villaggio” di Giorgia Tisselli incronaca.unibo.it, 30 maggio 2018 Progetto per rendere indipendenti i detenuti ed evitare le recidive. Che sfiorano il 70%. Circa due persone al giorno escono dal carcere di Bologna. Di queste almeno una si trova senza alcuna opportunità una volta fuori dalle mura. Senza la possibilità di riprogettare la propria esistenza il rischio di continuare a delinquere diventa altissimo. Il fenomeno della recidiva ha infatti numeri importanti, che sfiorano il 70 per cento. Numeri che però diventano contenuti nei casi in cui vengono progettate misure alternative. Per far fronte a questa emergenza è stata inaugurata il 29 maggio, ma in realtà operativa dallo scorso agosto, La Casa nel Villaggio, una struttura all’interno del circolo culturale e sportivo Villaggio del fanciullo. L’abitazione, che a oggi ha ospitato 8 persone tra cui i familiari, ha come obiettivo quello di offrire una strada oltre la barriera della pena detentiva. Prevede infatti di accogliere quei carcerati che godono di regimi differenti (semilibertà, affidamento ai servizi sociali, lavoro esterno) e di reinserirli, attraverso la formazione professionale e scolastica, in un contesto lavorativo e sociale. Il piano, finanziato da gennaio dall’8 per mille di Caritas, si inserisce in un progetto nazionale carcere e a sua volta porta avanti una missione all’interno del carcere Dozza da parte della Diocesi bolognese. Per la responsabile della casa Elisabetta Laganà: “Chi sconta la pena deve avere l’opportunità di poter accedere a dei diritti fondamentali, che sono una casa, un lavoro e la possibilità di essere seguito per capire cosa lo ha portato a commettere un reato e come fare a non cadere più nella trappola”. Un’affermazione che si inserisce in un contesto delicato quanto l’impossibilità di potere usufruire di certe condizioni giuridiche da parte di alcuni detenuti. “Alcuni si trovano penalizzati rispetto ad altri perché non hanno un posto dove stare. In questo modo possono terminare la pena in una modalità diversa rispetto al carcere”, racconta Claudia Clementi, direttrice del carcere. Questo offre vantaggi anche all’amministrazione dei penitenziari, che permette di guardare fuori dal carcere non solo dopo ma durante. Dei circa 3.500 detenuti ristretti nei dieci istituti dell’Emilia-Romagna più di 900 sono in carcere con pene residue fino a tre anni e quasi 500 di questi con pene da uno a diciotto mesi. “È opportuno lavorare con insistenza affinché, negli ultimi anni di detenzione, si sostanzi in un lavoro di preparazione alla dimissione”, sottolinea Marco Bonfiglioli, direttore dell’ufficio dei detenuti. E a chi accusa queste iniziative di un’eccessiva tolleranza nei confronti di chi ha sbagliato, il capo area educativa Casa Circondariale Rocco d’Amato, Massimo Ziccone, ha una risposta: “Non si tratta di una politica buonista, ma di intelligenza. Le politiche di sicurezza non sono solo quelle di repressione, ci sono anche quelle di inclusione”. Secondo Ziccone infatti chi non commette più illeciti smette di essere un costo anche per la comunità. “Cerchiamo di fare una selezione delle persone in grado di cogliere le maggiori opportunità - continua il capo area - mandiamo chi lo merita”. Padre Marcello Matté, cappellano del carcere della Dozza vuole che questo “sia solo l’inizio”. Un’altra struttura in zona Corticella verrà infatti in parte destinata ai detenuti con misura alternativa. Per padre Marcello è inoltre importante non abbandonare nessuno finché non venga raggiunta l’indipendenza economica e abitativa. Massa Carrara: rinnovato il progetto “Sentieri in libertà” lagazzettadimassaecarrara.it, 30 maggio 2018 Decolla la quarta edizione del progetto “Sentieri di Libertà” ideato per favorire processi di reintegrazione dei detenuti a fine pena attraverso lavori di pubblica utilità. È stata firmata nei giorni scorsi la convenzione tra Comune di Massa, Club Alpino Italiano, Casa di reclusione di Massa e Uepe (Ufficio esecuzione penale esterna) per dare continuità all’iniziativa che favorisce la reintegrazione sociale dei detenuti giunti a fine pena tramite un percorso lavorativo di circa sei mesi centrato sullo sviluppo delle loro competenze e l’impegno per il bene comune. Nato nel 2015, questo modello ha dato da subito buoni risultati e, grazie alla sensibilità della sezione locale del Cai di Massa che lo ha posto come buona pratica nel corso delle assemblee annuali dell’associazione, è stato anche “esportato” in diverse parti d’Italia. Sviluppato nell’ottica della piena valorizzazione della montagna anche dal punto di vista turistico il progetto ha consentito di migliorare sul nostro territorio la qualità e la percorribilità di alcuni sentieri la cui manutenzione, viste le difficoltà strutturali nei bilanci degli enti locali, fatica a trovare risorse. L’Amministrazione ha sostenuto dunque con forza la continuità del progetto che, di anno in anno, ha toccato le vie d’accesso ai paesi di San Carlo, Antona, Pariana, Forno, Resceto e Casette. Anche per il 2018 la durata del progetto è prevista in sei mesi. In programma c’è la sistemazione di alcune strade storiche come il primo tratto della Via Vandelli, del sentiero dal Biforco alla Valle degli Alberghi e quello da Resceto alla Vettolina. “L’innovazione non è uno slogan ma un modo diverso di affrontare problemi strutturali. Abbiamo lavorato su questo progetto - commenta l’amministrazione di Massa - con convinzione ritenendo che sia un passo decisivo per garantire, anche nei sentieri di più bassa quota, una manutenzione costante. Dobbiamo ringraziare i volontari del Cai, che hanno dimostrato passione e competenza straordinarie, poi la direzione di Uepe e Carcere che ha capito il senso di quest’idea sin da subito. È un mattoncino che insieme alla riapertura del rifugio di Pian della Fioba, al rilancio dell’orto botanico e ai lavori di messa in sicurezza dei versanti franosi (ultimati e da realizzare), contribuisce a rendere maggiormente fruibili le nostre risorse naturali. Per il futuro, riteniamo che il progetto debba e possa essere coordinato direttamente dall’Ente Parco con una regia sovra-comuale e che dovrà essere accompagnato da un lavoro di miglioramento della cartellonistica. Anche se c’è ancora molto da fare, la strada è tracciata”. “Lavorare con la pubblica amministrazione a volte può essere difficile - dice Sauro Quadrelli, Presidente Cai Massa - ma le buone idee trovano gambe. Abbiamo coinvolto tanti volontari a cui va il mio personale ringraziamento. In futuro sarebbe positivo se anche altri soggetti volessero aggregarsi ad un progetto che è davvero umanamente molto appagante per il contatto con realtà difficili in un contesto particolarissimo”. Roma: prodotti (e buone pratiche), arriva il Festival dell’Economia Carceraria di Teresa Valiani Redattore Sociale, 30 maggio 2018 La manifestazione a Roma il 2 e 3 giugno, con conferenze, concerti, proiezioni e una mostra mercato. Paolo Strano: “Far nascere una piattaforma che metta in rete le iniziative italiane che creano percorsi di inclusione”. Due giornate di promozione dell’economia carceraria e del contrasto alla recidiva, per entrare nelle carceri italiane dalla porta più virtuosa: quella che produce, ogni giorno, da anni, buone prassi, ottimi prodotti e contribuisce ad abbattere, numeri alla mano, le percentuali dei detenuti che una volta in libertà tornano a delinquere. È il primo Festival dell’Economia Carceraria, in programma per il 2 e 3 giugno nella Città dell’Altra Economia a Roma, pensato per promuovere la conoscenza e l’aggregazione delle attività produttive intra ed extra murarie. Organizzato da “Semi di Libertà Onlus” si snoderà tra una serie di conferenze, workshop e tavole rotonde sul tema della recidiva e dell’inclusione sociale. In programma anche un concerto, una mostra mercato di realtà produttive che operano fuori e dentro gli istituti, un’esposizione di opere realizzate nelle carceri, una proiezione di audio-video e altre attività promosse dalle realtà carcerarie proveniente da tutta Italia. “Lo scopo di questa due giorni - spiega Paolo Strano, organizzatore dell’evento e presidente della onlus - è far nascere una piattaforma aggregativa di Economia Carceraria che metta in rete e valorizzi tutte le iniziative italiane che contribuiscono a creare, attraverso il lavoro in carcere, percorsi di inclusione per le persone in esecuzione penale, contrastandone la recidiva. I prodotti dell’Economia Carceraria meritano una piattaforma da cui essere promossi e apprezzati, in quanto buoni e di qualità perché frutto di impegno ed orgoglio, fatti da persone che con essi correggono traiettorie di vita, e in grado di creare circoli virtuosi che diminuiscono recidiva e reati. Acquistarli è un gesto di responsabilità sociale, semplice ma di grande impatto e soddisfazione”. Tra i progetti presenti con i propri prodotti: Caffè Galeotto, da Rebibbia Nuovo complesso, Vale la Pena, birrificio artigianale con detenuti ammessi al lavoro esterno, Il Pane della terza bottega, sempre da Rebibbia, Sartoria Sociale dal Pagliarelli di Palermo, Coop Lazzarelle, la cooperativa di sole donne che dal femminile di Pozzuoli producono caffè artigianale e La Sfera Galeorto, progetto di agricoltura sociale del carcere di Gardolo (Trento). Mentre dagli istituti minorili: Cotti in Fragranza, laboratorio per la preparazione di prodotti da forno dal Malaspina di Palermo, Ciortino di Nisida, biscotto in pasta frolla a forma di cornetto, rigorosamente rosso, con copertura di cioccolato fondente, realizzato dai ragazzi provenienti dall’area penale esterna che frequentano il laboratorio professionalizzante di pasticceria curato dall’ Associazione Scugnizzi nell’istituto minorile di Nisida. E il Fagottino di Casal del Marmo, fagottino con crema al cioccolato e al latte ideato da minori e giovani adulti dell’istituto romano Casal del Marmo. “Attraverso il festival il pubblico potrà convincersi del potenziale produttivo dell’Economia Carceraria - sottolinea il presidente -: un business virtuoso, pulito, solidale, dall’alto valore sociale e rigenerativo, in quanto ogni cosa che viene generata nel carcere è sinonimo di qualità ed ha nella sua anima un valore aggiunto, quello del riscatto sociale e della scommessa su se stessi: è quindi un prodotto di valore, e valori”. L’evento, si legge nella presentazione, “vuole essere la dimostrazione della forza riabilitativa del lavoro e dei percorsi di formazione e istruzione come strumenti di valore legati alla dignità della persona. È per questo che nasce l’idea di aggregare modelli portatori di virtù, professionalità e voglia di fare nel sistema penitenziario del nostro Paese”. Per contrastare una recidiva che “costituisce un costo insostenibile per lo Stato, sia in termini economici che di sicurezza”. Lucera (Fg): reinserimento detenuti, progetto “Ri-Esco in cucina” statoquotidiano.it, 30 maggio 2018 Il progetto consiste nella realizzazione di un corso di formazione professionale della durata di 900 ore rivolto a 10 detenuti della Casa Circondariale di Lucera. Nei prossimi mesi si darà avvio al progetto e la comunità tutta potrà seguire lo stato di avanzamento dell’intervento attraverso i siti web e le pagine social di Enti attuatori e Partner. “Ri-esco in cucina” è un progetto dell’Ente di formazione Enaip Impresa Sociale accreditato alla Regione Puglia e di Formever Lab, Start Innovativa a Vocazione Sociale di Foggia che opera nel settore della formazione con progetti di innovazione sociale e tecnologica per l’inclusione sociale e lavorativa di soggetti in situazioni di svantaggio. Il progetto, presentato in risposta all’Avviso pubblico 1/2017 (pubblicato sul Burp n. 35/2017), è stato ammesso a finanziamento con Determinazione del Dirigente Settore Formazione Professionale n. 472 del 03/05/2018 pubblicata sul Burp n. 68 del 17/05/2018, nell’ambito del P.O.R. Puglia Fesr-Fse 2014-2020 che ha declinato gli obiettivi di reinserimento sociale delle persone sottoposte a misure detentive, stabiliti nel protocollo di intesa tra Regione Puglia e Ministero della Giustizia. Il progetto consiste nella realizzazione di un corso di formazione professionale della durata di 900 ore rivolto a 10 detenuti della Casa Circondariale di Lucera (FG) e finalizzato all’acquisizione della qualifica professionale di “Addetto alla ristorazione” (rif. codice 412 del Repertorio delle Figure Professionali della Regione Puglia). Durante l’intero percorso i discenti saranno supportati da alcune figure strategiche: oltre al Tutor d’aula è prevista la presenza di un Accompagnatore per il sostegno educativo all’utenza e un Mentore individuato dalla Direzione dell’Istituto di Pena, quindi un detenuto in possesso di qualifiche o esperienze professionali nel settore della ristorazione che svolgerà attività formativo/istruttive nei confronti degli altri discenti partecipanti al percorso formativo. Il progetto prevede ben 600 ore di attività pratiche tra Laboratori e Tirocini, che saranno svolti in appositi spazi adibiti presso l’Istituto di pena e nella cucina nonché nel refettorio della struttura per l’esercitazione nella preparazione e somministrazione di alimenti e bevande. Le attrezzature già presenti nel Laboratorio dell’Istituto saranno integrate da Enaip che metterà a disposizione strumenti dei propri laboratori di cucina/sala: ad esempio affettatrici, piastre a induzione, palmari per le comande. Enaip e Formever Lab hanno condotto un’azione di progettazione partecipata che ha coinvolto l’Istituto di pena e ha favorito la creazione di una rete a sostegno del buon esito del progetto. Numerosi, infatti, i partner che hanno aderito all’iniziativa: Comune di Lucera - Istituto di Istruzione Secondaria Luigi Einaudi di Foggia - Ristorante Masseria Montaratro di Lucera - La Roscia New Pizzeria Braceria di Foggia - le Aziende di ristorazione collettiva e catering di Lucera Gam srl e Digma Service srl - Società Cooperativa Daunia Ferens di Foggia per il servizio di catering e noleggio di arredi e attrezzature - Osservatorio Giulia e Rossella Centro Antiviolenza di Barletta con sede operativa a Lucera - Associazione di volontariato I Diversabili Onlus - Centro di Servizio al Volontariato di Foggia - Arci Comitato Provinciale di Foggia - Aps Jaco di Foggia - Cooperativa Sociale Costruire un sogno di Foggia - Libera Associazione di Volontariato Croce Blu di Lucera - APS Ad Personam di Manfredonia - Acli sede provinciale di Foggia - Apulia Digital Maker di Foggia. Si tratta di una iniziativa ad elevato impatto sociale che Formever Lab, in qualità di Start Up Innovativa a Vocazione Sociale, quantificherà attraverso il calcolo di un preciso indicatore. Una novità rispetto al passato: l’impatto di un progetto è sempre stato calcolato solo in termini di raggiungimento o meno degli obiettivi prefissati. In questo caso Formever Lab esprimerà l’impatto sociale anche in termini monetari, cioè quanto valore avrà prodotto ogni euro investito nel progetto. Oltre a curare il monitoraggio e la valutazione dell’intervento, il Partner Formever Lab sarà impegnato anche in altre attività: “formazione ai formatori” per garantire che l’intero percorso venga svolto con il ricorso a metodologie didattiche innovative e adatte al contesto; erogazione di alcune Unità Formative ed elaborazione della pubblicazione finale. La gestione dell’intero progetto sarà a cura dell’Ente Enaip che vanta un’esperienza decennale in ambito nazionale nel management di percorsi formativi all’interno del sistema penitenziario per la qualificazione professionale dei reclusi. Nei prossimi mesi si darà avvio al progetto e la comunità tutta potrà seguire lo stato di avanzamento dell’intervento attraverso i siti web e le pagine social di Enti attuatori e Partner. Bari: “Caffè Ristretto”, si conclude l’evento presso il Cpia di Riccardo Rochira controweb.it, 30 maggio 2018 Volge al termine la V edizione del progetto di scrittura creativa rivolto ai detenuti. Oggi, alle ore 15, si conclude la quinta edizione del laboratorio di scrittura creativa “Caffè Ristretto”, progetto finanziato dall’assessorato alle Politiche educative e giovanili del Comune di Bari, presso il Cpia (Centro Provinciale Istruzione Adulti) I di Bari. Le attività laboratoriali, iniziate a marzo, sono state rivolte sia ai detenuti dell’istituto penitenziario minorile “N. Fornelli “ sia ai detenuti della casa circondariale di Bari attraverso laboratori di scrittura, teatro, storytelling e incontri con autori, esperti di teatro e giornalisti. Il laboratorio di scrittura creativa, ideato e curato dalla scrittrice e drammaturga barese Teresa Petruzzelli, è stato ricco di novità per i partecipanti: una fra tutte la messa in scena di stand-up comedy scritte e interpretate dai detenuti, con la supervisione degli scrittori Alessio Viola, Patrizia Rossini e Francesca Palumbo, le quali andranno in scena oggi. All’evento finale, insieme all’ideatrice del progetto, parteciperanno l’assessora alle Politiche educative e giovanili Paola Romano, il direttore della casa circondariale Valeria Pirè, il direttore dell’area trattamentale Pasquale Fraccalvieri, i responsabili della Polizia penitenziaria, il direttore dell’istituto “Fornelli” Nicola Petruzzelli, il dirigente del Cpia I di Bari Domenico Piliero, la tutor del progetto Mariangela Taccogna e lo staff del Newspaper Game de La Gazzetta del Mezzogiorno, partner dell’iniziativa. Il progetto, volto alla sua quinta edizione, ha avuto come obiettivo principale il reinserimento dei detenuti partecipanti attraverso attività pedagogiche, sociali e creative, lottando contro i pregiudizi ed i luoghi comuni che spesso erroneamente vengono affibbiati ai protagonisti dell’evento. Ferrara: “Ascesa e caduta degli Ubu”, una giornata di libertà per i detenuti a teatro estense.com, 30 maggio 2018 Gli attori ottengono un permesso premio, per la prima volta non saranno accompagnati dalla scorta. Appuntamenti al Comunale e liceo Ariosto. Una giornata di libertà per i detenuti-attori che martedì 5 giugno lasceranno il carcere dell’Arginone per portare in scena lo spettacolo “Ascesa e caduta degli Ubu” al teatro Comunale di Ferrara. Il rapporto che lega la casa circondariale alla città culturale è talmente consolidato che, per la prima volta nella storia del progetto partito più di dieci anni fa, i detenuti non saranno accompagnati dalla scorta della polizia penitenziaria ma usciranno con un permesso premio per raggiungere autonomamente il teatro cittadino. “Essere liberi, anche se solo per poche ore (tra prove e messa in scena) è un gesto di grande confidenza e fiducia da parte del carcere” ammette Horacio Czertok, responsabile progetto Teatro-Carcere Ferrara che da 12 anni cura con amore e attenzione il laboratorio teatrale dietro le sbarre. Il corso biennale che prevede due lezioni a settimana - realizzato dal Teatro Nucleo e finanziato da Comune e coordinamento Teatro-Carcere Emilia-Romagna - ha coinvolto 14 attori detenuti nella sezione dei reati comuni ma solo la metà di loro potrà prendere parte all’appuntamento conclusivo al Comunale. “Gli altri 7 per ragioni burocratiche non possono ottenere il permesso di ‘libera uscita’ concesso dal magistrato di sorveglianza di Bologna su segnalazione del direttore del carcere Paolo Malato” spiega Loredana Onofri insieme alle altre educatrici della casa circondariale che commentano con soddisfazione la continuità del progetto: “Molti dei detenuti partecipanti sono già stati protagonisti delle scorse rappresentazioni al Comunale o a Internazionale, un’esperienza che verrà ripetuta anche quest’anno come elemento del trattamento penitenziario per far sì che la persona possa cambiare il suo atteggiamento per il suo inserimento sociale”. A parlare di “reinserimento positivo nella società” è anche l’assessore ai Servizi alla Persona Chiara Sapigni che tramite il suo Assessorato “investe sul carcere come luogo di reclusione ma non di isolamento, affinché le persone private della libertà si sentano più vicine alla città civile” e anche alle scuole, “a cui lancio la sfida di aprirsi a questo progetto perché ragazzi hanno bisogno di capire questo aspetto della società”. Sfida già raccolta dal liceo Ariosto che giovedì 31 maggio ospiterà una tavola rotonda per riflettere su quanto è stato realizzato e sulle prospettive del coordinamento con i responsabili delle attività teatrali nelle carceri di Bologna, Castelfranco Emilia, Ferrara, Forlì, Ravenna, Modena. Presente anche Gherardo Colombo, presidente Cassa delle ammende-Ministero della Giustizia, che dialogherà con la garante dei detenuti Stefania Carnevale. L’appuntamento al liceo è prettamente riservato agli studenti, mentre lo spettacolo al Comunale è aperto alla cittadinanza a pagamento (10 euro intero, 8 euro over 65, 5 euro under 30). Il ricavato è una sorta di retribuzione per i detenuti, per pagare le loro giornate lavorative. “Noi ci crediamo, il teatro deve proporsi alla comunità in tutte le sue forme, anche per il cittadino recluso” aggiunge Marino Pedroni, direttore artistico del teatro intitolato a Claudio Abbado, “maestro molto attento a tutti gli aspetti sociali”. Come questo spettacolo, “ispirato all’opera di Alfred Jarry e alla metafisica che ha rifondato il teatro del ‘900 - spiega Czertok - che racconta l’intera epopea degli Ubu per indagare il gioco del potere, un desiderio e un’illusione che diventa ancora più forte in carcere, luogo di paradossi”. Svelato anche il tema del prossimo biennio: il rapporto padre e figli. La Spezia: carcerati-attori nel film “Senza porte né finestre” di Sondra Coggio Il Secolo XIX, 30 maggio 2018 Fra i protagonisti anche Andrea Ruiu, ex rapinatore, che in cella ha scoperto l’attitudine alla poesia. Dai suoi testi è nato il musical Riki canta Ruiu, con la band dei Visibì, e l’attore Andrea Bonomi. Non è un documentario, e nemmeno un film che racconta la quotidianità del carcere. “Senza porte né finestre”, nasce su un copione teatrale, adattato in forma video dal regista spezzino Francesco Tassara. I detenuti, interpretano sé stessi. E i dialoghi surreali, esprimono una realtà parallela, costruita dai sogni di chi vive in cella. In trenta minuti, uno spaccato d’umanità, ristretta in cella, si aggrappa a una realtà immaginata, per chiudere gli occhi sul tempo che non sembra passare mai. “Il testo l’abbiamo costruito insieme ai ragazzi detenuti - spiega Tassara - salvo poi renderci conto che non si poteva fare teatro, per le infinite difficoltà che derivano da un posto di viaggio, come un carcere, in cui c’è chi va e chi riparte. Abbiamo salvato il lavoro, lungo e faticoso, trasponendolo in una veste cinematografica”. La produzione è dell’associazione “Riki canta Ruiu”, che già ha prodotto il musical in cui la formazione dei Visibì canta le poesie scritte in carcere da Andrea Ruiu, già detenuto per una vecchia storia di rapine. “Sembra di entrare all’inferno, la sera le porte si richiudono, c’è sofferenza, ma siamo diventati un gruppo di amici - spiega il cantante Riccardo D’Ambra - e questo progetto conferma il valore educativo forte delle attività creative. Il carcere della Spezia è stato lungimirante, a renderlo possibile”. La direttrice Maria Cristina Bigi ha autorizzato il laboratorio. L’anteprima, al Nuovo, ha riscosso applausi, ed un giudizio positivo del noto regista Fulvio Wetzl, che ha definito “bravissimi i ragazzi protagonisti”, elogiando il linguaggio di Tassara: definito dal pubblico un “poeta” dell’immagine. Più che una trama, il film esprime frammenti, sul senso della privazione della libertà: come quando il detenuto sogna, e vede comparire degli alberi, sulle pareti. Gabriella Tartarini, già preside referente di importanti progetti di educazione scolastica in carcere, ha apprezzato “sia i contenuti che il linguaggio, in specie l’uso delle stanze vuote, con inquadrature claustrofobiche sempre uguali, come i giorni che passano, dentro”. Andrea Ruiu, ispiratore del progetto “Riki canta Ruiu”, compare come attore: e così Luciana Consiglio, che consegnò le sue poesie a D’Ambra, dando vita all’associazione. “In carcere - spiega Ruiu - gli strumenti della creatività danno la possibilità di sognare e sentirsi liberi con il cuore, la mente, i pensieri, al di là dello spazio angusto della cella. Io in cinque anni ho scritto una infinità di cose. Gli anni passano, le settimane passano, ma le ore restano bloccate, non passano mai”. Le riprese audio sono di Michele Borgia. La “Ballata di Santa Eufemia” è dei Visibì, da un’idea di Massimo Artino, per Marzia Corsini, mancata nel 2015. Luciana Consiglio ha realizzato “un sogno di quando era bambina, recitare”. Per l’attore spezzino Andrea Bonomi, che nel film conferma sia il talento che l’impegno nella cultura, dalla parte dei più fragili. Il cinema “Il Nuovo” era affollato. Bonomi c’è commosso: “Un sabato di sole, con tutte queste persone in sala, mi fa nutrire ancora fiducia negli esseri umani”. Ravenna: “La bellezza dentro”, donne e madri detenute nella mostra di Giampiero Corelli ravennanotizie.it, 30 maggio 2018 Giovedì 31 maggio alle 15,30, presso l’Aula di Corte d’Assise del Tribunale di Ravenna e alla presenza delle massime Autorità cittadine, si terrà l’inaugurazione della mostra fotografica del fotoreporter Giampiero Corelli “La bellezza dentro - donne e madri nelle carceri italiane”. È la prima volta che i locali del Tribunale ospitano una manifestazione artistica. L’evento sarà condotto dalla giornalista Leda Santoro, mentre la presentazione della mostra sarà tenuta da Maria Vittoria Baravelli, curatrice d’arte fotografica, che scrive: “Per molti reporter la fotografia si configura come un autentico lasciapassare ; un passaporto che permette di viaggiare fino ai confini del mondo. Ma il viaggio che Giampiero Corelli racconta con la sua mostra non è esotico, lontano e sospeso in un tempo sconosciuto, ma radicato in una realtà non cosi lontana da noi eppure all’apparenza invisibile. Corelli offre la possibilità di vedere quello che forse non avremmo mai visto, donandoci persino una temporanea ubiquità. Un viaggio dentro i confini dell’essere umano. È la prima volta che un luogo come il tribunale ospita una mostra fotografica che unisce la parte culturale, artistica della fotografia al contenuto sociale delle immagini, e questo è motivo per pensare che si possa fare cultura anche in luoghi che non sono adibiti a tale funzione”. L’evento sarà concluso da una relazione dell’avv. Marco Martines sulle novità della recente riforma dell’ordinamento penitenziario. Allarme rosso per la libertà d’informazione di Vincenzo Vita Il Manifesto, 30 maggio 2018 Le vecchie coordinate sono travolte e con loro è andata a farsi benedire la “par condicio”. Le telefonate senza contraddittorio nel programma di Fazio o le presenze non stop di esponenti politici nelle giornate televisive sono solo l’antipasto dell’invasione incontrollata che ci aspetta. Allarme rosso sulla libertà di informazione. Non parliamo qui di uccisioni, ferimenti, minacce o querele temerarie, ovvero la grande tragedia dell’epoca. Il riferimento è alla violenza “bianca” dei soprusi e delle indecenti preferenze nell’esposizione politica sui media. Siamo nel corso di una colossale crisi politica e istituzionale. Meglio, di sistema. Le vecchie coordinate sono travolte e con loro è andata a farsi benedire la “par condicio”. Appunto. Il problema è più serio di altre volte, perché le telefonate senza contraddittorio nel programma di Fazio o le presenze non stop di esponenti politici nelle giornate televisive sono solo l’antipasto dell’invasione incontrollata che ci aspetta. Se si voterà in tempi brevi, infatti, questa volta il vecchio Far west avrà le sembianze della saga di Blade runner. Si salvi chi può e la scena televisiva sarà bellamente occupata. Catastrofismo? No, semplice constatazione. Prendere un telecomando e fare lo zapping per credere: basta poco per accorgersi del pericolo in atto. Il pluralismo è stato sepolto, senza neanche i funerali. Non si dica che la legge 28 del 2000 non è in vigore perché ancora (quella sulla par condicio) non sono stati convocati i “comizi elettorali”. Quella stessa, negletta, normativa sottolinea la necessità di preservare i principi generali delle pari opportunità durante l’intera annata, come cifra identificativa di ogni emittente che utilizza un bene comune, l’etere. Così pure parla con nettezza la riforma del 1998, la l.249, che assegna all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni compiti complessivi di alta amministrazione e di magistratura. La vicenda si aggrava, poi, per l’assenza della Commissione parlamentare di vigilanza, neppure costituita. Tra l’altro, se il quadro dovesse precipitare, chi stabilirebbe calendari e presenze nelle trasmissioni? E già oggi, si sta valutando se non vi sono state violazioni o se altre eventuali si stanno appalesando? Sono urgentissime, dunque, misure straordinarie. Innanzitutto, sarebbe indispensabile un documento di indirizzo chiaro da parte dell’Agcom, insieme all’immediata pubblicazione dei dati sulla politica in video e in voce più recenti a disposizione. Non solo. All’Autorità spetta anche il compito di verificare l’osservanza dei principi elementari da parte dei social, a cominciare da Facebook. Ci ricordiamo di Cambridge Analytica? E c’è da chiedersi se le presidenze di Camera e Senato abbiano preso in esame una soluzione concreta per costituire la commissione parlamentare o immaginare eventualmente un collegio ad hoc. Non solo. Troppo delicata è la transizione italiana. Accanto ai livelli istituzionali serve una struttura costituita dalle principali associazioni della società civile, magari con il supporto delle università specializzate, per verificare il rispetto delle regole, “dal basso”. E per tutelare i soggetti mediaticamente deboli, in quanto eccentrici rispetto al mainstream dominante. La par condicio, infatti, non è una partita a poker ristretta a Lega, 5Stelle, Forza Italia e Partito democratico. Anzi. I primi due attori sembrano il nuovo bipolarismo e si mangiano molto, troppo del tempo. Certamente sono i “vincenti”, ma la legge funziona quando l’ultimo ha la stessa dignità del primo. Quante volte il Mov5Stelle ha protestato contro il regime e proprio il presidente della Camera Roberto Fico, per l’esperienza maturata nella Vigilanza sulla Rai, dovrebbe esprimersi su un tema cruciale. Così come l’Agcom bene farebbe a battere qualche colpo. Guai se l’anti-regime si fa subito regime e se, in tanto discettare di popolo, la platea radiotelevisiva viene abbandonata alle logiche strumentali della contingenza. Populismo mediale, “dall’alto”. Cannabis light: il ministero dà il via libera di Giacomo Bulleri Il Manifesto, 30 maggio 2018 Dalle Politiche agricole una circolare che fornisce alcuni chiarimenti applicativi rispetto al mercato dei derivati della canapa. Dopo circa un anno e mezzo dall’entrata in vigore della legge per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa (L. 242/2016), il ministero delle Politiche agricole ha ritenuto opportuno fornire con una circolare alcuni chiarimenti applicativi rispetto al mercato dei derivati della canapa. Appare evidente come tale intervento sia stato mosso dall’esigenza di regolamentare il fenomeno della cosiddetta cannabis light che, nell’arco di un anno, ha dimostrato di costituire un fenomeno mediatico, culturale e soprattutto economico. Si parla di circa 1000 nuove aziende - agricole e commerciali - sorte intorno a tale produzione con il conseguente indotto in termini occupazionali ed economici. La circolare si propone di fornire chiarimenti su due tematiche che, a detta dello stesso Mipaaf, rappresentavano delle “zone grigie” della normativa, ossia il florovivaismo e le infiorescenze. La previsione sulle infiorescenze rappresenta sicuramente la nota positiva del provvedimento in commento. La circolare, richiamando la norma comunitaria, ribadisce il valore dello 0,2% quale limite del tenore Thc (il principio attivo psicotropo della cannabis) nei prodotti di canapa, menzionando sia quella greggia (e quindi anche le infiorescenze), sia le sementi destinate sia alla semina che ad usi diversi. Dal tenore letterale della circolare si evince quindi come il ministero ritenga questo il limite di principio attivo, in conformità con la normativa comunitaria in materia sia di regime degli aiuti sia in materia di importazioni. Quella prevista dall’art. 4 della legge, lo 0,6% di Thc, rappresenta dunque soltanto una soglia di tolleranza per l’agricoltore, a tutela del coltivatore per non incorrere in sanzioni in caso di sforamenti che in agricoltura si possono sempre verificare. La circolare sancisce la legittimità delle infiorescenze precisando come “pur non essendo citate espressamente dalla legge” esse rientrano “nell’ambito delle coltivazioni destinate al florovivaismo” purché tali prodotti presentino tre requisiti: derivate da varietà ammesse, iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole; con un contenuto di Thc non superiore ai livelli previsti dalla normativa di cui sopra; che non contengano sostanze dichiarate dannose per la salute. Appare pertanto evidente come la circolare sancisca la liceità delle infiorescenze quali prodotti florovivaisti risolvendo e superando definitivamente gli escamotage sinora utilizzati. La circolare consente di chiamare le infiorescenze con il proprio nome: fiori prodotti da attività florovivaiste, ovviamente nel rispetto della normativa di settore relativa. D’altro lato, con la ratio di garantire la tracciabilità fino al seme, viene vietata tout court la possibilità di riproduzione per via agamica (es. per talee) ai fini della loro commercializzazione e, soprattutto, la possibilità di acquistare talee per ottenere prodotti da essa derivati. In conclusione si può dire che la circolare, firmata dal Viceministro Olivero, si inserisce in un percorso in atto inerente regolamentazione e autoregolamentazione del settore. Un processo invocato dalle stesse associazioni di categoria che recentemente hanno presentato il disciplinare di produzione delle infiorescenze. Uno strumento volto a garantire quelle finalità di tracciabilità, qualità e tutela del consumatore menzionate dal Ministero stesso nella circolare, e che a breve verrà pubblicato ad uso e consumo degli operatori del settore che vi vorranno aderire su base volontaria. Belgio. Radicalizzato in carcere spara sulla folla, quattro i morti di Gabriele Annicchiarico Il Manifesto, 30 maggio 2018 L’attentatore ruba le armi a due poliziotte e le uccide, poi colpisce un passante e viene abbattuto. Un “atto terroristico”, ha confermato il procuratore Dulieu. Immediatamente sul posto il primo ministro Charles Michel e il ministro dell’interno Jan Jambon. Ancora un atto di natura terroristica ha colpito il Belgio ad opera di un pregiudicato radicalizzato (alla causa islamista) durante un periodo di detenzione. Il bilancio è di 4 morti (due poliziotte, un passante e lo stesso attentatore) e di due feriti, sempre fra le forze di polizia. Questa volta a essere colpita è la città di Liegi, nel sud del paese. L’autore è stato subito identificato, si tratta di Benjamin Herman, 35 anni, da poco messo in libertà vigilata dopo un periodo di detenzione per reati legati alla violazione della proprietà privata. La radicalizzazione dell’uomo, che non era schedato dai servizi segreti fra le file dei soggetti radicalizzati, sarebbe avvenuta proprio in carcere. Secondo la ricostruzione fornita in una conferenza stampa dal procuratore federale Philippe Dulieu, l’uomo “ha attaccato alle spalle le due poliziotte armato di un coltello infliggendo diversi colpi”. Alcune ricostruzioni giornalistiche, non confermate da fonti ufficiali, parlano di una reazione di violenza in seguito ad un normale controllo. L’attentatore avrebbe sottratto l’arma di servizio di una delle due poliziotte facendo poi fuoco su entrambe, uccidendole, prima di fuggire sparando all’impazzata e seminando il panico fra i passanti. L’assalitore ha poi continuato la propria fuga a piedi uccidendo un giovane uomo di 22 anni che si trovava nei paraggi all’interno della propria auto, prima di trovare rifugio nel liceo Léonie de Waha, nel centro di Liegi, dove ha preso in ostaggio uno degli operatori della struttura. Solo a questo punto sono intervenute le forze speciali della polizia belga, ingaggiando una sparatoria che ha provocato il ferimento di due agenti e la morte dell’attentatore. Secondo una ricostruzione giornalistica del settimanale francese Paris Match, a Benjamin Herman sarebbe imputabile un altro omicidio avvenuto nella serata di lunedì ai danni di un giovane di 30 anni, M.W., un conoscente dell’attentatore, ucciso a colpi di martello. Gli omicidi di Liegi sono stati fin da subito classificati come “atto terroristico”, ha confermato il procuratore Dulieu. Sul posto si sono recati immediatamente il primo ministro Charles Michel e il ministro dell’interno Jan Jambon. Entrambi hanno espresso parole di cordoglio ai familiari delle vittime. Il giovane attentatore, sempre secondo la stampa locale, avrebbe gridato “Allah Akbar” durante l’assalto agli agenti. Non si tratta pero di un foreign fighters di rientro dalla Siria ma di un pregiudicato radicalizzato durante il periodo in carcere. Un fenomeno in crescita e che preoccupa le autorità belghe. Sarebbero circa 450 i detenuti schedati come soggetti radicalizzati, di cui solo un centinaio legati a reati di tipo terroristico (compreso i reati di proselitismo). Un dato che ha messo in allarme i sindacati delle forze di polizia, i quali denunciano da tempo di essere uno dei principali obbiettivi di potenziali attentatori. Dopo la strage del 22 marzo del 2016 (32 morti e 340 feriti) ad opera di una cellula terroristica (probabilmente pilotata direttamente dallo Stato islamico), le forze dell’ordine sono state l’obbiettivo di un altro attentato nell’agosto del 2016 nella stazione di polizia della città di Charleroi, dove un uomo ha gravemente ferito un poliziotto a colpi di machete, e ancora l’anno seguente un attacco con il coltello contro una pattuglia di militari nel centro di Bruxelles. In entrambi i casi gli assalitori sono stati uccisi dalle forze dell’ordine. Intanto l’Ocam, l’organo di coordinamento per l’analisi della minaccia, conferma in livello di allarme di 2 su una scala di 4, con “minaccia poco verosimile”. Il livello era stato abbassato da 3 a 2 nel mese di gennaio, dopo quasi tre anni di stato d’allerta permanente, in seguito agli attentati di Parigi del 15 novembre del 2015. I servizi segreti belgi sono oggi in grado di anticipare la minaccia di potenziali cellule terroristiche seguendo il flusso illegali delle armi da fuoco, di cui il Belgio sarebbe una delle principali piazze europee. A destare preoccupazione restano gli atti di singoli individui che possono sfuggire alle maglie dei servizi segreti. Il paradosso dell’Onu: conferenza sul disarmo guidata dalla Siria di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 30 maggio 2018 Il regime siriano accusato di aver brutalmente represso dal 2011 la rivolta della propria popolazione viene ora nominato alla presidenza di turno dell’organismo che raccoglie 65 nazioni tra cui l’Italia. La notizia diffusa due giorni fa è di quelle che lasciano senza parole. Quello stesso regime siriano accusato di aver brutalmente represso dal 2011 la rivolta della popolazione viene ora nominato alla presidenza di turno della Conferenza sul Disarmo (Cd). L’organismo, che raccoglie 65 nazioni tra cui l’Italia, negli ultimi anni ha in verità condotto ben poche campagne. Ma qui valgono più le simbologie che i passi realmente compiuti. E comunque stiamo parlando dell’organizzazione mondiale maggiore nel suo campo. La Cd, sebbene non sia un organo che dipende direttamente dalla direzione del Palazzo di Vetro a New York, tiene formalmente le sue riunioni alla sede Onu di Ginevra. Così, il sanguinario regime di Bashar Assad viene rilegittimato a partner con pieni titoli nella lotta contro la crescita delle armi non-convenzionali, contro le guerre e i massacri di civili inermi. La Siria arriva in ordine alfabetico vicino alla Svizzera, per i regolamenti interni tocca adesso ai dirigenti di Damasco la presidenza per le prossime quattro settimane, si giustificano i burocrati del Cd. Come nulla fosse stato, vince la meccanicità cinica delle regole. In effetti, con un colpo di spugna si cancellano le torture sistematiche nei carceri del regime, si dimenticano soprattutto gli almeno 14 casi riconosciuti di utilizzo di agenti chimici, i lanci dagli elicotteri dei barili-bomba nel cuore dei quartieri civili, gli attacchi sistematici contro ospedali, medici e infermerie da campo. Un’osservazione che si può aggiungere è il grave silenzio dell’Onu. Se è vero, come hanno sempre sostenuto storici e osservatori, che tra i motivi dello scoppio della Seconda guerra mondiale fu la crescente irrilevanza della Società delle Nazioni, allora la questione siriana ci deve preoccupare sempre di più. Iran. Torture e pena di morte non risparmiano neanche i minori di Valentina Stella Il Dubbio, 30 maggio 2018 Anticipazione del rapporto 2018 di Nessuno Tocchi Caino sulla pena capitale nel mondo. L’Iran di cui nessuno parla è quello dove i diritti umani sono continuamente violati: torture e pene capitali sono perpetrate brutalmente, nascoste per quanto possibile e non sanzionate. Lo dicono i dati raccolti da Nessuno Tocchi Caino e resi noti la scorsa settimana presso la sede del Partito Radicale in un incontro durante il quale è stata fornita un’anticipazione del Rapporto 2018 “La pena di morte nel mondo”. L’elezione di Hassan Rouhani come Presidente della Repubblica Islamica il 14 giugno 2013 e la sua riconferma alle elezioni del 19 maggio 2017 hanno portato molti osservatori, alcuni difensori dei diritti umani e la comunità internazionale a essere ottimisti. Tuttavia, si legge nel rapporto “il suo governo non ha cambiato approccio per quanto riguarda l’applicazione della pena di morte; anzi, il tasso di esecuzioni è nettamente aumentato a partire dall’estate del 2013. Almeno 3.288 prigionieri sono stati giustiziati in Iran dall’inizio della presidenza di Rouhani (tra il 1° luglio 2013 e il 31 dicembre 2017) “. L’Iran rimane nel 2017 il Paese con il più alto numero di esecuzioni pro capite. L’impiccagione è il metodo preferito con cui è applicata la Sharia: essa avviene di solito tramite delle gru o piattaforme più basse per assicurare una morte più lenta e dolorosa. Come cappio è usata una robusta corda oppure un filo d’acciaio che viene posto intorno al collo in modo da stringere la laringe provocando un forte dolore e prolungando il momento della morte. Essa è spesso combinata a pene supplementari come la fustigazione e l’amputazione degli arti prima dell’esecuzione. La pena di morte non risparmia neanche i minori, in aperta violazione della Convenzione sui Diritti del Fanciullo che pure l’Iran ha ratificato. Nel 2017, sono stati giustiziati almeno 6 presunti minorenni. La Fondazione Abdorrahman Boroumand ha documentato almeno 126 esecuzioni di delinquenti minorenni in Iran dall’inizio del 2000 e fino al 31 dicembre 2017, mentre sarebbero inoltre almeno 80 i prigionieri del braccio della morte in Iran che avevano meno di 18 anni al momento del reato. Come spiega il rapporto dell’associazione radicale Nessuno Tocchi Caino, il cui segretario è Sergio D’Elia, “in base alla legge iraniana, le femmine di età superiore a nove anni e i maschi con più di quindici anni sono considerati adulti e, quindi, possono essere condannati a morte, anche se le esecuzioni sono normalmente effettuate al compimento del diciottesimo anno d’età”. Ma in Iran non c’è solo la pena di morte: torture, amputazioni degli arti, fustigazioni e altre punizioni crudeli, disumane e degradanti sono diffusamente comminate. Non si tratta di casi isolati e avvengono in aperto contrasto con il Patto Internazionale sui Diritti civili e politici che l’Iran ha ratificato e che vieta queste pratiche. Migliaia di ragazzi subiscono ogni anno frustate per aver bevuto alcolici o aver partecipato a feste con maschi e femmine insieme o per oltraggio al pubblico pudore. Inoltre i rapporti sessuali tra due individui dello stesso sesso continuano a essere considerati crimini e soggetti a punizioni da cento frustate fino all’esecuzione. Secondo l’articolo 233 del nuovo codice penale islamico, la persona che ha svolto un ruolo attivo (nella sodomia) sarà frustata 100 volte se il rapporto sessuale era consensuale e non era sposata, ma quella che ha giocato un ruolo passivo sarà condannata a morte a prescindere dal suo status matrimoniale. Se la parte attiva è un non- musulmano e la parte passiva un musulmano, entrambi saranno condannati a morte. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha espresso “preoccupazione per il continuo disprezzo delle garanzie riconosciute a livello internazionale, incluse le esecuzioni compiute senza notifica ai familiari o ai consulenti legali del prigioniero”. Nonostante questo nei primi nove mesi del 2017 il valore delle nostre esportazioni verso l’Iran è stato pari a 1,147 miliardi di euro, le importazioni dall’Iran hanno registrato un marcato incremento raggiungendo il valore di quasi 2 miliardi di euro”. Come rende noto il Tehrantimes il mese prossimo alcune aziende italiane visiteranno l’Iran per ampliare i legami delle energie rinnovabili mentre, ci fanno sapere da Invitalia, che l’accordo Quadro di Finanziamento per un importo complessivo fino a cinque miliardi di euro firmato tra il nostro governo e quello iraniano lo scorso gennaio è in attesa del Dpcm che renderà operativa la società Invitalia Global Investment. Per Elisabetta Zamparutti, componente Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa per conto dell’Italia, “l’Iran continua ad essere al centro dell’attenzione per la minaccia nucleare alla sicurezza mondiale ma l’Iran, da quarant’anni, è una minaccia alla sicurezza e ai diritti umani del popolo iraniano che vuole un governo secolare e democratico. Per questo quello che bisogna chiedere e pretendere è il rispetto dei diritti umani, più che concentrarsi sulle sanzioni economiche”. Egitto. In isolamento dal 2013 e ora senza sedia a rotelle di Riccardo Noury Corriere della Sera, 30 maggio 2018 L’accanimento delle autorità egiziane nei confronti dei detenuti, attraverso l’isolamento prolungato, era stato già recentemente denunciato da Amnesty International. Ma con la vicenda di Gehad el-Haddad sono stati raggiunti nuovi picchi di crudeltà. El-Haddad è un ex portavoce dei Fratelli musulmani. È stato arrestato il 17 settembre 2013. Per i primi 18 giorni di detenzione è stato tenuto in isolamento 24 ore al giorno nella sezione Liman del centro penitenziario di Tora, alla periferia del Cairo. Nei mesi successivi gli è stata permessa un’ora al giorno di esercizio fisico. Poi, nel gennaio 2014, è stato trasferito, sempre in isolamento, nella famigerata sezione chiamata “Scorpione”. Dal settembre 2016 all’agosto 2017 gli sono state negate le visite dei parenti, poi consentite ma solo per 10 minuti. Dal marzo 2018 il divieto di visita è stato ripristinato. Colui che al momento dell’arresto era un trentenne in perfetta forma, ora è una persona rapidamente invecchiata. Le sue condizioni di salute sono via via peggiorate a tal punto che anche solo per andare in bagno dev’essere accompagnato. L’8 aprile un medico della prigione ha disposto una visita medica e una serie di analisi radiologiche. El-Haddad è stato così trasferito nella sezione Liman, dove però la direzione del carcere ha negato la visita, rimandandolo nella sezione “Scorpione”. Per concludere questo campionario di crudeltà, il 10 maggio gli hanno confiscato la sedia a rotelle e altri beni personali. Suo padre, Essan Haddad, ex consigliere dell’ex presidente Morsi, è in isolamento 24 ore al giorno dal settembre 2013 e non riceve visite dei familiari dall’ottobre 2016. Israele. L’ultima censura: “niente Mondiali in tv per i prigionieri palestinesi” di Michela Iaccarino Il Fatto Quotidiano, 30 maggio 2018 Non sui campi di calcio, ma in quelli di prigionia. Né attacchi, né difesa, né assist. Nessun goal. “Non ho intenzione di permettere ai membri di Hamas di vedere i Mondiali, mentre i corpi dei nostri soldati sono tenuti a Gaza con i cittadini rapiti”, ha detto Gilad Erdan, ministro della Sicurezza israeliano, a Ofra Klinger, a capo della struttura delle prigioni del paese. I cadaveri sono quelli di Hadar Goldin e Oron Shaul, i cittadini catturati sono Avera Mengistu e Hisham al Sayed. Quelli che non vedranno le partite di calcio dell’estate 2018 invece sono gli oltre 6mila palestinesi in carcere. “Chiunque abbia lasciato famiglia e nazione per scegliere la cultura dell’omicidio e del terrore non dovrebbe godere di una competizione sportiva che riunisce insieme persone che arrivano da tutto il mondo”. La palla tra i piedi dei giocatori alla Coppa del Mondo è vietata dal pugno di ferro di Erdan: “continueremo a esercitare una mano pesante sui prigionieri di Hamas, renderemo le cose difficili anche per i prigionieri di altre organizzazioni”. Erdan ha assecondato l’appello delle 74 famiglie delle vittime israeliane morte in questi anni nel conflitto: “Non vogliamo i terroristi che hanno ucciso i nostri cari continuino a festeggiare in prigione”. Allora silenzio e schermo spento. Nelle celle affollate delle carceri israeliane la tv rimarrà muta, ma non nell’enorme prigione a cielo aperto: Gaza. Come in tutto il resto del mondo arabo. La tv statale israeliana trasmetterà la telecronaca della Coppa del Mondo per la prima volta anche in lingua araba. L’ha annunciato il ministro degli Esteri di Tel Aviv: Fifa per tutti i paesi confinanti di Israele, cioè Giordania, Libano, Egitto e West Bank. E soprattutto gratis, sul canale satellitare Makan. Quello che sembra un dono al mondo musulmano, è un calcio a un nemico politico. Il servizio israeliano sarà gratuito, quindi nessuno pagherà quello offerto dal Qatar che costa 45 dollari. La geopolitica è nel pallone.