Giornata conclusiva del progetto “Il carcere entra a scuola. Le scuole entrano in carcere” Ristretti Orizzonti, 29 maggio 2018 Anche quest’anno l’Associazione Granello di Senape, in collaborazione con il Comune di Padova, la Casa di reclusione e la Fondazione Cariparo, organizza il 5 giugno 2018 la Giornata conclusiva del progetto “Il carcere entra a scuola. Le scuole entrano in carcere”. Ore 9 - 12.30, al cinema MPX (via Bonporti 22), ingresso gratuito. Il programma della mattinata prevede: Ore 9 proiezione del film “L’insulto”* (regia di Ziad Doueiri, 2017)* per gli studenti delle scuole che hanno partecipato al progetto; Ore 11.00 pausa; Ore 11.15 Dialogo con Benedetta Tobagi**, giornalista e scrittrice. Brevi interventi di direttore e operatori della Casa di reclusione, magistrati di Sorveglianza, insegnanti, studenti, persone detenute e persone che hanno finito di scontare la pena; Ore 12.00 premiazione dei migliori elaborati individuali prodotti nell’ambito del progetto dagli studenti. I testi saranno scelti da Benedetta Tobagi. La premiazione verrà fatta dall’assessora alle Politiche sociali del Comune di Padova Marta Nalin. *L’insulto, Regia: Ziad Doueiri. Anno: 2017 Beirut, oggi. Yasser è un profugo palestinese e un capocantiere scrupoloso, Toni un meccanico militante nella destra cristiana. Un tubo rotto, un battibecco e un insulto sproporzionato, pronunciato da Toni in un momento di rabbia, innescano una spirale di azioni e reazioni che si riflette sulle vite private di entrambi con conseguenze drammatiche, e si rivela tutt’altro che una questione privata. **Benedetta Tobagi, giornalista e scrittrice, collaboratrice di “Repubblica” e conduttrice radiofonica per la Rai. Nel 2009 ha pubblicato il suo primo libro, Come mi batte forte il tuo cuore (Einaudi), dedicato alla memoria del padre Walter, giornalista, ucciso nel 1980 da un gruppo terroristico. Nel 2013 è uscito Una stella incoronata di buio. Storia di una strage impunita, sempre edito da Einaudi, Nel 2016 ha pubblicato La scuola salvata dai bambini (Rizzoli). All’incontro sono invitati gli insegnanti e gli studenti coinvolti nel progetto e comunque tutti coloro che hanno interesse rispetto a questo tema o che pensano di affrontarlo nel prossimo anno scolastico. Le prenotazioni vanno fatte prima possibile alla mail ornif@iol.it o al cellulare 3492603475, Ornella Favero. I politici sovranisti non vengono da Marte di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 29 maggio 2018 Non muterà presto la fisionomia assunta dalla politica italiana. Le nuove divisioni si incontrano con altre più antiche. Non si tratta di un fuoco di paglia. Tutto si svolge secondo copione: i “fautori del cambiamento” cercano di scaricare sul presidente della Repubblica le colpe di un fallimento che è soltanto loro. Una parte ampia del Paese tira un sospiro di sollievo pensando che stava per formarsi un governo il quale, probabilmente - grazie alle sue brillanti idee sulla finanza pubblica e sul che fare in Europa - sarebbe riuscito a distruggere i risparmi degli italiani nel giro di sei mesi. Ma il sollievo può essere solo momentaneo. Non solo perché ci sarà da affrontare - a breve termine immaginiamo - un cruciale passaggio elettorale. Soprattutto perché, comunque vada a finire, un cambiamento irreversibile si è prodotto in Italia. Sbaglia chi crede, magari pensando alla vicenda del quasi governo Conte, che i partiti antisistema avranno un rapido declino. Poiché la storia non insegna mai niente ai più, è un fatto che in questo errore sono caduti in tanti, tutte le volte che un movimento anti establishment è entrato nell’area del potere: “Lo manovreremo come ci pare e, poi, quando non servirà più, lo getteremo via”. In genere, chi ha pensato questo è stato manovrato e poi gettato via. Non cambierà presto la fisionomia assunta dalla politica italiana. Dureranno le grandi divisioni che ora la attraversano. E dureranno i politici emergenti che le hanno cavalcate con successo. Le nuove divisioni che hanno ridimensionato, o appannato, la tradizionale distinzione sinistra/destra (quella che un tempo, ad esempio, opponeva l’Ulivo prodiano al Polo delle libertà berlusconiano) hanno per oggetto le regole del gioco politico-istituzionale (quale sarà il “tasso di liberalismo” che conserverà la nostra democrazia?), la collocazione internazionale, l’immigrazione. Queste novelle divisioni, oltre a influenzarsi a vicenda, si incontrano con altre divisioni molto più antiche (come quella Nord/Sud) disseminando ovunque cariche esplosive. Le forze emergenti sono culturalmente ostili alla democrazia rappresentativa (liberale). Oggi come in passato, quando si evoca la “democrazia diretta”, si sta in realtà auspicando una qualche forma di Führerprinzip, di “principio della supremazia del capo”. La polemica contro i “competenti” (come hanno osservato Alberto Alesina e Francesco Giavazzi su questo giornale), nonché la contrapposizione fra il popolo innocente e le élites criminali, sono aspetti di questa sindrome. Il diffuso rigetto nei confronti della democrazia rappresentativa, delle sue regole, e delle istituzioni liberali che la sorreggono, è il frutto di una trentennale, martellante, propaganda che ha dipinto la politica rappresentativa come un verminaio, il concentrato di tutte le lordure e le brutture, e i suoi esponenti come gente per la quale vale l’inversione dell’onere della prova: è ciascuno di loro che deve dimostrare di non essere un corrotto. Il lavaggio del cervello a cui il “circo mediatico- giudiziario” ha sottoposto per decenni tanti italiani, ha funzionato. Complice la tradizionale debolezza della cultura liberale, molti si sono convinti che questo è, a causa della politica, il Paese più corrotto del mondo o giù di lì, e che bisogna innalzare (per ora solo metaforicamente; in seguito, si vedrà) la ghigliottina. È l’ostilità alla democrazia liberale che spiega i tentativi di “superare” la rappresentanza moderna (i rapporti fra la Casaleggio Associati e i parlamentari grillini richiederebbero più attenzione). Ed è sempre l’ostilità alla democrazia liberale e alle sue guarentigie a spiegare la furia giustizialista dei vincitori e del loro seguito. Pensate alla proposta di abolire la prescrizione nei reati. Neanche ai fascisti era mai venuto in mente di sottoporre tanti poveri disgraziati alla tortura di provvedimenti giudiziari senza data di scadenza. La seconda divisione investe la collocazione internazionale dell’Italia. Sul versante dell’Europa come su quello dell’alleanza atlantica. Non è probabile che un governo grillo-leghista (o solo grillino o di centrodestra a dominanza leghista) che eventualmente si formi dopo le prossime elezioni decida formalmente di uscire dall’euro o dalla Nato ma certamente ci sarebbero azioni tese ad allentare il più possibile il legame fra l’Italia e i nostri tradizionali ancoraggi internazionali. Perché è quanto prescrive la visione “sovranista” dell’interesse nazionale. Una volta deciso - e fatto credere a tanti italiani - che i nostri mali siano stati causati dall’Europa non resta infatti che la strada della contrapposizione. E pazienza se la posizione negoziale italiana risulterebbe, al tavolo europeo, debolissima (Sergio Fabbrini, Sole 24 ore). Pazienza anche se in questo modo l’Italia non potrebbe avere voce in capitolo quando si trattasse di correggere tutto ciò che non va (ed è molto) nella costruzione europea. Anche sul secondo versante, quello atlantico, si preannuncerebbero tempi duri. Forse la Nato ricorrerebbe a una qualche forma di cordone sanitario (Maurizio Molinari, La Stampa) in funzione anti italiana quando dovesse vedersela con l’orientamento filorusso (e antiatlantico nella sostanza anche se non nella forma) di un importante stato membro. Da ultimo, l’immigrazione. Genera ovunque conflitti ma l’aggravamento di questa divisione è anche il frutto degli errori commessi dai governanti del passato. Soprattutto, da coloro che hanno confuso il messaggio cattolico sul dovere dell’accoglienza con i doveri di chi governa una democrazia, coloro che non hanno capito che la società aperta non si difende senza una seria e rigorosa politica dell’immigrazione. Gli stessi che, di fronte alla sfida islamica, hanno pensato che l’integrazione dei musulmani si favorisca venendo a patti con i fondamentalisti. Mentre richiede l’esatto contrario. Forse gli uomini nuovi riusciranno a imporre, prima o poi, i cambiamenti che hanno in mente. O forse non ci riusciranno. Forse assisteremo alla riscossa (in forme oggi imprevedibili) di chi si oppone al disegno sovranista. In ogni caso, ci si tolga dalla testa l’idea che si tratti di un fuoco di paglia o di un acquazzone estivo. Non è l’invasione degli Hyksos (gente arrivata nell’antico Egitto da chissà dove). Li abbiamo allevati noi. L’impossibile impeachment. Tutte le volte che è stato usato per propaganda di Paolo Delgado Il Dubbio, 29 maggio 2018 Procedura difficilissima: da Segni a Cossiga i presidenti che hanno rischiato lo stato d’accusa. A dire impeachment non ci vuole niente. Provarci sul serio però è un’altra cosa e infatti chiunque ci abbia provato è stato poi sconfitto dalla palude di una procedura lunghissima e complessa. Dipende probabilmente dal fatto che l’impeachment in Italia non esiste. Il termine è entrato nel gergo corrente della politica italiana nei primi anni 70, quando la procedura fu avviata negli Usa contro il vicepresidente Spiro Agnew e poi contro lo stesso presidente Richard Nixon. Da noi però le motivazioni che possono portare alla deposizione del capo dello Stato sono molto meno elastiche che negli Usa. Due sole ragioni, alto tradimento e attentato alla Costituzione, entrambe lasciate nel vago e quindi, salvo casi di golpe, difficilmente dimostrabili. Su questa base, una volta raccolte le firme necessarie, la richiesta va sottoposta a una commissione bicamerale composta dai componenti delle giunte per le autorizzazioni delle due Camere. La relazione della commissione va poi discussa dai due rami del Parlamento in seduta comune e, se la richiesta fosse approvata, ma sinora non è mai accaduto, il caso verrebbe portato di fronte alla Corte costituzionale per un verdetto finale. La sola fattispecie di reato chiaramente esposta all’incriminazione è il colpo di Stato. In effetti un caso del genere nella penisola poteva profilarsi dopo i fatti dell’estate 1964, quando il comandante dei Carabinieri ed ex capo del Sifar, cioè dei servizi segreti dell’epoca, buttò il giù un progettino di colpo di Stato, il “piano Solo”, d’accordo con il presidente della Repubblica Segni. Non che Segni mirasse davvero, nonostante fosse un uomo d’ordine come pochi, a giocare davvero la parte del Pinochet ante litteram. Il rumore di sciabole serviva a condizionare e impaurire i partiti impegnati in una lunga trattativa per dar vita al primo centrosinistra e raggiunse in pieno l’obiettivo. Il Psi e il Psdi si spaventarono, abbassarono le pretese e il centrosinistra nacque così già morto. Poi però il premier Moro e il segretario del Psdi Saragat si presentarono sul Colle per saldare il conto. Minacciarono il presidente di metterlo sotto accusa per attentato alla Costituzione. Gli strilli e gli urli risuonarono per tutto l’austero palazzo, poi Segni si accasciò colpito dall’ictus dal quale non si sarebbe più ripreso fino alla morte qualche mese dopo. Quattordici anni dopo la procedura estrema fu minacciata dal Pci ai danni del presidente Giovanni Leone, già da anni bersaglio di una campagna stampa spietata che lo indicava come il misterioso leader politico che aveva ricevuto una tangente d’oro dalla Lockheed per l’acquisto di alcuni aerei. Leone, si scoprì più tardi, era del tutto innocente. Intanto però era stato costretto alle dimissioni nel giugno 1978. Ma il caso in cui si è effettivamente arrivati più vicini a una vera procedura d’incriminazione ai danni di un capo dello Stato riguarda certamente Francesco Cossiga. Il 7 dicembre 1991 un plico di 19 cartelle fu spedito dagli uffici parlamentari del Pds, che fino a poco prima si era chiamato Pci, al Comitato parlamentare per i procedimenti d’accusa. Il Pds sapeva che il Comitato avrebbe rapidamente archiviato la richiesta, ma aveva già pronte le 239 firme necessarie per riprenderla e sottoporla stavolta al voto delle Camere. La requisitoria si basava su una bozza preparata dal futuro presidente della Camera Luciano Violante e si basava su un assunto ardito, quello cioè secondo cui un capo dello Stato può cercare di operare un golpe, cioè di modificare gli assetti costituzionali, senza bisogno di ricorrere alla forza. Quando il golpista è il presidente “il colpo di Stato, di regola, non si consumerà nelle forme classiche” bensì con “ogni atto seriamente diretto ad alterare illegittimamente il rapporto tra i poteri dello Stato”. Persino i rapporti con i media, le esternazioni televisive nelle quali Cossiga il Picconatore si produceva abitualmente, potevano pertanto essere interpretate come manifestazioni eversive e golpiste. L’episodio che aveva spinto il Pds a un passo tanto estremo si era verificato meno di un mese prima, quando Cossiga, meno di un mese prima, dopo mesi di contenziosi vari con la magistratura, aveva minacciato il ricorso ai carabinieri e l’arresto di tutti i 32 membri del Csm. L’organo di autogoverno della magistratura aveva deciso di discutere, nella riunione del plenum, cinque pratiche sulle quali Cossiga, in veste di presidente del Csm, aveva posto il veto. Il plenum, negando al capo dello Stato e presidente del Csm, poteri pur formalizzati dalla Costituzione aveva deciso di procedere comunque. Cossiga fece sapere che avrebbe forse presieduto di persona la riunione e che, in ogni caso, avrebbe fatto intervenire i carabinieri se gli esposti fossero stati effettivamente messi in discussione. In effetti seguì i lavori via radio e ad ogni buon conto fece circondare palazzo dei Marescialli dall’Arma in assetto antisommossa. Il Pds, che era allora il partito più legato al potere togato ma che già sopportava malissimo le continue esternazioni del presidente, decise l’attacco, pur sapendo che i tempi per l’impeachment a pochi mesi dalla scadenza del mandato di Cossiga non c’erano. L’obiettivo era piuttosto condizionare non tanto le esternazioni quanto le concrete scelte del Colle a ridosso del semestre bianco e delle elezioni. Cossiga, comunque, risolse la faccenda dimettendosi sia pure con pochissimo anticipo sulla scadenza naturale della sua presidenza. Anche il nuovo impeachment contro Mattarella, dopo che passi estremi del genere erano stati minacciati sia ai danni di Scalfaro che di Napolitano senza mai neppure prendere corpo davvero, non mira certo a finire davvero davanti alla Corte costituzionale. È l’avvio di campagna elettorale di M5S, e rende l’idea di cosa sarà la campagna elettorale più tesa e drammatica nella storia della Repubblica. La giustizia in una tenda di Liana Milella La Repubblica, 29 maggio 2018 Non risulta che a Bari si siano verificate scosse di terremoto negli ultimi giorni. Ma di certo un terremoto - quello prodotto da un’immagine che ha un impatto devastante - ha duramente colpito la giustizia. “Aula 1”, “Aula 2”, “Aula 3”. Sono queste le scritte che non indicano un’aula di tribunale in muratura, bensì delle tende. Sì, proprio così. Non c’è stato il terremoto, tocca ribadirlo, ma le tende sono lì. E lì dentro, nelle prossime settimane (mesi?!?!), giudici e pm in toga terranno i processi. Gli avvocati faranno altrettanto. Una vergogna. Come scrivono i magistrati nelle loro mailing list. Le cronache documentano lo scaricabarile tra le istituzioni. I protagonisti della querelle si beccano tra di loro. E contribuiscono al teatro dell’assurdo. Perché quello che non doveva avvenire invece è avvenuto. Un palazzo “chiacchierato” da 15 anni è stato sgombrato per rischio crollo da un giorno all’altro. I magistrati scendono in strada, lungo un vialone sterrato sinistramente parallelo al cimitero. Il funerale della giustizia si celebra in pochi metri quadrati, dove ognuno tenta di vendere la sua versione. Ma un fatto domina su tutte le chiacchiere. L’inequivocabile presenza delle tre tende dimostra che è giunta l’ora di fare l’unico processo necessario, quello alle responsabilità individuali per scoprire il colpevole. Se si è giunti alle tende qualcuno deve dire “è colpa mia”, e subito dopo lasciare il posto che occupa. Questo è il punto. Individuare le colpe e punirle, perché fatti scandalosi come questo non si verifichino mai più. Non solo a Bari, ma in tutta Italia. Il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, ha il coraggio di scendere a Bari e mettere la faccia sul disastro. Anche se certo non spetta al Consiglio superiore occuparsi dell’edilizia. Comunque lui avverte la potenzialità dannosa di quelle foto e parte da Roma. Avrebbe potuto non farlo. Eccolo davanti a una tenda. Eccolo dire “la situazione è gravissima, così non si può amministrare la giustizia” e chiedere che si faccia subito un decreto legge per riparare al danno. Da Roma il Guardasigilli tuttora in carica, Andrea Orlando, sostiene che tutto quello che si poteva fare è stato fatto. Ma che nessuno ha mai concretamente minacciato il rischio dello sgombero. Lui ha individuato i locali dove trasferirsi, la futura cittadella giudiziaria, e ha firmato i decreti. Ma tant’è. Lo sgombero forzato c’è stato lo stesso. E la Protezione civile ha innalzato le tende. Ma stiamo ai fatti emblematici che avvengono a Bari dove un procuratore aggiunto come Roberto Rossi - protagonista della famosa battaglia giudiziaria, vinta, contro il mostro di Punta Perotti costruito dai Matarrese - indaga sullo stesso palazzo in cui lavora. E da una perizia scopre che potrebbe crollargli addosso. Può avvenire tutto questo nell’indifferenza generale? Purtroppo la giustizia in Italia funziona così. La coperta è corta. Non ci sono soldi per assumere più magistrati e più segretari. Le strutture rivelano magagne in continuazione, né i Comuni collaborano a sufficienza. Le toghe onorarie sono state mortificate, anche se sulle loro spalle si riversa un carico enorme di lavoro. Il personale è insufficiente, e procuratori come Armando Spataro a Torino ne hanno fatto una battaglia. C’è da chiedersi se davvero sia possibile coltivare l’illusione, com’è scritto nel contratto di programma M5S-Lega, di costruire nuove strutture e assumere magistrati e amministrativi. Con quali soldi? Bari insegna che il disastro si nasconde dietro l’angolo. I diritti delle donne vanno sempre difesi di Dacia Maraini Corriere della Sera, 29 maggio 2018 I diritti, se non si difendono, possono essere sequestrati, censurati e cancellati, come sta succedendo in troppe parti del mondo. Ha sorpreso tutti che la prima donna sindaco di Roma, abbia deciso di chiudere la Casa delle donne che tanto ha dato e continua a dare alla città. Qualcuno ha scritto che se non ci fosse stata la Casa delle donne e tutte le battaglie che hanno preceduto la sua occupazione, non ci sarebbe oggi una donna a capo dell’amministrazione pubblica della capitale. C’è del vero in questa osservazione. Ma credo che la sindaca sia troppo giovane per ricordare le battaglie delle donne che hanno cambiato le leggi del Paese. Virginia Raggi pensa che il passato non conti, e non le interessa nemmeno conoscerlo. Sa di avere dei diritti ma non le importa sapere come sono stati conquistati. È convinta che i diritti siano lì come un destino naturale e che dureranno per sempre. Mentre i diritti, se non si difendono, possono essere sequestrati, censurati e cancellati, come sta succedendo in troppe parti del mondo. La Casa del buon Pastore è stata ed è tuttora un punto di riferimento per tante donne che vengono da tutta Italia, per confrontarsi, per consultare il magnifico archivio che possiede. In quelle stanze si è praticato per anni cultura e servizio, cultura e creatività, cultura e solidarietà, cultura e consapevolezza, cultura e memoria. L’enorme articolato archivio sta lì a dimostrarlo. Si sono accumulati dei debiti? Alcuni sono stati pagati proprio recentemente con grande sacrificio di tutte. Ma la giustificazione suona pretestuosa. Con questo criterio dovremmo chiudere mezza Roma e la stessa Italia indebitata e insolvente. Con tutto il rispetto per Virginia Raggi che reputo una persona onesta e in buona fede, mi sembra che vada assomigliando sempre più alla regina nera di Alice nel paese delle meraviglie. “Tagliate la testa!” va ordinando ai suoi sudditi, “via, avanti un altro, tagliate la testa!”. E le teste rotolano dentro un gran paniere pieno di fiori. La bella regina scambia la mannaia per rigore morale e non si rende conto che la realtà è complessa e le buone iniziative di una città in crisi vanno difese. Così come vuole chiudere la Casa delle donne, ho letto che vuole spazzare via il mercatino di piazzale Flaminio. Ma perché? Per il decoro, è stato risposto. Ma è più indecoroso un autobus di linea che si incendia in mezzo a una strada piena di buche o un mercatino dove le donne povere del quartiere e le tante straniere badanti vanno a comprare gli abiti a poco prezzo? Questo reato è una fake news di Francesca Sironi La Repubblica, 29 maggio 2018 Chi soffre di disagio psichico ha lo stesso rischio di delinquere di un non malato. Ecco i dati. Raptus, omicidi, “matti”. La correlazione fra disagio psichico e reati violenti è una convinzione comune. Che non ha però radicamento scientifico. “Le persone che soffrono di malattie mentali presentano lo stesso rischio di comportamenti criminali dei non malati”, ribadisce infatti Enrico Zanalda, direttore del dipartimento di salute mentale dell’Asl3 di Torino e segretario della Società italiana di psichiatria: “I principali fattori di rischio sono gli stessi, a partire dai comportamenti antisociali”. Fra i capisaldi della ricerca a riguardo, Zanalda ricorda uno studio (condotto dagli studiosi Hafner e Broker) “che mostrava come la percentuale dei reati di violenza commessi da soggetti psicotici è sostanzialmente in linea con quella della popolazione generale: 0,05% nel caso degli schizofrenici e 0,006 nei soggetti con psicosi affettive e ritardo mentale”. La ricerca epidemiologica, continua Zanalda, “ha mostrato un aumento del livello di rischio solo per alcune forme di malattia. E le differenze non sono drammatiche. La correlazione è infatti nettamente inferiore al rischio associato all’abuso di sostanze e al disturbo antisociale di personalità”. Bisogna ricordare, quindi, conclude l’esperto, “che la stragrande maggioranza degli utenti psichiatrici non commette reati”. Purtroppo i dati e le ricerche disponibili su questo tema restano pochi. In un articolo pubblicato dal Journal of Nervous and Mental Disease quattro anni fa, Paolo Francesco Peloso, Marco D’Alema e Angelo Fioritti ricordavano ad esempio a riguardo le statistiche relative agli anni dell’introduzione della legge Basaglia. Allora non ci fu nessun aumento delle persone internate negli ospedali psichiatrico giudiziari, quegli Opg chiusi soltanto negli ultimi anni per essere sostituiti finalmente da comunità protette per la riabilitazioni. Con l’esplosione del numero di carcerati (saliti dai 25mila degli anni 90 ai 60mila del dopo duemila), anche i pazienti negli Opg erano aumentati, ma l’ultimo censimento restava comunque inferiore alle 1.270 persone, nel 2012. Ora quelle persone non sono più negli Opg ma nelle Rems, “residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza”. E, ricorda Enrico Zanaldi, “l’intervento dello psichiatra nelle Rems è la cura della malattia mentale e non la difesa sociale. Quest’ultima è nelle mani del sistema giudiziario. Non confondere i due livelli è un passaggio fondamentale per il lavoro psichiatrico”. Eppure “sempre più spesso riceviamo in carico persone da parte delle autorità. Siamo disponibili a trattare chiunque sia malato - conclude - ma non a svolgere il ruolo di psico-poliziotti”. Intercettazioni: in sede cautelare non serve trascrizione integrale e traduzione di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 29 maggio 2018 La trascrizione integrale e la traduzione delle intercettazioni, con le garanzie previste per l’espletamento delle perizie, non serve in sede di valutazione per l’applicazione delle misure cautelari. La Corte di cassazione, con la sentenza 23869, respinge il ricorso contro la decisione del Tribunale di confermare la scelta del Gip che aveva applicato la misura cautelare nei confronti di un indagato per il reato di spaccio di stupefacenti. Tra le varie obiezioni della difesa, che contestava l’esigenza della misura e suoi presupposti, c’era anche una presunta violazione dei diritti della difesa, dovuta all’assenza di una trascrizione integrale delle captazioni e alla mancata traduzione in lingua albanese delle conversazioni. Per la Cassazione però in sede cautelare quanto preteso dal ricorrente non serve. I giudici della terza sezione penale chiariscono, che l’intera trascrizione delle registrazioni e la loro traduzione, con le forme e le garanzie previste per lo svolgimento delle perizie, è necessaria solo per l’inserimento nel fascicolo per il dibattimento e per la conseguente utilizzazione come prove in sede di giudizio. Mentre l’obbligo non c’è quando si tratta di valutare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza ai fini dell’applicazione delle misure cautelari (articolo 273 del Codice di procedura penale). La Suprema corte ricorda che il difensore ha diritto di chiedere e ottenere dal Pubblico ministero una copia dei supporti magnetici informatici delle registrazioni utilizzate per adottare il provvedimento cautelare. La prova dei fatti che sono rappresentati dalle intercettazioni non deriva, infatti, dal riassunto o dall’interpretazione che di queste si dà negli atti di polizia giudiziaria, ma dal contenuto delle registrazioni documentate nei relativi supporti. Tentata estorsione, conta anche la “percezione” della vittima di Laura Ninni Il Sole 24 Ore, 29 maggio 2018 La II sezione della Cassazione, con sentenza n. 23075, ha confermato la penale responsabilità di un imputato appartenente a una nota famiglia di origine sinti (i Casamonica) per il delitto di tentata estorsione. È il 27 agosto 2015 quando costui viene arrestato (solo una settimana prima le immagini di un elicottero che gettava petali di rosa ai funerali di un altro membro della stessa famiglia facevano il giro del mondo). L’accusa mossa al giovane è quella di aver preteso, senza successo, il pagamento di 500 euro a settimana dal titolare di un pub romano, in cambio di “protezione”, minacciando in caso contrario di dar fuoco al locale. In relazione a questo caso il tema di maggior rilievo per il penalista è quello dell’idoneità della minaccia a costringere la vittima (nel caso, a pagare) nell’ambito di una tentata estorsione. Dalle società ai palazzi abusivi: ecco l’impero romano dei Casamonica - Il fatto che si tratti di un tentativo impone di verificare se, indipendentemente dal fatto che la persona offesa abbia resistito alle pressioni, l’intimidazione fosse in grado di incutere paura alla vittima. Ricordando che la minaccia consiste nel prospettare un male futuro e ingiusto dipendente dalla volontà dell’agente (o presentato come tale), la questione riguarda i criteri di cui il giudice deve tenere conto nella valutazione della capacità della condotta di incutere timore. I motivi di ricorso proposti dall’imputato impongono alla Cassazione di rievocare alcuni punti fermi sul tema. La difesa sostiene che la minaccia manchi dell’attitudine a coartare la volontà della vittima per due motivi: la non provata esistenza di un “clan” corrispondente alla famiglia del ricorrente e l’altrettanto indimostrata appartenenza dell’imputato allo stesso. Questa mancata “prova” varrebbe a escludere, secondo la tesi difensiva, che il gestore del pub potesse essere stato realmente intimidito dalla minaccia, in quanto non “impressionabile” dalla (inesistente) caratura criminale di quest’ultimo. Sulla scia di un consolidato orientamento giurisprudenziale, la Corte sottolinea come nel valutare l’idoneità della minaccia si debba far ricorso a criteri individualizzanti, soggettivi, che riguardino in primo luogo il destinatario dell’intimidazione. Si evidenzia che “del tutto irrilevante è […] l’esistenza o meno di un clan […] e l’effettiva appartenenza allo stesso dell’imputato, posto che ciò che rileva è che tali circostanze siano ritenute sussistenti dalla vittima dell’estorsione, che ha preso seriamente in considerazione la richiesta estorsiva anche sulla base delle stesse”. È dunque rilevante la percezione della persona offesa: è sulla base (anche) di questa che deve operarsi la valutazione di idoneità. Questa percezione rimane inconoscibile dal giudice, ma è desumibile da modalità e circostanze del caso concreto. Ecco che l’idoneità della minaccia, così come intesa dal destinatario di essa, secondo la Corte affiora proprio dalla percezione della vittima circa l’esistenza del clan, nonché dalla circostanza che la stessa persona offesa avesse “accettato di salire a bordo della autovettura [dell’imputato] per affrontare la questione della richiesta di somme di denaro”, con ciò dimostrando di aver ritenuto concreta la minaccia estorsiva. Certo, il criterio della percezione della vittima non può e non deve essere l’unico: l’intimidazione deve essere credibile, seria, e il male minacciato deve essere “grave”; tuttavia nella valutazione dell’idoneità offensiva deve trovare spazio una valutazione in concreto che tenga conto del punto di vista dell’offeso. L’appropriazione è consapevole di Giulio Benedetti Il Sole 24 Ore, 29 maggio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 15800/2018. È evidente, dal dettato dell’articolo 1130 del Codice civile e 63 delle Disposizioni di attuazione, che la gestione del denaro dei condomini costituisce il contenuto principale del rapporto di mandato che lega l’amministratore ai componenti del condominio: occorre richiamare anche l’articolo 1710 del Codice civile, dove si afferma che il mandatario è tenuto a eseguire il mandato con la diligenza del buon padre di famiglia. Il reato di appropriazione indebita (articolo 646 del Codice penale) si realizza quando l’amministratore gestisce il denaro dei condòmini come proprio e nei suoi confronti compie, per ricavarne un ingiusto profitto, l’”interversione del possesso”. Tuttavia occorre chiedersi, tra tutte le attività compiute dall’amministratore condominiale, quali sono le condotte illecite che indicano univocamente la sua consapevole realizzazione del predetto reato. Non sempre vi è chiarezza sul punto e la Corte di Cassazione con la sentenza 15800/2018 detta precisi criteri interpretativi. La sentenza dichiara inammissibile il ricorso avvero una sentenza della Corte d’appello che condannava un amministratore per appropriazione indebita continuata e aggravata di somme prelevate dai conti correnti di sedici condomìni. L’amministratore ricorreva nei confronti della sentenza affermando l’assenza dell’elemento psicologico del reato, poiché mancava la prova della finalizzazione della condotta per procurarsi un ingiusto profitto a causa delle sue condizioni di indigenza. La difesa sosteneva che non vi erano certezze circa l’ammanco complessivo operato a carico di ciascun condominio e che né i testi, né gli operatori erano stati in grado di ricostruire, mentre dalle dichiarazioni dell’imputato emergeva la totale assenza di consapevolezza circa lo stato di dissesto delle gestioni condominiali. Ma la Cassazione rileva che le indagini della Guardia di Finanza accertavano che il ricorrente aveva tenuto le seguenti coscienti e ripetute condotte. Egli aveva fatto confluire somme provenienti dai conti correnti intestati ai singoli condominii amministrati: • parte in un conto personale destinato alla gestione della propria attività professionale; • parte in un altro conto corrente cointestato con la moglie, il quale, a sua volta, veniva utilizzato per alimentare un ulteriore conto corrente bancario intestato alla figlia ed al suo fidanzato. La Corte di Cassazione sosteneva che tali prelevamenti dai conti correnti condominiali erano privi di giustificazioni contabili e accanto agli stessi si affiancava l’emissione di assegni, incassati direttamente da terzi, privi di riferimento a specifiche causali nell’interesse condominiale. Tali illeciti comportamenti cagionavano ai singoli condominii sostanziosi ammanchi di cassa che erano occultati attraverso la contabilizzazione di costi di gestione non adempiuti. Inoltre la Corte non dava nessun pregio alla ulteriore tesi difensiva per cui il reato non era configurabile in quanto nel corso del dibattimento non era emersa la prova sulla precisa individuazione delle somme di denaro illecitamente sottratte e conseguite con travasi capziosi di denaro effettuati dal ricorrente da un conto corrente ad un altro dei condominii amministrati. Anzi, la Corte afferma che dette operazioni erano invece finalizzate a ostacolare la puntuale ricostruzione degli ammanchi e tali condotte indubbiamente dimostravano l’elemento soggettivo doloso del reato di appropriazione. Interdittiva antimafia, non scatta l’infiltrazione per dipendenti “sospetti” di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 29 maggio 2018 Consiglio di Stato - Sezione III - Sentenza 25 maggio 2018 m. 3138. Non si può far ricadere de plano sull’imprenditore la responsabilità delle condotte penalmente rilevanti, dei carichi pendenti, dei precedenti o, addirittura, dei legami familiari dei propri dipendenti per far scattare un’interdittiva antimafia. In particolare se parte dei dipendenti individuati come parenti o contigui ad ambienti mafiosi siano alle dipendenze dell’impresa in conseguenza della clausola sociale del Codice appalti che impone il mantenimento del personale, già alle dipendenze del precedente appaltatore, nei servizi ad alta intensità di manodopera. Così il Consiglio di Stato con la sentenza n. 3138/2018 ha posto nel nulla l’interdittiva emessa dal prefetto contro l’impresa ricorrente. Interdittiva - Cioè - chiarisce Palazzo Spada - che a giustificazione di un’interdittiva antimafia non esiste alcun automatismo tra presenza di dipendenti “controindicati” e tentativo di infiltrazione mafiosa. Per arginare tale rischio di inquinamento di un settore economico non si può non tener conto dei reali strumenti posti a disposizione dell’impresa per verificare la potenzialità mafiosa di chi assume. Infatti, ciò che può essere noto attraverso il casellario giudiziale non è lo stesso ordine di dati che sono al limite più facilmente rilevabili dalle attività di polizia sul territorio, come l’appartenenza familiare a un clan. Come dire, che il prefetto deve valutare in concreto la condotta dell’imprenditore in relazione ai fattori di rischio. Ovvio, che l’assunzione di dipendenti in odore di mafia o legati per qualsiasi motivo all’organizzazione criminale costituiscano il cavallo di Troia con cui il crimine può permeare, al fine di condizionarlo, un dato settore economico nella realtà territoriale dove alligna. Indizi di infiltrazione - Va quindi valutato non tanto il mero dato che un’impresa abbia alle proprie dipendenze pregiudicati o persone sospettate di essere contigue ad ambienti mafiosi, ma soprattutto se la presenza delle figure accertate in azienda sia concreto sintomo del potere della criminalità di indirizzare le politiche assunzionali dell’impresa cercando perciò di inquinarne la gestione aziendale. Nel caso specifico il Consiglio di Stato ha escluso l’esistenza di sintomatici comportamenti dell’imprenditore tali da farlo passare dalla parte di chi subisce inconsapevolmente tentavi di infiltrazione a quella di chi attivamente e coscientemente sia omogeneo all’ambiente mafioso. Palazzo Spada nel prendere la propria decisione ricorda alcuni precedenti che definiscono quali siano le situazioni che costituiscono elementi indiziari del tentativo di infiltrazione mafiosa “l’assunzione esclusiva o prevalente, da parte di imprese medio-piccole, di personale avente precedenti penali gravi o comunque contiguo ad associazioni criminali”. Non può dunque sussistere alcun automatismo fra presenza di dipendenti controindicati e tentativo di infiltrazione mafiosa. Toscana: salute in carcere, un quadro allarmante Ristretti Orizzonti, 29 maggio 2018 Dichiarazione di Vincenzo Donvito (Presidente nazionale Aduc) e Massimo Lensi (Associazione per l’iniziativa radicale “Andrea Tamburi”). Qualche giorno fa, l’Agenzia regionale di sanità ha reso noto i risultati della IV rilevazione sulla salute dei detenuti in Toscana a 10 anni dalla riforma. I dati sono allarmanti. Il 58,7% della popolazione detenuta è affetta da almeno una patologia, un dato che nel caso del carcere fiorentino di Sollicciano sale al 62,1%. La rilevazione mostra che i disturbi psichiatrici continuano a rappresentare il gruppo di patologie più diffuse (38,5%), seguiti dalle malattie infettive e parassitarie (16,2%). In diminuzione, invece, i disturbi dell’apparato digerente che interessano il 9,5% dei detenuti mentre aumentano le malattie del sistema cardiocircolatorio (15,5%) e del metabolismo (12,1%). Dal 2008, anno della riforma, la competenza sulla sanità in carcere spetta alla Regione Toscana. In questi dieci anni, però poco o nulla si è concretizzato a livello di prevenzione o della formazione del personale specializzato, specialmente in campo psichiatrico. Invero, qualcosa è stato fatto a livello di presidi interni, che dovrebbero però essere implementati e resi attivi per l’intera durata della giornata; in una istituzione totale è infatti impensabile il contrario. Il carcere è una struttura pubblica di servizio, all’interno della quale la persona detenuta dipende totalmente dallo Stato anche per intraprendere i dovuti percorsi di risocializzazione. La responsabilizzazione della persona detenuta passa anche e soprattutto nel rendere possibile, come per tutti i cittadini, l’attivazione di una normale prevenzione sanitaria. Specialmente in un luogo dove offerta alimentare e possibilità di attività fisica sono ridotti ai minimi termini. Nello specifico del carcere fiorentino di Sollicciano, i dati della rivelazione della ARS ci offrono ulteriori e gravi motivi per insistere nell’invitare le strutture e le istituzioni competenti ad aprire con la città un serio e approfondito dibattito sul futuro dell’istituto. Un istituto che difficilmente è riformabile e che deve dimostrare di essere in grado di migliorare la qualità di vita dei detenuti e dei lavoratori. Altrimenti, lo ribadiamo, sarebbe meglio pensare alla sua dismissione. A Sollicciano 6 detenuti su 10 sono malati (Redattore Sociale) Secondo la rilevazione dell’Agenzia regionale di sanità, il 62,1 per cento dei detenuti del penitenziario fiorentino presenta almeno una patologia, molto spesso di tipo psichico. L’allarme di Donvito e Lensi. Il 58,7% della popolazione detenuta in Toscana è affetta da almeno una patologia, un dato che nel caso del carcere fiorentino di Sollicciano sale al 62,1%. La rilevazione, effettuata dall’Agenzia regionale di sanità, mostra che i disturbi psichiatrici continuano a rappresentare il gruppo di patologie più diffuse (38,5%), seguiti dalle malattie infettive e parassitarie (16,2%). In diminuzione, invece, i disturbi dell’apparato digerente che interessano il 9,5% dei detenuti mentre aumentano le malattie del sistema cardiocircolatorio (15,5%) e del metabolismo (12,1%). Dal 2008, anno della riforma, la competenza sulla sanità in carcere spetta alla Regione Toscana. Secondo Vincenzo Donvito (Presidente nazionale Aduc) e Massimo Lensi (Associazione per l’iniziativa radicale “Andrea Tamburi”), “in questi dieci anni poco o nulla si è concretizzato a livello di prevenzione o della formazione del personale specializzato, specialmente in campo psichiatrico. Qualcosa è stato fatto a livello di presidi interni, che dovrebbero però essere implementati e resi attivi per l’intera durata della giornata; in una istituzione totale è infatti impensabile il contrario”. “Nello specifico del carcere fiorentino di Sollicciano - dicono Donvito e Lensi - i dati della rivelazione della Ars ci offrono ulteriori e gravi motivi per insistere nell’invitare le strutture e le istituzioni competenti ad aprire con la città un serio e approfondito dibattito sul futuro dell’istituto. Un istituto che difficilmente è riformabile e che deve dimostrare di essere in grado di migliorare la qualità di vita dei detenuti e dei lavoratori. Altrimenti, lo ribadiamo, sarebbe meglio pensare alla sua dismissione”. Velletri (Rm): li denunciò e lo picchiarono, dopo 8 anni condannati gli agenti di Valentina Stella Il Dubbio, 29 maggio 2018 Ismail Ltaief si era accorto che sottraevano cibo dal penitenziario. Condannati a tre anni di reclusione due agenti di polizia penitenziaria che nel 2010 pestarono a sangue il detenuto Ismail Ltaief all’interno del carcere di Velletri: si tratta di Roberto Pagani e Carmine Fieramosca, all’epoca dei fatti, rispettivamente, Ispettore capo e Assistente capo del Corpo di Polizia penitenziaria in servizio presso la Casa circondariale di Velletri. Entrambi erano imputati del reato di cui agli artt. 110, 582 e 583 comma 1 numero 1 e 585 c. p., perché tra il 27 e il 28 maggio 2010, in concorso tra loro - dopo aver fatto uscire Ltaief dalla propria cella ed averlo condotto con un pretesto all’interno dell’ufficio dell’ispettore Pagani - lo prendevano a calci e lo percuotevano con un tubo flessibile di plastica dura cagionandogli lesioni personali gravi consistite in frattura della vertebra, contusione costale ed ecchimosi varie al dorso e alla legione lombare. Il Tribunale di Velletri con la decisione di ieri ha disposto che i danni fisici patiti da Ismail Ltaief dovranno essere liquidati in un separato giudizio, ma nel frattempo ha condannato i due imputati a pagare una provvisionale immediatamente esecutiva di 20mila euro in favore del detenuto, oltre alle spese legali per la costituzione di parte civile. Ismail Ltaief, di nazionalità tunisina, all’epoca dei fatti lavorava nelle cucine del carcere. Quando si è accorto che alcuni agenti di polizia penitenziaria sottraevano regolarmente cibo destinato ai detenuti per portarlo fuori dal carcere, li ha denunciati. Da questo momento per lui è iniziato un incubo fatto di minacce, intimidazioni e violenze, fino al brutale pestaggio. Al processo ha dichiarato: “Non ho accettato questo sistema di ruberie e furti da parte degli agenti di polizia penitenziaria, per questo motivo sono stato portato all’interno dell’ufficio dell’Ispettore Pagani per poi essere massacrato di botte. Io ero attorcigliato a terra come un verme, e loro continuavano a picchiarmi con un tubo flessibile di plastica. Mi sono pisciato sotto, ho vomitato e poi ho perso i sensi”. A seguito della denuncia del detenuto, il sostituto Procuratore della Repubblica di Velletri, dottor Carlo Morra, ha subito avviato le indagini e, col tempo, senza mai risparmiarsi, pur sapendo quanto sia difficile in generale istruire processi per fare luce sui reati che si consumano all’interno delle carceri, è riuscito ad ottenere questa importante pronuncia di condanna. “Dopo otto lunghi anni - dice al Dubbio l’avvocato Alessandro Gerardi, che per conto di Ismail Ltaief si è costituito parte civile nel processo - la sentenza rende finalmente giustizia all’ex detenuto tunisino che ha subito brutali violenze fisiche e psicologiche all’interno della Casa Circondariale di Velletri solo perché “colpevole” di aver accusato personale e agenti dell’amministrazione penitenziaria di essere complici nella sottrazione di notevoli quantitativi di vitto destinato ai detenuti”. Le motivazioni arriveranno entro 90 giorni ma nel frattempo conclude l’avvocato Gerardi “non posso non ringraziare Irene Testa dell’Associazione Il Detenuto Ignoto, Rita Bernardini e il Partito Radicale per essere stati gli unici, all’epoca dei fatti, ad accendere i riflettori su questa drammatica storia. Purtroppo ci sono voluti anni prima che la verità venisse a galla, questo perché all’interno del carcere di Velletri ci fu chi nascose le circostanze del pestaggio preferendo voltare la testa dall’altra parte. Quello di Ismail Ltaief è un caso Cucchi fortunatamente incompiuto ed è una vicenda che dimostra quanto il carcere abbia modificato se stesso nel corso degli ultimi anni. Ormai gli istituti penitenziari sono diventati territori sconosciuti e i pestaggi, quelli che nella campionatura carceraria sono inseriti tra gli eventi critici, e che vengono effettuati a volte anche per motivi banali, non accennano a scomparire”. Livorno: la “Giornata del cuore” nel carcere di Gorgona di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 maggio 2018 Quasi 300 persone hanno partecipato all’iniziativa: tra loro Carlo Conti, Andrea Masini e tanti altri. “La Giornata del cuore”, un evento che ha avuto luogo l’isola di Gorgona e promosso dall’Associazione Onlus Olimpiadi del Cuore in collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, gli Enti locali territoriali, sostenuta dal Vescovo di Livorno. Il programma della giornata si è aperto con un momento di preghiera multiconfessionale e proseguito con la partita del Cuore - torneo Coppa della Pace disputata tra squadre di detenuti e campioni dello sport e dello spettacolo. È Paolo Brosio che con la Onlus ha portato quasi 300 persone sull’isola penitenziaria e questo è già un record per un territorio inaccessibile. Lo ha fatto nel segno della solidarietà e del dialogo interreligioso che si è concretizzato con una serie di testimonianze aperte dal vescovo di Livorno monsignor Simone Giusti e poi proseguite con gli interventi di varie fedi religiose fino alla grande messa finale. Sull’isola tanti nomi dello spettacolo e dello sport come Carlo Conti, i cantanti Marco Masini e Andrea Becucci, l’imitatore Ubaldo Pantani, l’olimpionica di judo Giulia Quintavalle, la tennista vincitrice del Roland Garros Mara Santangelo, altri personaggi del mondo dello spettacolo come l’attore Paolo Conticini, i dj Ringo e Gino Latino, lo storico leader della nazionale cantante Sandro Giacobbe, gli ex nazionali di calcio azzurri Roberto Mussi, Giovanni Francini e Sergio Battistini. In finale la squadra del Livorno neo promossa in B ha battuto per 3-1 la rappresentativa dei detenuti della Gorgona mentre terzo si sono classificati la Gendarmeria e polizia Vaticana che ha sconfitto la Capitaneria di Porto Marina militare di Livorno. A seguire c’è stato il pranzo del Cuore preparato da chef stellati con la partecipazione degli studenti della scuola alberghiera di Massa Carrara e di detenuti interessati a partecipare ai corsi di formazione per cuochi e camerieri che prossimamente saranno attivati presso la Casa di reclusione dell’isola, grazie al protocollo siglato dal Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per la Toscana e l’Ufficio scolastico regionale. La visita ai siti archeologici dell’isola, con la guida di detenuti formati dalla Soprintendenza, e un percorso di trekking sui sentieri che circondano l’isola, grazie al protocollo di intesa sottoscritto a febbraio tra il Dap e il Parco nazionale Arcipelago Toscano, hanno chiuso la giornata. La manifestazione ha ricevuto anche il messaggio di augurio di Papa Francesco inviata dal sottosegretario di stato Parolin. Presenti il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Santi Consolo, il Vescovo di Livorno e numerose istituzionali del territorio, l’evento di solidarietà ha offerto l’occasione per presentare il “Progetto Gorgona” attivato dalla Struttura Organizzativa di Coordinamento delle Attività Lavorative del Dap per la riqualificazione dell’isola con finalità turistico ricettiva, attraverso il lavoro dei detenuti. L’isola di Gorgona, dal lontano 1869, è sede di un complesso penitenziario che consente un impiego significativo di detenuti in attività lavorativa all’aperto legate all’agricoltura, alla pastorizia e alla vinificazione. Il Progetto Gorgona, quindi, mira a creare professionalità che si traducono in una serie di lavorazioni e di servizi per l’accoglienza turistica, la ristorazione e un centro soggiorno. Le strutture deputate all’accoglienza e alla ristorazione sono state ristrutturate con la mano d’opera dei detenuti; gli arredi sono stati realizzati dalla falegnamerie degli istituti di Napoli Poggioreale e Sulmona. Genova: genitori in prigione, come vivono i loro bambini? di Anna Spena Vita, 29 maggio 2018 Finanziato dal Bando Prima Infanzia, approvato dall’Impresa sociale Con i Bambini, “la barchetta rossa e la zebra” vuole combattere la povertà educativa minorile dei figli di genitori detenuti nel carcere maschile Marassi e nella casa Circondariale femminile Pontedecimo di Genova attraverso l’inclusione e la bellezza. Si dice che un bimbo con la mamma o il papà in carcere sia “un bimbo con un segreto”. Il genitore in prigione diventa, nelle parole del bambino, “malato”; “in viaggio”; “assente per lavoro”. Il progetto “La Barchetta Rossa e La Zebra” è nato dall’incontro tra Maria Chiara Roti, vicepresidente di Fondazione Francesca Rava N.P.H. Italia Onlus, e Maria Milano, direttrice del carcere di Marassi. “Maria Milano”, racconta Maria Chiara Roti, “aveva un desiderio. “Ho un sogno nel cassetto”, mi ha detto. “Quello di accogliere in un posto bello, umano, i figli dei detenuti e delle detenute delle carceri”. I minori che fanno visita ai genitori hanno lo stesso trattamento degli adulti. Sono soggetti a lunghe attese e controlli rigidi. “Quando ho incontrato Maria Milano nel 2016”, continua la vicepresidente di Fondazione Rava, “non avevamo i fondi disponibili per sviluppare un progetto di che tutelasse i figli dei detenuti. Le abbiamo però promesso che avremmo provato a rispondere a questo bisogno non appena ne avessimo avuto la possibilità: il bando di Coi Bambini ci è sembrata subito l’occasione giusta”. Com’è nato il nome del progetto? Voleva essere un richiamo alla città di Genova, barchetta rossa, come un tempo erano colorate le case genovesi che i mariani riconoscevano in lontananza quando rientravano in città. Il richiamo alla zebra è un riferimento alle righe come nell’immaginario collettivo i bambini pensano alle divise dei carcerati. E poi la zebra è anche un animale che piace ai bimbi. Come si articola il progetto? È un’iniziativa triennale, abbiamo un budget di 500mila euro che sarà diviso in tre fasi. La prima, più onerosa dal punto di vista economico, la ristrutturazione di alcuni spazio nelle nel carcere maschile Marassi e nella casa Circondariale femminile Pontedecimo. I lavori di ristrutturazione partiranno tra pochi giorni e si concluderanno alla fine del mese di agosto. La seconda fase, che noi chiamiamo quella dell’accoglienza. Dove i bimbi potranno attendere il momento del colloquio in un ambiente bello, sereno, adatto alla loro esigenze. Sarà possibile così sostenere e tutelare i bambini, evitando loro lunghissime attese prima di poter accedere all’interno delle strutture penitenziarie e offrendo attività formative e ludiche che favoriscano l’incontro e la relazione con il genitore. E una terza fase che fa da collante tra le prime due dove abbiamo organizzato dei momenti di formazione per i genitori detenuti, per gli assistenti sociali, e per la polizia penitenziaria per spiegare qual è la strada più idonea per entrare in relazione con i minori che vivono un momento delicato del loro percorso di crescita accentuato dall’assenza di uno o di entrambi i genitori. Augusta (Sr): i liceali in cella per scrivere le storie dei detenuti di Alessandra Ziniti La Repubblica, 29 maggio 2018 “Io sono Ciro e ho 64 anni. Sono 16 anni che sto in carcere. Io l’infanzia non l’ho mai conosciuta. Adesso però voglio vivere l’infanzia di mia nipote. Finalmente, forse per la prima volta, ho un obiettivo: uscire da questo inferno”. Ciro si presenta così a Bianca, Cristina e Matteo. Lui è in carcere per associazione a delinquere di stampo camorristico e duplice omicidio, loro sono tre studenti del liceo scientifico Einaudi di Siracusa. Il primo incontro, nel parlatorio del carcere di Brucoli, ad Augusta, vibra di imbarazzo. Poi il ghiaccio si scioglie e a quei ragazzi, timidi ma curiosi, rispettosi di un’intimità ma anche avidi di conoscere, quegli adulti che vedono il mondo da dietro le sbarre affidano le loro speranze, i loro desideri. Mettendo da parte il pudore si lasciano andare, si raccontano. E adesso possono anche leggersi. Perché da quegli incontri, frutto di un progetto di alternanza scuola-lavoro, è venuto fuori un libro: Selfie di noi. Righe oltre le grate, di Gemma edizioni, scritto a 110 mani da studenti e detenuti. Quaranta ragazzi e 15 adulti che si presentano, si parlano, fanno amicizia durante tre incontri all’interno del penitenziario, un mondo sconosciuto al quale i ragazzi si approcciano con tristezza e timore, ma nel quale riescono a portare tutta la loro energia. C’è Ciro il camorrista, che è entrato per la prima volta in una cella a 17 anni e ora che ne ha 64 è ancora dentro, c’è Alfio che deve stare dentro ancora cinque anni e ha grande nostalgia della sua piccola Ilenia, e c’è Anonimo: si presenta proprio così, per dire che “io il mio nome non lo voglio dire perché qui me l’hanno tolto. Non sono altro che un semplice numero matematico e questa vita mi ha trasformato in un automa”. E poi ci son loro, Chiara, Lucio, Annarita, Desirée e la professoressa Assunta Tirri, che in quel carcere lavora anche come volontaria, e che entusiasticamente si presta a fare da messaggero. “Fogli manoscritti, disegni che vanno e tornano, arricchiti da note, messaggi e postille. E io postino felice, perché la condivisione e il dialogo sono riusciti ad abbattere i muri del riserbo e del pregiudizio. Così sono nati storie e racconti a più voci, scritti a più mani. La scrittura si è trasformata in condivisione di ricordi, amarezza, aspirazioni, desiderio di libertà”. Alla fine non c’è più neanche il timore di mostrarsi in pubblico. Il percorso finisce con un grande selfie di gruppo, studenti e detenuti stretti in un abbraccio. “Le parole belle fanno bene. Leggere queste pagine - dice la preside Teresella Celesti - aiuta a scoprire il valore della solidarietà che ci accomuna tutti, dentro e fuori le sbarre”. Sondrio: festa della Polizia penitenziaria “la parola d’ordine è rieducazione” di Riccardo Carugo La Provincia di Sondrio, 29 maggio 2018 La festa per i 201 anni del corpo Il direttore Mussio e il comandante Stendardo “Diminuzione della recidiva uguale più sicurezza”. Più che per snocciolare dati e numeri, la festa della Polizia penitenziaria per i 201 anni dalla fondazione dei corpo è stata l’occasione per ribadire i principi che ispirano l’azione degli agenti ai quali è affidato il compito di vigilare sulla sicurezza nelle carceri. I doveri - Ne hanno parlato nel corso della cerimonia all’interno della struttura di via Caimi il direttore Stefania Mussio e il nuovo comandante Marianna Stendardo, a Sondrio da pochi giorni. “Siamo qui per celebrare i 201 anni dalla fondazione del corpo, mentre la celebrazione religiosa per il santo patrono s i svolge il 30 giugno, giorno di San Basilide” ha ricordato il direttore Mussio prima di lasciare la parola al comandante Stendardo. “Trovandomi qui da pochi giorni, mi sembra prematuro parlare della situazione del carcere - ha detto. Rifletto però su alcuni concetti: il primo è il dovere di fedeltà alla Repubblica a cui è tenuto ogni dipendente pubblico. Poi la rieducazione, l’obiettivo a cui tende la pena nella Costituzione non si parla ancora di pende alternative e registriamo una continua tendenza alla novità La rieducazione non è soltanto un imperativo di tipo etico, ma ha anche importanti riflessi sulla sicurezza perché fa diminuire la tendenza alla recidiva. Questo comporta un aumento della sicurezza”. Infine un richiamo alla cortesia e alla cura. “La cortesia la chiedo a tutti. E il nostro regolamento che la richiama - ancora Stendardo. Quanto alla cura, dobbiamo averne sia per noi stessi che nei rapporti con le persone”. Sulla stessa falsariga le considerazioni espresse dal direttore Mussio: “Il nostro lavoro comincia da rispetto delle istituzioni”. Poi un invito ad andare oltre, attraverso un richiamo all’articolo 4 della Costituzione nella parte in cui recita: “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della società” Percorso da seguire - “Questo principio vale ancora di più se si indossa una divisa - dichiara il direttore. Pensiamo a ciò che lasciamo dietro di noi quando facciamo una cosa”. Un compito tanto delicato non può essere svolto al meglio senza un’adeguata e continua formazione. “A questo proposito cito Antonio Gramsci: “Voglio che ogni mattino sia per me un Capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno”. Si moltiplicano intanto i progetti per il reinserimento sociale dei detenuti. “Due di loro sono impegnati in un importante progetto di pulizia della città - ricorda Mussio. Altri tre daranno il proprio contributo al grest degli oratori. Anche le scuole vengono a visitare la struttura. Il rapporto con la società porta risultati positivi”. Abbattere le barriere grazie al calcio Il prossimo mercoledì 30 maggio, a partire dalle 17, si svolgerà un torneo triangolare di calcetto al Pala Scieghi-Pini. Al via della rassegna anche una squadra formata dai detenuti della casa circondariale di Sondrio. Sfiderà la selezione della 5’ A dell’Istituto tecnico De Simonì-Quadrio e la Selecao Catolica de Futebol sezione “N. Rusca”. Alla fine delle partite del torneo ci sarà un rinfresco offerto dagli alunni del De Simoni-Quadrio. Sarà l’occasione per un momento di convivi alita aperto a tutti. L’obiettivo dell’iniziativa, coerentemente il proposito più volte ribadito dal direttore Stefania Mussio, è quello di superare le barriere e promuovere il reinserimento sociale delle persone detenute. L’incontro costituisce il momento conclusivo di un’iniziativa seguita degli studenti dell’istituto sondriese per comprendere la realtà carceraria e la condizione dei detenuti. Cagliari: i detenuti diventano “libri viventi” all’Orto botanico Di Paolo Rapeanu castedduonline.it, 29 maggio 2018 “Stop ai pregiudizi”, l’edizione 2018 di Leggendo Metropolitano concede, a dieci detenuti a Uta, di usufruire dei permessi premio per “raccontare” le loro storie ai visitatori dell’Orto botanico. Sui pullman del Ctm arrivano libri che parlano di migrazioni e omosessualità. Ecco quand’è l’appuntamento. Si rinnova a Cagliari l’appuntamento con la Biblioteca Vivente, un metodo innovativo per promuovere il dialogo, ridurre i pregiudizi e favorire la comprensione reciproca. Riconosciuta dal Consiglio d’Europa come buona prassi per il dialogo interculturale e come strumento di promozione dei diritti umani, la Biblioteca Vivente sarà ospitata all’interno della decima edizione del festival Leggendo Metropolitano in due differenti modalità, entrambe organizzate dalla cooperativa ABCittà. La prima, realizzata in collaborazione con l’azienda di trasporti CTM spa, coinvolgerà dodici cagliaritani, scelti in base al loro essere l’incarnazione di stereotipi individuati tramite un sondaggio online e sedimentati da tempo, che saranno accompagnati, attraverso un percorso di formazione di due giorni, a rileggere la propria esperienza di vita, assumendo poi il ruolo di “libro vivente”: colui che ha compreso e sa raccontare la propria storia. I libri viventi parleranno di migrazioni, omosessualità, apparenza e differenze linguistiche e incontreranno i loro lettori sugli autobus del CTM, sabato 9 giugno sulla Linea 6 dalle 9.30 alle 12.30 e sulla Linea 1 dalle 17 alle 20. Ma la novità di quest’anno è il progetto Biblioteca Vivente Oltre le Sbarre. Dieci detenuti della Casa circondariale di Uta utilizzeranno i loro permessi premio per trasformarsi in libri viventi e saranno a disposizione per raccontare di sé ai lettori del Festival nello splendido scenario dell’Orto Botanico di Cagliari, contribuendo così ad abbattere il sistema di pregiudizi legati al tema della detenzione. L’appuntamento è per domenica 10 giugno dalle 9.30 alle 13.30 presso l’Orto Botanico di viale Fra Ignazio, per una iniziativa realizzata in collaborazione con la Casa Circondariale Ettore Scalas, l’Università degli Studi di Cagliari e l’Hortus Botanicus Karalitanus. In questa occasione è previsto per i visitatori un biglietto ridotto di 2 euro: Leggendo Metropolitano vuole così sostenere uno spazio che per il suo sostentamento conta solo sui proventi della biglietteria. La Biblioteca Vivente è stata presentata stamattina nel corso di una conferenza stampa tenutasi presso la Cava Romana dell’Orto Botanico alla quale hanno partecipato il direttore dell’Orto Botanico Gianluigi Bacchetta, il direttore della Casa circondariale di Uta Marco Porcu, Stefania D’Arista del CTM e il direttore artistico di Leggendo Metropolitano Saverio Gaeta. Nata in Danimarca negli anni Ottanta, la Biblioteca Vivente consente di affrontare gli stereotipi e sfidare i pregiudizi più comuni in modo positivo e costruttivo. Nella realtà, infatti, le categorie non esistono, esistono solo le persone con le loro storie personali, le loro scelte e i motivi che le hanno determinate. Grazie a Biblioteca Vivente, i “lettori” possono entrare in contatto con persone con le quali nella quotidianità non avrebbero occasione di confrontarsi. Nella sua decima edizione il festival Leggendo Metropolitano rafforza inoltre l’importante sodalizio con Legambiente, attraverso itinerari studiati per scoprire e valorizzare il patrimonio storico e ambientale della città di Cagliari, con l’obiettivo di promuovere una crescente consapevolezza nei confronti del territorio. Saluzzo (Cn): a scuola di scrittura in carcere di Christian Raimo Internazionale, 29 maggio 2018 “Ci vuole tempo e lavoro affinché un uomo forgiato dal male e dalla sofferenza, possa giungere a una nuova identità, pur continuando a essere se stesso”, scrive in un testo intitolato Catarsi Francesco S., un uomo di sessant’anni che ho conosciuto un mese fa nel carcere di Saluzzo, e che uscirà nel gennaio 2019, dopo trent’anni di reclusione. Quest’anno gli incontri per me più significativi dal punto di vista culturale, spirituale e intellettuale li ho avuti nella sezione di alta sicurezza del carcere piemontese. Sono andato tre volte nella casa di reclusione Rodolfo Morandi per un progetto del Salone del libro in collaborazione con l’ufficio scolastico del Piemonte intitolato “Adotta uno scrittore”: tre appuntamenti, di tre ore ciascuno, in cui erano coinvolti una trentina di detenuti che frequentano la scuola interna e una trentina di studenti delle ultime classi del liceo Soleri-Bertone, che si trova nel centro di Saluzzo (poiché organizzare un pullman costerebbe troppo, gli insegnanti e gli alunni maggiorenni si organizzano con dei passaggi in macchina). L’anno scorso, per lo stesso progetto (scuola e carcere), era stato invitato Alessandro Leogrande, morto il 26 novembre 2017 e ricordato da tutte le persone con cui ho avuto a che fare con un dolore e una nostalgia incredibili. L’idea iniziale del progetto, finalizzato alla promozione della lettura e della scrittura, era discutere di scuola e formazione. Il regime di alta sicurezza in Italia - come chiarisce l’associazione A buon diritto - “non è disciplinato né dall’ordinamento né dal regolamento penitenziario, ma dalle circolari del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) e c’è un’ampia discrezionalità dell’amministrazione penitenziaria nella gestione delle sezioni di alta sicurezza”. È previsto essenzialmente per detenuti per reati di mafia, terrorismo internazionale, traffico di stupefacenti: si viene sottoposti a una sorveglianza maggiore degli altri detenuti e la possibilità di accedere a permessi è ridottissima. Molti dei detenuti di Saluzzo, inoltre, sono condannati all’ergastolo ostativo, che viene inflitto a chi presenta “pericolosità sociale” ed elimina qualunque beneficio (come il regime di semilibertà, la libertà condizionale, permessi premio, riduzione della pena) previsto per gli ergastolani comuni. In sostanza ergastolo ostativo vuol dire fine pena mai. In Italia, secondo le ultime stime, ci sono circa 1.100 ergastolani ostativi (su 1.600 condannati all’ergastolo). Nella casa di reclusione Rodolfo Morandi parliamo, quindi, di persone che hanno trascorso più della metà della loro vita in carcere, che in carcere hanno fatto alcune esperienze di formazione fondamentali: si sono laureati, per esempio, o diplomati, o hanno preso la licenza media, hanno imparato a leggere e scrivere. Hanno compiuto, alle volte in modo esemplare, quel percorso di rieducazione che la costituzione prevede come ragion d’essere del carcere. Salvatore T., ergastolano ostativo, 47 anni, in carcere da quando ne aveva 20, ha scritto per gli studenti del liceo un testo in cui parlava della sua condizione. L’ha letto al primo incontro. Cari ragazzi, cosa significa vivere così? Proverò a darvene un’idea proponendovi la seguente riflessione: immaginate di vivere dentro una stanza grande quanto uno sgabuzzino; una stanza che abbia il lettino rivolto verso l’entrata e sia chiusa da un cancello e da una porta di ferro che lascia spazio alla luce solo attraverso una piccola feritoia. Immaginate, ora, di aprire ogni mattino gli occhi e di trovarvi a fissare questo cancello e questa porta, trovando dentro il cuore la speranza che prima o poi si aprirà e, subito poi, fulminea, vi sovvenga la consapevolezza che questa speranza è soltanto il vano tentativo di allontanare da voi la verità: quella di essere destinati a invecchiare e a morire in carcere. Vivere l’ergastolo significa appunto questo: abitare dentro un presente che trascorre uguale un giorno dopo l’altro senza prospettive né promesse, solo in attesa che la tua vita, inutilmente, si esaurisca. Salvatore T. è cresciuto in una famiglia di criminali, oggi è un uomo di mezz’età, che racconta come il punto di svolta per venire fuori dal suo contesto sia stato il momento in cui ha capito che doveva essere un riferimento per il fratello, che altrimenti avrebbe rischiato il carcere o peggio la vita, come era capitato a molti compagni con i quali era cresciuto. In un altro testo, intitolato Ecchimosi di un ergastolo scrive: “Per fortuna, non hai figli a cui pensare”, mi diceva l’altro ieri Gianni il Navigato, che di figli ne ha quattro, immaginando che, quando ne avessi avuto, mi sarei sentito maggiormente afflitto dalla mia condanna. Per fortuna, diceva… io però non riesco ancora a decidere se lo sia oppure no. A dire il vero, il ricordo dei miei nipoti, di Lollo, di Gigia, di Moretto e di Nemi, di questi piccolini che mi guardano con occhi incerti ma curiosi e mi donano dei sorrisi così innocui e cari, mi suggerisce che avere una figlia aiuta ad essere lieti persino in questa morte… Il rapporto con i figli, o con le generazioni per le quali dovremmo essere adulti, è un tema ricorrente nelle testimonianze dei detenuti. Una storia simile me la racconta Giuseppe P., anche lui detenuto per associazione a delinquere, che in carcere ha letto anni fa il suo primo libro, La bella estate di Cesare Pavese, perché - mi dice - non riusciva più a avere un dialogo con i figli. “Sono entrato qua dentro che i miei figli avevano pochi anni, quando hanno cominciato a andare a scuola mi sono reso conto che non potevo parlarci di niente, e allora ho cominciato ad andare a scuola pure io, cercando di andare bene, perché non è che poi posso prendere cinque e rimproverarli se hanno preso sei”. Qualche settimana fa, attraverso un volontario, Salvatore ha comprato il libro di Umberto Eco Sulle spalle dei giganti per regalarlo all’insegnante coordinatrice del progetto, Rossella Scotta. È lei che mi accompagna in questi incontri e ci tiene a farmi capire che questi frutti non sono casuali, ma fanno parte di un processo lungo e impegnativo che avviene in carcere. Ecco una riflessione che Scotto ha scritto a quattro mani con Salvatore T.. Tra coloro che scontano pene lunghe ho trovato le persone più consapevoli: sono i detenuti che hanno saputo dare un senso alla pena e che - finalmente lontani dalle carte giudiziarie che hanno assorbito per anni ogni loro energia mentale - vivono la loro catarsi. I miei studenti hanno capito che per loro non è il diploma a essere importante, ma il loro essere studenti, la loro scelta di venire a scuola ogni giorno per migliorarsi e per interagire con la società civile. Per questo, finito il ciclo, molti vogliono ricominciare dalla classe prima come tutor dei futuri compagni, non più solo per sé, ma anche per gli altri. Quel metodo che spesso nelle classi delle superiori si tenta di applicare con fatica, la peer education, tra pari, qui in carcere avviene con dei ribaltamenti pedagogici davvero sorprendenti. Al terzo incontro di “Adotta uno scrittore” ha preso la parola Ludovica, una ragazza di 17 anni che l’anno scorso insieme alla sorella Virginia, 19 anni, e un’altra compagna, Stefania, ha tenuto un corso di teatro in carcere riscrivendo e mettendo in scena con i detenuti La parola ai giurati (da cui Sidney Lumet trasse un famoso film nel 1957), un classico del teatro sul tema della giustizia. Ascoltare questa ragazza spiegare con voce chiara il lavoro drammaturgico e registico che hanno fatto, come hanno assegnato le parti, le varie fasi del corso, fino alla rappresentazione; e poi sentire i detenuti coinvolti, uomini di cinquanta sessant’anni, confermare il valore della loro esperienza come alunni di un corso tenuto da due postadolescenti, era paradossale e splendido. Master in sofferenza - “La scuola è autorevole perché è credibile”, mi dice Emilio T., ergastolano anche lui, colto e riflessivo, che a un certo punto chiosa una discussione sul senso dell’educazione con una frase lapidaria: “Io qui sto facendo un master sulla sofferenza umana”. Tra un incontro e l’altro gli propongo di ragionare sulla questione dell’istruzione e lui butta giù un testo di quattro cartelle in cui commenta: “Nelle vite di tutti noi, ogni giorno, in ogni luogo della terra, troviamo decine di prove oggettive che le classi meno abbienti sono penalizzate anche dal punto di vista comportamentale e scarseggiano quanto ad adesione al patto sociale. Variamente inurbani, cafoni, coatti, maleducati, incivili e nei moltissimi modi possibili per descriverli, i poveri non si sanno comportare in società e non rispettano il prossimo, spesso arrivando ad atteggiamenti aggressivi e violenti verso gli altri per mancanza di consapevolezza. Noi detenuti abbiamo un punto di vista privilegiato per toccare con mano quello che i liberi vedono distrattamente e meno frequentemente, essendo, come noto, il carcere luogo di concentrazione degli effetti nefasti dei fallimenti pedagogici e sociali. I prigionieri, infatti, per una serie numerosissima di motivi che hanno a che fare con l’ingiustizia sociale, sono per lo più non scolarizzati, soffrono degli analfabetismi più diversi, dall’incapacità di leggere e scrivere, passando per l’impossibilità di comprendere concetti elementari, per giungere alla difficoltà di gestione degli ambiti emotivi e affettivi”. Un documentario del 2013, “Recidiva zero”, raccontava la scuola in carcere, la rete di scuole ristrette sviluppata da Anna Grazia Stammati (che lavora a Rebibbia), e ne rilevava le difficoltà: dalla luce per studiare, all’assenza di aule, al modo di ottenere i libri da fuori. “Educazione diffusa per me è la parola chiave”, ribadisce Rossella Scotta. “Vorremmo seguirli anche fuori, non soltanto per continuare a sostenere il loro percorso formativo e di risocializzazione, ma per chiedergli di aiutarci con gli altri, gli studenti che stanno dentro e quelli che stanno fuori”. Al Salone del libro di Torino doveva partecipare Francesco S. per leggere un suo testo. Sarebbe stato il primo permesso in trent’anni per un uomo che finirà di scontare la sua pena di trent’anni tra otto mesi. Qualche giorno prima gli è stato comunicato che la domanda di permesso era stata respinta. Si è arrabbiato, ma poi ha scritto una lettera a Maria Virginia, la studentessa che ha letto il suo testo all’incontro al suo posto: “Carissima Maria Virginia, con la tua lettura tu hai dimostrato amore verso gli emarginati: spero che ci saranno momenti in cui ti potrò dimostrare che anche un camorrista, nel momento che si ravvede e prende consapevolezza del male che ha recato alle persone, può dare amore senza essere ricambiato, cosa inimmaginabile nel periodo che ha albergato il buio nella sua vita”. È proprio la relazione che gli studenti di fuori hanno con quelli di dentro la cosa più sorprendente. Alcuni dei ragazzi che hanno partecipato l’anno scorso al progetto hanno deciso quest’anno di tornare, altri sono lì e prendono appunti, fanno domande, si raccontano, riportano l’esperienza nelle loro classi. Dopo poche ore dentro il carcere, le discussioni sui temi come la giustizia in Italia, i suoi tempi, i suoi luoghi, ma anche sulla mafia o sulla violenza, acquistano immediatamente un altro senso, più umano e comprensibile. Nel secondo dei tre incontri la sorveglianza del carcere aveva deciso che, nella stessa aula, gli studenti esterni e quelli ristretti dovessero essere separati. La cosa era sembrata insensata e contraria al senso del progetto, quello di un laboratorio didattico integrato. Ma invece di recriminare tutti i partecipanti hanno deciso di ragionare e lavorare in modo espressivo e ironico su questa separazione: ne sono venuti fuori racconti e vignette. Come se per inventarsi un nuovo modello politico, sociale, comunitario, si dovesse provare a immaginare davvero un altro linguaggio. Terni: arte in carcere, esposte poesie ed opere pittoriche dei detenuti tuttoggi.info, 29 maggio 2018 “Intrecci” è la mostra di opere pittoriche, disegni, versi poetici realizzate dai detenuti nell’ambito del progetto “Arte in carcere” promosso dalla Caritas diocesana e associazione di volontariato San Martino, in collaborazione con la direzione della Casa Circondariale di Terni. La mostra, allestita presso il Museo Diocesano e Capitolare di Terni, è stata inaugurata sabato 26 maggio alle ore 17 alla presenza del direttore della Casa Circondariale di Terni Chiara Pellegrini e degli operatori e rappresentanti della polizia penitenziaria, del direttore della Caritas diocesana Ideale Piantoni, del presidente dell’associazione di volontariato San Martino Francesco Venturini, dei volontari che prestano il servizio in carcere e di alcuni detenuti autori delle opere a cui è stata data la possibilità di seguire la mostra. L’esposizione, che propone 70 opere pittoriche realizzate dai detenuti e 12 poesie scritte da altrettanti detenuti, resterà aperta dal 26 maggio al 2 giugno dalle 10 alle 12.30 e dalle 17 alle 19.30. Le opere potranno essere acquistate con una offerta in denaro e il ricavato sarà utilizzato per l’acquisto dei materiali per il laboratorio artistico, per le necessità del detenuto autore dell’opera e per un fondo comune. Il progetto “Arte in carcere” è un laboratorio artistico, attivo da quasi quindici anni all’interno del carcere, che è un’opportunità di socializzazione ed evoluzione relazionale, mentre si apprendono le tecniche del disegno e del colore, e che rappresenta una delle varie modalità di solidarietà che, grazie all’associazione di volontariato San Martino che gestisce le opere segno della Caritas diocesana, vengono portate a favore dei detenuti durante tutto l’anno sia con aiuti di beni di prima necessità che con i colloqui nei centri di ascolto e altre attività. “Per i detenuti che lo frequentano, il laboratorio artistico è diventato un punto di riferimento per socializzare - spiega la coordinatrice del progetto Gisella Manuetti Bonelli, per intraprendere un percorso di introspezione e crescita personale acquisendo elementi tecnici sul disegno e sul colore. In questo luogo passano e si incontrano individui di varie culture e per tanti motivi, alcuni sostano più a lungo di altri. Nello spazio di questo laboratorio artistico, le diversità si intrecciano come a formare un unico ordito perché la finalità è uguale per tutti: cercare in se stessi, al di la del reato per cui stanno scontando la pena, qualcosa di bello, realizzarlo e dimostrarlo. Creando disegni e pitture e scrivendo versi, esposti in questa mostra, trapela il loro impegno, per ritrovare una sensibilità, sopita da tempo e il desiderio di riallacciare una nuova alleanza con se stessi e con gli altri”. “La mostra rappresenta la conclusione di un percorso umano e formativo che la Caritas ha avviato con i detenuti nel segno di una grande attenzione alla dignità umana, del riscatto umano e sociale e della speranza - spiega Nadia Agostini responsabile del settore carcere della Caritas diocesana - Un anno intero dedicato all’approfondimento di questo percorso umano che si esprime visivamente nelle opere dei detenuti”. Alessandria: “Cose recluse”, racconti e immagini di vita dei detenuti alessandrianews.it, 29 maggio 2018 Martedì 29 maggio nelle Sale Storiche della Biblioteca civica, si terrà la presentazione del libro e del progetto di Daniele Robotti, storie e vite raccontate attraverso le immagini degli oggetti in cella e le parole di chi li ha costruiti. Martedì 29 maggio alle ore 17, nelle Sale Storiche della Biblioteca civica di Alessandria “Francesca Calvo”, si terrà la presentazione del libro e del progetto “Cose recluse” di Daniele Robotti, storie e vite raccontate attraverso le immagini degli oggetti in cella e le parole di chi li ha costruiti. Gli autori di “Cose recluse”: Daniele Robotti, fotografo professionista, racconterà come è nato il progetto fotografico, come sono state organizzate le riprese e perché queste immagini. Mariangela Ciceri spiegherà come sono avvenuti gli incontri con i detenuti, i racconti di vite tra gli oggetti in cella e gli ambienti della detenzione. Interverrà Elena Lombardi Vallauri, Direttrice della Casa di reclusione di San Michele che spiegherà perché è importante far conoscere la realtà quotidiana del carcere. L’incontro sarà moderato da Fabrizio Priano, Presidente dell’Associazione Culturale Libera Mente-Laboratorio di Idee. Completa la presentazione l’esposizione di una serie di stampe fotografiche dal libro “Cose recluse”, la proiezione del reportage fotografico con la lettura delle interviste ai detenuti a cura di Cristina Saracano e Lia Tommi. La presentazione è aperta a tutta la cittadinanza ed è ad ingresso libero. Aversa (Ce): va in scena “Matricola Zero Zero Uno”, un viaggio nell’Opg di Giuseppe Ortano* Ristretti Orizzonti, 29 maggio 2018 Un caloroso e folto pubblico, la sera del 28 maggio 2018, presso il Teatro Cimarosa di Aversa, ha assistito alla messa in scena di “Matricola Zero Zero Uno”, liberamente ispirato all’omonimo testo di Nicola Graziano con foto di Nicola Baldieri, per la regia di Antonio Iavazzo e la produzione di Elpidio Iorio per PulciNellaMente. Credo che non poteva esserci miglior modo per ricordare che sono trascorsi ormai 40 anni dall’emanazione della legge 180 che ha chiuso definitivamente in Italia la stagione manicomiale. Proprio qui ad Aversa, città che ha legato per due secoli il suo nome a quello della Psichiatria. Aversa ha avuto il triste primato del primo manicomio civile del Sud Italia, nel 1813 e del primo manicomio criminale d’Italia, nel 1876. Che però dopo una prima lunga fase di splendori, sono diventati sinonimo di lager. Del resto non diversamente da tutti i manicomi d’Italia. Abbiamo chiuso la Maddalena ormai 20 anni fa. Non è questa la sede per parlare del suo abbandono e delle sue potenzialità. Abbiamo contribuito a chiudere il F. Saporito anche con l’attivazione di una Rems a Mondragone. È doveroso ricordare che il processo di superamento degli Opg ha preso le mosse proprio da Aversa, dopo le ispezioni della Commissione Europea per la Prevenzione della Tortura che ne constatò le condizioni inaccettabili di vita degli internati e che costò all’Italia una condanna. La contenzione meccanica venne solo allora del tutto abolita. Quando Nicola Graziano mi accennò del suo proposito di farsi internare in Opg mi sembrò subito una splendida folle idea. Mi era già presente la sua sensibilità ed il suo impegno sociale, ma a mio avviso era molto significativo che un magistrato, che si trova spesso a dover decidere del destino di una persona, si mettesse seppur per un breve tempo nei panni degli ultimi fra gli ultimi e sperimentasse sulla propria pelle cosa significava l’internamento manicomiale. La bellezza del libro sta però nel non essere uno scritto per addetti ai lavori, ma umorale, affettivo, empatico e dà il senso di una coinvolgente esperienza umana che trasmette le emozioni del rapporto con persone diseredate, senza pietismi e falso buonismo. La vera volontà è quella di capire il senso e l’utilità delle misure di sicurezza e del conseguente ‘internamento. Il libro ci racconta di storie umane uniche ed irripetibili, con il loro portato di sofferenza, emarginazione, esclusione e ghettizzazione. Contemporaneamente l’importanza del libro è documentale, sta nel fatto che anche grazie alle bellissime immagini di Nicola Baldieri, che ha condiviso l’internamento, si sia fermato nel tempo la condizione dell’Opg di Aversa, un’istante prima della sua definitiva chiusura. Nicola infatti entra in Opg il 27/10/2014. Un autentico orrore indegno di un paese appena civile, come ebbe a dire Giorgio Napolitano, nel 2012. Sono le ultime immagini di un mondo che non esiste più. L’Opg di Aversa ha passato il testimone alla Rems di Mondragone, ma con una diversa visione: da esclusione sociale a pratiche di inclusione sociale. Hanno il valore della testimonianza: per non dimenticare e per evitare il revisionismo che oggi su tutti i campi dilaga. Nessuno potrà dire io non c’ero. Perché come ha scritto Christa Wolf (Trama d’infanzia) “Il passato non è morto; non è nemmeno passato. Ce ne stacchiamo e agiamo come se ci fosse estraneo”. *Responsabile nazionale Nuove marginalità e nuovi diritti per Psichiatria Democratica Lucera (Fg): applausi per i “Faberi” nella Casa circondariale Ristretti Orizzonti, 29 maggio 2018 La voce della band, Nicola Fini: “Fabrizio De Andrè era il cantante degli ultimi, non amava dare giudizi morali. I suoi testi invitano ad accettare tutte le condizioni umane” “Far rivivere la poesia di uno dei più grandi poeti del ‘900”. Questo l’obiettivo dei Faberi, band garganica di talento che questa mattina ha tenuto un concerto nella Casa Circondariale di Lucera. Dopo i saluti della responsabile dall’Area Trattamentale, Cinzia Conte, che ha portato i saluti del Direttore del Carcere, Giuseppe Altomare, è intervenuto il rappresentante della Camera Penale di Capitanata, l’avvocato Giovanni Quarticelli. “Vi siamo sempre vicini - ha detto, rivolgendosi ai detenuti presenti - uno dei nostri obiettivi è proprio quello del riconoscimento dei diritti dei ristretti. Quando il direttore Altomare mi ha proposto di organizzare questo momento musicale dedicato a Fabrizio De Andrè ho accettato a scatola chiusa. Mi avevano già parlato della bravura di questa band nel carcere di Andria e sono felice che oggi siano qui a suonare per noi”. Il concerto si è aperto con “La città vecchia” ed è proseguito con “Signora libertà, signorina fantasia”, “La guerra di Piero” ed altri grandi successi del cantautore genovese. “De Andrè è stato un grande artista - ha raccontato Nicola Fini, cantante del gruppo - il cantante degli ultimi, che non amava dare giudizi morali. I suoi testi invitano ad accettare tutte le condizioni umane”. L’idea di proporre la rappresentazione musicale in contesti particolari come gli istituti penitenziari nasce dalla poetica di Faber, sempre molto attenta e impegnata verso gli ultimi, verso i diseredati, verso le persone fragili. Per De Andrè il punto sociale più lontano possibile dalla famiglia e dalla classe dominante non era un partito rivoluzionario ma una bettola, una cella o la camera di una prostituta. Il concerto per i detenuti della Casa Circondariale di Lucera, che hanno applaudito con entusiasmo la band, in particolare quando ha suonato “Don Raffaè”, è stato possibile grazie al prezioso sostegno del corpo della Polizia penitenziaria, diretto dal Commissario Daniela Occhionero. All’evento hanno preso parte rappresentanti dell’UEPE Foggia, del CPIA1 e i volontari del Carcere. Il CSV, che da alcuni anni sostiene le attività delle associazioni di volontariato all’interno del Carcere, ha partecipato all’iniziativa con Annalisa Graziano, responsabile della promozione del volontariato in ambito penitenziario. Roma: Campagnano e Flaminia, calcio per il sociale con i detenuti Gazzetta Regionale, 29 maggio 2018 I ragazzi della Virtus Campagnano e i detenuti del carcere capitolino si sono affrontati in un incontro che ha regalato a tutti una giornata da ricordare. Sono sicuro che il caldo asfissiante sia passato in secondo piano. Insieme ai brutti pensieri, al desiderio fortissimo di libertà e a quel senso di privazione che li accompagna ormai da tempo. Chi da qualche anno, chi da meno, chi vede il traguardo vicino ed ora sta pensando a come riorganizzarsi quando lascerà quelle quattro mura. Alte, possenti, dove ogni passo fatto viene controllato, dove c’è un permesso da chiedere, sempre, anche per sapere se puoi giocare con questa o quella maglia indosso. Non so quanti di voi siano mai entrati dentro un carcere, ma vi assicuro che basta varcare la soglia e ritrovare la strada lasciata soltanto un paio di ore prima di entrarci dentro per apprezzare in tutta la sua essenza l’essere libero di andare dove si vuole, incontrare chiunque, pensare a cosa fare il giorno dopo. Non esiste bene più prezioso, oltre qualsiasi possesso. Non dico di non averlo imparato in precedenza, ma negli sguardi di Amir, Massimiliano, Domenico ho potuto capirlo ancora di più. Loro che sono privati della libertà, ma che non voglio far passare come vittime di un sistema che non funziona. Loro sanno di aver sbagliato e lo capisci scambiandoci due parole mentre si rinfrescano dopo la fine del primo tempo di una partita a cui assistono tanti altri come loro. Che applaudono per un gol o per una bella giocata. Anche per chi non è sceso in campo è stata un’ora e poco più di evasione (concedetemi il gioco di parole): annullare il tempo, far finta di essere in uno stadio, di avere un pubblico che ti ama e ti sostiene. Ho visto persone con ancora tanti anni di pena da scontare sorridere ed emozionarsi, parlando con dei ragazzi che alla vita adulta stanno iniziando adesso ad affacciarsi. Loro che hanno scelto di rinunciare ad una bella giornata per stare insieme ad amici, magari fidanzate, o alla famiglia. Al mare, al lago, o più semplicemente dedicandosi a quello che più li diverte. Hanno scelto di fare un bel gesto, di avvicinarsi ad una realtà che al solo sentirla nominare fa tremare i polsi. Finire in carcere? Non si augura a nessuno, figuriamoci ad immaginare se stessi a Rebibbia, o chissà dove. I ragazzi del Flaminia, anzi, della Virtus Campagnano (società che ha di fatto “prestato” la squadra al club di Civita Castellana per questa stagione ndr) hanno toccato con mano quanto il rispetto delle regole, anche le più piccole, sia fondamentale per la crescita della società. Hanno capito nella maniera migliore quanto si possa perdere commettendo degli errori. Hanno poi regalato un match divertente, in cui non si sono risparmiati, così come la squadra di detenuti che li ha attesi in campo. Uno spazio all’interno dell’area verde in cui possono passeggiare e scambiare qualche parola. Una partita contro una squadra vera è però tutt’altra cosa. C’è il gusto della sfida, c’è comunque la volontà di mettersi in mostra, anche se non ci sono riflettori ed un pubblico festante. Una partita di calcio si è trasformata in una festa con pacche e strette di mano, “cinque” e complimenti all’avversario. Con il quale di solito non fai battute durante l’anno. La partita giocata dai ragazzi di mister Calabresi nel carcere di Rebibbia è stata un monito fortissimo, che non dimenticheranno, perché hanno trovato in campo degli insegnanti, che solo guardandoli negli occhi hanno fatto capire loro la fortuna che hanno. Una partita in cui alla fine c’è stato un ovvio vincitore, ma anche un terzo tempo che ha sorpreso Amorosino e compagni. È andata proprio così: i detenuti ad attendere su due file ordinate i giocatori del Flaminia accolti tra gli applausi mentre si recavano al rinfresco organizzato (ed autofinanziato) da chi ha aspettato questa partita per giorni. In campo i detenuti hanno avuto la meglio, vincendo per 5-3 con la doppietta di Amir e le parate di Domenico a rubare la scena, prima della parziale rimonta nel finale con i gol di Delle Fave, Donati e Mecozzi. A loro è andato il ringraziamento di tanti ragazzi, più o meno avanti con l’età, che magari durante qualche giornata un po’ più buia del normale penseranno “Sono andato via sulla fascia, ho tirato e l’ho messa all’angolino. Che bello”. Il popolo del terremoto e l’urgenza di un governo di Flavia Amabile La Stampa, 29 maggio 2018 Il primo giugno riprenderanno i pagamenti di Irpef, bollette, contributi previdenziali. La commissaria straordinaria De Micheli al lavoro per ottenere la proroga delle esenzioni. Tutti gli italiani hanno bisogno di un governo ma alcuni ne hanno più bisogno di altri. Decine di migliaia di persone del Centro Italia hanno seguito con ansia crescente i tentativi di questi giorni di arrivare alla formazione di un esecutivo. Sono sindaci, amministratori, semplici cittadini, persone che nei terremoti che si sono susseguiti tra il 2016 e il 2017 hanno perso casa e spesso anche il lavoro. Il primo giugno dovranno ricominciare a pagare l’Irpef con l’aggiunta della rata di restituzione delle imposte sospese. E poi i contributi previdenziali sospesi, e le bollette di energia elettrica, gas e acqua. Sono cifre che in questo momento quasi nessuno in quelle aree è in grado di pagare. Per settimane la commissaria straordinaria per la ricostruzione Paola De Micheli ha lavorato con tutti i gruppi parlamentari alla messa a punto di un decreto condiviso. Sono 16 articoli in tutto che potrebbero risolvere gran parte dei problemi esposti dalle popolazioni terremotate, ma che la crisi politica degli ultimi giorni ha reso inefficaci. Una parte però va approvata con urgenza: è la richiesta che arriva dalle zone del cratere, per evitare che scattino i pagamenti. La commissaria sta esaminando in queste ore tutte le possibilità, una soluzione dovrebbe arrivare nella giornata di oggi e garantire la proroga delle esenzioni. Sciolto il nodo dei pagamenti, restano tutti gli altri problemi. Non sono pochi: si va dalla sanatoria degli abusi realizzati in passato sulle costruzioni danneggiate che stanno bloccando l’avvio della ricostruzione, alla questione delle case temporanee già realizzate. Il decreto messo a punto da Paola De Micheli con i gruppi parlamentari prevede alcune soluzioni, racconta la commissaria straordinaria per la ricostruzione: “Abbiamo inserito un’accelerazione delle pratiche di condono già aperte in modo da chiuderle nel più breve tempo possibile e permettere la presentazione della pratica di ricostruzione. Abbiamo trovato domande di condono giacenti dal 1967. Abbiamo eliminato l’obbligo della doppia conformità perché in molti comuni non esiste più l’archivio e l’autocertificazione non viene considerata una procedura affidabile. Abbiamo previsto la possibilità di sanare una decina di altre difformità gravi, dall’introduzione di elementi di muri o di finestre non presenti nel progetto iniziale. Infine abbiamo offerto la possibilità di sanare anche gli eventuali aumenti dei volumi ma soltanto fino al 20% con la precisazione che viene versato il contributo soltanto sulla parte autorizzata”. Per le case temporanee già realizzate “abbiamo ripreso il testo unico sull’edilizia e previsto che i cittadini con case inagibili a causa del terremoto potranno rimanere nelle “casette temporanee” costruite tra il 24 agosto 2016 e il 24 agosto 2017 fino alla ricostruzione della loro casa”. In quelle terre molti sono anche i proprietari di seconde case che hanno perso tutto e vorrebbero almeno poter andare a trascorrere qualche periodo di vacanza in quelle che spesso sono le loro terre di origine. “Abbiamo stanziato dieci milioni di euro per realizzare aree camper in zone dove particolarmente alta è la presenza di proprietari di seconde case scelte dalle Regioni colpite. Le aree verranno riservate in modo prioritario ai proprietari di seconde case danneggiate o distrutte dal terremoto”. In assenza di un governo queste norme diventeranno molto probabilmente proposte di legge dei singoli gruppi parlamentari che verranno inviati alla commissione speciale che ha il compito di esaminare i provvedimenti rimasti in sospeso e potranno poi confluire in un maxi emendamento da approvare quando sarà possibile. Prima dell’estate avremo la proposta di legge completa, è la speranza di Paola De Micheli. Migranti. A Foggia 5.000 accampati tra stracci e lamiere di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 29 maggio 2018 Viaggio nel ghetto più grande d’Italia. In provincia di Foggia 5.000 immigrati “dimenticati”. E prede della mafia nigeriana. Dam il ghanese ridacchia, strafatto di chissà cosa: “Io sto di là”, biascica un po’ in italiano e un po’ in inglese indicando il Cara, “ma di qua friends, amici, e fun, ragazze, quindi scavalco.”. A Borgo Mezzanone, quindici chilometri da Foggia, “di qua” e “di là” sono concetti mobili come la porta girevole di un hotel per dannati. Il varco tra Stato e Antistato si apre davanti a una camionetta dell’esercito e proprio di fronte al capanno di tela verdastra da cui si affacciano giovani africane strizzate in abitini sgargianti: uno dei cinque bordelli del ghetto controllati dalla mafia nigeriana dei Black Axe, le Asce Nere. Uno squarcio di almeno tre metri nella rete di recinzione sul retro rende osmotici questi due mondi: “di là” il Cara gestito dalla prefettura, centro d’accoglienza ufficiale per un migliaio di richiedenti asilo in attesa d’un destino, con soldati di pattuglia consapevoli che pattugliare è vano; “di qua” la Pista, detta così perché era pista d’atterraggio militare e ora è corso principale del più grande ghetto d’Italia, quattro o forse cinquemila anime in pena (e in continuo aumento all’approssimarsi di luglio e della raccolta dei pomodori) riparate sotto tendoni e cartoni, plastica di risulta e brandelli di prefabbricato, senza acqua potabile né fogne, con i copertoni da bruciare come unico riscaldamento d’inverno, lamiere e eternit come unico riparo ai 45 gradi d’estate: uno slum semovente (al confine stanno tirando su nuove baracche) dentro questa conca tra la Daunia e il Gargano, tra mafie vecchie ed emergenti che qui seminano droga e sfornano corpi a buon mercato, braccianti e prostitute, africani al servizio dei pugliesi in un perfetto circuito di criminalità globalizzata. Chiusi i pastifici locali, restano come cattedrali nel deserto le multinazionali del ketchup e della pasta: facendo finta di niente. Solo così si può non vedere come qui si campi e si muoia da schiavi per dieci euro al giorno, ciò che resta pagandosi cibo e trasporto nei terreni dei pomodori: e come, assieme a spacciatori e lenoni, siano i caporali (prima italiani, poi bulgari adesso africani “integrati”) la corte di cassazione di questa bolgia. Ogni tanto qualche ragazza sparisce. L’ultima si chiamava Gracy, incinta di tre mesi. “Abbiamo cercato di ricoverarla per minaccia d’aborto, stava malissimo”, ricorda il medico Vincenzo Limosano: “All’ospedale di Foggia le hanno detto: non c’è posto, torna domani. E lei è scomparsa... a seguire l’ambulanza c’era una macchina con tre tipacci”. Limosano con “Medici in camper” viene ogni tre settimane: “La Pista è una bomba ecologica, è riapparsa la tbc. Quest’estate si rischia un’epidemia di tifo. E poi, se uno muore, diciamo di morte naturale, qui, cosa ne fanno?”. La nostra resa sta tutta in questo slum dalle tante etnie che si sta mangiando il Cara, nato come una sua protuberanza spontanea e ora moltiplicato dalla chiusura del Gran Ghetto di San Severo, con praterie di roulotte scassate e distese di immondizia fumante ma anche inverosimili bar e ristoranti, una discoteca, barbieri e meccanici. Un mondo immanente di cui hanno, com’è ovvio, le tasche piene i pochi abitanti del borgo vicino: è stata chiesta una linea “segregata” di bus (“i neri song tropp’...”), i calendari di Mussolini fanno furore nell’unico bar. L’aria è così pesante che persino la Caritas sembra reticente: don Stefano Mazzone, “apostolo in Borgo Mezzanone”, spiega amabilmente di essere stato troppo preso nell’ultimo anno dalla malattia del suo vescovo. La sua referente locale, un’insegnante, è stata zittita con minacce sui muri: “Te la fai coi neri”. Leonardo Palmisano, il sociologo che ci accompagna, ha scritto libri su ghetti e mafie, e rileva un paradosso: “Nelle terre di Di Vittorio e della riforma agraria, gli ex braccianti italiani liberati dalle lotte sindacali fanno i razzisti con i nuovi schiavi”. Ma la storia conta poco dove neppure i militari si muovono a cuor leggero. “Andate a vostro rischio ma non entrate nel Cara da dietro, se no create problemi”, dice un graduato cortese e surreale al posto di guardia. Tutti lo sanno che si passa, e amen. Oltre la terra di nessuno tra due strisce di filo spinato, il primo tratto della Pista è francofono e senegalese. C’è la moschea, un cubo grezzo: “Fatta con le nostre mani”, dice fiero Tierno, 26 anni portati come cinquanta, che nella sua baracca-emporio vende pasta, tonno, riso. Accanto sta costruendo pure un ristorante: chiodi, cartone e compensato. Va in bus a Foggia a fare acquisti, “vi muovo l’economia”, sorride. In lontananza altoparlanti sparano hip hop afro e tecno. Al Biggy Marker bar il Ramadan non sposta nulla, hanno fatto da poco la nottata dedicata a Bob Marley. Più in là, una specie di gospel feroce si alza dal capannone dei pentecostali nigeriani, “The garden of Jesus Christ”. Il pastore Charles Ojaka strilla ossessivo il nome di Gesù producendo ondate elettriche di trance; pregano con lui i ragazzi delle Asce Nere e le ragazze che dormono al Cara e lavorano al bordello di fronte (nei weekend ci si avventurano foggiani in cerca di emozioni forti). “Invochiamo Gesù per il nostro popolo e anche per l’Italia e per il vostro governo”, dice Bassey, ecumenico e forse lungimirante. Deviando dalla Pista, lo slum si fa persino più estremo, l’ordine etnico si sfilaccia, i suoni si diradano. Tra baracche di stracci fissati con i massi, cani e umani attendono il nulla stesi in silenzio nel fango. “A Borgo Mezzanone non capisci mai se i cani sono morti o vivi”, sospira Palmisano. E si vede benissimo che non pensa solo ai cani. Egitto. Caso Regeni, arrivano i video della metropolitana: pm a caccia degli assassini di Carlo Bonini La Repubblica, 29 maggio 2018 La consegna delle immagini delle telecamere ricomposte grazie a un software russo. Gli inquirenti dovranno analizzare 10mila frame e qualche centinaio di filmati. Il pubblico ministero Sergio Colaiocco è da ieri al Cairo, dove, oggi, riceverà dalla Procura Generale egiziana quel che è stato recuperato delle immagini registrate la sera del 25 gennaio 2016 dalle telecamere di sorveglianza della linea metropolitana dove quel giorno di due anni fa Giulio Regeni venne sequestrato da uomini degli apparati di sicurezza del regime prima di essere torturato e quindi fatto ritrovare cadavere. Un atto istruttorio annunciato due settimane fa da una ripresa di contatto tra le autorità giudiziarie dei due Paesi dopo un silenzio egiziano durato sei mesi. Soprattutto, una “scommessa al buio”, per dirla con le parole di una qualificata fonte inquirente. Perché quello che da oggi i nostri investigatori si ritroveranno tra le mani sarà del materiale che definire “complesso” da decifrare è un eufemismo. Se la speranza è infatti di pescare in quelle immagini un elemento in grado di fissare il volto o le silhouette degli uomini che la sera del 25 gennaio avvicinarono Giulio alla fermata della metropolitana di Dokki per sequestrarlo, è altrettanto vero che quella speranza è appesa a un calcolo probabilistico che non autorizza grande ottimismo. Il materiale recuperato conta infatti circa 10mila “frame”, fermi immagine, e centinaia di sequenze video mai più lunghe di una decina di secondi (complessivamente un gigabyte e mezzo di dati informatici) che, grazie a un sofisticato software in dotazione alla società russa incaricata dal governo egiziano, sono state recuperate e quindi ricomposte dalla memoria “indicizzata” del server che ciclicamente immagazzina i video di sorveglianza dell’intera rete della metropolitana. Da una memoria cioè che non aveva conservato quelle immagini nella modalità con cui erano state registrate la sera del 25 gennaio 2016, ma che, per ragioni di immagazzinamento fisico dei dati, le aveva decomposte in singoli byte. Per dirla con un’immagine, è come se le pagine dell’intera Divina commedia fossero stata triturate in frammenti di singole lettere o sillabe per essere custodite in una minuscola scatola. Confondendo ogni ordine sintattico, logico, temporale. E che da quella scatola e da quei frammenti si sia ripartiti per rimettere insieme l’interezza di ciò che era stato decomposto. Sequestrato il 3 marzo del 2016, il server della metropolitana del Cairo e la sua gigantesca memoria di oltre 100 terabyte, per due anni, è rimasto in un archivio della Procura generale del Cairo. In un’estenuante e pretestuosa dilazione dei tempi necessari ad aprirlo ed esaminarlo. Fino appunto a due settimane fa quando è cominciato al Cairo il lavoro congiunto di tecnici egiziani, russi e dei nostri di Ros dei carabinieri e Sco della Polizia. “Sono stati selezionati nella memoria del server tutti i singoli byte della fascia oraria serale a cavallo della scomparsa di Giulio - spiega ancora una qualificata fonte investigativa - E quindi ricomposti in immagini grazie al software messo a disposizione dai russi. Ovviamente, sono immagini che nulla dicono sul luogo in cui le telecamere le hanno registrate. E questo è dunque un lavoro che andrà fatto con l’occhio dell’uomo. Dobbiamo essere fortunati a trovare un’immagine di Giulio. E sperare che quell’immagine lo ritragga con chi lo sequestrò”. Ci vorrà dunque ancora del tempo per capire se davvero in quel server è la prova “forense” di ciò che l’inchiesta italiana ha per altro già acquisito altrimenti come dato investigativo certo: il pieno coinvolgimento degli apparati di sicurezza egiziani nel sequestro di Giulio. Conterà avere un po’ di fortuna, evidentemente. Ma, decisiva, ancora una volta sarà la capacità del nostro Paese di tenere sotto pressione il regime di Al Sisi. In questo senso, il 22 maggio scorso, Paola e Claudio Regeni, insieme all’avvocato Alessandra Ballerini, hanno incontrato il Presidente della Camera Roberto Fico, che si è impegnato a continuare a sostenere con gli strumenti della Politica la richiesta di verità per Giulio. Volontà manifestata dallo stesso Fico due giorni dopo in un incontro con l’ambasciatore italiano in Egitto, sollecitato a tenere alta l’attenzione sul recente arresto di Amal Fathy, moglie di Mohammed Lotfi, consulente legale della famiglia al Cairo. Ultimo e scomposto atto di ritorsione del regime nei confronti di chi chiede verità e si batte per il rispetto dei diritti umani in quella terra. Iran. Golrokh e Nazanin, in carcere senza colpe, donne vittime del regime degli ayatollah di Siria Guerrieri La Repubblica, 29 maggio 2018 Nell’Iran degli ayatollah le storie di due giovani donne, entrambe in carcere da anni e condannate per presunte attività di opposizione al regime, hanno fatto salire alla ribalta il tema dei diritti umani nella Repubblica islamica. Golrokh Ebrahimi Iraee, 38 anni, è in prigione dal 2014 con l’accusa di aver criticato la pratica della lapidazione. Nazanin Zaghari-Ratcliffe, 40 anni, è invece in carcere - in regime di isolamento - con l’accusa di spionaggio. La sua unica colpa, però, è quella di essere sposata con un cittadino britannico, Richard Ratcliffe, e di essere tornata in patria con la sua bambina di pochi mesi per visitare la famiglia di origine. Nazanin è stata arrestata nell’aprile del 2016 all’aeroporto di Teheran, mentre stava per imbarcarsi sul volo che l’avrebbe riportata a Londra. Di fronte alle proteste mosse dallo stesso ministro degli Esteri britannico, Boris Johnson, il regime - per evitare di doverla scarcerare - due giorni fa ha modificato le accuse a suo carico. Ora Nazanin deve rispondere non più di spionaggio ma del reato di offesa alla Guida Suprema dell’Iran, Ali Khamenei. La storia di Golrokh è altrettanto emblematica. Nel 2014 viene arrestata insieme al marito, critico del regime. Nella perquisizione della stanza di lei le Guardie della Rivoluzione trovano il suo diario personale, in cui Golrokh, ispirandosi a una storia vera, criticava la lapidazione delle donne. Per protestare contro le violenze dei secondini, a febbraio la donna ha iniziato uno sciopero della fame. A fine aprile è entrata in coma: l’associazione Iran Human Rights ha denunciato l’assenza totale di cure. “In Bahrain torturano i dissidenti con i milioni arrivati dall’Inghilterra” di Costantino Leoni occhidellaguerra.it, 29 maggio 2018 “Il governo britannico è complice della violazione dei diritti umani in Bahrain”. Accuse forti che arrivano da alcune Ong che monitorano la situazione nei paesi arabi del Golfo. Le Ong criticano la mancanza di trasparenza del governo britannico riguardo il programma di sicurezza e riforma della giustizia che ha visto passare ben 5 milioni di sterline dalle banche di Londra a quelle di Manama. Dal 2012 a oggi i soldi inglesi, ufficialmente donati per aumentare la capacità dell’intelligence, hanno in realtà contribuito alla formazione di reparti della sicurezza del Bahrain accusati di torture, vessazioni e omicidi indiscriminati ai danni dei dissidenti bahraini. Negli ultimi tre anni il numero di detenuti nel braccio della morte in Bahrain è addirittura triplicato. L’incremento va analizzato tenendo conto di diversi fattori, compresi gli strascichi violenti di una primavera araba bahraina mai sbocciata (e volutamente non pubblicizzata dall’Occidente) e l’inasprimento della tensione regionale contro la repubblica islamica dell’Iran. Il Bahrain è infatti uno Paese strategicamente fondamentale per Stati Uniti e alleati. Dal 1995 il porto della capitale Manama ospita parte della V flotta americana affacciata sul golfo Persico, di fronte alle sponde iraniane. Il presidente Donald Trump si è detto pronto a siglare un accordo del valore di 1,5 miliardi di dollari col sovrano del Bahrain per l’invio di decine di elicotteri d’assalto e 3mila missili anticarro. Questi armamenti, oltre che rafforzare il regno del Golfo in attesa di un attacco preventivo all’Iran, serviranno nella guerra che il Bahrain sta conducendo in Yemen al fianco dei sauditi contro i ribelli Houti. Il piccolo regno è retto dalla famiglia sunnita degli al-Khalifa, che governa sulla maggioranza sciita e filo iraniana della popolazione. Esattamente l’opposto di ciò che avviene in Siria dove il presidente Assad, sciita-alawita, amministra il suo potere in uno stato a maggioranza sunnita. Queste due caratteristiche spiegano perché le proteste iniziate nel 2012 contro il regime di al-Khalifa non abbiano avuto alcuna eco sui media internazionali. Un regime-change in Bahrain avrebbe creato quasi certamente una testa di ponte per i Pasdaran al di là dello stretto di Hormuz, eventualità che Usa e Arabia Saudita vorrebbero caldamente evitare. Il popolo bahraini, in particolare la maggioranza sciita, nel 2012 scese per le strade invocando riforme e una maggiore partecipazione alla vita politica; la risposta della casa regnante fu brutale: centinaia di arresti, torture, percosse e sparizioni di giovani dissidenti. Negli ultimi mesi centinaia di cittadinanze sono state arbitrariamente revocate, famiglie intere sono state poste sotto arresto; attivisti, giornalisti e avvocati sono stati fatti tacere. Solo la scorsa settimana il tribunale militare del Bahrain ha revocato 115 cittadinanze e commutato 58 ergastoli ad attivisti sciiti accusati di far parte di gruppi terroristici. Stando alle ultime notizie tutto questo è stato fatto anche con l’ausilio delle sterline di Sua Maestà Elisabetta. I soldi arrivano in Bahrain tramite un fondo, istituito dal governo britannico nel 2012. Si tratta di una riserva governativa chiamata Conflict Security and Stabillity Fund (CSSF) il cui budget supera gli 1,2 miliardi di dollari. Con questo denaro gli inglesi finanzierebbero progetti atti a migliorare la condizione sociale e la sicurezza di nazioni con cui la Gran Bretagna ha forti relazioni e interessi diplomatici e commerciali. Le priorità di questo programma vengono definite direttamente dal Consiglio di Sicurezza Nazionale. Sul sito del governo sono elencate una serie di opere benefiche finanziate dal Cssf. In particolare sono quattro i macro-programmi attivati dai Ministeri degli Esteri e della Difesa: “Peacekeeping, Peacebuilding, Sostegno della Sicurezza, e Sostegno dei Nostri Valori (Championing Our Values). Il progetto CSSF, mira a portare aiuti umanitari e pace alle popolazioni in difficoltà. Dietro a questa iniziativa benefica si celano però non poche ombre. Prendiamo ad esempio la Siria: il governo britannico ha investito circa 24 milioni in tre diversi progetti: se il primo di questi riguarda l’istruzione da fornire ai bambini siriani vittime del conflitto, gli altri due si occupano di addestrare volontari dei famigerati White Helmets e aiutare tramite armamenti e denaro non meglio identificati “comitati di difesa civile” per “contrastare i bombardamenti indiscriminati dell’aviazione russa”. L’indefinitezza è dunque il leit motiv di questi progetti. La stessa indefinitezza coinvolge, secondo le Ong, anche i soldi destinati agli aiuti in Bahrain. Lo scorso gennaio tre cittadini sciiti bahraini sono stati torturati a morte da unità speciali antiterrorismo addestrate con soldi e istruttori britannici. Il Bahrain formalmente non appare nemmeno tra i Paesi interessati dal CSSF, ma si sa che almeno 5 milioni di sterline sono stati spesi nella collaborazione col regno del Golfo. È stato il governo stesso ad ammetterlo pubblicamente in parlamento nel Dicembre del 2017. Il problema però è che, a richiesta, non sono mai state fornite informazioni esaustive riguardo a come queste milioni di sterline siano state utilizzate. Il quadro si complica ulteriormente se si aggiungono ai soldi provenienti dal CSSF, altri due fondi pubblici inglesi: il Global Britain Fund e l’Integrated Activity Fund. Del secondo in particolare non si conosce praticamente nulla. L’unica certezza è che i soldi provenienti da questo fondo vengono utilizzati quasi unicamente dal Ministero della Difesa. Maya Foa, direttrice di Reprieve, un’organizzazione che denuncia l’abuso di torture in vari Paesi del mondo, ha invitato la Gran Bretagna a chiedere al Bahrein di intraprendere passi decisivi contro la tortura come condizione per ulteriore assistenza e per essere più trasparente sui finanziamenti. Ha detto: “Una Gran Bretagna globale dovrebbe promuovere con orgoglio i diritti umani e lo stato di diritto, non fomentare la loro negazione in segreto. L’unico modo per i cittadini britannici di essere sicuri che i loro soldi non stiano portando ad abusi all’estero, è che il governo pubblichi un resoconto completo e trasparente dei progetti che stanno finanziando e delle valutazioni dei diritti umani per ciascuno.” Appelli che rimarranno del tutto inascoltati visto che UK e alleati hanno disperatamente bisogno del Bahrain per mettere Teheran e Putin all’angolo. Negli ultimi giorni la presenza navale americana nel Golfo si è ulteriormente rafforzata grazie all’arrivo, dopo più di 40 anni di assenza, della Royal Navy, rappresentata da una fregata classe Type-23. “La marina di sua Maestà rimarrà qui nel Golfo come presenza duratura”, ha detto il Segretario di Stato alla Difesa britannico Gavin Williamson, “libertà, giustizia e tolleranza sono sotto attacco in ogni angolo del pianeta”. Poco importa che a condurre questo attacco alla libertà e alla giustizia siano i regnanti del Bahrain, fedeli alleati di Sua Maestà. Poco importa che i primi ad essere stati privati di questi valori si trovino confinati nelle carceri di Manama, a pochi metri dalle maestose fregate giunte nel Golfo per difendere la libertà. Francia. Macron concede la grazia a una 73enne condannata all’ergastolo di Emanuela Carucci Il Giornale, 29 maggio 2018 La donna, 73enne, originaria dell’isola di Guadalupa, aveva ucciso un uomo nel 1988. “La morale è una questione di tempo” scriveva Garcia Marquez nel suo romanzo “Memoria delle mie puttane tristi”. E a volte anche il perdono. Con il tempo Marie Claire F., a 73 anni è la prima graziata del presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron. Si tratta di una ex prostituta originaria di Guadalupa che aveva ucciso uno dei suoi clienti. A riportarlo è il Journal du Dimanche. Nel 1988 la donna era stata condannata all’ergastolo e considerata “Psichiatricamente molto fragile”. Si trovava in regime ospedaliero nel carcere di Rennes, una cittadina nel nord della Francia, in Bretagna. La grazia, spiega il giornale on line, non implica la liberazione di Marie Claire, ma la commutazione dell’ergastolo in una pena di vent’anni di reclusione. La scelta è stata fatta per questioni umanitarie. Le condizioni di detenzione, troppo severe, hanno spinto il controllore generale dei luoghi di privazione della libertà, Adeline Hazan e diversi deputati, a chiedere il perdono al presidente. “La donna non aveva diritto a nulla, anche a cose molto semplici, come partecipare ai seminari di preparazione dei pasti”, riferisce una fonte intervistata dal Jdd. Ma quanto hanno contribuito a rendere “psichiatricamente molto fragile” Marie Claire F. la vita di strada e quei clienti troppe volte violenti?