Si può fare prevenzione dal carcere? Discussione tra detenuti e studenti Il Mattino di Padova, 28 maggio 2019 Ogni volta che al carcere Due Palazzi si conclude un incontro con le scuole, succede che intorno al tavolo della stanza dove avvengono gli incontri i detenuti discutono animatamente per capire se il loro messaggio è arrivato ai ragazzi, se la fatica di raccontare la propria storia, senza abbellirla, senza cercare alibi, ha un senso. E il senso c’è se gli studenti dimostrano di aver capito che nessuno può essere sicuro di riuscire sempre a “pensarci prima” di commettere certi gesti pericolosi, e se magari qualcuno che già era scivolato in comportamenti a rischio si rende conto che è meglio fermarsi. Quella che segue è una discussione fra detenuti intorno a quel tavolo. Armend: Io prima di venire in questo carcere ero in un Circondariale (il carcere dove ci stanno le persone appena arrestate o con pene brevi), ma se si fa questo progetto alla Casa circondariale è molto difficile che funzioni, perché quando uno è appena arrestato è stressato, deve affrontare il processo, quindi è impossibile che accetti di andare davanti a 50-100 studenti per confrontarsi sui suoi errori. Anche perché lui non è ancora consapevole dei suoi errori. Io parlo per la mia esperienza personale, quando mi hanno arrestato non mi importava di andare a parlare e se qualcuno mi avesse chiamato, dicendomi che c’era un incontro con gli studenti e bisognava andare a confrontarsi per fare prevenzione, non lo avrei accettato, non mi sentivo neppure colpevole. Ma anche quando sono venuto qui non è che al primo incontro ho parlato, c’è voluto del tempo. Inoltre questo è un progetto abbastanza delicato, quindi devi sapere cosa dire se vuoi davvero dare un messaggio che spinga i ragazzi a non fare i tuoi errori, che per me poi erano quelli legati all’idea di fare la bella vita, i soldi facili. Quante volte noi discutiamo qui dopo gli incontri? E questo perché cerchiamo sempre di migliorare, in modo che la prevenzione che vogliamo fare venga fatta nel miglior modo possibile. Per questo ci vuole senso di responsabilità, e le persone detenute devono sapersi confrontare senza mentire. Asot:. Certo non si possono prendere delle persone a caso e metterle di fronte agli studenti, bisogna essere preparati, saper portare la propria testimonianza e cercare di capire che cosa, della propria storia, può essere utile agli studenti per non scivolare in certi comportamenti, che per noi hanno significato rovinarci la vita. Io non è che conducevo una vita in cui mi aspettavo di finire in carcere, io lavoravo, ero tranquillo in casa, ma poi ho cominciato a sottovalutare dei piccoli comportamenti tipo esagerare con il bere, tornare tardi alla sera anche se il giorno dopo lavoravo, frequentare posti poco “tranquilli”. E in questi posti ho conosciuto persone di tutti i tipi e ho sempre pensato che non facendo niente con loro, se non divertirmi, non ci sarebbe stato nessun rischio, ma poi l’ambiente, il bere troppo, le circostanze hanno creato una situazione dove veramente sono andato in confusione. E sono finito dentro a una rissa che è diventata una tragedia, ho ucciso un ragazzo come me. E sono scivolato in questo calvario, da cui non potevo più tornare indietro. Non si può prevedere tutto nella vita, anche se io non andavo in cerca di casini. Io mi ricordo che quando bevevo qualche birra in più ero tranquillo, scherzavo, ridevo, non mi pareva di essere più aggressivo, ero convinto di essere abbastanza maturo, non avevo niente a che fare con i furti, con la criminalità, ero in buoni rapporti con tutti, e poi da un momento all’altro è successo un casino dove non ho capito più niente. Ai ragazzi posso dire che certe compagnie sono molto pericolose, e che ci si può divertire in tanti modi senza esagerare e che non bisogna sottovalutare niente. Mi ricordo che spesso succedeva che dopo una serata a divertirsi si doveva tornare a casa in macchina sotto l’effetto dell’alcol, e ci dicevamo che avevamo bevuto solo un po’ di più del consentito, e che la casa era vicina quindi non c’erano rischi, lo fai oggi, lo fai domani e poi diventa una abitudine, e poi succedono gli omicidi stradali. Questi comportamenti non bisogna sottovalutarli. Io mi ricordo che il sabato e la domenica non sapevamo cosa fare per divertirci sempre di più, non vedevamo l’ora che arrivasse venerdì, però non bisogna esagerare, bisogna trovare un equilibrio e ricordarsi che è facile perdere il controllo e trovarsi in una strada da cui non puoi più tornare indietro, questo io dico ai ragazzi. E poi dico che lo studio è una cosa importante, perché si devono impegnare adesso che hanno la possibilità di farlo, mentre io, assumendo un certo tipo di atteggiamenti, trasgredivo anche rispetto alla scuola. Se mi fossi messo a studiare per tutto il tempo che invece passavo in giro, non avrei fatto certe cose e avrei vissuto le mie giornate in maniera molto più utile. Senza lo studio non vai da nessuna parte, io l’ho capito solo ora che ho 28 anni e riprendere lo studio qui in carcere dalla terza media e stare 5 o 6 anni sui banchi di scuola non è il massimo. Spero che questo faccia riflettere quei ragazzi, che hanno la sensazione che studiare sia tempo sprecato. Antonio: Noi possiamo portare le nostre storie, ma non possiamo certo dare consigli. Possiamo raccontare quello che abbiamo vissuto, le scelte sbagliate e le conseguenze che provocano, poi se qualcuno si riconosce in noi, in certi comportamenti del nostro passato, e vede dove ci hanno portato, vede le nostre vite rovinate, allora questo significa anche fare prevenzione. Ma certe volte dico che questo progetto con le scuole ha fatto bene a me più che agli studenti, poi non so se sono arrivato anche a loro o meno, però a me mi ha fatto sicuramente riflettere e diventare una persona più responsabile. Questo progetto poi andrebbe esportato veramente nei paesi del sud, perché da noi in Calabria, per esempio, ci sono ancora paesi come 50 anni fa, non ci sono attività, non c’è neanche un campo di pallone, i ragazzi sono tentati di scegliere la via dell’illegalità, quella che sembra più facile, e invece avrebbero bisogno di sentire che certe scelte, di avvicinarsi ad ambienti criminali, poi si pagano, ci si rovina la vita, la si rovina ad altri, si distrugge la vita delle proprie famiglie. Giuliano: Secondo me la risposta di cosa capiscono i ragazzi di questo progetto ce l’abbiamo nei testi che ci inviano con le loro riflessioni. Loro percepiscono ciò che noi facciamo, sono loro stessi che dicono cha facciamo prevenzione, proprio ieri sera mi sono riletto gli ultimi testi che ci sono arrivati e un ragazzo scriveva che quello che ha capito con gli incontri con noi non l’avrebbe capito se a spiegarglielo fossero state le istituzioni, perché se era un professore, un poliziotto, un giudice che gli diceva queste cose non gli avrebbe dato un grande ascolto, mentre vedere e sentire parlare la persona, che ha fatto quel percorso sbagliato e che ne sta pagando le conseguenze, è molto diverso. Altri ragazzi scrivono che i genitori erano pieni di dubbi su questo progetto. Però una volta che il ragazzo lo ha fatto, è stato proprio lui che ha cercato di convincere i genitori che devono farlo anche loro. Ma anche le Istituzioni devono capire che noi detenuti ai ragazzi ci presentiamo come quelli che hanno sbagliato e il nostro interesse è che dalle nostre esperienze negative, facendo vedere anche i disastri che vengono dopo queste azioni, percepiscano che serve un freno di fronte a certi comportamenti. E questo freno deve esserci prima che, come è successo a me, sia troppo tardi. Io a ventidue anni ho avuto una condanna all’ergastolo, oggi la mia esperienza la racconto perché spero che nessun ragazzo faccia la mia fine. Angelo: Noi ai ragazzi diciamo anche che non è una vergogna, non è da vigliacchi a volte girarsi dall’altra parte e andare via quando un gruppo alla sera va in discoteca a divertirsi e poi un altro gruppo inizia a dare fastidio. Noi dobbiamo dire che in quei momenti si può perdere l’equilibrio e non si sa cosa può succedere, basta un pugno, una spinta e un ragazzo rimane a terra ferito o perde la vita. E la conseguenza non è solo il carcere, si smarrisce la serenità nella casa, i genitori iniziano un calvario, ho visto tanti colloqui di giovani detenuti che piangevano con la madre e con il padre, vite rovinate per aver voluto reagire con l’orgoglio invece di fermarsi in tempo. La rieducazione del condannato e l’esperienza universitaria in carcere di Giulia Della Martera termometropolitico.it, 28 maggio 2019 Storicamente il carcere, secondo la visione dell’intellettuale francese Michel Foucault, non è mai riuscito a realizzare la finalità di reinserimento sociale che si era proposto e che, anzi, sia un dispositivo atto a replicare un illegalismo controllato e “utile”, non pericoloso né politicamente che economicamente. Il periodo di pena da scontare non va visto come una sorta di punizione divina. E’ sicuramente uno strumento di espiazione di un reato, ma non solo. Per evitare recidive e pericolosità sociale dei detenuti è necessario trasformare il tempo di pena in tempo di rieducazione del soggetto, in tempo di qualità. Allora si potrà riscoprire il fine ultimo della privazione di libertà del detenuto. A ostacolare questo alto ideale è la situazione concreta di sovraffollamento delle carceri, che rende invivibile la vita nelle celle. Ad esso collegata vi è l’emergenza sanitaria - che si registra con particolare complessità per quanto riguarda il trattamento di malattie psichiche. Il lavoro e l’istruzione sono allora i due pilastri da sostenere per favorire una “pena di qualità” e un futuro reinserimento del soggetto nella società. La funzione della pena: rieducare il condannato - “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. (Art. 27 comma 3 Cost.). “E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. (Art.13 comma 4 Cost.). Queste due disposizioni costituzionali rappresentano il fondamento e il contenuto minimo relativo al trattamento del detenuto e alla funzione della pena, nel nostro ordinamento. La pena ha in primo luogo uno scopo di prevenzione generale, cioè dissuadere chi la subisce dal commettere ulteriori reati, e quindi uno scopo di prevenzione speciale nei confronti del reo. La funzione più nobile a cui si richiama la pena è quella di tendere alla rieducazione del condannato. Il tentativo di riforma svuota carceri - Affinché il periodo di reclusione sia proficuo ai fini della rieducazione è però necessario un ambiente che possa permettere lo sviluppo dell’individuo e il rispetto dei diritti umani. Ciò attualmente in Italia è molto difficile, data la criticità delle condizioni nelle carceri. Siamo già stati condannati nel 2013 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per aver violato l’art.3 della Cedu - divieto di trattamenti inumani e degradanti - a causa del grave sovraffollamento degli istituti penitenziari (sent. 8 gennaio 2013, Torreggiani e a. c. Italia, ric. n. 4351709, 4688209, 5540009, 5787509, 6153509, 3531510 e 3781810). Un tentativo in questa direzione è stato apportato dal governo con il cosiddetto decreto svuota carceri (Decreto Legge, testo coordinato 23122013 n° 146, G.U. 21022014). Il decreto nasceva con l’obiettivo di restituire ai detenuti la possibilità di esercitare i propri diritti fondamentali e di affrontare il fenomeno del sovraffollamento, garantendo comunque la sicurezza sociale. Come fine concreto: diminuire il numero di persone detenute in carcere, secondo criteri selettivi. Si è cercato di ridurre i flussi di ingresso (con forme di detenzione alternative al carcere) e accelerare i flussi di uscita (stabilizzando l’istituto della esecuzione della pena presso il domicilio prevista dalla legge n. 199 del 2010 e l’istituto della messa alla prova). Queste disposizioni hanno riguardato i reati minori, come il piccolo spaccio. Il sovraffollamento delle carceri italiane - Dai dati forniti dal Dap nel maggio 2018, il totale di detenuti in eccesso è di 10320 (il numero dei “detenuti in eccesso” si riferisce alla somma delle persone detenute in più rispetto alla capienza di ogni singolo carcere. Esempio: se un carcere con capienza 100, ospita 150 detenuti, allora 50 detenuti sono in eccesso rispetto alla capienza). La percentuale del sovraffollamento è allora del 113,57%. Su 194 carceri italiane, 131 risultano affollate. Le carceri con un maggiore livello di sovraffollamento si trovano in Puglia (144,88%), Molise (139,39%) e Lombardia (134,2%). Dall’altro alto, il numero di detenuti presenti è inferiore alla capienza in Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige, Sardegna, Sicilia e Marche. Problematiche legate al sovraffollamento: sanità e vivibilità - Collegate al dato del sovraffollamento vi sono innumerevoli problematiche, che rendono le carceri luoghi invivibili. Una di esse è la sanità. “Il carcere si conferma contenitore di sofferenze fisiche e psichiche e fabbrica di malattia, su cui l’intento riformatore può intervenire efficacemente solo se agevolato da un più ampio mutamento della gestione della penalità”- dal XIV rapporto sulle condizioni di detenzione. A redigerlo, l’associazione Antigone, “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”. Si tratta un’associazione politico-culturale a cui aderiscono prevalentemente magistrati, operatori penitenziari, studiosi, parlamentari, insegnanti e cittadini che, a diverso titolo, si interessano di giustizia penale. Spesso a causa del sovraffollamento, non vengono rispettate la condizioni di vivibilità nelle celle. Il Comitato Europeo per la prevenzione della tortura ha stabilito come standard minimo di spazio vitale nelle celle, 6 metri quadrati. Questa misura non è rispettata nel 69,4% degli 86 istituti penitenziari, visitati dai membri di Antigone. Non sempre nelle celle funziona il riscaldamento e molto spesso manca l’acqua calda. Per quanto riguarda le condizioni igieniche: in più della metà degli istituti visitati, le celle non dispongono di docce e in 4 istituti il wc non è separato dal resto della cella. Emergenza sanità nelle carceri italiane - La sanità penitenziaria nazionale è “ghepardizzata”, con livelli e qualità dell’assistenza sanitaria che variano molto da regione a regione. L’osservatorio di Antigone ha evidenziato inoltre alcune criticità specifiche: La carenza di strumentazioni che garantiscano la “continuità terapeutica”. Anche laddove i servizi sanitari funzionano, il carcere continua ad essere una “mondo a parte” rispetto ai servizi sanitari all’esterno. E’ raramente prevista la cartella clinica informatizzata. La conseguenza più comune è che, in caso di trasferimento di istituti oppure di scarcerazione, difficilmente quelle informazioni usciranno dall’archivio del penitenziario e “seguiranno” la persona reclusa. Sarebbe buona pratica consegnare copia della cartella clinica alla persona che esce dall’istituto, ma, anche questa, è un eccezione. L’assoluta inadeguatezza delle carceri italiane a ospitare persone disabili. Barriere architettoniche, mancanze di celle attrezzate per consentire la mobilità, sono una norma. Uno degli aspetti più controversi riguarda la salute mentale. I problemi psichiatrici dei detenuti vengono affrontati ricorrendo a massicce dosi di psicofarmaci e terapie farmacologiche. Mentre le ore settimanali di terapia psicologica sono gravemente insufficienti. “Ma la figura dello psichiatra non può e non deve essere la sola ad affrontare la questione della salute mentale. Fondamentale è il ruolo dello psicologo, che, insieme all’area educativa, ha un ruolo fondamentale soprattutto nei confronti di quei detenuti che stanno vivendo momenti di particolare stress legati, ad esempio, a vicissitudini processuali o alle difficoltà di convivenza”. Come trascorrono il tempo i detenuti in carcere - Riempire ogni giorno 24 ore all’interno di un carcere, non è semplice. Passare il proprio tempo in luoghi che non rispettano gli standard minimi di vivibilità porta spesso alla manifestazione di problemi di salute fisici e psichici. Ma spesso è la noia, il fatto di avere troppo tempo libero che si può solo passare rimuginando sui propri errori, a provocare stati depressivi o di disagio. Le celle dovrebbero essere aperte 8 ore al giorno, ma questo raramente avviene. Quali sono le attività che i detenuti possono svolgere collettivamente? Essi vengono coinvolti in attività lavorative, istruttive, formative e sportive. Il lungimirante obiettivo è quello di rendere il tempo in carcere, un tempo di qualità che possa servire a chi sconta la pena di reinserirsi nella società, una volta liberato. E’ una lotta all’emarginazione. Il lavoro per i detenuti - L’attività lavorativa e la formazione professionale dovrebbero fornire alle persone detenute capacità e competenze spendibili nel mercato del lavoro. I detenuti sono dipendenti dell’Amministrazione penitenziaria oppure di soggetti esterni e dalla A.P. vengono stipendiati, secondo i fondi stanziati. Dai dati del Ministero di Grazia e giustizia si evince che nel 2017 i lavoratori ammontavano al 31,95% del totale di detenuti. Per garantire a tutti la possibilità di lavorare, si organizzano dei turni, spesso molto brevi. Alcune delle mansioni sono: la pulizia delle sezioni, la distribuzione del vitto, delle mansioni di segreteria, la scrittura di reclami e documenti per altri detenuti, lavori di piccola carpenteria, idraulica o elettrotecnica. Maggiore sensibilità al fine rieducativo della pena - I tentativi di riforma carceraria non hanno comunque dato luogo a effetti strutturali sul sistema e soprattutto non hanno saputo affermarsi come garanti del fine rieducativo della pena. E’ necessaria una maggiore sensibilità rispetto alla questione, abbandonando il desiderio di una giustizia facile ed esclusivamente punitiva. Non è detto che un regime carcerario “duro” sia sinonimo di pubblica sicurezza, anzi. E’ innanzitutto fondamentale assicurare la certezza della pena e garantire un giusto processo, che non si dilunghi fino a far cadere il reato in prescrizione. Sono doveri che uno Stato ha l’obbligo (richiamato dalla Costituzione) di garantire ai suoi cittadini. Tuttavia, dovere dello Stato, è anche permettere che tutti i suoi cittadini possano godere dei diritti e possano sviluppare la propria persona, anche in seguito ad una condanna. Per coloro che hanno disobbedito alla legge e stanno già scontando la propria pena - venendo privati della libertà - andrebbe favorito un processo di rieducazione, risocializzazione e reinserimento nella società. L’orizzonte della politica dentro valori condivisi di Michele Salvati Corriere della Sera, 28 maggio 2019 Ai politici non si chiedono le valutazioni di un osservatore imparziale: affinché una democrazia possa funzionare, ad essi si chiede solo una “parzialità temperata”, si chiedono proposte e critiche che si svolgano all’interno di un nucleo di valori condivisi e di visioni non troppo distanti dell’interesse nazionale. Andrebbe ripubblicato l’editoriale di Tommaso Padoa Schioppa scrisse per questo giornale il 25 febbraio 2001: “Questione di classe (dirigente)”. Si era allora alla vigilia delle elezioni che assicurarono a Berlusconi il pieno controllo della 14ma Legislatura (2001-2006). Dopo la breve esperienza della 15ma e del governo Prodi-bis (2006-2008), nella 16ma (2008-2013) Berlusconi tornò alla Presidenza del Consiglio per cadere dopo due anni e mezzo a seguito della rottura della sua maggioranza e dell’incapacità di affrontare la crisi economica in cui eravamo immersi. Gli succedette Mario Monti, fino alle nuove elezioni del 2013. In queste prevalse il Centrosinistra di stretta misura, e mi limito a ricordare i Presidenti del Consiglio che si sono succeduti nella 17ma legislatura: Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. Poi le elezioni del marzo scorso, che danno inizio alla 18ma, …l’alba della terza Repubblica, nelle speranze dei 5 Stelle e della Lega e nei timori di tutte le altre forze politiche. Rinfrescata la memoria, torno a Padoa Schioppa. Padoa Schioppa ha una visione larga di classe dirigente: “imprenditori, sindacalisti, intellettuali, magistrati, politici al governo e all’opposizione, funzionari pubblici, giornalisti”. Insomma tutti coloro che per il ruolo che svolgono, per l’istruzione che posseggono, per l’attenzione che possono dedicare alla cosa pubblica, sono in grado in grado di valutare criticamente le politiche dei governi. Di farsi un’idea meditata e di trasmetterla a chi non è in grado di farsela per carenza di attenzione, informazione e competenza. In questo strato sociale ampio un ruolo cruciale lo svolgono i politici in senso stretto: sono loro che devono convincere il popolo sovrano (gli elettori) se le strategie attuate dal governo o promesse dall’opposizione siano credibili e realistiche, se siano benefiche o contrastino nel lungo andare con il benessere della grande maggioranza dei cittadini e dei loro figli. Due obiezioni. Come si fa a chiedere ai politici, impegnati come sono a rafforzare i consensi per la propria parte, di svolgere un ruolo che sembra richiedere un equilibrio al di sopra delle parti? Ai politici non si chiedono però le valutazioni di un osservatore imparziale: affinché una democrazia possa funzionare, ad essi si chiede solo una “parzialità temperata”, si chiedono proposte e critiche che si svolgano all’interno di un nucleo di valori condivisi e di visioni non troppo distanti dell’interesse nazionale. E si chiedono analisi che rispettino quanto la ricerca scientifica ha accertato e la logica e l’esperienza storica confermano. Per venire subito a noi: se in un governo di centrodestra l’orientamento prevalente fosse quello di Tajani e in uno di centrosinistra quello di Gentiloni - due nomi scelti non a caso, ma molti altri potrebbero essere indicati - resterebbe un gran numero di temi importanti di politica interna ed estera sui quali i due opposti schieramenti potrebbero differenziarsi. Anche in modo molto netto. Ma la lotta politica potrebbe svolgersi entro binari che eviterebbero un contrasto troppo forte con quanto una democrazia può tollerare. Veniamo allora alla seconda obiezione, alle circostanze che, oggi, sembrano ostacolare questo orientamento “moderato” delle forze politiche. Essenzialmente sono due. Anzitutto un inasprimento delle condizioni di vita di ampi segmenti dei ceti più modesti a seguito della crisi economica. Secondariamente un fenomeno che Tom Nichols ha illustrato assai bene per il caso americano: la sfiducia per gli “esperti” (La conoscenza e i suoi nemici: l’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia, Luiss, 2018). Entrambi i problemi affliggono oggi tutte le democrazie liberali, ma le affliggono in modo più o meno grave. In alcune le classi dirigenti sono state in grado di attenuare gli effetti della crisi economica sui ceti meno abbienti e a mantenere condizioni di crescita adeguate a garantire un pur modesto ascensore sociale. E, disponendo di istituzioni costituzionali e amministrative efficaci e di un senso civico robusto, esse sono riuscite ad attenuare i sentimenti che sono dilagati nel nostro Paese, il disprezzo per i vecchi partiti e la vecchia politica, una visione delle élite esclusivamente come casta. Per questo esse sono riuscite a tenere sotto controllo l’ondata populista. Quanto alla sfiducia per gli “esperti”, in Paesi con sistemi di istruzione e selezione più severi, robusti e diffusi non si sono raggiunti gli estremi di “mobilitazione degli ignoranti” che Internet e i Social hanno contribuito a diffondere. La convinzione che “uno vale uno” applicata anche in materie in cui il criterio democratico è inapplicabile. L’odierna “ribellione delle masse”, per ragioni internazionali, non darà luogo alle tragiche conseguenze di quella che si sviluppò tra le due guerre mondiali e che grandi intellettuali come Ortega y Gasset e Huizinga analizzarono con tanta intelligenza e passione. L’involucro formale della democrazia non è in pericolo, come lo era allora. Ma la sua sostanza di dialogo e moderazione lo è, soprattutto nelle periferie Est e Sud dell’Europa. E in particolar modo in Italia. Ho cominciato quest’articolo con un elenco delle legislature e dei governi degli ultimi diciassette anni, ma l’infezione del populismo era cominciata prima, almeno dal modo in cui i politici e le classi dirigenti di cui scrive Tommaso Padoa Schioppa affrontarono la crisi di Mani Pulite. Se escludiamo i governi tecnici e teniamo conto delle forti differenze di responsabilità, chi tra i capi dei partiti, tra i media e gli intellettuali può tirarsi indietro dall’accusa di avere assecondato una concezione populistica di democrazia? Di aver adottato loro stessi metodi di propaganda populistici, di non aver rappresentato ai cittadini la gravità della crisi del nostro Paese? Come meravigliarsi allora dell’esito elettorale del 4 marzo? Scontro istituzionale sul nuovo governo. Di Maio e Meloni invocano impeachment di Alberto Custodero La Repubblica, 28 maggio 2019 La Lega si dissocia dall’ipotesi di messa in stato d’accusa e invoca il ritorno alle urne. “Non finisce qui”, minaccia Di Maio in piazza. Gentiloni: “Nervi saldi, ora salviamo il Paese”. Pd e Forza Italia difendono il Colle. È durata appena quattro giorni la parentesi dell’incarico che il capo dello Stato ha affidato a Giuseppe Conte per la formazione di un governo M5s-Lega. Il no di Mattarella a Savona all’Economia (“decisione che non ho preso a cuor leggero”, ha chiosato il presidente), è stato lo scoglio sul quale è inciampato l’ex premier incaricato. Il più duro è proprio Luigi Di Maio. “La scelta di Mattarella è incomprensibile”, ha attaccato. “La verità è che non vogliono il M5s al governo, sono molto arrabbiato ma non finisce qui”, minaccia. Il clou quando, ospite di Fazio, affonda il colpo: “Chiedo l’impeachment per Mattarella”, ipotesi già ventilata da Giorgia Meloni. I pentastellati ribadiscono la loro posizione in serata in un comizio a Fiumicino, con Alessandro Di Battista al fianco del capo politico del movimento: “La democrazia è stata abolita, Savona punito per un reato d’opinione. Prima di tornare al voto bisogna mettere sotto accusa Mattarella per attentato alle Istituzioni”. E ancora: “Era una cosa premeditata, far fallire il governo del M5S e della Lega. Difficili ora aver fiducia nelle istituzioni e nelle leggi dello Stato”. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, non ci sta. Parlando al Colle - dopo la rinuncia di Conte - replica con durezza a chi lo accusa. “Non ho ostacolato la formazione del governo”. E in tutta risposta ha convocato per la mattinata di lunedì al Quirinale Carlo Cottarelli, l’ex commissario alla spesa pubblica durante il governo Letta. Sentirò il parere delle Camere, ha detto il presidente, che quindi affronterà il volere del Parlamento, chiedendo attraverso Cottarelli a deputati e senatori se vogliono portare il Paese al voto senza aver fatto partire un governo, con i mercati in fibrillazione e il rischio di aumento dell’Iva. Un nome, quello di Cottarelli, più volte speso dai nemici della “casta”, a cui forse non tutti vorranno dire di no. Ma per ora Di Maio tuona: “Cottarelli non ha la fiducia del Parlamento, è assurdo”. In difesa del Colle arriva una nota di Silvio Berlusconi (“Il M5s che parla di impeachment è come sempre irresponsabile”, commenta), e di Matteo Renzi: “Minacciare Mattarella è indegno”. Stessa linea per Gentiloni e per il segretario, Maurizio Martina: “Passaggio drammatico, consiglierei a Di Maio e Salvini di misurare le parole”. Salvini, a modo suo, si chiama fuori dalle richieste di messa in stato di accusa: “Non ne parlo, sono incazzato...”. Anche se poco dopo, in diretta su Facebook, attacca: “Che brutta giornata per l’Italia e per la democrazia. Era tutto pronto, anche io ero pronto a occuparmi di immigrazione e sicurezza, ma niente, qualcuno oggi ha detto no. Il governo del cambiamento non poteva nascere, i Signori dello Spread e delle banche, i ministri di Berlino, di Parigi e di Bruxelles non erano d’accordo. Rabbia? Tanta. Paura? Zero. Cambieremo questo Paese, insieme. Io non mollo amici, conto su di Voi. Prima gli italiani”. “Aspettiamo la data delle lezioni - conclude Salvini - vediamo se domani verrà data, per dignità, una data delle elezioni. Altrimenti ci vediamo a Roma. Non si molla di un millimetro” “Ho sostenuto - dice Mattarella - il tentativo in base alle regole della Carta, ho accolto la proposta per l’incarico di presidente del Consiglio, superando ogni perplessità sulla circostanza che un governo politico fosse guidato da un presidente non eletto in Parlamento e ne ho accompagnato, con piena attenzione, anche il lavoro per formare il governo”. “Ma il capo dello Stato non può subire imposizioni. Ho chiesto per il ministero dell’Economia l’indicazione di un autorevole esponente politico della maggioranza, coerente con il programma. Che non sia visto come sostenitore di una linea più volte manifestata che potrebbe provocare l’uscita dell’Italia dall’euro”. “La designazione del ministro dell’economia costituisce sempre un messaggio immediato per gli operatori economici e finanziari, ho chiesto per quel ministero l’indicazione di un autorevole esponente politico della maggioranza, che al di là della stima e della considerazione della persona non sia visto come sostenitore di linee che potrebbe provocare la fuoriuscita dell’italia dall’euro, cosa differente dal cambiare l’ue in meglio dal punto di vista italiano. A fronte di questa mia sollecitazione ho constatato con rammarico indisponibilità a ogni altra soluzione, e il presidente del consiglio incaricato ha rimesso il mandato”. Giuseppe Conte, dopo l’annuncio del Quirinale sulla rinuncia al mandato, ha pronunciato un telegrafico discorso: “Ringrazio gli esponenti delle due forze politiche - ha detto - per avere fatto il mio nome per formare il governo di cambiamento. Vi posso assicurare di avere profuso il massimo sforzo, la massima attenzione per adempiere a questo compito”. Già prima della rinuncia, la Lega aveva puntato l’indice contro il Quirinale. “Abbiamo lavorato per settimane, giorno e notte - ha tuonato Matteo Salvini - per far nascere un governo che difendesse gli interessi dei cittadini italiani. Ma qualcuno (su pressione di chi?) ci ha detto No. Mai più servi di nessuno, l’Italia non è una colonia. A questo punto, con l’onestà, la coerenza e il coraggio di sempre, la parola deve tornare a voi”. Il presidente della Repubblica, dunque, non ha ceduto all’imposizione di Paolo Savona al dicastero dell’Economia. Nel pomeriggio erano saliti al Colle prima il segretario della Lega Matteo Salvini, poi il capo politico del Movimento 5 stelle Luigi Di Maio. L’obiettivo era sciogliere il nodo politico sul ministero dell’Economia che i due leader volevano affidare al professor Paolo Savona. Vano è stato il tentativo dello stesso Savona di tranquillizzare il Quirinale precisando la natura del suo rapporto con l’Europa. L’esito finale è stato la rinuncia di Conte all’incarico. Come funziona l’impeachment: l’ultima parola alla Consulta allargata di Lina Palmerini Il Sole 24 Ore, 28 maggio 2019 Al Quirinale la notizia che i 5 Stelle stanno meditando sulla richiesta di impeachment al capo dello Stato viene presa con tranquillità e senza commenti. Sergio Mattarella sapeva che la reazione dei partiti sarebbe stata aggressiva ma si fa notare che la Costituzione prevede procedure chiare e motivazioni altrettanto chiare. Cos’è l’impeachment - L’articolo della Costituzione che disciplina la messa in stato d’accusa del capo dello Stato è l’articolo 90. Nel testo si legge che il presidente non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni tranne che per alto tradimento e attentato alla Costituzione. In tali casi è messo sotto stato d’accusa dal Parlamento in seduta comune a maggioranza assoluta dei suoi componenti. Il punto però è che le Camere devono votare un testo in cui si chiariscono le ragioni per cui Sergio Mattarella può essere imputato di attentato alla Carta visto che è escluso l’alto tradimento. I 5 Stelle, che sono quelli che hanno lanciato l’idea insieme a Giorgia Meloni, devono quindi trovare le ragioni costituzionali per circostanziare le accuse. La Corte costituzionale - Se quel testo viene votato, l’ultima parola spetta alla Corte Costituzionale come prevedono gli articoli 134 e 135. Nel caso di giudizio sul capo dello Stato, oltre i componenti ordinari della Consulta, il collegio viene integrato con 16 membri tratti a sorte da un elenco di cittadini con i requisiti di eleggibilità a senatore che il Parlamento compila ogni 9 anni mediante un’elezione con le stesse modalità stabilite per i giudici ordinari. Se si va al voto - I 5 Stelle dovranno decidere se andare al voto subito oppure fare lo stato di accusa a Sergio Mattarella. Perché se chiedono le urne e quindi lo scioglimento delle Camere, è chiaro che questo è incompatibile con l’impeachment. Di fronte a una tale accusa, il capo dello Stato non può sciogliere. E soprattutto la loro iniziativa rischia di non avere i voti necessari visto che Salvini (finora) non l’ha appoggiata. I precedenti - Non si è mai verificata la messa in stato d’accusa ma ne fu investito Giovanni Leone che però si dimise prima. Accadde anche a Francesco Cossiga ma non ebbe luogo perché lasciò il Quirinale due mesi prima della scadenza del settennato. E fu “minacciato” anche Oscar Luigi Scalfaro senza alcun seguito concreto. “Così Area fermerà la deriva populista nella magistratura” Il Dubbio, 28 maggio 2019 I candidati al Csm della corrente progressista. Il ciclo di incontri organizzato per presentare i candidati di Area alle elezioni per il rinnovo del Csm ha fatto tappa al Palazzo di Giustizia di Roma. Quattro i candidati della magistratura progressista presenti al dibattito moderato dalla giornalista del Messaggero Sara Menafra: Rita Sanlorenzo per il collegio di legittimità, Giovanni Zaccaro e Mario Suriano per il merito, Giuseppe Cascini per quello dei requirenti. “Noi rappresentiamo la magistratura progressista e abbiamo chiara l’idea della giurisdizione che vogliamo veder realizzata”, ha esordito Sanlorenzo, sostituto pg in Cassazione. “È però necessario un cambio di passo rispetto a quattro anni fa, quando i vari gruppi della magistratura di sinistra, dopo essersi unificati in Area, ottennero un ottimo risultato al Csm”. Il richiamo è a quelle sirene populiste stanno facendo presa anche in magistratura, ai gruppi associativi che si propongono con “slogan ad effetto, spesso cinici, fatti per parlare alla pancia dei magistrati”, ha aggiunto il pg. Cascini, aggiunto alla Procura di Roma, ha sottolineato come le correnti siano un “male necessario” e che, nel caso di Area, serva però una profonda autocritica perché “non tutto è andato per il verso giusto”. Zaccaro, giudice al Tribunale di Bari, ha posto il tema dei giovani magistrati che entrano adesso in servizio e che spesso “provengono da altre esperienze lavorative e hanno un’idea non corretta di cosa significhi invece fare il magistrato”. Suriano, giudice al Tribunale di Napoli, ha affrontato il tema dei magistrati “fuori ruolo” e degli incarichi direttivi. Tutti si sono mostrati concordi sul fatto che per evitare alla magistratura la deriva populista sia necessario capire e risolvere i problemi reali delle toghe, e che l’attuale Csm si sia contraddistinto per una certa distanza con la base dei magistrati che lavorano, spesso, in realtà difficili. Ha prevalso, secondo i candidati di Area, la produzione di “linee guida” per gli uffici. Cascini ha citato, come esempio, la Procura di Vibo Valentia, attualmente retta da una collega facente funzione con meno di 4 anni di servizio la quale, con gli altri 6 sostituti, tutte donne, ha denunciato una gestione dell’ufficio non corretta da parte del capo, da mesi in ferie o aspettativa. Il Csm si è recato sul posto a febbraio per capire cosa stesse succedendo. Ma da allora nessuna risposta. “Questo non deve più accadere”, ha concluso il pm della Capitale. I risarcimenti-fantasma alle vittime del terrorismo di Lodovico Poletto La Stampa, 28 maggio 2019 Tra perizie, azioni legali e tribunali stranieri, i ritardi dei fondi provocano disastri economici. Alle famiglie degli italiani coinvolti negli attacchi jihadisti “la burocrazia nega i soldi e la dignità”. L’altra faccia del terrorismo internazionale è la frase che il signor Gaetano Moscato pronuncia alle 18,30 di venerdì 18 maggio: “Non finirà mai, mai, mai”. La sussurra poco dopo che i medici francesi venuti a sincerarsi delle sue condizioni di salute se ne sono andati. Cordiali, gli hanno stretto la mano: “Ci vediamo tra un anno, monsieur. Au revoir”. Arrivederci. Moscato è una delle 306 persone rimaste ferite nell’attentato sulla promenade di Nizza, la sera del 14 luglio del 2016. “Non finirà mai” dice. E lo ripete anche la signora Sonia Reddi: era a Tunisi il 18 marzo del 2015, quando un gruppo di terroristi attaccò il museo del Bardo. Ci furono 22 vittime (4 italiani) e 45 feriti. Reddi - ferita - è sopravvissuta; è morto il suo fidanzato, Francesco Caldara. Famiglie: il disastro economico. L’altra faccia del terrorismo è una cosa di cui non si parla mai, un po’ per pudore, un po’ per vergogna. È l’emotività offesa che fatica a guarire. Ed è il disastro economico. Che ha a che fare con cure carissime “che chissà quando finiranno”, con il supporto psicologico per sfuggire agli incubi, con la case, che vanno spesso adattate a chi, scampato alla morte per un miracolo, porta sul corpo segni e menomazioni che resteranno per sempre: un piede offeso, una gamba amputata, una mano che non risponde più. Oppure si muove in carrozzina. Chi paga per tutto questo? Non di certo l’Isis. E tantomeno chi, materialmente, ha compiuto il gesto. Talvolta lo fanno le assicurazioni. Talvolta gli Stati. In qualche caso chi potrebbe aver commesso un errore di valutazione. E ottenere quei soldi, legittimi, è peggio di un’ assurda corsa in salita. Per capire meglio questo viaggio bisogna partire da qui, dall’attentato al museo del Bardo, Tunisia, il 18 marzo 2015. Dalle quattro vittime italiane. Si chiamavano Antonella Sesino, Orazio Conte, Francesco Caldara e Giuseppina Biella. Erano in crociera. La nave, la Costa Fascinosa, si fermò a Tunisi. Venne organizzata un tour in città con un autobus: visita al museo del Bardo, pranzo, bellezze da scoprire. Morire quel giorno costò a quei turisti un extra di 80 euro sul “tutto compreso” della crociera: il prezzo del bus, del biglietto e del pranzo. E le domande che adesso tutti - o quasi - i parenti delle vittime si fanno sono due: “Si poteva evitare?” e ancora: “Costa Crociere ha delle responsabilità?”. Il marito e i figli di Antonella Sesino, torinese, se lo sono domandato per mesi. Poi sono andati a bussare alla porta dello studio legale Ambrosio & Commodo di Torino e hanno intentato una causa civile. Per soldi? No, per giustizia. Black out delle informazioni L’avvocato Renato Ambrosio è chiaro: “Costa Crociere aveva tutte le possibilità di sapere che Tunisi poteva essere una tappa rischiosa. E doveva informare i passeggeri. Insomma: stiamo parlando di un grande tour operator che deve fornire ai suoi clienti assistenza e informazioni su tutto. Anche per quanto riguarda la sicurezza”. Invece è finita come è finita. C’è di più. Negli atti che l’avvocato Renato Ambrosio (che con i colleghi Ludovica Ambrosio, Stefano Bertone Chiara Gribaudo segue la vicenda) ha recuperato alla Procura di Milano, c’è un volantino diffuso sulla Costa Fascinosa nel quale si rassicuravano gli ospiti sulla “tranquillità di vivere le vostre escursioni in tutta sicurezza”. Ma l’aspetto che più brucia è quell’offerta di 150 mila euro - quale donazione ai familiari delle vittime - fatta da Costa crociere, qualche giorno dopo l’attento. Donazione. In cambio di una firma che li avrebbe messi al riparo da qualunque richiesta di danni in futuro. “E no: se Costa crociere ha sbagliato deve pagare. È una questione di giustizia. Se hai fatto del male, se hai causato un dolore o un danno a qualcuno, è giusto risarcire” spiega l’avvocato Ambrosio. Con parametri e tabelle ben definiti. “Vede, se passa il tema del risarcimento, un giorno saremo tutti un po’ più telati e anche un po’ più sicuri” dice Ambrosio. E così la causa va avanti. Ci saranno altre udienze, altri documenti da produrre. Altro di tutto, compreso dolore. A Nizza, invece, per l’attentato sulla Promenade del 14 luglio di tre anni fa, il “Fondo di garanzia” francese si è mosso subito. Ha pagato le prime cure ai feriti. Ha sostenuto nelle spese vive chi era in difficoltà immediate. Ma da lì a dire che si è trattato di un vero risarcimento, la strada è ancora molto lunga. Lo sa bene Moscato. Lo sanno tutti gli altri che si sono trovati nelle stesse condizioni. Visite mediche. Tempi infiniti di attesa. Risarcire è un passo che tutti fanno con parsimonia e soltanto quando è finito un lungo, eterno, iter burocratico e medico legale. Pietro Massardi, cuneese di Piasco, quella notte maledetta dei fuochi sulla Promenade perse sua moglie, Carla Garaveglio. A Nizza, alla commemorazione delle vittime commentò: “A distanza di tutto questo tempo mi sembra ancora di vivere dentro un frullatore: è tutto ancora così vivo, così presente. Così duro”. E risarcimenti? “La Francia ha pagato le prime cure a mia figlia Matilde, che in questo modo ha potuto tornare a scuola”. E il risarcimento per la morte di sua moglie? “È una questione ancora aperta. Preferisco non parlarne”. È nelle clausole che ci stanno i rallentamenti del tutto. È lì che si annida il vizio che trasforma le vittime degli attentati in vittime della burocrazia. Modello-anni di piombo Tutte queste cose le conosce bene Roberto Della Rocca, il presidente dell’”Associazione italiana vittime del terrorismo”, gruppo fondato da un uomo che il terrorismo rosso degli Anni’70 in Italia lo aveva subito. Si chiamava Maurizio Puddu e si occupava di politica. Una sera gli spararono quattordici colpi di pistola mentre tornava da una riunione di partito. Si salvò. E fondo l’associazione: “Perché - diceva - bisogna guardare alle vittime del terrorismo e alle loro famiglie con un occhio diverso”. Qualche anno fa l’associazione si è fatta promotrice di una legge che risarcisce le vittime del terrorismo. Per aiutare anche gli italiani che sono rimasti coinvolti in attentati all’estero. Quando questa legge venne varata, Della Rocca allora non immaginava l’escalation internazionale. Isis era ancora una parola senza significato. Al Qaeda sembrava lontana dall’Europa. Oggi la legge 206 del 2004 permettere di aiutare economicamente le vittime. E i loro familiari. Ma la strada, prima di entrare in possesso del denaro è lunga e faticosa. “Eppure la nostra legge quadro è decisamente all’avanguardia a livello europeo” dice Della Rocca. Insomma: l’Italia ha una legge quasi perfetta dove tutto è stato codificato. In caso di morte i familiari percepiscono 200 mila euro complessivi. Un ferito, invece, ha diritto - quale risarcimento - a 2 mila euro per ogni punto di invalidità. E poi ci sono i vitalizi da 1900 euro mensili. Esentasse. Sulla carta tuto ok. La burocrazia del Fondo C’è, poi, la pensione anticipata o di reversibilità - esentasse - calcolata sull’ultimo stipendio percepito. E ci sono altri vantaggi ancora. Ma prima che scatti tutto questo deve esserci un atto, un documento - che attesti che si è trattato di attentato di matrice terroristica. E ottenerlo non è sempre così facile. Serve un pronunciamento di un tribunale, anche in primo grado. E dall’esterno, talvolta, tutto questo non arriva così facilmente. Per capirci. Dacca, Bangladesh: il primo luglio del 2016 un gruppo di terroristi assalta l’Holey Artisan Bakery situato nel quartiere diplomatico di Gulshan della capitale, non distante dall’ambasciata italiana. Muoiono 9 cittadini italiani, 7 giapponesi, uno statunitense e un indiano. Più alcuni cittadini del Bangladesh. “Ottenere simili certificati da certi paesi è estremamente complicato. E fino a che non c’è la legge 206 resta al palo” spiega Della Rocca. E se non arriva? Per Dacca il problema lo ha risolto il Parlamento italiano qualche mese fa “anche in assenza di sentenza”. Concedendo cioè quegli aiuti previsti dalla legge 206. E tutti gli altri? Sarà anche brutto dirlo, ma tutti gli altri aspettano che qualcosa si muova. Che il fondo di Garanzia francese paghi. “A noi - racconta Andrea Avagnina, ferito a Nizza - il Fondo ha dato due acconti”. Ma per lui e sua moglie Marinella la vita è durissima: hanno un bisogno continuo di farmaci e di cure. Dice: “Stringiamo i denti e andiamo avanti”. Alla signora Sonia Reddi, che vive con una scheggia di pallottola piantata in testa, nessuno invece ha mai proposto un euro. Da poco si è affidata all’avvocato Alessandra Orrico: chiederà i danni a Costa crociere, seguendo la strada tracciata dagli avvocati dello studio Ambrosio & Commodo di Torino. E da Verona arriva un’eco di un altro ferito, pronto a sfidare in sede civile gli organizzatori della crociera. Non è avidità. È una richiesta di giustizia per un torto subito. Auto-riciclaggio a rischio “incroci” di Luigi Ferrajoli Il Sole 24 Ore, 28 maggio 2019 Con l’introduzione del reato di auto-riciclaggio sono state acuite le criticità interpretative legate all’astratta sovrapposizione di varie norme incriminatrici che, nel nostro ordinamento, mirano a sanzionare le condotte attraverso le quali il responsabile di un reato fiscale impiega o, in qualsiasi altro modo, dispone del provento illecitamente realizzato. Già la fattispecie di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte - oggi contemplata dall’articolo 11 del Dlgs 74/2000, che ha riscritto la norma un tempo prevista dall’articolo 97, comma 6, del Dpr 602/73 - aveva generato non poche problematiche di interpretazione in ordine al livello di arretramento della rilevanza penale di condotte della specie, rispetto a quella caratterizzante il reato dichiarativo tipo che generalmente funge da suo presupposto. La giurisprudenza - La giurisprudenza di legittimità ha, al riguardo, in diverse circostanze precisato come il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, quale reato di pericolo, non richieda che l’amministrazione finanziaria abbia già intrapreso un’attività di verifica, di accertamento o che abbia proceduto all’iscrizione a ruolo del relativo debito tributario. Ai fini del perfezionamento del delitto è, invece, sufficiente che la condotta risulti idonea a rendere inefficace la procedura di riscossione, con un giudizio di valutazione che, evidentemente, precede ogni attività coattiva realizzata dall’amministrazione finanziaria. L’alienazione simulata e il compimento degli altri atti fraudolenti, come contemplati dall’articolo 11, acquisiscono, dunque, rilevanza penale in un momento pericolosamente vicino a quello che, invece, può essere considerato come naturale appendice (o prosecuzione) del reato dichiarativo presupposto. La questione si arricchisce di ulteriori contorni critici se si considerano - come accennato - le modalità con cui il legislatore ha inteso disegnare la condotta commissiva del reato di auto-riciclaggio, ancorata all’impiego, alla sostituzione e al trasferimento di proventi in modo da ostacolare concretamente l’individuazione della loro provenienza delittuosa. La dottrina, al riguardo, ha avuto modo di precisare come il carattere istantaneo dei reati fiscali, la maggior parte dei quali integrati al momento di presentazione della dichiarazione annuale dei redditi ovvero allo spirare del termine di tolleranza a suddetta scadenza di presentazione, determini l’impossibilità di contestare il reato di auto-riciclaggio per condotte anteriori al momento di realizzazione del necessario reato fiscale presupposto. In tali circostanze, non resterebbe tuttavia esclusa l’integrazione del reato di fraudolenta sottrazione al pagamento delle imposte che, come abbiamo visto, ben può essere realizzato attraverso attività fraudolente o simulatorie che, anche prima della presentazione della dichiarazione, mirino ad occultare illecitamente il risparmio d’imposta realizzato, ponendosi nell’alveo di quelle condotte insidiose e oblique che la giurisprudenza di legittimità ha statuito come idonee a porre in pericolo le ragioni, pur se ancora in nuce, esercitabili dall’amministrazione finanziaria. In ogni caso, non sfugge, ulteriormente, come l’auto-riciclaggio comprenda gran parte degli elementi che caratterizzano e definiscono la fattispecie di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, essendo difficile immaginare una condotta di auto-riciclaggio, avente quale reato fonte una fattispecie illecita di natura fiscale, che non si sostanzi nel compimento ad opera del reo di atti simulati o fraudolenti sui propri beni, idonei a eludere, in tutto o in parte, le pretese erariali. Unico elemento di differenziazione, in proposito, appare - ai fini dell’integrazione della fatti-specie di cui all’articolo 648-ter 1 del Codice penale- la possibilità di individuare e isolare nel patrimonio dell’autore del reato tributario l’utilità connessa all’illegittimo risparmio d’imposta così conseguito. Prudenza interpretativa - Il quadro normativo di riferimento, in definitiva, pone notevoli problematiche di compenetrazione e impone agli interpreti una scrupolosa prudenza interpretativa, specie se si considera come - sebbene l’auto-riciclaggio e la sottrazione fraudolenta mirino a tutelare beni giuridici profondamente diversi e tra le relative fattispecie non esista alcun rapporto in tema di concorso apparente di norme - potrebbe ben sussistere in astratto una doppia contestazione per auto-riciclaggio e sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, in ragione della medesima condotta di impiego dell’illecito provento, realizzato per effetto dello stesso reato dichiarativo presupposto. Sotto diverso profilo, potrebbe invece più facilmente accadere che a fronte della medesima condotta, si sia impossibilitati a contestare il reato di auto-riciclaggio, essendo costretti a ripiegare sulla fattispecie di cui all’articolo 11 del Dlgs 74/2000, tutte le volte in cui la condotta contestata si sia consumata in un momento antecedente a quello della commissione effettiva del reato fiscale presupposto, ovvero allorquando non risulti possibile, con una pericolosa valutazione effettuabile solo ex post, identificare la porzione di risparmio fiscale da cui origina l’utilità del reato tributario incrementativa del patrimonio dell’agente. Il valore probatorio dei documenti fotografici nel processo penale Il Sole 24 Ore, 28 maggio 2019 Processo penale - Prova penale - Prova documentale - Rilievi fotografici - Rappresentazione dello stato dei luoghi - Legittime fonti di prova. I rilievi fotografici rappresentativi dello stato dei luoghi, nozione rientrante nella categoria delle “cose” contemplata dall’art. 234, comma primo, cod. proc. pen., rientrano a pieno titolo nelle prove documentali che, avendo contenuto figurativo, non costituito cioè dalla scrittura, bensì dalle immagini, costituiscono di per sé piena prova che può essere sempre acquisita e sulla quale il giudice può validamente fondare il proprio convincimento. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 4 maggio 2018 n. 19139. Processo penale - Prove - Fotografie - Fonti di prova - Legittime - Provenienza - Parte che le produce. I documenti fotografici costituiscono prove documentali la cui provenienza, non richiedendo alcuna sottoscrizione a differenza dei documenti dichiarativi, è logicamente ascrivibile alla stessa parte che le produce. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 4 maggio 2018 n. 19139. Prove - Documenti - Prova documentale - Attività svolta da funzionari dello Stato o di altri enti pubblici nel corso di verifiche ispettive o amministrative - Rilievi fotografici - Prova documentale - Configurabilità - Garanzie difensive - Necessità - Esclusione - Fattispecie. I rilievi fotografici riproducenti quanto i funzionari dello Stato o di altri enti pubblici hanno rilevato nel corso di verifiche ispettive o amministrative devono ritenersi prove documentali ex articolo 234 cod. proc. pen., acquisibili al fascicolo per il dibattimento, e non invece accertamenti tecnici irripetibili da compiere nel rispetto delle garanzie difensive. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto utilizzabile la documentazione fotografica ritraente carcasse di veicoli a motore in quantità eccedente rispetto al numero consentito dall’autorizzazione amministrativa). • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 30 giugno 2015 n. 27118. Prova penale - Documenti e scritture - Documenti anonimi - Documentazione fotografica. La norma di cui all’art. 240 cod. proc. pen., che sancisce l’inutilizzabilità dei documenti anonimi, si riferisce solo ai documenti rappresentativi di dichiarazioni, mentre non si estende a quelli fotografici. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 29 ottobre 2012 n. 42130. Prova penale - Mezzi di prova - Valutazione - Rilievi fotografici aerei - Rilevanza probatoria - Piena - Ratio. In tema di reati edilizi, in base all’articolo 234 c.p.p. le fotografie o i rilievi fotografici, che rappresentano fatti, persone o cose, costituiscono prova documentale. Tale carattere hanno anche quando rappresentano lo stato dei luoghi, annoverabile nell’ambito della categoria delle cose, che ha contenuto amplissimo. Ne deriva che i rilievi fotografici aerei integrano piena prova, che può essere sempre acquisita, e sulla medesima il giudice può validamente fondare il proprio convincimento. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 19 maggio 2008 n. 19968. Omesso versamento ritenute, niente dolo se è “ben dimostrata” la causa di forza maggiore di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 28 maggio 2019 Cassazione, sezione III penale, sentenza 10 maggio 2018 n. 20725. Il dolo generico del reato di cui all’articolo 2, comma 1-bis, del decreto legge 12 settembre 1983 n. 463, convertito dalla legge 11 novembre 1983 n. 638, che punisce l’omesso versamen­to da parte del datore di lavoro delle ritenute previ­denziali e assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, può essere escluso dal giudice in considerazione del modesto importo delle somme non versate o della discontinuità ed episodicità delle inadempienze riscontrate. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 20725 del 10 maggio 2018. Inoltre, per la terza sezione penale, l’imputato può fondatamente invocare l’assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta, quale causa di esclusione della responsabilità penale, ove provveda ad assolvere specifici oneri di allegazione concernenti sia il profilo della non imputabilità a lui medesimo della crisi economica che ha investito l’azienda, sia l’aspetto dell’impossibilità di fronteggiare la crisi economica tramite il ricorso a misure idonee, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, da valutarsi in concreto. L’impostazione di rigore - La Cassazione ribadisce l’impostazione di rigore secondo cui il reato di omesso versamento da parte del datore di lavoro delle ritenute previ­denziali e assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti (previsto e punito dall’articolo 2, comma 1-bis, del Dl 12 settembre 1983 n. 463, convertito dalla legge 11 novembre 1983 n. 638) non è escluso dalla condizione di difficoltà economica in cui versi il datore di lavoro, tale da averlo indotto a privilegiare altre destinazioni delle somme che avrebbero dovuto essere accantonate per i versamenti. Secondo questa impostazione, l’impossibilità di adempiere non è, in concreto, deducibile dal sostituto d’imposta che abbia effettuato i pagamenti in relazione ai quali sono state operate le ritenute perché, ogni qualvolta il datore di lavoro, sostituto d’imposta, effettua i pagamenti, gli incombe l’obbligo di accantonare le somme dovute al fisco. In tal senso, la punibilità della condotta va individuata proprio nel mancato accantonamento delle somme dovute all’Erario (qui, all’Inps) (cfr., tra le tante, sezione III, 18 luglio 2017, Falsini; nonché, in precedenza, sezione III, 12 febbraio 2015, PG in proc. Barucca). È una tesi interpretativa che può accettarsi in ossequio al principio in forza del quale il sostituto d’imposta, quando effettua l’erogazione degli emolumenti ai dipendenti, ha l’obbligo di accantonare le somme dovute all’Erario (qui, in favore dell’Inps), organizzando le risorse disponibili in modo da adempiere all’obbligazione, così che non può, di regola, essere invocata, quale causa di forza maggiore (articolo 45 del Cp), per escludere la colpevolezza in sede penale, la crisi di liquidità che abbia impedito il versamento del dovuto. La Cassazione qui si pone nel solco di tale orientamento riaffermando il principio secondo cui è reato punito a titolo di dolo generico, integrato dalla coscienza e volontà dell’omissione o della tardività del versamento delle ritenute: sicché non rileva, sotto il profilo soggettivo, la circostanza che il datore di lavoro attraversi una fase di criticità e destini le risorse finanziarie per far fronte a debiti ritenuti più urgenti, quali quelli derivanti dagli stipendi dei dipendenti ovvero conseguenti alla necessità della manutenzione dei mezzi destinati allo svolgimento dell’attività d’impresa, così da pretermettere il versamento delle ritenute all’erario, essendo, infatti, suo onere quello di “ripartire” le risorse esistenti all’atto della corresponsione delle retribuzioni, in modo da adempiere al proprio obbligo contributivo, anche se ciò dovesse comportare l’impossibilità di pagare i compensi nel loro intero ammontare. L’esclusione del dolo - La Corte, peraltro, come puntualizzato in massima, coglie l’occasione importante per sottolineare come il suddetto principio di rigore non possa essere applicato automaticamente. Infatti, si dovrebbe escludere il dolo, e correttamente applicare il disposto dell’articolo 45 del Cp, allorquando risulti dimostrata l’imprevedibilità della crisi finanziaria, per fatti non dovuti al debitore, tale da avere impedito a questi di fronteggiarla adeguatamente. In questa prospettiva, la scelta di pagare i dipendenti ma non l’Inps sarebbe difficilmente censurabile in sede penale, essendo piuttosto dimostrativa non tanto di un comportamento violativo dell’obbligo di provvedere per tempo agli accantonamenti, ma dalla scelta necessitata di privilegiare la soddisfazione di almeno uno dei propri obblighi debitori, corrispondendo almeno le somme per le retribuzioni dei dipendenti. In questa situazione ben potrebbe infatti sostenersi l’inesigibilità della condotta alternativa lecita, determinata dalla crisi economica, ma non direttamente riconducibile a un comportamento inerte e trascurato del datore di lavoro. Per l’effetto, secondo il ragionamento della Corte, l’imputato sarebbe non punibile laddove, assolvendo doverosamente all’onere di allegazione dei fatti a supporto della tesi liberatoria, abbia saputo fornire la prova che non gli sia stato altrimenti possibile reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche appunto sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di una improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e a egli non imputabili. Nello specifico, la sentenza che aveva confermato il giudizio di responsabilità è stata censurata come carente di motivazione per non avere adeguatamente apprezzato e comunque dato una motivata risposta alla allegazione difensiva tesa ad accreditare - anche con la produzione di mutui e ipoteche personali - lo sforzo effettuato dal contribuente imprenditore per far fronte ai propri impegni. Una situazione che, quindi, astrattamente, poteva e doveva essere considerata ai fini del giudizio sulla sussistenza del dolo e della causa di forza maggiore. Il paziente psichiatrico e il processo penale di Raffaele Gaetano Crisileo (Avvocato) Ristretti Orizzonti, 28 maggio 2019 Il 24 maggio al Salone degli Specchi del Teatro Garibaldi in Santa Maria Capua Vetere si è svolto un convegno su scala regionale sulla psichiatria oggi, a quarant’anni dalla entrata in vigore della Legge Basaglia. In buona sostanza una sorta di bilancio con considerazioni, e riflessioni. Ho avuto il piacere di essere stato invitato, bontà degli organizzatori, come relatore, per trattare un tema attuale e, secondo me, di ampio respiro riguardante la mia professione di avvocato penalista, dal titolo “ Il paziente psichiatrico ed il processo penale”. Ho subito premesso dicendo che la centralità della relazione, tra il paziente psichiatrico e il processo penale, sopravvive ancora oggi nei dibattiti nonostante siano trascorsi quarant’anni dalla emanazione della cd. Legge Basaglia (L. 180/1978). La legge che dispose la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (O.P.G.) i cd. manicomi e regolamentò il T.S.O. (Trattamento Sanitario Obbligatorio), facendo dell’Italia il primo e, ad oggi, unico paese al mondo ad aver abolito gli ospedali psichiatrici. La rivoluzione culturale, sfociata nell’emanazione in quella legge, si fondava sull’idea di restituire dignità ai pazienti psichiatrici, in un’ottica di risocializzazione del soggetto ritenuto socialmente pericoloso. Tuttavia, però, ho sottolineato, nel mio intervento, che il processo di rinnovamento non è stato ultimato sebbene i più recenti, ma debolissimi, interventi normativi in materia, quali la Legge n. 9/2012 e la n. 81/2014 che hanno determinato il definitivo superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (O.P.G.), con l’istituzione, su tutto il territorio nazionale, delle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (R.E.M.S.). Strutture, queste ultime, con connotazioni differenti rispetto agli O.P.G., perché hanno una gestione ad esclusiva competenza sanitaria con funzioni terapeutico-socio riabilitative in favore di autori di reato affetti da disturbi mentali, che ne inficiano, in tutto o in parte, la capacità di intendere e di volere. Secondo me, però,- ho tenuto a dire con chiarezza all’interessato uditorio presente- che la chiusura degli O.P.G. non è sufficiente se non sarà accompagnata da una riforma del codice. Specie in relazione ai concetti di imputabilità, pericolosità sociale e misure di sicurezza. In caso contrario, si rischia solo di spostare il problema su altre strutture che hanno nomi differenti, ma svolgono di fatto le stesse funzioni dei vecchi O.P.G., cosa, questa, che sta realmente avvenendo. Penso agli artt. 219 e 222 del c.p., che disciplinano proprio gli O.P.G.. Ed allora, in sede di mio intervento, mi sono posto questa domanda : “Ma queste norme come vanno coordinate con la nuova disciplina che sostituisce appunto gli O.P.G. con le R.E.M.S.” ? Questo tema, ho detto a chiare lettere, è stato oggetto anche della recente delega legislativa di cui alla Legge n. 103/ 2017 (cd. Legge Orlando), che ha presentato uno specifico punto relativo alla disciplina delle misure di sicurezza e del ricovero presso le R.E.M.S.. Ma anche a questo riguardo - secondo me - nulla si è fatto e si sta facendo, da parte del legislatore, per ridare dignità al paziente psichiatrico coinvolto in un procedimento penale. Un altro aspetto da non sottovalutare, ho evidenziato, è la fattiva collaborazione tra la magistratura e gli operatori delle R.E.M.S. in quanto numerosi Uffici Giudiziari si attivano in questo senso segnalando la insufficienza quanto ai posti disponibili nelle nuove dette residenze che si trovano nel Circondario del Tribunale o, comunque, nel Distretto di Corte di Appello. In diversi casi, eppure, queste problematiche attuative riguardano procedimenti concernenti gravi delitti contro la persona (ad esempio, casi di omicidio ecc…) commessi da soggetti pericolosi. Un altro aspetto specifico, che ho ritenuto di trattare, anche se in modo fortemente critico, è stata la relazione tra la infermità mentale e la responsabilità penale che, nell’ambito di un procedimento penale, vi è con l’accertamento di una patologia psichiatrica, effettuato mediante una perizia psichiatrica disposta dal Giudice. Ma, attenzione, il Giudice la dispone solo a seguito di una consulenza di parte dell’imputato al fine di determinare se questi, al momento della visita, sia in grado di partecipare coscientemente al processo e se, all’epoca dei fatti, la sua capacità intendere e di volere fosse presente o compromessa e se egli era in grado di comprendere il disvalore delle sue azioni. In altre parole l’analisi della capacità di intendere e di volere dell’imputato è finalizzata ad inquadrarlo da un punto di vista dell’imputabilità, secondo la disciplina del nostro codice penale che individua il presupposto della responsabilità nell’imputabilità. In questo contesto - ho ribadito - che si inserisce l’applicazione eventuale delle misure di sicurezza da parte del Giudice, dopo l’accertamento della pericolosità sociale del soggetto autore del reato. Vero è che l’applicabilità di una misura di sicurezza è subordinata all’accertamento che sia altamente probabile che egli commetta altri reati. In poche parole solo in questo caso si applicano le misure di sicurezza; e questa prognosi è disancorata dal giudizio di responsabilità. Ed allora, un’ autore di un reato, ritenuto infermo di mente (e in quanto tale non imputabile), ma socialmente pericoloso, può essere internato in una R.E.M.S.. Viceversa sarà prosciolto e non soggetto all’applicazione di alcuna misura di sicurezza. In materia di applicazione di queste misure di sicurezza, poi, ho fatto cenno alle novità introdotte appunto dalla Legge n. 81/2014 che fa ricorso alle misure di sicurezza detentive, per un non imputabile, solo quando ogni misura diversa non è idonea a fare fronte alla sua pericolosità sociale. E vero che vi è stata l’introduzione di un elemento positivo : un termine massimo di durata per le misure di sicurezza per scongiurare i cd. “ergastoli bianchi” e si è stabilito che le misure di sicurezza detentive, provvisorie o definitive, non possono durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva massima prevista per il reato commesso, ma purtroppo la legge presenta dei vuoti. Ciò in quanto il Giudice non dispone di un ventaglio di soluzioni adatte da applicare al caso concreto per una risposta trattamentale adeguata. Cosa, questa, a mio avviso, censurabile in quanto sarebbe di certo auspicabile che il Giudice potesse indirizzare il non imputabile ad un programma terapeutico adatto a lui sin dal momento della pronuncia del processo penale, ricorrendo alla misura di sicurezza detentiva solo quando sia l’unica soluzione utile e praticabile. Ed infine ho concluso affermando che, a quarant’anni dalla entrata in vigore della Legge Basaglia, per quanto riguarda la relazione tra paziente psichiatrico e processo penale, poco o nulla si è fatto per cui occorre un intervento legislativo di riforma urgente e concreto perché gli O.P.G. che sulla carta non esistono più, non vengano di fatto sostituiti dalle R.E.M.S in quanto la normativa al riguardo è lacunosa e insufficiente. Bari: al via le udienze nelle tende, avvocati e magistrati sfilano insieme per protesta di Chiara Spagnolo La Repubblica, 28 maggio 2019 Le tre tensostrutture della Protezione civile da oggi ospitano i processi. Alle 13,30 la manifestazione che si chiuderà con un incontro con il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini. Al via le udienze penali nelle tende: a Bari l’emergenza edilizia giudiziaria ha raggiunto il clou, con l’apertura di tensostrutture per il rinvio di migliaia di processi che non potranno tenersi a caua dell’inagibilità del palazzo di via Nazariantz, sede del Tribunale penale e della Procura, in fase di sgombero. Le tre tende (una da 200 e due da 75 metri quadrati) sono state allestite sabato 27 maggio dalla Protezione civile regionale, con tanto di totem illustrativi e bagni chimici all’esterno, scrivania per i giudici dentro e panche per avvocati e utenti. In tutte e tre le tende è stato affisso un cartello, stampato su un semplice foglio bianco, recante la frase “La legge è uguale per tutti”, a testimoniare l’impegno della magistratura e avvocatura barese anche nella situazione di emergenza. Proprio avvocatura e magistratura oggi sfileranno insieme per la prima volta, in un corteo che partirà alle 13.30 da via Nazariantz e arriverà fino al vecchio Tribunale di piazza De Nicola, dove i vertici degli uffici giudiziari incontreranno una delegazione del Csm, capeggiata dal vicepresidente Giovanni Legnini. Intanto il sindaco Antonio Decaro ha chiesto l’intervento della Protezione civile nazionale e la dichiarazione dello stato di emergenza, che consentirebbe di velocizzare l’iter di ricerca di un altro immobile per allocarvi tutti insieme gli uffici e le aule che per diciassette anni sono stati ospitati in via Nazariantz. Le ipotesi al vaglio sono quattro (ex Telecom Poggiofranco, centro direzionale San Paolo, ex Inpdap di via Oberdan e ex assessorato alla Salute a Japigia). Se fosse conclamata l’emergenza, uno di questi edifici potrebbe essere requisito per renderlo immediatamente utilizzabile. Mentre una parte degli uffici traslocano da via Nazariantz, infatti, un provvedimento del presidente del Tribunale Domenico De Facendis ha stabilito che si tengano solo i processi con detenuti (tra il palazzo di piazza De Nicola, l’aula Bunker di Bitonto e l’ex sede di Modugno), tutti gli altri invece saranno rinviati. Con il rischio che migliaia di processi finiscano in prescrizione. Milano: detenuto a rischio radicalizzazione evaso catturato dopo una fuga di 8 giorni La Repubblica, 28 maggio 2019 Stava per imbarcarsi per la Tunisia da Palermo con un passaporto falso. Ben Mohamed Ayari Borhane, il detenuto tunisino del carcere di Opera considerato pericoloso e a rischio radicalizzazione, evaso la notte tra il 17 e il 18 maggio dall’ospedale Fatebenefratelli di Milano, dove era stato portato per accertamenti, è stato catturato a Palermo dagli agenti del Nic, il Nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria. Stava per imbarcarsi per la Tunisia con un passaporto falso. Le operazioni di indagine seguite alla fuga, coordinate dal capo del pool antiterrorismo di Milano, Alberto Nobili, e affidate al pm Ilaria Perinu, hanno coinvolto le diramazioni territoriali del Nic, e in particolare il Nucleo regionale di Milano, della Toscana, dell’Emilia Romagna, della Campania e di Palermo, che hanno seguito le ipotesi di spostamento sul territorio dell’evaso; e inoltre hanno visto il supporto della Questura di Palermo. Ora gli accertamenti puntano a verificare se l’uomo abbia goduto di appoggi logistici e complici. La sua fuga è durata otto giorni. Presumibilmente si trovava a Palermo dal 20 maggio. Genova: “La barchetta rossa e la zebra”, incontro informativo con 100 detenuti genovatoday.it, 28 maggio 2019 La Fondazione Francesca Rava N.P.H. Italia Onlus è Promotore del progetto, la Cooperativa Sociale il Cerchio delle Relazioni ne è Capofila.Enti, Autorità, Istituzioni e Partner hanno presentato l’iniziativa ad una platea di detenuti e detenute riuniti al Teatro dell’Arca (C.C. Marassi), Genova. Presente anche l’Impresa Sociale Con I Bambini. Si è svolto il 22 maggio il primo incontro informativo dedicato al progetto La barchetta rossa e la zebra, che intende contrastare la povertà educativa e favorire la relazione tra figli e genitori detenuti nelle C.C. Marassi e Pontedecimo di Genova. Il progetto è finanziato dal Bando Prima Infanzia (0-6 anni) ed è approvato dall’Impresa Sociale Con i Bambini. La Fondazione Francesca Rava N.P.H Italia Onlus è il promotore, la Cooperativa Sociale Il Cerchio delle Relazioni, ne è capofila. La barchetta rossa e la zebra è una iniziativa sviluppata in sinergia con l’Amministrazione penitenziaria locale e dell’esecuzione penale esterna, il Comune di Genova e le Associazioni territoriali del Terzo Settore: la Cooperativa Sociale Il Biscione, Veneranda Compagnia di Misericordia, il Centro Medico psicologico pedagogico LiberaMente, ARCI Genova e CEIS Genova. Si avvale inoltre del supporto dell’Associazione BambiniSenzaSbarre Onlus, impegnata nella tutela dei diritti dei figli dei detenuti. L’evento si è tenuto presso il Teatro dell’Arca, all’interno della C.C. Marassi, dove Enti, Autorità, Istituzioni e Partner, hanno illustrato ad una platea composta anche di circa 100 detenuti provenienti delle C.C. Marassi e Pontedecimo, le finalità del progetto il cui obiettivo è duplice. Da una parte, la Comunità educante attiverà nuove strategie per contrastare la povertà educativa. Dall’altra, si intende facilitare la relazione e l’incontro dei figli di genitori detenuti. Per questo saranno riqualificati alcuni spazi all’interno delle C.C. Marassi e Pontedecimo, che diventeranno luoghi di ascolto e di accoglienza a misura di bambino. In questi spazi, i bambini saranno seguiti dagli educatori in diverse attività ludiche e formative, in attesa dell’incontro con la mamma o il papà. L’incontro informativo è stato moderato da Maria Chiara Roti, vice-presidente Fondazione Francesca Rava N.P.H. Italia Onlus, che ha dichiarato: “Creando spazi protetti, sarà possibile sostenere e tutelare i bambini, evitando loro lunghissime attese prima di poter accedere all’interno delle strutture penitenziarie e offrendo attività formative e ludiche che favoriscano l’incontro e la relazione con il genitore”. La Vice-Presidente della Fondazione Francesca Rava, ha dato poi la parola ad Elisabetta Corbucci, coordinatrice Cooperativa Sociale Il Cerchio delle Relazioni e capofila del progetto, che ha asserito: “Il nostro obiettivo è quello di creare una rete con tutti gli operatori che lavorano a stretto contatto con i detenuti e le loro famiglie. In questo modo sarà possibile non solo mettere a disposizione la nostra esperienza ma, nello stesso tempo, acquisire informazioni e strumenti indispensabili per intercettare e gestire eventuali conflitti nelle relazioni familiari”. Per il Comune di Genova presente Francesca Fassio, assessore alle Politiche Educative e dell’Istruzione, alle Politiche Socio-Sanitarie e alla Casa, che ha affermato: “Questo progetto rappresenta l’opportunità di integrare e rafforzare la rete tra servizi, associazioni e le complesse realtà penitenziarie. E’ un vero e proprio strumento educativo e di riconoscimento della dignità del rapporto tra figli e genitori detenuti, nonché del loro nucleo familiare”. Il progetto è stato sostenuto anche da Liana Burlando, direzione Politiche Sociali del Comune di Genova. Fondamentale la presenza di Maria Milano, direttore C.C. Marassi: “La riqualificazione di alcuni ambienti all’interno delle Case Circondariali, è necessario non solo per una adeguata accoglienza dei bambini in attesa dell’incontro con il genitore detenuto, ma anche per il personale penitenziario che potrà lavorare in maniera più consona e decorosa”, ha sottolineato Maria Milano, che ha concluso: “Il progetto è anche strutturale e educativo, grazie alla rete intessuta con le varie Associazioni territoriali. Quindi, una grande ricchezza per il nostro territorio”. Parole sostenute da Isabella De Gennaro, direttore C.C. Pontedecimo, che ha aggiunto: “Per quanto possibile, auspichiamo che il carcere diventi un ambiente capace di accogliere adeguatamente il bambino, per consentire una certa serenità nel momento dell’incontro con il proprio genitore. Sappiamo perfettamente quanto per le detenute, ma anche per i detenuti, sia fondamentale non recidere il legame genitoriale. Del resto il nostro ordinamento penitenziario considera le relazioni con i familiari, con i congiunti e con i conviventi un elemento imprescindibile del trattamento, per offrire una autentica opportunità di riflessione sul proprio passato e dare una speranza per il futuro”. Per l’Amministrazione penitenziaria, è intervenuta anche Bianca Berio, direttore Ufficio Distrettuale Esecuzione Penale Esterna (Udepe), di Genova. Di grande rilevanza anche la presenza di Stefano Tabò, Consigliere Amministrazione Impresa Sociale Con i Bambini e Presidente di CSVnet, che ha sottolineato: “L’aspetto interessante di questo progetto è il concetto di rete e corresponsabilità, al fine di garantire ai figli di genitori detenuti una comunità più coesa sia nel presente che nel futuro”. Gli fa eco Giovanni Di Mento, ufficio attività istituzionali Impresa Sociale Con i Bambini: “Abbiamo selezionato questo progetto perché rappresenta due obiettivi chiave: il potenziamento dei servizi educativi, il rafforzamento e il coinvolgimento della genitorialità, che sarà sostenuta in un’ottica di presa in carico globale dei minori e delle loro famiglie”. La barchetta rossa e la zebra è sostenuta anche dalla consolidata e preziosa partnership con Andrea Giustini, presidente del Gruppo EcoEridania e Corporate-Partner del progetto, che da sempre affianca le numerose iniziative dalla Fondazione Francesca Rava. “Abbiamo condiviso subito questo progetto, perché profondamente convinto di donare alle carceri della nostra città spazi che permettano alle madri detenute di salvaguardare il proprio ruolo genitoriale. La pena, seppur imprescindibile, deve essere considerata secondaria rispetto ai diritti del minore”, ha specificato Andrea Giustini: “Siamo orgogliosi di destinare, insieme alla Fondazione Francesca Rava, la beneficenza della nostra raccolta natalizia a questa azione concreta di sostegno all’infanzia. Il sodalizio con la Fondazione è per noi un punto imprescindibile della nostra vita aziendale”. Contenuti degni di nota sono stati esposti anche da Lia Sacerdote, presidente dell’Associazione BambiniSenzaSbarre Onlus, leader nella promozione dei diritti dei figli dei detenuti. “La barchetta rossa e la zebra è un esempio tangibile di come determinati processi possano cambiare, pur trattandosi di una realtà complessa e articolata come quella del carcere”, ha spiegato Lia Sacerdote. Secondo la Presidente, infatti, il progetto rispecchia perfettamente “i principi contenuti nella Carta Italiana dei Diritti dei figli dei detenuti, che comprende 9 articoli in cui vengono declinati i bisogni imprescindibili per il mantenimento di questa complessa relazione”. L’evento è stato arricchito da un monologo incentrato sulla relazione tra figli e genitori detenuti, scritto e interpretato da Igor Chierici, attore teatrale e drammaturgo. L’incontro è terminato con la consegna di un premio di partecipazione per i detenuti iscritti al corso scolastico di Grafica Pubblicitaria condotto dall’Istituto Vittorio Emanuele Ruffini presso la C.C. Marassi, che hanno preso parte al Concorso di Idee per la produzione di spunti creativi finalizzati alla creazione del logo del progetto. Foggia: “Colpevoli”, in scena con gli studenti del “Perugini”, commuove Ristretti Orizzonti, 28 maggio 2019 In platea anche Sergio, detenuto in permesso. Tra i protagonisti del libro di Annalisa Graziano, ha ringraziato i presenti a nome di tutti i reclusi della Casa Circondariale di Foggia: “Mi auguro che questo percorso contribuisca a promuovere una vera cultura della legalità”. Sul palco anche la lettera di Donato, non ancora permessante: “Se, grazie a voi, sono ancora capace di farmi sorprendere, di permettere a una schiera di angeli di trasformare il mio lato oscuro in qualcosa di magico… beh, allora il male ha perso definitivamente, soggiogato dalla vostra intrepida perseveranza”. Il messaggio di Sergio, detenuto in permesso - “Conoscere più da vicino la realtà del carcere, l’esperienza della detenzione può essere importante per i giovani. Per questo, io e gli altri ragazzi abbiamo subito accettato di incontrare Annalisa Graziano e di raccontarle le nostre storie pubblicate nel libro ‘Colpevoli’. Sono felice di essere qui oggi con la mia famiglia e di questo ringrazio la Direzione, l’Area Trattamentale e la Polizia Penitenziaria della Casa Circondariale di Foggia; il Magistrato di Sorveglianza. Ringrazio il CSV e il liceo ‘Perugini’ e mi auguro che questo percorso contribuisca a promuovere una vera cultura della legalità”. Nelle parole di Sergio, detenuto nella Casa Circondariale di Foggia, per l’occasione in permesso, il senso e il successo dello spettacolo messo in scena dagli studenti del “Perugini” sabato scorso, durante la “Festa del Volontariato” del CSV Foggia. La performance artistica, con la regia di Michele D’Errico, è stata tratta dal libro “Colpevoli” di Annalisa Graziano ed era già stata rappresentata il 27 febbraio scorso nella Casa Circondariale di Foggia, a conclusione del progetto “Il carcere tra immaginario e realtà, per superare gli stereotipi legati a ‘chi sta dentro’ e ‘chi sta fuori’”. Il senso del progetto - Avvicinare gli studenti alla realtà penitenziaria perché il carcere diventi parte integrante della vita sociale, contribuendo a costruire il senso di legalità e l’etica della responsabilità. Questo l’obiettivo del progetto ideato dai docenti Angela Favia, Maria Grifoni e Michele Sisbarra e realizzato in collaborazione con il Dipartimento dell’Area Artistica del Liceo. Nel corso della mattinata, gli studenti hanno recitato brani tratti dal libro e proiettato video artistici sul tema, mentre un compagno di quinta A realizzava un’opera d’arte in estemporanea, poi donata a Sergio e simbolicamente a tutti i detenuti del Carcere di Foggia. La lettera di Donato dal carcere - In platea, tra gli studenti del liceo e dell’Istituto “Einaudi”, partecipanti al progetto PON “Tutte le strade portano… al successo scolastico”, anche i familiari di un altro detenuto, Donato, che ancora non può beneficiare del permesso, ma che ha spedito una lettera agli “angeli del Perugini”. I ragazzi, a fine spettacolo, hanno voluto condividere con i presenti il suo messaggio, che ha commosso tutti. “Ho 34 anni, di cui 9 trascorsi tra le sbarre, ma mi sento proprio come voi: giovane, energico, con una voglia di vivere che vola oltre le cose e che va a posarsi sulla bellezza e sulla meraviglia e lo stupore che essa suscita. Se, grazie a voi, sono ancora capace di farmi sorprendere, di permettere a una schiera di angeli di trasformare il mio lato oscuro in qualcosa di magico… beh allora il male ha perso definitivamente, soggiogato dalla vostra intrepida perseveranza”. il commento della autrice di “Colpevoli”- “Un pezzetto di cuore è rimasto sul quel palco - il commento della giornalista, autrice del libro - Grazie al liceo Perugini, a Michele d’Errico; a Sergio e alla sua famiglia, ai familiari di Donato. Grazie al Csv di Foggia e alla Fondazione dei Monti Uniti: hanno creduto in me e oggi sono una parte importante della mia vita professionale e non solo. Grazie alla Casa Circondariale di Foggia, ai detenuti e a “Colpevoli”, il mio piccolo libro giallo. È stato bello sorridere, commuoversi; poi sorridere ancora. Con questa giornata il ponte tra ‘dentro’ e ‘fuori’ ha qualche mattoncino in più, ma non smetteremo di lavorare: la strada è ancora lunga”. Il libro - “Colpevoli’, edito da la Meridiana con prefazione di don Luigi Ciotti e postfazione di Daniela Marcone, è un viaggio nelle sezioni dell’Istituto Penitenziario foggiano, tra le celle, le aule scolastiche, i passeggi, nella cucina e in tutti i luoghi accessibili. È, soprattutto, la rivelazione delle storie che ci sono dietro i nomi e le foto segnaletiche cui ci hanno abituati la cronaca nera e giudiziaria. Non solo rapinatori, omicidi, ladri e spacciatori, ma anche uomini, padri, figli e mariti con storie che nessuno aveva ancora raccolto. “Colpevoli” alcuni detenuti si sentono fino in fondo, altri in parte. Ma tutti si sono messi in discussione, raccontandosi e hanno scritto alcune pagine del libro insieme all’autrice, giornalista, dipendente del CSV Foggia e assistente volontario del carcere. Il progetto del Liceo ‘Perugini’ è stato patrocinato dalla Fondazione dei Monti Uniti di Foggia, Comune di Foggia, Biblioteca provinciale e CSV Foggia ed è stato inserito, con il sostegno del Coordinamento provinciale di Libera, nel percorso di legalità adottato dalla scuola in occasione dello scorso 21 marzo, Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. Bologna: il coro di 40 detenuti ha incantato il pubblico imgpress.it, 28 maggio 2019 Si è tenuto alla Casa Circondariale Rocco d’Amato eccezionalmente aperta al pubblico, l’annuale concerto del Coro Papageno, uno dei progetti di musicoterapia di Mozart14, l’associazione di Alessandra Abbado che porta avanti le iniziative sociali del Maestro. Dopo le esibizioni in Senato e in Vaticano del 2016 e il docufilm di Enza Negroni “Shalom!”. La musica viene da dentro. Viaggio nel Coro Papageno, il Coro Papageno, diretto dal Maestro Michele Napolitano, si è presentato al pubblico ancora più numeroso e con un repertorio internazionale e trasversale che comprende due nuovi brani: Siyahamba (canto tradizionale africano) e Venendo giù dai monti (canto tradizionale bolognese). Un viaggio tra sacro e profano, colto e popolare che dalla monodia medievale al Rinascimento arriva, passando per Mozart e l’Ottocento, alle sonorità dei canti tradizionali e al repertorio afroamericano. “Assistere al concerto è sempre un’occasione unica per ascoltare dal vivo le voci del Coro Papageno,” ricorda Alessandra Abbado, presidente di Mozart14 “un momento emozionante poiché si possono toccare con mano l’impegno, la passione e la determinazione dei coristi, detenuti e volontari, che portano avanti questo progetto voluto da Claudio Abbado nel 2011. Per loro è un momento importante” continua la Abbado “durante il quale dimostrare il percorso umano ed artistico compiuto lungo il corso dell’anno, un momento in cui dimenticare e far dimenticare la propria condizione di detenuti per essere “solo” uomini e donne che fanno musica insieme.”. A rendere ancora più toccante l’esperienza è stata la presenza di un vasto pubblico, quest’anno sono state superate le cento unità nella Chiesa Nuova della Casa Circondariale, tra cui anche familiari e amici dei detenuti coristi. Ad assistere al concerto erano presenti, oltre alla Direttrice del carcere dott.ssa Claudia Clementi, il Sindaco di Bologna Virginio Merola, l’Assessore alla Cultura e promozione della città Matteo Lepore, l’Assessore al Contrasto alle discriminazioni Susanna Zaccaria, il Responsabile Servizi Cultura e Giovani dell’Assessorato alla Cultura della Regione Emilia-Romagna Gianni Cottafavi e il Garante dei diritti del detenuto del Comune di Bologna Antonio Ianniello. “Portare avanti le attività del Coro Papageno è un impegno di cui l’Associazione Mozart14 si è fatta carico con gioia e convinzione, grazie anche alla costante collaborazione delle Istituzioni coinvolte, della Direttrice Claudia Clementi e di tutti gli agenti della polizia penitenziaria.” continua Alessandra Abbado “È un impegno che però comporta sforzi e fatiche nella continua ricerca del sostegno economico necessario” Viterbo: “Racconti in gabbia”, le lettere dei detenuti incontrano l’arte di Stefano Cianti di Marina Cianfarini tusciatimes.eu, 28 maggio 2019 Nell’ambito della “Fiera del Libro e delle Case Editrici-Cubo Festival”, in programma dal 31 maggio al 3 giugno 2018, a Ronciglione, numerosi saranno gli appuntamenti culturali proposti. Tra questi, emergerà in modo influente il progetto “Racconti in gabbia. Lettere dal carcere” che, in maniera delicata quanto profonda, racconterà il fragile contesto delle detenzione, attraverso le lettere dei reclusi del Lazio. Ai preziosi documenti s’accosterà la sublime arte di Stefano Cianti con tre eleganti e ricercate installazioni, segnalate lungo il percorso della manifestazione, in via Borgo di Sopra 60 e Vicolo 6. Un rispetto tangibile per un tema sociale a lui distante al quale darà una voce acuta e sensibile. Cercherà, quindi, di donare la sua idea di prigionia, fatta di “celle quotidiane” costruite con l’indifferenza e la solitudine, a cui basta un errore, uno soltanto per dimenticare il concetto di umanità. “Sono stato subito catturato dal progetto “Lettere in gabbia” e, non avendo vissuto direttamente questa drammatica esperienza - spiega l’artista Cianti al nostro quotidiano Tuscia Times - ho cercato di leggere tra le righe. Un’idea di reclusione più sottile, così sottile da andare oltre le sbarre e rendere prigioniero non il mondo, ma il cuore dell’uomo. Una prigionia multiforme che, se restiamo indifferenti, pervade tutti gli stati della società che ogni giorno appaiono sotto processo: malattia, bullismo, disoccupazione, povertà, femminicidio”. Il maestro si domanda: “Quando si materializzeranno le ali disegnate dietro la nostra schiena per volare oltre questi incubi, andare via, verso chi ci aspetta?”. Sbarre erette dall’incuranza, che costringono ad una vita apatica, rendendo l’uomo impassibile alle necessità dei suoi simili. Un saluto mancato, il silenzio assordante di un aiuto non prestato, la polvere dell’egoismo, rappresentano le gabbie dietro le quali l’essere umano spesso si isola volontariamente. La sola libertà possibile è l’amore. Numerose le lettere inviate. Tre quelle scelte dall’artista, i cui titoli corrispondono ai nomi delle installazioni proposte: “Avere Ali”, “Il tunnel” e “Le mie giornate”. Uno sguardo viscerale che scala gli alti muri di cinta fuori dai quali il mondo esterno si immagina al sicuro, separato da quello destabilizzante dei reati e delle pene. Una lente di ingrandimento su un concetto di reclusione che sfugge al controllo abituale e che, Stefano Cianti vuole raccontare attraverso l’armonia, l’intensità, la continuità della sua inestimabile arte. Sabato 2 giugno alle 11:30, all’interno della mostra, un attore leggerà le lettere dei detenuti che hanno partecipato al concorso promosso da “Cubo Festival”. Nigeria. “Ci hanno tradite”, donne ridotte alla fame e stuprate nei campi militari di Riccardo Noury Corriere della Sera, 28 maggio 2019 Migliaia di donne e ragazze sopravvissute alla brutalità del gruppo armato Boko haram sono state successivamente stuprate dai soldati nigeriani. Invece di essere protette, donne e ragazze sono state costrette a sottostare agli stupri per evitare la fame. Altro che liberate, come invece afferma ripetutamente la propaganda ufficiale. In un nuovo rapporto, reso pubblico alcuni giorni fa, Amnesty International ripercorre quanto accaduto nel nord-est della Nigeria a partire dal 2015, quando l’esercito ha iniziato a strappare territori a Boko haram. Alle persone che vivevano nei villaggi è stato ordinato di trasferirsi nei cosiddetti “campi satellite”. Chi ha resistito all’ordine è stato ucciso. Centinaia di migliaia di persone sono fuggite o sono state costrette a muoversi dai loro villaggi. Ogni persona trasferita nei “campi satellite” è stata interrogata. In alcuni campi la maggior parte degli uomini da 14 a 40 anni è stata imprigionata, così come le donne che avevano viaggiato senza i loro mariti. Queste detenzioni di massa hanno costretto molte donne a badare da sole alle loro famiglie. Decine di donne hanno raccontato ad Amnesty International di essere state stuprate nei “campi satellite” dai soldati e di essere state ridotte alla fame per diventare le loro” fidanzate”, ossia essere disponibili a rapporti sessuali a ogni evenienza. Cinque donne hanno riferito ad Amnesty International di essere state stuprate tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016 nel “campo satellite” di Bama”, dove la fame era all’ordine del giorno. “Ti davano da mangiare di giorno, poi a sera venivano a prenderti. Un giorno un miliziano mi ha portato il cibo e il giorno dopo mi ha invitato ad andare a fare rifornimento d’acqua da lui. Quando sono arrivata ha chiuso la porta e mi ha stuprata. Poi mi ha detto che se avessi voluto avere quelle cose avremmo dovuto essere marito e moglie”, ha raccontato Ama (nome di fantasia), 20 anni. Nel “campo satellite” di Bama, oltre ad Ama altre 10 donne sono state costrette a diventare “fidanzate” per scampare alla fame. Molte di loro avevano già perso figli e altri familiari a causa della mancanza d’acqua, cibo e cure mediche. Nei “campi satellite” c’è stata un’acuta crisi alimentare dall’inizio del 2015 fino alla metà del 2016. Come minimo in quel periodo centinaia, probabilmente migliaia di persone sono morte solo nel “campo satellite” di Bama. Le testimonianze parlano di 15-30 morti al giorno e le immagini satellitari, che mostrano la rapida espansione del cimitero all’interno del campo, danno loro ragione. Morti per fame sono state registrate anche nei “campi satellite” di Banki e Dikwa. Nonostante dal giugno 2016 le Nazioni Unite e altre agenzie abbiano aumentato l’entità dell’assistenza umanitaria, molte donne hanno continuato a trovare difficoltà nell’accesso a quantità adeguate di cibo, anche a causa delle restrizioni alla libertà di movimento fuori dai campi e della corruzione al loro interno. Ulteriori ricerche di Amnesty International hanno poi rivelato che centinaia di donne sono trattenute coi loro figli nella famigerata base militare di Giwa dalla metà del 2015. Molte di loro erano state vittime di rapimenti e matrimoni forzati da parte di Boko haram. Anziché essere soccorse, sono state arrestate dall’esercito in quanto “vedove di Boko haram”. Amnesty International ha ricevuto cinque segnalazioni di violenza sessuale nella base di Giwa. In più, sette donne hanno dovuto partorire nelle loro celle putride e sovraffollate, senza alcuna assistenza medica. Dal 2016 sono morti 32 neonati e bambini e cinque donne. Dal 2015 numerose organizzazioni non governative e intergovernative denunciano la violenza sessuale e le morti all’interno dei campi per sfollati della Nigeria nordorientale. Nonostante promettano periodicamente di indagare, le autorità non hanno intrapreso alcuna azione concreta e non hanno portato nessuno di fronte alla giustizia. Non è neppure chiaro se siano state avviate indagini. Nell’agosto 2017 il presidente nigeriano ad interim Yemi Osinbajo ha istituito una commissione presidenziale d’indagine per esaminare il rispetto dei diritti umani da parte delle forze armate. Molte donne hanno testimoniato dinanzi alla commissione, che nel febbraio 2018 ha trasmesso il suo rapporto finale al nuovo presidente Muhammadu Buhari. Ora è il momento che il presidente Buhari dimostri l’impegno, frequentemente dichiarato, a rispettare i diritti umani delle popolazioni sfollate del nordest del paese. L’unico modo per porre fine a queste terribili violazioni dei diritti è porre fine al clima d’impunità che prospera nella regione e assicurare che nessun autore di stupro o assassinio riesca a farla franca. Amnesty International ha trasmesso le sue conclusioni alle autorità nigeriane ma finora non ha ricevuto alcuna risposta. Francia. Macron concede la sua prima grazia a una 73enne condannata all’ergastolo di Emanuela Carucci Il Giornale, 28 maggio 2019 La donna, 73enne, originaria dell’isola di Guadalupa, aveva ucciso un uomo nel 1988. “La morale è una questione di tempo” scriveva Garcia Marquez nel suo romanzo “Memoria delle mie puttane tristi”. E a volte anche il perdono. Con il tempo Marie Claire F., a 73 anni è la prima graziata del presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron. Si tratta di una ex prostituta originaria di Guadalupa che aveva ucciso uno dei suoi clienti. A riportarlo è il Journal du Dimanche. Nel 1988 la donna era stata condannata all’ergastolo e considerata “Psichiatricamente molto fragile”. Si trovava in regime ospedaliero nel carcere di Rennes, una cittadina nel nord della Francia, in Bretagna. La grazia, spiega il giornale on line, non implica la liberazione di Marie Claire, ma la commutazione dell’ergastolo in una pena di vent’anni di reclusione. La scelta è stata fatta per questioni umanitarie. Le condizioni di detenzione, troppo severe, hanno spinto il controllore generale dei luoghi di privazione della libertà, Adeline Hazan e diversi deputati, a chiedere il perdono al presidente. “La donna non aveva diritto a nulla, anche a cose molto semplici, come partecipare ai seminari di preparazione dei pasti”, riferisce una fonte intervistata dal Jdd. Ma quanto hanno contribuito a rendere “psichiatricamente molto fragile” Marie Claire F. la vita di strada e quei clienti troppe volte violenti?