“Una reclusione dura e senza speranza difficilmente rieduca” agensir.it, 27 maggio 2018 Prima l’appello firmato dai componenti degli Stati generali dell’esecuzione penale, poi due giorni di astensione dalle udienze e la manifestazione organizzata, il 3 maggio, dai penalisti contro lo stop subìto dalla riforma dell’ordinamento penitenziario, a causa della mancata calendarizzazione nell’ordine del giorno della Commissione speciale. Ad Antonio Mattone, portavoce della Comunità di Sant’Egidio di Napoli, che ha recentemente scritto “E adesso la palla passa a me”, un libro sulla sua esperienza di volontario al carcere di Poggioreale, e che ha partecipato come esperto agli Stati generali dell’esecuzione penale, chiediamo perché c’è tanta urgenza di adottare la riforma. Com’è nata la riforma? L’esigenza di riformare l’ordinamento penitenziario nasce dopo la condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo dell’8 gennaio 2013 che ha condannato l’Italia per trattamenti inumani e degradanti in relazione al fenomeno del sovraffollamento delle carceri, imponendoci di adottare un insieme di misure strutturali atte a rimediare alla violazione riscontrata entro un anno dalla sentenza. Inoltre, la riforma precedente, datata 1975, era ormai obsoleta rispetto all’evoluzione della nostra società. Basti pensare che in quegli anni i detenuti stranieri erano l’1% della popolazione carceraria contro il 33% di oggi. Così il ministro Andrea Orlando ha dato vita agli Stati generali, 18 tavoli di discussione a cui hanno partecipato magistrati, giuristi, direttori di carceri, professori universitari, volontari, esponenti della società civile per riformare il sistema penitenziario. Da qui è nata la legge delega che purtroppo ancora non è stata approvata dal Parlamento. Qual è la situazione ad oggi delle carceri italiane? Dopo un periodo in cui i detenuti erano diminuiti, purtroppo il numero sta ricominciando a salire. Oggi riscontriamo la presenza di 58.285 detenuti a fronte di poco più di 50mila posti disponibili. Ma, oltre al sovraffollamento, credo che il problema più grosso sia quello della salute all’interno delle carceri dove per effettuare visite, esami specialistici e interventi chirurgici ci sono liste di attesa lunghissime, per non parlare del turn-over di medici e infermieri che cambiano in continuazione, mentre il rapporto stabile e fiduciario rappresenta per ogni malato un elemento di serenità. In particolare, la presenza di malati psichiatrici rappresenta una grave emergenza. La chiusura degli Opg (ospedali psichiatrici giudiziari, ndr) non ha risolto i problemi: le Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, ndr) che li hanno sostituiti non hanno posti sufficienti, per cui ci sono internati che sono in carcere pur non dovendoci stare e altri che sono liberi, in attesa che si liberino posti in queste strutture. Il problema vero sarebbe eliminare le misure di sicurezza, ma la politica non ha il coraggio di cancellare questa norma che proviene dal Codice Rocco del 1930. Si fa qualcosa per evitare i molti suicidi nelle nostre carceri? Si sono ancora tanti, troppi. Nel 2017 52 persone si sono tolte la vita in carcere, quest’anno siamo già a 13. Si tratta di un tasso di circa dieci suicidi su diecimila detenuti, contro un tasso nazionale di 0,51 su diecimila abitanti. La vita in carcere è dura, la riforma avrebbe l’effetto di migliorare la condizioni detentive e quindi avrebbe un effetto positivo anche sulla riduzione di suicidi. C’è chi accusa la riforma di essere uno svuota carceri… È assolutamente falso. La riforma penitenziaria elimina piuttosto degli automatismi dei benefici come la possibilità automatica di espiare alcune pene in detenzione domiciliare e prevede la concessione di misure alternative e permessi premio a seconda della condotta del detenuto, che viene monitorato e valutato dalla magistratura di sorveglianza e dagli operatori penitenziari. Modulare il trattamento sanzionatorio sull’impegno del condannato non significa rendere incerta la pena, né tantomeno cancellarla, ma registrarla in base alla condotta dell’individuo. Quali sono gli effetti positivi che dovrebbe comportare la riforma? Molti pensano che le nostre città sono più sicure se chi commette reati finisce in carcere e si “butta la chiave”, come si usa dire. Ma non è così. Poiché quasi tutti i carcerati tornano prima o poi in libertà, tranne quelli che scontano l’ergastolo ostativo, è evidente che le nostre esistenze saranno più sicure se queste persone rientrano nella società cambiate nel profondo. Chi un poco conosce il carcere, sa bene che una reclusione dura e senza speranza difficilmente restituirà individui rieducati. Una detenzione che si basa sull’abbrutimento, sull’infantilizzazione del linguaggio e dei comportamenti e sulla mortificazione della dignità del condannato può al massimo plasmare un buon detenuto, difficilmente un buon cittadino. Se invece un detenuto aderisce a un progetto individuale di cambiamento, se viene accompagnato nel suo percorso rieducativo, come prevede la riforma, ha meno probabilità di tornare in carcere. Un carcere più umano e responsabilizzante è l’unica strada per produrre cambiamenti effettivi in chi commette reati. Le pene alternative sono efficaci per ridurre il tasso di recidiva? Certamente. Ci sono le statistiche che lo dicono: il 70% dei detenuti che scontano tutta pena in carcere ci ritornano, mentre quelli che accedono a pene alternative rientrano nel 30% dei casi. E poi non dimentichiamo che l’articolo 27 della Costituzione parla di pene al plurale, cioè il carcere non è l’unico modo di scontare una condanna, sono previsti altri modi. Quindi, le pene alternative non sono una concessione buonista, ma piuttosto un principio previsto dai padri costituenti per riportare al centro del sistema la finalità rieducativa dell’ordinamento penitenziario. Papa Francesco, al termine della celebrazione della Messa in Coena Domini nel carcere di Regina Coeli, nell’ultimo Giovedì Santo, ha affermato che “una pena che non sia aperta alla speranza non è cristiana, non è umana!”… Papa Francesco ha avuto sempre una particolare attenzione per i carcerati. Ricordo la grande commozione che suscitò quando venne a Poggioreale. E ricordo alcune sue parole molto toccanti, quando disse che il primo santo canonizzato è stato un carcerato, riferendosi al buon ladrone. Un carcere “cattivo” non solo non dà speranza a chi è recluso, ma chiude le porte della speranza e della misericordia alla società intera, che invece, proprio in questo momento, ne ha tanto bisogno. Prodotti (e buone pratiche): arriva il Festival dell’economia carceraria di Teresa Valiani Redattore Sociale, 27 maggio 2018 A Roma per il 2 e 3 giugno il primo Festival con conferenze, concerti, proiezioni e una mostra mercato dei prodotti che arrivano da tutta Italia. Paolo Strano: “Far nascere una piattaforma che metta in rete e valorizzi le iniziative italiane che creano percorsi di inclusione”. Due giornate di promozione dell’economia carceraria e del contrasto alla recidiva, per entrare nelle carceri italiane dalla porta più virtuosa: quella che produce, ogni giorno, da anni, buone prassi, ottimi prodotti e contribuisce ad abbattere, numeri alla mano, le percentuali dei detenuti che una volta in libertà tornano a delinquere. È il primo Festival dell’Economia Carceraria, in programma per il 2 e 3 giugno nella Città dell’Altra Economia a Roma, pensato per promuovere la conoscenza e l’aggregazione delle attività produttive intra ed extra murarie. Organizzato da “Semi di Libertà Onlus” si snoderà tra una serie di conferenze, workshop e tavole rotonde sul tema della recidiva e dell’inclusione sociale. In programma anche un concerto, una mostra mercato di realtà produttive che operano fuori e dentro gli istituti, un’esposizione di opere realizzate nelle carceri, una proiezione di audio-video e altre attività promosse dalle realtà carcerarie proveniente da tutta Italia. “Lo scopo di questa due giorni - spiega Paolo Strano, organizzatore dell’evento e presidente della Onlus - è far nascere una piattaforma aggregativa di Economia Carceraria che metta in rete e valorizzi tutte le iniziative italiane che contribuiscono a creare, attraverso il lavoro in carcere, percorsi di inclusione per le persone in esecuzione penale, contrastandone la recidiva. I prodotti dell’Economia Carceraria meritano una piattaforma da cui essere promossi e apprezzati, in quanto buoni e di qualità perché frutto di impegno ed orgoglio, fatti da persone che con essi correggono traiettorie di vita, e in grado di creare circoli virtuosi che diminuiscono recidiva e reati. Acquistarli è un gesto di responsabilità sociale, semplice ma di grande impatto e soddisfazione”. Tra i progetti presenti con i propri prodotti: Caffè Galeotto, da Rebibbia Nuovo complesso, Vale la Pena, birrificio artigianale con detenuti ammessi al lavoro esterno, Il Pane della terza bottega, sempre da Rebibbia, Sartoria Sociale dal Pagliarelli di Palermo, Coop Lazzarelle, la cooperativa di sole donne che dal femminile di Pozzuoli producono caffè artigianale e La Sfera Galeorto, progetto di agricoltura sociale del carcere di Gardolo (Trento). Mentre dagli istituti minorili: Cotti in Fragranza, laboratorio per la preparazione di prodotti da forno dal Malaspina di Palermo, Ciortino di Nisida, biscotto in pasta frolla a forma di cornetto, rigorosamente rosso, con copertura di cioccolato fondente, realizzato dai ragazzi provenienti dall’area penale esterna che frequentano il laboratorio professionalizzante di pasticceria curato dall’ Associazione Scugnizzi nell’istituto minorile di Nisida. E il Fagottino di Casal del Marmo, fagottino con crema al cioccolato e al latte ideato da minori e giovani adulti dell’istituto romano Casal del Marmo. “Attraverso il festival il pubblico potrà convincersi del potenziale produttivo dell’Economia Carceraria - sottolinea il presidente -, un business virtuoso, pulito, solidale, dall’alto valore sociale e rigenerativo, in quanto ogni cosa che viene generata nel carcere è sinonimo di qualità ed ha nella sua anima un valore aggiunto, quello del riscatto sociale e della scommessa su se stessi: è quindi un prodotto di valore, e valori”. “L’evento - si legge nella presentazione - vuole essere la dimostrazione della forza riabilitativa del lavoro e dei percorsi di formazione e istruzione come strumenti di valore legati alla dignità della persona. È per questo che nasce l’idea di aggregare modelli portatori di virtù, professionalità e voglia di fare nel sistema penitenziario del nostro Paese”. Per contrastare una recidiva che “costituisce un costo insostenibile per lo Stato, sia in termini economici che di sicurezza”. Mediatori culturali in carcere. La sfida di Najwa: far riscrivere il bando riservato agli italiani di Gerardo Adinolfi La Repubblica, 27 maggio 2018 Per i ministeri della Giustizia e dell’Interno il mediatore culturale deve “essere preferibilmente di origine straniera”. Ma il bando dello stesso dicastero della Giustizia, per 15 posti da funzionario mediatore culturale nelle carceri, prevede la cittadinanza italiana. Condizione che ha escluso gli stranieri comunitari ed extracomunitari dalla partecipazione. Un parametro quasi “comico”, oltre che “discriminatorio” per il Centro di documentazione “L’Altro diritto”. L’associazione ha presentato ricorso al Tribunale di Firenze per chiedere l’ammissione al bando di Najwa Hemri, 37 anni, mediatrice culturale marocchina e in possesso del permesso di soggiorno di lungo periodo Ue. Najwa vive in Italia da 15 anni, si è laureata all’Università di Firenze e ha frequentato un master in Criminologia sociale all’Università di Pisa. Lavora da tempo come mediatrice culturale per il carcere fiorentino di Sollicciano. Ha tutti i requisiti, non la cittadinanza italiana. Perciò non ha potuto neanche compilare il form online. Ma ha deciso di non arrendersi: “Ho tutto in regola nel curriculum - ha detto - è assurdo”. La domanda allora l’ha inviata cartacea invece che digitale, e l’associazione del professor Emilio Santoro ha spedito al ministero una diffida. Nessuna risposta. Così le legali Alida Surace e Silvia Ventura hanno presentato il ricorso per chiedere “di cancellare la discriminazione e riaprire il bando”. “Il requisito di ammissione della nazionalità italiana è illegittimo - spiegano - in quanto costituisce una discriminazione diretta e/o indiretta per nazionalità, sia individuale che collettiva, vietata dal diritto dell’Unione Europea e dal diritto interno”. Per l’associazione la cittadinanza è anche un paradosso perché in un dossier del ministero dell’Interno e della Giustizia è scritto che tra le condizioni di accesso ritenute indispensabili per i mediatori c’è “l’essere preferibilmente di origine straniera, nonché l’essere stati residenti in Italia per un periodo di tempo sufficiente all’acquisizione di una conoscenza generale dello stile di vita della cittadinanza italiana”. Per le legali, il Ministero della Giustizia avrebbe scritto il bando seguendo una norma del 1994 ormai obsoleta che prevede che tutti i dipendenti del dicastero siano italiani. Successivamente il Trattato di funzionamento dell’Unione Europea ha riservato in esclusiva ai cittadini degli stati membri solo gli impieghi nella Pubblica amministrazione vietando, per gli altri tipi di lavoro, ogni discriminazione di nazionalità. La Corte di Giustizia europea, sentenza dopo sentenza, ha ridotto ancora di più i divieti. Chi non ha la cittadinanza può essere escluso solo da impieghi che prevedono funzioni di “esercizio diretto di pubblici poteri” e di “tutela dell’interesse nazionale”. In Italia il Testo unico sul pubblico impiego è stato modificato nel 2013 per obbedire a questi obblighi europei. E il ruolo di mediatore culturale, diverso dall’interprete o dal traduttore, per le avvocate è “un’attività coordinata e diretta da funzionalità superiori, relative a campi che nulla hanno a che vedere con l’esercizio di funzioni coercitive e di imperio”. Nessun ruolo di pubblico potere, dunque. Pertanto la cittadinanza è una discriminazione. Toccherà al giudice decidere. Già nel 2017 L’altro diritto aveva presentato ricorso contro il bando del ministero per 800 posti di assistente giudiziario chiedendo l’ammissione di una giurista albanese. La causa è in corso. Un agente su tre si candida alle elezioni, carceri in tilt. Hanno un mese di aspettativa pagata di Matteo Indice La Stampa, 27 maggio 2018 Il sindacato: mille in corsa a questa tornata. L’ultimo a gettare la spugna è stato il direttore del carcere di Ariano Irpino (Avellino), Gianfranco Marcello: “Organizzare la sorveglianza è impossibile, ci siamo ritrovati con altri 10 agenti in meno poiché in corsa alle elezioni”. Ma a rimettere insieme casi all’apparenza isolati e spesso rubricati più a fatti di costume che di sicurezza, si scopre un record assoluto: alle amministrative del 10 giugno in Italia saranno candidati quasi 1.000 agenti di polizia penitenziaria su 35.000 appartenenti al corpo. Il demone della politica è pompato da una legge del 1981 che consente un mese d’aspettativa retribuita per chi decide di schierarsi, da sommare all’insofferenza per condizioni di lavoro in declino. Accade così che a Faeto (Foggia) su 9 liste 5 siano composte da agenti (80 politici-poliziotti su 550 aventi diritto), in un bis di Carapelle Calvisio (L’Aquila) dove sei mesi fa metà dei simboli erano stati creati da membri delle forze dell’ordine. Senza dimenticare il movimento “Passi nel futuro” a Borgofranco sul Po (Mantova) di cui fanno parte solo guardie originarie di Sicilia e Basilicata, o i disagi per chi lavora all’istituto di Verona- Montorio che s’è ritrovato d’acchito privo di 40 uomini su 300. I mini-comuni I dati generali sono stati raccolti dal Sappe, il sindacato autonomo che ha iscritta la stragrande maggioranza di chi presta servizio nelle prigioni da Nord a Sud e ha sviluppato in termini percentuali la portata del fenomeno. “La stima più attendibile - spiega Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto - indica un agente su tre potenzialmente candidato alle amministrative nelle loro varie tornate, il 30-35% stando al trend dell’ultimo biennio”. Per orientarsi occorre fissare alcuni paletti. Fra due settimane saranno eletti i sindaci di 783 dei 7.954 comuni italiani, poco meno d’un decimo. Se si moltiplicassero i 1.000 candidati suddivisi fra gli attuali municipi al voto, per la totalità di quelli presenti nel nostro paese, si sfonderebbe quota 10.000 su 35.000. È tuttavia una stima prudenziale: gli agenti si presentano in maniera pressoché esclusiva nei centri con meno di 1.000 residenti, dove non è necessario raccogliere le firme. I comuni sotto i 1.000 abitanti al voto il 10 giugno saranno solo 97, 1.940 quelli della medesima fascia presenti nel complesso in Italia. E se un migliaio di poliziotti si materializza in lista quando si rinnovano le amministrazioni di 97 micro-paesi, se si votasse contemporaneamente in tutti e 1.940 il 40-45% dei poliziotti penitenziari potrebbe godere del mese di aspettativa retribuita, stando all’andazzo più recente. Deterrenti inefficaci - È vero che per tre anni non si può lavorare nel collegio in cui si correva, ma di solito ci si presenta già in una zona diversa e il deterrente è marginale. Ancora Martinelli: “I colleghi esercitano un diritto legittimo. Ma i disagi per chi resta in servizio sono abnormi, i pericoli per la sicurezza (sul contenimento di risse ed evasioni in primis, ndr) anche. E soprattutto su questo bisognerebbe ragionare a fondo. Certo, se gli istituti e i numeri del personale fossero dignitosi, avremmo forse meno richieste d’aspettativa” I detenuti sono in escalation (dai 52.000 del 2015 agli oltre 58.000 di oggi), la pianta organica fissata in passato, e poi ritoccata, prevedeva 10.000 presenze in più, le aggressioni sono raddoppiate in un quinquennio (300 nel 2012, 600 nel 2017). “Il carcere - spiega il ministro della Giustizia Andrea Orlando - non è un luogo umano e chi vi lavora cerca in ogni modo una boccata d’ossigeno. Le cifre del Sappe sono comunque impressionanti e indicano un potenziale abuso, l’unica via d’uscita è correggere la norma d’accordo con gli agenti”. Nel maggio 2014 propose di cancellare l’aspettativa retribuita il deputato di Sel Gianni Melilla, non se ne fece nulla. Ma che risultati danno queste campagne elettorali? Un esempio viene da Sulmona, giugno 2017, 33 agenti sparsi fra vari collegi: 30 non presero neppure una preferenza. Violenza contro le donne, il coraggio di una dodicenne di Elena Tebano Corriere della Sera, 27 maggio 2018 Quello che conta è che la vittima è stata creduta, che un bambina ha potuto trovare la fiducia per chiedere giustizia: se è accaduto e anche perché c’è una nuova consapevolezza. “Possessione da sacro fuoco di #Metoo”, l’ha chiamata l’avvocato di Harvey Weinstein venerdì, quando l’ormai ex produttore si è consegnato alla polizia di New York che l’ha arrestato con l’accusa di aver stuprato due donne. Una definizione carica di disprezzo, e il primo passo di una strategia difensiva che mirerà probabilmente a dimostrare come quel movimento abbia “confiscato” - parole sue - il caso. Vista la mole di accuse contro Weinstein c’è da dubitare che ci riesca, ma su una cosa l’avvocato ha ragione: il movimento #Metoo ha un ruolo in questa vicenda. Difficilmente senza quel risveglio globale di consapevolezza, Weinstein sarebbe finito in un’aula di tribunale. È un risveglio che riguarda in generale i diritti delle donne: le denunce delle attrici di Hollywood sono state sì rese più potenti dalla macchina di sogni che è l’industria dello spettacolo, ma hanno trovato vasta eco nell’esperienza delle donne degli Stati Uniti, d’Europa e di molte parti del mondo. Se quella scintilla ha potuto accendere un “sacro fuoco” è perché le donne, quasi ovunque, erano pronte. Lo conferma su un piano solo apparentemente lontano il voto in Irlanda. Il referendum popolare ha spazzato via a grandissima maggioranza le restrizioni costituzionali che da 35 anni rendevano illegale l’aborto. Fino a quando non è arrivato, nessuno nella cattolicissima Irlanda, si aspettava questo risultato così schiacciante. Ancora più di quello sul matrimonio per tutti nel 2015. Succede così con i cambiamenti epocali: maturano sotto la cenere per anni per poi divampare, improvvisamente visibili a tutti. In questi mesi c’è stata a volte una sensazione di fastidio o stanchezza accompagnata anche da critiche agli “eccessi” del movimento #Metoo. Le resistenze sono scontate, così come sono scontate alcune esagerazioni. Però, almeno nelle democrazie avanzate, qualcosa è cambiato e sta davvero cambiando: è diventato più difficile negare alle donne il controllo sul proprio corpo, ignorare il sessismo quotidiano, accettare come un male inevitabile le molestie sul lavoro e fuori, e soprattutto negare a priori la credibilità di chi le denuncia, come spesso è successo in passato. Sono trascorsi solo due anni da quando emersero le violenze ripetute su una adolescente di Melito di Porto Salvo, in Calabria, da parte dell’ex ragazzo e degli amici di lui. Di quella storia orribile sconvolse anche la reazione omertosa del paese e persino dei genitori di lei, reticenti fino all’ultimo a rivolgersi alle autorità. Nessuno credette alla vittima e un prete del posto arrivò addirittura a insinuare che la bambina violentata in realtà si “prostituiva”. Lo stupro denunciato nei giorni scorsi in Campania ricorda molto quella vicenda: anche qui c’è una violenza nata all’interno di una relazione, quando il ragazzo più grande ha coinvolto altri e insieme hanno stuprato una dodicenne. Ma le analogie finiscono qui. Oggi la vittima ha trovato il coraggio di parlare con i genitori che l’hanno accompagnata a fare denuncia. Le indagini faranno il loro corso, ma quello che conta è che la vittima intanto è stata creduta, che un bambina di 12 anni ha potuto trovare la fiducia per chiedere giustizia: se è accaduto e anche perché c’è una nuova consapevolezza. È una svolta importante. Di fronte alla quale abbiamo tutti il dovere di ricordare e proteggere il coraggio di chi dice no alle violenze subite. Se c’è una cosa che ci ha insegnato il movimento #Metoo è che la forza di chi denuncia dipende anche da quanto gli altri sono disposti ad ascoltare Bari: il tribunale cade a pezzi, l’udienza si fa in tenda di Giuliano Foschini La Repubblica, 27 maggio 2018 Il palazzo è abusivo. Manca un contratto d’affitto e il ministero non paga il canone da tre anni. Ora la struttura è anche inagibile, tant’è che in questo sabato barese da 30 gradi all’ombra stanno montando le tende della protezione civile (nel caso in cui non fosse chiaro: avete presente quelle che vengono utilizzate in caso di terremoti, crolli e grandi eventi? Ecco, quelle) nel cortile del palazzo, che ha vista sul cimitero, perché lunedì possano svolgersi le udienze. Ecco, probabilmente nessun artista sarebbe riuscito a rappresentare meglio la situazione della giustizia qui a Bari, e forse in Italia: abusiva, inagibile, in emergenza permanente. Che accade? Succede che il palazzo di giustizia di Bari, in via Nazariantz, sede della Procura, luogo per eccellenza dello Stato, rischia di crollare, dice una perizia tecnica. E non da ora. Ma da circa 15 anni da quando le crepe sui pilastri e il fango che tracimava nei sotterranei a reso a tutti chiaro che qualcosa non andava. Il palazzo è di proprietà dell’Inail che lo ha comprato per 45 miliardi di vecchie lire nell’ottobre del 2001 dalla società immobiliare romana Gesfin. Gesfin che lo aveva comprato il 27 dicembre del 2000 dai costruttori, i fratelli Mininni, per 27 miliardi. In dieci mesi il valore era dunque aumentato quasi del doppio. Un miracolo. Che ebbe anche uno strascico giudiziario. La procura mise sotto inchiesta i costruttori per truffa e frode ma il processo si è chiuso in appello per prescrizione. Il primo sequestro è stato del 2002, poi è arrivata la sentenza che dichiarava il palazzo abusivo. La politica prometteva, senza mantenere. Si parlò prima della realizzazione di una Cittadella della giustizia ex novo, in aperta campagna, dalle parti dello Stadio San Nicola, con un project financing che fu bloccato dall’allora sindaco Michele Emiliano che il palazzo di via Nazariantz lo conosceva bene per averci lavorato a lungo. Si temeva una speculazione edilizia, si disse, probabilmente a ragione. Dove allora? Gli urbanisti proponevano “l’arcipelago”, una sorta di palazzo di giustizia diffuso nel quartiere Libertà, dove già c’è il tribunale civile e dove soprattutto vive, cresce e ovunque ramifica il clan mafioso degli Strisciuglio. L’attuale sindaco, Antonio Decaro, che è anche presidente dell’Anci, e dunque sindaco dei sindaci, ha scelto la strada delle caserme dismesse. Arrivò anche il ministro Andrea Orlando a promettere e invece... Per le caserme siamo ancora in fase di progettazione preliminare e in via Nazariantz montano le tende. Non c’era alternativa. La relazione, chiesta dall’Inail e arrivata nei giorni scorsi sul tavolo del procuratore Giuseppe Volpe diceva che le vecchie perizie tecniche erano sbagliate perché troppo buone e che a oggi “non sussistono le condizioni” per restare in un palazzo “costruito su calcare e argilla”. Su richiesta della Procura è così dovuto intervenire il Comune che ha sospeso l’agibilità. Si chiude, quindi. Con le udienze spostate in sette posti diversi. “Una situazione drammatica: non abbiamo a disposizione le auto e neppure la benzina per permettere gli spostamenti dei magistrati tra le varie sedi” dice Rosa Calia Di Pinto, giudice e segretaria dell’Anm barese. L’unico precedente è stato il terremoto dell’Aquila, con le aule nelle tensostrutture. Si rischia prescrizione nei processi e detenuti liberi. Il ministero ha bandito una ricerca di mercato per trovare un nuovo palazzo da prendere in affitto. “Siamo in emergenza - ha spiegato l’ingegner Giuseppe Tedeschi, responsabile della Protezione civile regionale, mentre si montavano i bagni chimici - Invitiamo a un abbigliamento consono alla situazione, chiedendo per esempio alle donne di evitare di indossare scarpe con i tacchi”. Reggio Emilia: prelievi del Dna su 247 detenuti al carcere della Pulce di Ambra Prati Gazzetta di Reggio, 27 maggio 2018 I dati della polizia penitenziaria nel 201° anniversario Nell’ultimo semestre vigilate oltre 9.000 persone recluse. In un anno, è stato effettuato il prelievo di campioni biologici su 247 persone, per l’alimentazione della banca dati nazionale del Dna: un modo per identificare i pregiudicati, sebbene in Italia, a differenza del resto d’Europa, la banca dati non sia mai partita. È uno dei dati diffusi ieri nella cerimonia del 201° anniversario della fondazione della polizia penitenziaria di Reggio. La cerimonia si è svolta per la prima volta a Palazzo di Giustizia, nell’aula di Corte d’Assise, per concessione della presidente del Tribunale Cristina Beretti. Una location quanto mai d’attualità, in vista “dell’ultimo sforzo organizzativo e di risorse” per il rush finale del maxi-processo Aemilia: i turni degli agenti nell’aula speciale arrivano anche a 12 ore, come ha sottolineato la direttrice degli Istituti Penitenziari reggiani, Anna Albano, che ha rimarcato “l’eccellente contributo e l’alto profilo professionale degli agenti, riconosciuto dalle stesse autorità giudiziarie e da tutte le parti coinvolte”. Tra gonfaloni, agenti cadetti in alta uniforme, magistrati e giudici, anche i massimi i vertici amministrativi (il presidente della Provincia, Giammaria Manghi, la presidente del consiglio comunale, Emanuela Caselli) e delle forze dell’ordine (il comandante della Polstrada, Ettore Guidone, il vicequestore Andrea Salmeri, il comandante della municipale, Stefano Poma, i colonnelli della Guardia di Finanza, Roberto Piccinini e dell’Arma, Antonino Buda). Nel corso della cerimonia, il comandante della Polizia penitenziaria di Reggio, Mauro Pellegrino, ha sottolineato i “risultati, che solo un anno fa venivano dai più ritenuti impossibili da raggiungere” della recente organizzazione interna della Pulce, dopo il superamento dell’Opg divenuta Casa circondariale e Casa di reclusione. Pellegrino ha fornito i numeri del cambio di rotta, a partire dalla drastica riduzione di eventi critici (come suicidi, incendi, danneggiamenti, aggressioni) e del fenomeno dell’introduzione di stupefacenti e di cellulari. Fra i numeri diffusi, l’ormai cronica carenza di personale (su 200 agenti, gli effettivi in servizio sono 173, lontani dai 240 della dotazione organica prevista dal Ministero). E poi: l’attività di polizia giudiziaria, con 155 informative di reato. Sono invece 145 i giorni di piantonamento di 23 “ricoverati in luogo esterno al carcere”, con l’impiego complessivo di 920 agenti. Nel solo ultimo semestre sono state eseguite 706 traduzioni su strada e 5 in aereo e sono stati movimentati 1.315 detenuti e 17 detenute: 800 diretti alle aule di giustizia, 30 ad altre sedi penitenziarie, 459 a strutture sanitarie pubbliche. Nel complesso le traduzioni hanno richiesto l’impiego di 3.074 agenti. Sono stati vigilati 8.639 detenuti di media sicurezza e 756 detenuti di alta sicurezza hanno potuto fruire di 6.612 ore di colloquio visivo con familiari e terzi. Sono state 8.639 le perquisizioni su soggetti entrati nel carcere per tali motivi (minori esclusi), mentre 3.770 sono stati i controlli eseguiti per i pacchi destinati ai detenuti. Al termine della cerimonia, gli encomi per motivi di servizio, consegnati agli agenti Michele Malorni, Marco Di Martino, Giuseppe Mastino e Placido Vitale, Anna La Marca (quest’ultima, tra l’altro, in dolce attesa). Milano: tornare liberi con il food, così si lavora, con le coop, nel carcere di Enrico Cicchetti Il Foglio, 27 maggio 2018 Milano è anche la città con il sistema penitenziario più grande d’Italia. E dove le misure alternative abbassano le recidive. Si dice che Milano è grigia. Non ha solo a che fare con il cemento e la nebbia, ma anche con il fatto che qui le cose non sono sempre o solo bianche o nere. E quello che potrebbe sembrare un periodo oscuro, può mostrare un’altra faccia. Può succedere, ad esempio, di trovare una nuova vita anche dopo - anche dentro - il carcere. Quel luogo che c’è in ogni in ogni città ma dove nessuno vorrebbe mai mettere piede. Ribaltare questo concetto non è cosa da poco. Portare la città in galera: forse può suonare male, ma è quello che vuole fare Marina De Berti, coordinatrice e ideatrice della “Libera scuola di cucina” gestita dalla cooperativa sociale A&I Onlus, in convenzione con la direzione della Casa circondariale di Milano “San Vittore”. Qui gli allievi della Libera scuola, donne e ragazzi dai 18 ai 25 anni, organizzano cene e aperitivi aperti ai cittadini. L’intero progetto è un meccanismo virtuoso di reinserimento nel lavoro. Prima degli eventi, gli allievi partecipano a un ciclo di lezioni - a insegnare ci sono anche chef stellati come Viviana Varese o Sonia Peronaci, fondatrice del blog di cucina Giallozafferano. Nata nel 2012, la Libera scuola è stata premiata nel 2015 dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella per i suoi aspetti formativi e il coinvolgimento attivo della società civile. De Berti spiega che “la scuola ha l’obiettivo di coinvolgere chi transita per un tempo anche minimo come a San Vittore, dove passa chi è in attesa di giudizio”. L’obiettivo della Libera scuola è proporre attività formative per iniziare ad acquisire competenze spendibili nella ristorazione. Ma anche coinvolgere la città e far capire come il tempo della detenzione possa diventare un servizio a favore della società, anche in termini di maggior sicurezza: come mostrano i risultati di tre anni di studio degli economisti Giovanni Mastrobuoni e Daniele Terlizzese, scontare la pena con misure alternative riduce il numero dei recidivi. De Berti racconta la storia di un ragazzo, appena diciottenne, “entrato a San Vittore per concorso in tentato omicidio, per aver partecipato a una rissa con un coltello”. Trasferito con circa 6 anni di pena nell’istituto di Opera, grazie alle certificazioni maturate alla Libera scuola di cucina, è stato inserito nell’istituto alberghiero del carcere. “Ora ha una pagella da primo della classe - spiega De Berti - il giudice in appello gli ha abbassato la pena e gli ha concesso i domiciliari. Proseguirà gli studi. Spesso ci si stupisce più di queste buone pratiche, piuttosto che del fatto che su 100 detenuti, 60 tornino dentro. Il tempo vuoto di senso è un paradosso del carcere che produce l’effetto contrario a ciò che dispone la Costituzione”: che la pena non sia vendetta ma recupero sociale. La Libera scuola funziona come una sorta di osmosi, nella quale chi (per forza di cose) non può uscire riceve energie da chi viene da fuori, e con lui scambia nutrimento. Il cibo, del resto, sembra essere il sacro Graal di questa epoca. Ed è perfetto per le iniziative sociali che coinvolgono i detenuti proprio perché sinonimo di convivialità e collettività. In principio fu la Pasticceria Giotto del carcere di Padova. C’è l’Ipm Ferrante Aporti di Torino, con il laboratorio di cioccolateria legato a un grande marchio della tradizione dolciaria cittadina, e Cibo Agricolo Libero, il caseificio di Rebibbia. Ma è in Lombardia e a Milano - che, con i suoi tre penitenziari per adulti e l’istituto per minorenni Beccaria, è la città con il sistema penitenziario più esteso e articolato d’Italia - che si vede la quantità maggiore di eccellenze. Perché qui “da decenni è attivo un percorso che ha cercato di aprire il carcere al tessuto urbano”, ci dice Claudio Cazzanelli, vice direttore di A&I. Dalla parte opposta rispetto a San Vittore, c’è il lavoro sociale che il Refettorio ambrosiano svolge col sostegno della Caritas: una mensa per i poveri ma anche un luogo di cultura, che oggi, domenica 27 maggio, accoglierà il coro dei detenuti e le “cuoche” della Libera scuola di cucina. Nel carcere di Bollate c’è InGalera, un ristorante dove chef e camerieri sono detenuti. Tra i palazzoni della periferia e il capolinea della metro di Bisceglie c’è il Beccaria con i suoi Buoni Dentro: un progetto di panificazione. Nel laboratorio all’interno del carcere di Sondrio, una vecchia autorimessa, 35 detenuti con pena definitiva al di sotto dei tre anni producono pasta gluten free con macchine professionali ultimo modello. È il Pastificio 1908, ideato dalla cooperativa Ippogrifo, che ha trasformato l’idea in azione imprenditoriale. Oggi rimane aperto due giorni alla settimana ed è stato appena assunto il primo detenuto. Stefano Granata, presidente del Consorzio Gino Mattarelli - la più grande rete italiana di imprese sociali di cui Ippogrifo e A&I fanno parte - spiega al Foglio che l’unica strada possibile per questo genere di progetti è proprio quella di slegarsi dai contributi pubblici e diventare impresa, cercare le nicchie di mercato che funzionano e provare a camminare sulle proprie gambe. Campobasso: la scuola si prende cura dei detenuti (che curano la scuola) di Pierangelo Soldavini Il Sole 24 Ore, 27 maggio 2018 Per risolvere i problemi di manutenzione l’Iiss Pilla di Campobasso ha fatto ricorso ai detenuti del carcere vicino fornendo formazione in cambio di lavoro. Quest’anno i primi due detenuti faranno l’esame di maturità in ragioneria. E a breve sarà aperta una bottega scolastica dove saranno venduti i prodotti dei carcerati. A breve, non appena arriva l’ultimo via libera burocratico, è pronto ad aprire quello che potrebbe essere il primo negozio all’interno di una scuola scolastica. Non sarà effetto di una sponsorizzazione da parte di un privato pronto a sfruttare nuove opportunità, ma il frutto di un coraggioso progetto didattico che viene da lontano. Sugli scaffali della bottega che aprirà all’interno dell’Iiss Leopoldo Pilla di Campobasso saranno messi in vendita i prodotti dei terreni alla periferia del capoluogo che servono da laboratorio per i ragazzi dell’istituto agrario, tra cui spiccano quelli di un ettaro di terra affidati ai detenuti della vicina casa circondariale. Ci sono le bottiglie del Tintilia doc molisano e i prodotti a chilometro zero della coltivazione, ma anche il miele di due ex detenuti che alla fine di vent’anni di pena sono diventati apicoltori a tutti gli effetti dopo aver seguito i corsi dell’istituto agrario. Il terzo si è perso per strada all’uscita dal carcere, ma non è questo a frenare la dirigente Rossella Gianfagna che non sembra fermarsi davanti a nulla: “A volte penso di aver forse esagerato nel prendermi responsabilità personali senza seguire le lungaggini burocratiche: oggi mi dico che alla fine ne è valsa la pena perché abbiamo stravolto la scuola ma abbiamo dato vita a un progetto inclusivo di integrazione tra scuola e territorio”. Per un “fallimento” ci sono tanti altri obiettivi raggiunti: a partire dai due detenuti che tra un mese affronteranno l’esame di diploma in ragioneria. Sono i primi che arrivano a completare il percorso scolastico messo a punto con il carcere, nato quattro anni fa dall’intuizione di Gianfagna che, come tantissime scuole in tutta Italia mal ridotte, si è trovata a dover affrontare una struttura scolastica cadente con aule che perdevano i pezzi e pareti scrostate. La risposta degli enti locali era la solita litania: fondi inesistenti e personale insufficiente per la manutenzione. Come fare? La dirigente non si è persa d’animo e ha affrontato la situazione di petto, proponendo al carcere quasi confinante uno scambio tra prestazione d’opera e formazione a 360 gradi a favore dei detenuti. Detta così potrebbe alimentare polemiche a non finire. Ma alla fine la soluzione innovativa nata allora e messa nero su bianco con una miriade di protocolli d’intesa è andata affinandosi - e arricchendosi - in questi quattro anni producendo consapevolezza comune e inclusività. Arrivando a superare il ginepraio di regole e codicilli che, per esempio, impediscono ai detenuti di poter accedere a internet o di stare in classe insieme agli altri compagni, anche se poi finiscono per vivere negli stessi ambienti. Per le lezioni i docenti da organico potenziato, quelli derivanti dalla legge della “Buona scuola” che nel resto d’Italia hanno avuto enormi difficoltà di inserimento, qui sono stati mandati in carcere a insegnare. Mentre i detenuti ammessi al regime di permesso straordinario per lavori socialmente utili alla mattina si prendono cura dei lavori di manutenzione dell’edificio. Ma non si tratta solo di manutenzione straordinaria, perché Gianfagna ha coinvolto l’istituto in una destrutturazione degli ambienti scolastici per adottare una didattica flessibile e aperta che ha rivoluzionato la classica aula scolastica. Con il risultato che entrare nell’istituto sembra quasi di accedere in un albergo. I collaboratori scolastici sono pienamente coinvolti nel progetto e sono responsabilizzati diventando tutor-formatori del piano personalizzato fatto sui singoli detenuti. Tra questi c’è anche il ragazzino che aveva commosso l’Italia qualche anno fa quando aveva attraversato il paese attaccato sotto il fondo di un tir: oggi è in carcere per un furto ed è ammesso al piano di formazione concordato con il Pilla. Ma Gianfagna non si è fermata qui: “Non abbiamo avuto nessuna criticità con le famiglie, che anzi hanno compreso da subito la portata educativa del progetto e non hanno frapposto ostacoli: i ragazzi dell’istituto hanno imparato a conoscere la realtà carceraria e ho potuto assistere a momenti in cui i detenuti stessi riprendevano i ragazzi che non rispettavano le regole all’interno dell’istituto”. L’alternanza scuola-lavoro prevede così che i ragazzi dell’agrario vadano in carcere per mettere a punto un giardino interno che “diventa scopo di vita per gli ergastolani, i detenuti che non hanno alcuna speranza di uscire”. D’altra parte Gianfagna è abituata alle “missioni impossibile”. Prima di arrivare al Pilla era dirigente di una scuola media in uno dei quartieri più critici di Campobasso, recuperata da un centro sportivo abbandonato: allora la piscina abbandonata era stata riutilizzata come centro telematico dove i ragazzi andavano a fare informatica. La creatività della dirigente ha sempre saputo integrare incisività e innovazione didattica in un processo che appare davvero “win-win” da qualsiasi parte lo si guardi. C’è da scommettere che non si fermerà alla bottega scolastica o ai primi diplomi di detenuti. D’altra parte ribadisce più volte che “ne è valsa la pena”. Siena: è on line il blog del carcere di Santo Spirito ilcittadinoonline.it, 27 maggio 2018 Da qualche giorno è on line il blog della casa Circondariale di Siena accessibile all’indirizzo: http://spiritoinliberta.blogspot.it. Lo scopo primario che ha condotto alla creazione del blog è stato Quello di realizzare una versione anche digitale e fruibile da parte del pubblico della rete del foglio d’informazione gratuito redatto dai detenuti “Spirito in libertà”, il cui ultimo numero è stato pubblicato di recente. Ma il blog vuole anche essere attualità, notizie, eventi, approfondimenti, immagini della vita in carcere, un diario on line elaborato in maniera agile con l’obiettivo di raggiungere un pubblico di lettori ampio ed eterogeneo che abbia interesse a conoscere più da vicino le vicende che riguardano la popolazione detenuta di quest’istituto. A tale scopo è possibile iscriversi al blog inserendo nell’apposita casella presente sulla pagina web il proprio indirizzo e-mail al quale saranno recapitati in tempo reale tutti gli aggiornamenti. L’apertura di una finestra informativa sulla casa circondariale di Siena contribuisce, più in generale, a raccontare l’universo carcere ove, con l’apporto di operatori pedagogici, Polizia penitenziaria e volontari, spesso prendono corpo una serie di iniziative e di progetti di alto profilo rieducativo, la cui divulgazione concorre a rendere più completo, articolato ed obiettivo il dibattito che ruota intorno alla delicata questione dell’esecuzione penale. Livorno: l’isola di Gorgona e il suo carcere sotto i riflettori lasettimanalivorno.it, 27 maggio 2018 Un carcere così singolare che non ti accorgi di esserci dentro. Questa è Gorgona, l’isola carcere, un’esperienza unica nel panorama penitenziario italiano. L’associazione Olimpiadi del cuore, di cui è anima e fondatore Paolo Brosio, in collaborazione con il Vescovo di Livorno Giusti e il Ministero della Giustizia, ha promosso una giornata evento che ha portato sull’isola oltre duecento persone e l’ha messa sotto i riflettori dei media nazionali. Nel gruppo tanti vip dello sport e dello spettacolo tra cui Carlo Conti, Marco Masini, Paolo Conticini, Andrea Luci e tanti altri che hanno regalato una giornata diversa a poche centinaia di residenti stabili sull’isola tra detenuti e guardie. Ma la giornata è stata propizia anche per ripensare il futuro di un’isola che vuole aprirsi all’esterno e migliorare le condizioni di una comunità carceraria singolare, ma comunque complessa da condurre. Su questi temi ha puntato il Vescovo Giusti nei suoi interventi. Occorre, ha detto, trovare nuove occasioni di lavoro per i detenuti, migliorare i collegamenti con la terraferma, scoprire anche la vocazione turistica dell’isola. La presenza di tante autorità, tra cui il direttore nazionale dell’amministrazione penitenziaria e il comandante della capitaneria di porto di Livorno, ha offerto un uditorio significativo alle sue parole. Presto anche per Gorgona potrebbero esserci novità importanti. Bologna: liberi di cantare, il coro Papageno dentro la Dozza di Massimo Marino Corriere di Bologna, 27 maggio 2018 Ieri il concerto del coro fondato da Claudio Abbado in carcere e portato avanti con caparbietà dalla figlia Alessandra con Mozart14 : “Vorrei far esibire il coro fuori”. Inizia sommessa la Cantiga di Alfonso X il Saggio, con un canto a bocca chiusa, con gli archi bassi che fanno bordone, come fosse un’antica ghironda. Poi trascina, trascina, come le danze francesi, come l’indiavolato A Round of Three Country Dances in One, tre testi sovrapposti in uno, difficile non perdersi, eppure gli uomini e le donne del coro Papageno tengono il tempo, e coinvolgono, trasportano. Difficile non battere le mani con i ritmati canti sudafricani, con la canzone di trance del Candomblè brasiliano, con gli spiritual: perfino qualche compassata guardia muove il piede a ritmo. Siamo nella chiesa del carcere della Dozza per l’ormai rituale concerto del coro di detenuti e detenute fondato da Claudio Abbado, che continua a vivere grazie all’impegno della figlia Alessandra, alla collaborazione del personale dell’istituto e di numerosi volontari, tra i quali vari membri di ensemble musicali cittadini, che completano la gamma delle voci. Il coro Papageno, diretto da Michele Napolitano, curatore anche dell’adattamento dei brani, è una delle attività di Mozart 14, un progetto di laboratori di musicoterapia e di canto corale che sta cambiando la vita del carcere. “La musica viene da dentro”, si legge sulla copertina del cofanetto “Shalom”, il titolo del canto di congedo di ogni concerto e di un dvd di Enza Negroni con un libretto di testimonianze. E su un pieghevole troviamo un’altra bella frase: “La musica ti cambia la vita”. “All’inizio avevo qualche difficoltà, ma anche molte curiosità”, ci confida Youssef alla fine dell’esibizione, applauditissima, con due stand ovation del pubblico di invitati (qualche giorno fa Papageno si era esibito per i compagni di detenzione). “Ma mi è piaciuto molto dall’inizio cantare. Non lo avevo mai fatto ed è bellissimo”. Camila, sudamericana di 27 anni, gli occhi lucenti, non starà ancora molto in carcere: “Cantare mi emoziona molto. Devo trattenerla, l’emozione. Ma sono felice di dimostrare che anche noi possiamo fare qualcosa di utile, a dispetto di quelli che vorrebbero buttare la chiave. Anche noi abbiamo qualità, anche se abbiamo fatto degli sbagli. Credevo di avere una voce bruttissima e invece, con gli altri… Quando torno a casa, voglio cercare un coro in qualche chiesa”. Il repertorio di questo insieme multietnico, composto di persone di varie età ed esperienze (tra l’altro è stato il primo coro misto in carcere) respira della molteplicità dei suoi membri: molte sono le musiche popolari di varie parti del mondo, ma non mancano brani come Ave Verum Corpus di Mozart, uno dei brani più amati da Claudio Abbado. L’idea di musica del Maestro impregna un’attività che attraverso le note vuole portare alla riscoperta di se stessi e degli altri, alla relazione. Si propone l’intento di far capire al mondo esterno che non ha senso ignorare o, peggio, isolare il carcere, che è l’altra faccia della nostra realtà, quella oscura, ma non rimovibile. Claudia Clementi è la direttrice della Dozza: “Sosteniamo l’esperienza per i suoi valori artistici enormi ma anche per quelli educativi. Le sezioni maschile e femminile provano separatamente una volta alla settimana e insieme una al mese: tutto si intensifica in prossimità dei concerti”. Per l’assessore Matteo Lepore è la prima volta in carcere: “Sono emozionato anch’io. Ho parlato tante volte di esperienze di questo tipo nelle conferenze stampa, ma esserci è diverso. Quello che si fa qui ha un gran valore per tutta la città. Questa è una delle nostre “piazze”“. Alessandra Abbado, gran sorriso e un po’ di tensione prima del concerto, ricorda l’attività di 7 anni e rilancia: “Il grande sogno è portare il coro fuori, in città. Abbiamo già tenuto due concerti esterni, al Quirinale e al Senato”. Anche l’assessore concorda. “Non è facile - nota la direttrice - non tutti hanno i permessi necessari per uscire. Ma vogliamo lavorarci. Intanto sarebbe necessario che qualche struttura cittadina ci invitasse, fuori dal carcere”. “La speranza oltre le sbarre. Viaggio in un carcere di massima sicurezza”. di Bruno Forte Il Sole 24 Ore, 27 maggio 2018 L’anniversario della strage di Capaci, rende quanto mai significativa e attuale la riflessione proposta in un libro appena uscito, intitolato “La speranza oltre le sbarre. Viaggio in un carcere di massima sicurezza”. Continua u pagina Lo hanno scritto, per le Edizioni San Paolo, a quattro mani la giornalista Angela Trentini e il teologo Maurizio Gronchi, riportando interviste agli assassini dei giudici Livatino, Falcone e Borsellino e dando spazio al confronto con i familiari di quelle vittime. Il titolo è anche l’invito a un viaggio, di certo non comodo e tuttavia a mio giudizio prezioso, nel passato recente della nostra comunità civile, per favorire la presa di coscienza su come essa abbia troppo spesso rimosso col silenzio e l’oblio eventi e ferite che non andavano dimenticati. Al tempo stesso, scorrendone le pagine si comprende come troppe volte si sia voluta più una giustizia vendicativa che non una pena riabilitativa, tale cioè da condannare con fermezza il male, ma al tempo stesso offrire a chi lo ha commesso la possibilità di prenderne coscienza, di aprirsi a percorsi di pentimento e di nutrire, nonostante tutto, una speranza per il suo futuro. Quest’apertura al domani è semplicemente negata dalle sbarre delle celle in cui il colpevole si trova rinchiuso senza spiraglio alcuno di un possibile fine pena o di misure alternative di riabilitazione (secondo quel che significa l’ergastolo “ostativo”). Sono drammatiche alcune affermazioni dei detenuti intervistati: “La pena di morte in Italia non esiste, ma la morte di pena sì”. Dolorosa la constatazione dell’intervistatrice: “La pena più crudele, per chi è dietro le sbarre, è che … per il mondo di fuori non si esiste. Si scompare quando si avverte di non contare più nulla per nessuno”. Fortissimo il richiamo etico che si alza da una delle vittime più luminose, il giudice Rosario Livatino: “Il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio… Alla fine della vita non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma credibili”. La testimonianza di un giornalista siciliano, Enzo Gallo, rileva come il sacrificio del giovane Giudice non sia stato vano: “I valori di cui era portatore sono diventati patrimonio… di tanti, con un effetto moltiplicatore e a cascata, imprevedibile ed incredibile”. È questo il vero senso della battaglia contro la mafia: annientarne la forza nelle coscienze, mostrarne il vuoto morale, la cieca stupidità, l’avidità insensata e alla fine distruttiva per tutti, offrendo al contempo esempi del bene e della sua fecondità. Il male non solo è tale, ma fa male e lascia un solco indelebile, come osservano gli autori in rapporto ai detenuti intervistati: “Nessuno sembra potersi liberare dal ricordo del male”. Fra le indicazioni più significative che emergono dalle storie di vita raccolte nel libro, ce n’è una che mi pare decisiva: i fiori del male spuntano dove c’è un “humus” fecondo per la loro coltivazione. Quando sei stato formato da un modello educativo sbagliato, fare il male ti appare addirittura un bene: “Una coscienza sorda e impacchettata dentro le proprie convinzioni e che si basa su una falsa consapevolezza fa sentire “giusti” e dunque incapaci di intraprendere percorsi interiori per cambiare”. “In certi contesti il destino dei figli è di essere attori di un copione già scritto”. Perciò, accompagnare il colpevole a prendere coscienza delle radici del male compiuto e a rifiutarle per dare nuovo senso alla vita e alle azioni è quanto di più importante e utile deve fare la giustizia in una società fondata sul diritto e sulla dignità della persona: “Non cerco sconti - afferma uno dei detenuti intervistati, chiedo soltanto di essere accolto e accompagnato”. Perché - commentano gli autori - “anche dietro le sbarre si può accendere un bagliore che permette di vedere oltre e di essere visti”. Alla domanda “esiste una via per la quale la coscienza matura e giunge alla verità di sé e degli altri?”, una democrazia autentica deve poter rispondere di sì, impegnandosi a indicare questa via. Sul piano umano - constatano gli intervistatori - avviene non di rado che “la solitudine e i legami recisi sospingano il detenuto a cercare dentro di sé quello spazio di libertà in cui divenire creativo”, mente lo sguardo della fede riconosce che “la grazia di Dio ha la capacità di scavare fiumi sotterranei anche nelle vite perdute, di aprirsi percorsi nei terreni più accidentati, di fiorire nel deserto”. Così, “la pittura, l’artigianato e il teatro, soprattutto in carcere, aprono la mente al bello e la via della bellezza è uno dei possibili itinerari, forse quello più attraente e affascinante, per raggiungere anche in carcere la serenità e avvicinarsi un po’ a Dio”. Afferma uno dei detenuti: “Attraverso i dipinti esprimo ricordi e desideri. Sogno una vita migliore e qui in carcere sognare è una grande risorsa”. Un altro dice: “Che senso ha continuare a vivere se non c’è nessuna speranza di salvezza?”. Ancora un altro constata: “Anche noi conserviamo l’umanità e abbiamo la possibilità di cambiare. Sono un condannato all’ergastolo e non ho nessuna prospettiva di reinserimento e dunque nessun motivo di sperare per un futuro diverso. Ma allora perché mi si tiene in vita? Non è questa una condanna a morte? La pena perpetua senza possibilità di revisione mi ha già ucciso”. La sfida diventa quella di pensare forme di pena che possano aprire a una reale riabilitazione, costruita a partire dal riconoscimento della dignità di ogni persona umana, anche se colpevole di atroci delitti: “La dignità ci precede… Non proviene dall’agire bene o male. Per questo nessuno ha il diritto di toglierla neppure al peggior criminale impenitente”. Affermava Papa Francesco il 17 gennaio 2017: “Mi pare urgente una conversione culturale, dove non ci si rassegni a pensare che la pena possa scrivere la parola fine sulla vita; dove si respinga la via cieca di una giustizia punitiva e non ci si accontenti di una giustizia solo retributiva; dove ci si apra a una giustizia riconciliativa e a prospettive concrete di reinserimento; dove l’ergastolo non sia una soluzione ai problemi, ma un problema da risolvere”. Perché, concludono gli autori di questo libro - testimonianza, credibile e avvincente, “un uomo può cambiare, può essere diverso, anche quando si è lasciato alle spalle una lunga scia di sangue”. Come afferma l’Apostolo Paolo, bisogna “vincere il male con il bene” (Rom 12,21), nella certezza che nessun male potrà sconfiggere un altro male. L’anno che cambiò il volto della sanità italiana di Pietro Greco forumsalutementale.it, 27 maggio 2018 Nell’anno 1978, quarant’anni fa, la sanità italiana cambiò radicalmente volto. Era tra le meno moderne d’Europa, divenne la più avanzata. Con tre mosse affatto nuovo: il 13 maggio, appena quattro giorni dopo l’assassinio di Aldo Moro e il ritrovamento del suo cadavere in via Caetani, viene varata la legge 180 sugli “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”. La nuova norma, meglio nota come “legge Basaglia”, spalancava le porte chiuse dei manicomi, carceri spesso terribili, e restituiva la dignità e persino la parola ai “matti”. Certo, la legge non è stata sempre applicata al meglio. La sua parziale applicazione ne ha scaricato troppe volte la gestione sulle famiglie, lasciate sole in molte regioni d’Italia. Ma la 180 fu un grande evento di civiltà. Passano appena nove giorni e il 22 maggio il Parlamento approva in via definitiva la legge 194 sulle “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”, più nota come “legge sull’aborto”. Anche in questo caso si trattò di un enorme salto di civiltà, sia perché consentiva di contrastare finalmente la piaga dell’aborto clandestino sia perché riconsegnava alle donne il controllo del proprio corpo. Il 23 dicembre di quel medesimo 1978, infine, il Parlamento varava la legge 833 per la “Istituzione del servizio sanitario nazionale”, con cui al diritto alla salute venivano dati finalmente corpo e sangue. Il servizio creava una sanità finalmente universalistica: da questo momento tutti i cittadini italiani - di ogni età, sesso e ceto - potevano avere accesso alle medesime prestazioni sanitarie. Una rivoluzione. Che ha fornito un contributo decisivo a far aumentare l’aspettativa di vita degli italiani, fino a raggiungere livelli tra i più alti del mondo. E con costi bassissimi. Con queste tre mosse l’arretrata sanità italiana cambiò passo e divenne, in breve, tra le più avanzate del pianeta sia da un punto di vista concettuale (formidabile estensione di quei diritti che oggi chiamiamo di cittadinanza scientifica) sia da un punto di vista pratico: i “matti” iniziarono a uscire dalle carceri simili a lager in cui erano sprofondati; il destino e persino la vita delle donne furono finalmente sottratte alle mammane (o, per le più ricche, ai viaggi all’estero); la sanità acquisiva finalmente i principi di uguaglianza e di efficienza. Sì, di efficienza, perché come hanno documentato successive indagini internazionali, quella italiana si impose come le prime due o tre del pianeta per rapporto costo/prestazioni. Questo formidabile cambiamento è avvenuto grazie all’impegno di diverse persone. La legge 180 deve non solo il nome, ma la sua concezione a Franco Basaglia. Sebbene votarono contro, la legge 194 sull’aborto deve molto alle battaglie dei radicali. Il servizio sanitario nazionale fu un felice prodotto dell’incontro tra il pensiero laico e socialista (del PCI e del PSI) e quello della dottrina sociale della Chiesa, che trovava espressione politica in una parte della DC. La “rivoluzione sanitaria” del 1978 sembrerebbe, dunque, il frutto di azioni casuali che traevano ispirazione da fonti le più diverse. E, invece, quei tre capisaldi nascevano con uno spirito coerente che faceva riferimento al clima culturale del “compromesso storico”. Furono il risultato, forse il migliore, della stagione che aveva portato il Partito comunista di Enrico Berlinguer e la Democrazia Cristiana di Aldo Moro a incontrarsi per un governo inedito del paese. Tra i protagonisti di quel cambiamento strutturale - potremmo dire di quella bioetica quotidiana applicata - ce ne fu uno in particolare: Giovanni Berlinguer, il fratello medico di Enrico. Sia perché era a quel tempo uno dei teorici più raffinati dell’interpretazione della salute come un diritto universale e irrinunciabile dell’uomo sia perché si rivelò un abile politico, capace di mediare tra laici e cattolici anche in quei campi - come quello dell’aborto - in cui le distanze erano enormi, quasi impossibili da superare. Si deve soprattutto a lui se la breve stagione del compromesso storico si chiude, almeno in campo sanitario, con un bilancio oltremodo positivo. E se, ancora oggi, possiamo menare vanto per la nostra sanità, che malgrado non poche e talvolta gravi lacune, continua a essere tra le più giuste ed efficienti ed efficaci al mondo. I robot cancelleranno il lavoro degli uomini? di Paolo Magliocco La Stampa, 27 maggio 2018 Un uomo di 61 anni è stato licenziato dalla propria azienda con la motivazione che il suo lavoro può essere oggi svolto da un robot. La sostituzione del lavoro umano con quello svolto dalle macchine è un rischio che spaventa molto. Diversi studi hanno tentato di dare una risposta, nessuno ha raggiunto certezze ma la maggioranza concorda che un effetto negativo ci sarà. Daron Acemoglu, del MIT, e Pascual Restepo, della Boston University, hanno studiato che cosa è successo negli Stati Uniti dal 1990 al 2007 e hanno pubblicato i loro risultati un anno fa in un lavoro molto citato. Secondo i due studiosi americani ci sarà una riduzione sia del numero di persone che avranno un lavoro sia dei salari. In particolare, hanno calcolato che introdurre un robot ogni 1000 lavoratori ridurrà il tasso di occupazione tra 0,18 e 0,34%. Il tasso di occupazione è il rapporto tra le persone che hanno un lavoro e quelle in età lavorativa. In pratica, il calcolo di Acemoglu e Restepo significa che i robot tolgono il lavoro a più di un essere umano alla volta: un robot in più ogni 1000 lavoratori riduce il numero di occupati di quasi 2 o anche più di 3 ogni 1000 lavoratori. Cinque anni fa un altro studio divenuto molto famoso, condotto da ricercatori britannici della Oxford University aveva previsto che il 47% dei posti di lavoro negli Stati Uniti fossero messi a rischio dall’automazione. Una ricerca dello scorso anno di tre studiosi tedeschi sostiene che non si possa trarre nessuna conclusione certa e che l’effetto dipenderà dalla possibilità che il lavoro dei robot sostituisca completamente quello dell’uomo o porti invece a una collaborazione uomo-macchina. Moshe Vardi, professore alla Rice University negli Stati uniti, ha detto ai colleghi durante l’ultima riunione annuale della America Association for the Advancement of Science (AAAS) che “ci stiamo avvicinando a un momento in cui le macchine saranno capaci di superare gli uomini praticamente in ogni compito”. La società di consulenza McKinsey segue l’evoluzione dell’automazione con rapporti pubblicati ogni anno. L’ultimo indica che “quasi ogni occupazione ha un potenziale di parziale automazione”, intesa come proporzione delle sue attività che possono essere automatizzate. L’idea è che ogni occupazione sia fatta di un insieme di compiti che non sono tutti ugualmente sostituibili dal lavoro di una macchina. McKinsey ritiene che “circa la metà di tutte le attività per cui le persone vengono pagate possano essere potenzialmente automatizzate grazie a tecnologie correnti”. Le percentuali variano molto a seconda del settore di attività e la società di consulenza ha messo a punto stime della sostituibilità tra uomini e macchine per ogni ruolo in ogni comparto produttivo. Migranti. Palermo unita: no al carcere-hotspot di Alfredo Marsala Il Manifesto, 27 maggio 2018 Il consiglio comunale vota, parere non vincolante per il Viminale ma dal valore politico. Ora tocca alla Regione. Il consiglio comunale è stato unanime: “no” all’hotspot. Destra e sinistra l’hanno bocciato senza mezzi termini, anche se con motivazioni opposte. Ma la decisione dei 40 consiglieri, dal forte valore politico, non è vincolante; non basta a fermare il progetto del Viminale. La palla ora è nelle mani della Regione siciliana. Anzi, di un assessore. Si chiama Toto Cordaro, ex cuffariano e in passato presidente del consiglio comunale di Palermo. Cordaro ha la delega al Territorio. Sarà lui a decidere se autorizzare la variante al piano regolatore del comune dando così l’ok all’hotspot oppure prendere atto del parere negativo del consiglio. Domani Cordaro riceverà in assessorato i capigruppo del consiglio comunale, la riunione si annuncia infuocata. “I cittadini non vogliono il centro”, dice Sabrina Figuccia, consigliera Udc e tra le animatrici della protesta di un gruppo di persone che ha manifestato contro il progetto. Anche l’amministrazione comunale, a parte qualche tentennamento iniziale probabilmente dettato dalle pressioni ministeriali, si è schierata contro l’hotspot. Tant’è che il sindaco Leoluca Orlando ha fatto sapere che si rivolgerà alla giustizia amministrativa se la Regione dovesse dare l’ok. Il progetto da 7 milioni e 200mila euro, targato Invitalia (braccio operativo del governo), prevede la realizzazione di una maxi-struttura (15mila metri quadri tra coperto e scoperto) con almeno 400 posti letto, dove trattenere i migranti, presidiata h24 dalle forze di polizia, in una zona a nord di Palermo: l’area è un terreno confiscato alla mafia, tra i quartieri Zen e Pallavicino, abbandonato da alcuni anni, sul quale insistono vincoli paesaggistici e burocratici precisi, che il “sistema” sta cercando di superare sfruttando ogni meandro normativo. E un ruolo di primo piano, in questa storia, se lo è attribuito la Soprintendenza di Palermo, ramo amministrativo dell’assessorato regionale ai Beni culturali. Un dipartimento che in Sicilia gode di piena autonomia, avendo la Regione pieni poteri in materia come da statuto speciale. Il “blitz” è arrivato il 27 marzo. Mentre Vittorio Sgarbi proprio quel giorno annunciava di avere firmato le dimissioni usando parole di fuoco (poi se le rimangerà) contro il governatore Nello Musumeci, dirigenti e funzionari della soprintendenza firmavano il parere positivo al progetto dell’hotspot. I tecnici dicono sì nonostante sotto quel terreno le carte indichino l’esistenza di una rete di qanat, canali sotterranei che gli arabi costruivano per l’approvvigionamento idrico e quindi patrimonio storico-culturale. Non solo. In quel terreno insiste un antico giacimento di rame e l’area, in base al piano regolatore del comune, è iscritta come agricola, con un eventuale vincolo per impianti sportivi. Prescrizioni che secondo la Soprintendenza decadono di fronte a un presunto interesse di ordine pubblico. “Una decisione senza senso - attacca Giusto Catania, consigliere di Sinistra comune - A Palermo, città dell’accoglienza e l’integrazione, non è mai esistito un problema di ordine pubblico, semmai è la scelta di costruire un hotspot a destabilizzare e a creare un clima di paura tra la gente”. L’accelerazione all’iter arriva il 10 aprile in una riunione in Prefettura. Altro tempismo, singolare. Fuori Sgarbi, quel giorno era è il governatore Musumeci ad avere l’interim ai Beni culturali; il nuovo assessore, l’archeologo Sebastiano Tusa, sarà nominato il giorno dopo, dopo una attesa lunga 15 giorni. Per Nicola Fratoianni, leader di Si, “la decisione della città di Palermo è un fatto importante a livello nazionale ed europeo”. “Il fallimento della politiche migratorie - afferma - basate su campi di concentramento dentro e fuori le nostre frontiere, sulla clandestinizzazione dei profughi, sull’idea che la sicurezza sia fatta di muri, fili spinati e stragi di esseri umani che annegano nel Mediterraneo, apre la strada a stato di polizia, segregazione razziale e cancellazione di altri diritti democratici, come dimostra l’Ungheria di Orbán o la Turchia di Erdogan. Palermo invece chiama tutta la sinistra di questo paese ad affrontare la sfida della sicurezza nei diritti, dell’innovazione delle pratiche dell’accoglienza che sappiano trasformare i problemi in risorse”. Libia. Medici senza frontiere: strage di migranti in un centro vicino a Misurata di Giordano Stabile La Stampa, 27 maggio 2018 Caos anche a Tripoli, milizie anti-governative circondano i ministeri. Una nuova strage di migranti in Libia è stata denunciata dalla ong Medici senza frontiere. Almeno 15 sono stati uccisi e altri 25 sono rimasti feriti durante il tentativo di fuga da una prigione gestita da trafficanti a Bani Walid, a sud di Misurata. I feriti sono stati curati in un ospedale supportato dalla ong e secondo i sopravvissuti hanno raccontato il massacro. Un centinaio di migranti ha cercato di lasciare la struttura, “un lager”, nella notte tra mercoledì e giovedì. I trafficanti hanno aperto il fuoco sui fuggitivi. Almeno quaranta persone, la maggior parte donne, sono rimaste bloccate nel centro. L’Alto commissariato per i rifugiati ha confermato nel centro c’erano almeno 140 persone, provenienti da Eritrea, Etiopia e Somalia. Alcune persone erano detenute da tre anni. I sopravvissuti sono stati trasferiti in una struttura di sicurezza a Bani Walid. La mattina seguente, il 24 maggio, sono stati trasferiti in centri di detenzioni a Tripoli. Le équipe mediche di MSF a Tripoli stanno fornendo consultazioni mediche e 14 pazienti con gravi ferite da arma da fuoco e fratture multiple sono stati trasferiti in ospedale. Bani Walid si trova in un’area al confine fra la zona di influenza delle milizie di Misurata e altri gruppi armati che sfuggono al controllo sia del governo di Tripoli che delle forze che fanno capo al generale Khalifa Haftar. A Sud di Bani Walid e Misurata operano anche cellule dell’Isis e altri gruppi jihadisti che sfruttano le rotte nel deserto usate dai trafficanti di essere umani per finanziarsi. “Bani Walid è diventato un altro punto critico in Libia, dopo che dall’autunno scorso si è quasi chiusa la rotta a Ovest di Tripoli, che aveva come principale approdo sulla costa attorno alla cittadina di Sabrata, è si riattivata la rotta che tocca Bani Walid nell’entroterra e sbocca nella zona di Khoms a Est della capitale - precisa Stefano Argenziano, coordinatore progetti migrazioni di Msf -. Quello che è avvenuto ieri è eclatante per i numeri ma la situazione è sempre molto instabile, il potere è in mano alle milizie, non ci sono posti sicuri per i migranti, e anche gli scontri di oggi a Tripoli non fanno che dimostrarlo. La Libia resta in guerra”. Governo insidiato dalle milizie - Nella notte fra ieri e oggi la situazione è di nuovo peggiorata nella capitale. Le Brigate rivoluzionarie di Tripoli, un gruppo guidato dal signore della guerra Haitham Tajouri, hanno annunciato di aver circondato tutte le sedi del Governo di accordo nazionale (Gna), controllate in precedenza dalla Guardia presidenziale, in particolare la zona di Sikkah e la strada per l’aeroporto. Il ministero dell’Interno di Tripoli ha ribattuto che le sue Guardie, un primo nucleo di un esercito nazionale sotto il comando del premier Fayez al-Serraj, sono ancora attive e sorvegliano le sedi delle istituzioni ma non ci sono conferme indipendenti. Tajouri è sulla carta alleato di Al-Serraj ma ha già mostrato in passato insoddisfazione, soprattutto per i mancati pagamenti alle sue milizie. Secondo fonti locali i miliziani protestano contro Al-Serraj perché mentre le Guardie presidenziali hanno ricevuto finanziamenti con regolarità loro non vengono pagati da mesi. Ad appoggiare le Brigate rivoluzionarie di Tripoli è la potente Brigata 301, l’ex milizia Katiba Halbous di Misurata. I combattenti di Misurata hanno preso posizione in alcuni posti strategici al centro della capitale, e hanno lasciato le basi di Abu Salim, in periferia, dove di solito stazionano. Non è chiaro se è una mossa ostile al governo oppure no. Secondo l’emittente emiratina Sky News Arabic - che di solito appoggia le posizioni del generale Khalifa Haftar - i ribelli hanno preso il controllo anche della sede della tv statale. Altri rumours sostengono che le Brigate rivoluzionarie di Tripoli sarebbero appoggiate anche da milizie dell’area di Tarhouna, in particolare la Brigata Al-Kani, e da gruppi provenienti da Zintan. Il sospetto che si siano alleate con l’uomo forte della Cirenaica, Haftar, per tentare un colpo contro il governo Al-Serraj, l’unico riconosciuto dall’Onu e appoggiato da Italia, Stati Uniti e Gran Bretagna. Guantánamo? È un ospizio, i detenuti ormai sono vecchi e hanno bisogno di cure di Fausto Biloslavo Il Giornale, 27 maggio 2018 Anche i terroristi più pericolosi al mondo invecchiano dietro le sbarre del carcere di Guantánamo. E come tutti gli anziani hanno bisogno di pedane per le sedie a rotelle, corrimano per andare al bagno, letti più comodi e cure mediche. Gli acciacchi dell’età degli ultimi 40 super terroristi detenuti a Guantanámo sono una seria preoccupazione per la Casa Bianca sempre nel mirino delle organizzazioni internazionali in difesa dei diritti umani. Poverini verrebbe da dire se non fossero jihadisti incalliti che hanno seminato morte e distruzione con l’11 settembre ed in mezzo mondo. Guantánamo “sta vivendo problemi strutturali e guasti al sistema che, se non controllati, potrebbero rappresentare un rischio per le guardie ed i detenuti” ha scritto la Casa Bianca in una lettera inviata al Congresso. La prigione “non soddisfa i bisogni di una popolazione che invecchia” ha ammesso l’amministrazione del presidente Donald Trump, che non vuole chiudere il super carcere. Problemi cardiocircolatori ed a i reni, calo di vista, diabete, artrite, malattie degenerative sono le emergenze dei detenuti del terrore sempre più anziani. L’età media dei “nemici combattenti” dietro le sbarre è di 46,5 anni. Neppure tanto alta, ma dopo un lungo periodo di detenzione anche il terrorista duro e puro forgiato nei campi di addestramento di Al Qaida invecchia malamente. Il più anziano è il pachistano Saifullah Paracha, 71 anni, da 14 a Guantánamo dopo la sua cattura in Tailandia. Finanziatore di Al Qaida ha tentato in tutti i modi di procurarsi armi chimiche e biologiche per Osama bin Laden. Poi è riuscito a spedire un container pieno di esplosivo negli Stati Uniti per fortuna intercettato in tempo. Non ha nessun capo di accusa specifico sulla testa, ma viene considerato “troppo pericoloso per venire rilasciato”. Paracha è ovviamente il campione dei detenuti che marcano visita per diabete, pressione alta, psoriasi e artrite. Il Pentagono ha dovuto aviotrasportare nel centro di detenzione un complesso macchinario per esami particolari, che sarebbe costato 370mila dollari e all’inizio neppure funzionava. Il detenuto più famoso rimane Khalid Sheikh Mohammed, la mente dell’11 settembre catturato in Pakistan nel 2002. I suoi leggendari baffoni neri si sono trasformati in un barbone grigiastro. A 53 anni sono finiti i tempi in cui resistiva ai duri interrogatori che simulano l’annegamento. Sembra che adesso abbia bisogno di una sedie a rotelle. E per questo il Pentagono ha fatto costruire delle regolari rampe per disabili dentro il centro di detenzione, che dovrebbe essere il più rigido al mondo. Lo yemenita Ramzi Binalshibh indicato come il ventesimo attentatore dell’11 settembre, rientra nell’età media di 46 anni. Ad Amburgo con il capo di dirottatori suicidi, Mohammed Atta, aiutò il commando a realizzare il complotto per tirare giù le Torri gemelle. Unico sopravissuto è stata catturato in Pakistan nel 2002 e pure lui comincia ad avere qualche acciacco. La Croce rossa visita Guantánamo quattro volte all’anno per controllare che i detenuti jihadisti vengano trattati secondo i criteri internazionali. Amnesty international sta cavalcando il problema dell’invecchiamento “e delle cure mediche necessarie” per i terroristi con gli acciacchi. Gli Stati Uniti già spendono 450 milioni di dollari l’anno per Guantánamo. E dovranno tirare fuori sempre più soldi per i 26 jihadisti, che non verranno mai rilasciati condannati alla vecchiaia dietro le sbarre. Egitto. Giulio Regeni, dopo 28 mesi la mobilitazione per la verità non si ferma di Riccardo Noury Corriere della Sera, 27 maggio 2018 Solo questa settimana, all’Università di Parma è stata inaugurata la “Sala studi Giulio Regeni” e il comune di Cisano sul Neva, nell’entroterra savonese, ha aderito alla campagna “Verità per Giulio Regeni”. Solo questa settimana, oltre 400 persone hanno aderito al digiuno a staffetta promosso da Paola Deffendi, madre di Giulio, per chiedere il rilascio di Amal Fathy, attivista egiziana in carcere dall’11 maggio. Amal Fathy, moglie del direttore della Commissione egiziana per i diritti e le libertà - Ong che da subito si mise a disposizione dei legali della famiglia Regeni - testimonia ulteriormente l’accanimento del governo del Cairo nei confronti di chiunque si sia interessato alla ricerca della verità sul rapimento, sulla sparizione forzata, sulla tortura e sull’uccisione di Giulio. Da quel maledetto 25 gennaio 2016 sono trascorsi, oggi, 28 mesi. L’attenzione dell’opinione pubblica italiana resta elevata e preoccupata. Il resto del paese, quello istituzionale e ufficiale, con poche eccezioni ha smesso di parlare di Giulio. Purtroppo. Sarebbe bello se un alto rappresentante del mondo universitario qual è il primo ministro incaricato di formare il nuovo governo assumesse il serio impegno di dare nuovo impulso alla ricerca della verità sull’assassinio di un ricercatore che dell’università aveva fatto il suo mondo. Sarebbe bello se un governo dichiarato nuovo, frutto di una politica dichiarata nuova, ci sorprendesse adottando una politica estera adeguata a dare priorità alla difesa dei diritti umani, che anziché dichiarare un paese come l’Egitto “partner ineludibile” (Alfano dixit) si preoccupasse delle violazioni dei diritti umani subite da migliaia di egiziani. E di quelle, non meno orribili, subite da un cittadino italiano. Irlanda. Si volta pagina anche per i (tanti) errori di una Chiesa sempre venerata di Sergio Romano Corriere della Sera, 27 maggio 2018 Decisivi per il risultato del voto gli scandali sugli abusi negli istituti per minori soli. I manifesti che hanno tappezzato per qualche settimana i muri delle città e dei borghi della Repubblica irlandese non erano troppo diversi da quelli che hanno coperto nel giugno del 2016 i muri del Regno Unito. Anche il governo di Dublino chiedeva ai suoi elettori, semplicemente, un sì o un no. Il sì avrebbe cancellato un emendamento della Costituzione, adottato nel 1983, che impediva l’interruzione di gravidanza e scolpiva quel diniego nella carta costituzionale. Il no conservava il divieto. Raccontata in questi termini, la vicenda sembrerebbe soltanto una nuova vittoria dell’elettorato femminile in uno dei pochi Paesi europei in cui l’aborto era ancora proibito. La situazione in realtà è più complicata. Occorre ricordare, in primo luogo, che la Chiesa cattolica ha in Irlanda uno statuto alquanto diverso da quello di cui gode nei Paesi dove la religione cattolica è maggioritaria. Qui la Chiesa non è soltanto un patrimonio di credenze e ricorrenze che scandiscono i tempi della vita quotidiana. È una parte inseparabile della identità nazionale, è il fattore che ha maggiormente aiutato gli irlandesi a distinguersi dal grande Stato della porta accanto. Non è soltanto una fede; è anche una patria. Ma questo retaggio storico è stato in parte offuscato negli scorsi anni. La Chiesa ha perduto una parte importante della sua autorità e credibilità. Molti irlandesi non avrebbero votato sì, probabilmente, se gli abusi in alcuni istituti per bambini abbandonati non avessero lasciato una macchia sul volto della istituzione. Non è tutto. Nel 1983, i severi guardiani della fede ricorsero all’emendamento costituzionale perché temevano che nel clima sociale di una Europa sempre più “permissiva e femminista” sarebbe stato difficile impedire al Parlamento l’approvazione di una legge ordinaria per la legalizzazione dell’aborto. Forse che qualche anno prima, dopo alcune sentenze, lo stesso Parlamento, non aveva approvato una legge che liberalizzava il commercio degli anticoncezionali? Ma dopo l’approvazione dell’Ottavo emendamento il Parlamento credette di potere aggiustare la sua linea con una concessione pragmatica. Le donne non potevano abortire, ma potevano documentarsi sui metodi e sui luoghi in cui la maternità poteva essere programmata in “altri modi”. Non era comunque possibile ignorare che molte donne irlandesi ricorrevano all’aborto con un breve viaggio, dal mattino alla sera, in un ospedale del Regno Unito. Come l’Irish Times, uno dei migliori giornali del Paese, ha lasciato intendere più volte negli scorsi anni, il Parlamento di Dublino aveva inventato un sistema ibrido e ipocrita. Vietava l’aborto in patria, ma lo permetteva, di fatto, all’estero. Lungo la strada il problema si è ulteriormente complicato. L’Ottavo emendamento proibiva l’aborto, ma faceva una eccezione nei casi in cui il medico avesse dovuto decidere fra la morte della madre e quello del figlio. La scelta può essere in molti casi terribilmente difficile e l’episodio che suscitò maggiore scandalo fu quello di una ragazza tredicenne a cui non fu permesso di abortire. La ragazza morì e la sua vicenda ha avuto probabilmente una influenza sul esito dell’ultimo voto. Esiste un’altra ragione per cui la maggioranza degli irlandesi ha votato sì. Il viaggio a Londra o in altre città del Regno Unito era vissuto da molte donne come una umiliazione. Dopo essersi battute con i loro uomini per avere una patria, erano costrette dalla loro Costituzione ad abortire in un ospedale del loro vecchio padrone di casa. Medio Oriente. Morti di Gaza come numeri di Michele Giorgio Il Manifesto, 27 maggio 2018 Nomi e volti dei palestinesi uccisi dai soldati israeliani a Gaza girano nei social ma l’Europa non li nota. Passata la reazione per la strage del 14 marzo, la routine di morte e sofferenza di Gaza non fa più notizia. Vendeva gelati e bibite fredde Hussein Abu Aweida. Alle manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno andava per guadagnare qualche soldo per sopravvivere. Sulla sua vecchia bicicletta aveva fissato due frigoriferi portatili e pedalando per la strade malandate di Gaza portava dolcezza e ristoro a piccoli e grandi. Un colpo sparato da un tiratore scelto dell’esercito israeliano durante le dimostrazioni della scorsa settimana l’ha colpito alla colonna vertebrale ed è spirato ieri all’alba all’ospedale Shifa. Hussein Abu Aweida è il 116 palestinese di Gaza ucciso dai militari israeliani da quando sono cominciate, lo scorso 30 marzo, le manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno. Qualche ora prima erano morti altri due giovani feriti, di 23 e 21 anni. Nomi e volti degli uccisi di Gaza girano sui social. L’Europa non li nota. Passata la reazione per la strage del 14 marzo - circa 70 vittime tra quelli uccisi subito e i feriti deceduti nei giorni successivi - la routine di morte e sofferenza di Gaza non fa più notizia. E regna l’indifferenza verso i motivi delle manifestazioni lungo le linee di demarcazione tra Gaza e Israele. Prevale la narrazione del governo Netanyahu che descrive la Grande Marcia del Ritorno come una copertura per gli attacchi di Hamas. La responsabilità di tutti quei morti sarebbe solo del movimento islamico anche se a sparare su manifestanti disarmati sono i soldati israeliani. Anzi, la reazione di Israele è stata “moderata”, spiegava qualche settimana fa alle Nazioni Unite l’ambasciatrice Usa Nikki Haley. Anche i giudici israeliani ritengono legittima la risposta data sino ad oggi dall’esercito alle manifestazioni palestinesi. La Corte Suprema israeliana ha respinto all’unanimità due petizioni presentate da gruppi per i diritti umani che chiedevano alle forze armate di non usare più cecchini e munizioni vere contro dimostranti disarmati a Gaza. Secondo la Corte quei manifestanti costituivano un pericolo reale per i soldati e i cittadini israeliani. A nulla è valso il dato che quel “pericolo”, in due mesi di proteste con decine di migliaia di persone, non ha causato il ferimento di alcun israeliano, civile o militare. Inutili le testimonianze di alcuni delle migliaia di feriti e la recente risoluzione di condanna di Israele votata dal Consiglio dell’Onu per i Diritti Umani. Tutto regolare, tutto lecito. Domani a Bruxelles, in occasione del Consiglio Affari Esteri, Avaaz depositerà 4.500 paia di scarpe vicino alla sede della riunione, un paio di calzature per ciascuna vittima di Gaza negli ultimi anni. Oggi pomeriggio al Circo Massimo a Roma la campagna #CambiaGiro, in occasione della tappa finale del Giro d’Italia colorerà la zona di verde, rosso, bianco e nero, i colori della bandiera della Palestina, per protestare contro la scelta degli organizzatori della Corsa Rosa di far partire il Giro da Gerusalemme ignorando lo status internazionale della città e le rivendicazioni dei palestinesi sulla zona Est occupata da Israele.